Quinto ciclo

Anno liturgico B (2014-2015)

Tempo di Avvento

 

I Domenica

(30 novembre 2014)

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Is 63,16b-17.19b; 64,2-7;  Sal 79;  1 Cor 1,3-9;  Mc 13,33-37

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Perché, preparandosi alla celebrazione del Natale, festa tra le più care e familiari alla cristianità, la chiesa invita alla penitenza?

Tre sono le venute del Signore che l’avvento contempla: 1) la venuta umile del Signore nella carne, il Natale di Gesù, il suo comparire come uomo tra gli uomini; 2) la venuta gloriosa del Signore alla fine dei tempi come Re e Giudice al quale ogni giudizio è rimesso; 3) la venuta segreta del Signore nei cuori dove vuole crescere fino alla sua statura perfetta, finché Dio sia tutto in tutti.

La preghiera della chiesa nell’avvento si fa insistente perché il Signore Gesù finalmente si manifesti ed è per questo che risuona l'invito alla penitenza, intesa come vigilanza, attenzione del cuore al Suo mistero. Il ritornello, costante, della preghiera in questo periodo è dato da due versetti presi dal Salmo 79: ‘risveglia la tua potenza e vieni a salvarci’ (v. 3); ‘o Dio, fa' che ritorniamo, fa’ splendere il tuo volto e noi saremo salvi’ (v. 4, 8, 20). Da intendere: fa’ che possiamo vedere il volto del tuo Figlio; fa’ che il nostro cuore sia rapito dalla Sua bellezza; apri il nostro cuore alle sue parole perché venga rivelato al nostro cuore il Suo amore e possiamo venire risanati; facci fare l’esperienza viva del Suo perdono perché possiamo vivere un corpo solo e un’anima sola con tutti, nel suo Spirito. Questo chiediamo e questo significa, nella concretezza quotidiana, l’espressione di Paolo: “La testimonianza di Cristo si è stabilita tra voi così saldamente che non manca più alcun carisma a voi, che aspettate la manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo” (1Cor 1,6-7).

Attendere la manifestazione del Signore, però, non significa guardare al ritorno glorioso del Signore quando si chiuderanno i tempi e la sua parola giudicante svelerà tutta la verità. Quella tensione caratterizza il desiderio del cuore dei credenti nella vita quotidiana. Chi riceve le parole del Signore, chi si sforza di metterle in pratica senza desiderare di poter percepire e vedere la presenza del Signore nella sua vita? Questo è appunto l’oggetto specifico della vigilanza, mentre la sua dinamica è la tensione a entrare nel processo della manifestazione del Signore al nostro cuore, nella nostra storia, manifestazione di cui la nascita di Gesù a Betlemme presenterà la realtà alla nostra portata. Se a livello dell’agire dell’uomo la vigilanza si risolve nella fatica di evitare il male e di compiere il bene, a livello del cuore si risolve in una memoria calda della presenza del Signore, in una memoria di eventi e parole che ci possono significare quella presenza, memoria che tenda a esplodere nella percezione della sua presenza. La vigilanza allora è il compito di responsabilità dei servi della parabola del vangelo in attesa del ritorno del loro padrone. Perché è nello splendore di quella presenza percepita che possiamo vivere fino in fondo la nostra vocazione all’umanità e tornare a far risplendere il mondo della luce di Dio.

Ma c’è ancora dell’altro. Se leggiamo il passo parallelo di Lc 12,37, veniamo a sapere come si manifesterà il Signore: “si stringerà le vesti ai fianchi, li farà mettere a tavola e passerà a servirli”. L’accudire ai fratelli non risponde soltanto all'agire bene, ma comporta il partecipare al servizio divino dell’umanità. Come a dire: quando accogli il tuo fratello perché guardi al tuo Signore, il tuo cuore godrà dall’essere accudito dal suo Signore e non potrà non condividere con lui l’ansia di arrivare a tutti perché lo splendore della sua presenza prevalga comunque.

L’invito, così tipico del periodo di avvento: ‘State attenti, vegliate’, riguarda proprio la fatica di stare aperti al Mistero, la fatica di non soccombere alla fascinazione delle cose, di non cedere alle illusioni del cuore, di non perdersi dietro false seduzioni abbandonando Colui che il nostro cuore sogna. La vigilanza serve a questo: a tenerci desti all’amore del Signore. E l’uomo è colui che alza il capo per essere capace di vedere le promesse di Dio, di vederle compiersi nel suo cuore. Per tutto l’avvento risuonerà l’esortazione: ‘vegliate e pregate’, come a dire: abbiate un occhio acuto e un cuore ardente. Non si tratta solo di un esercizio di intelligenza (vegliate!) ma di un processo di confidenza (pregate!). Un antico saluto degli indiani Hopi suona: sta’ attento a che la tua testa resti aperta verso l’alto! Tenere aperta la testa verso l’alto significa allora superare la paura, perché il Dio che siamo chiamati a conoscere è un Dio di amore per noi. Attende solo – anche Dio attende! – di incontrare cuori aperti alla sua promessa, fiduciosi di vedere il bene che la sua promessa ci rivela.

 

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Quinto ciclo

Anno liturgico B (2014-2015)

Tempo di Avvento

 

II Domenica

(7 dicembre 2014)

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Is 40,1-5.9-11;  Sal 84;  2 Pt 3,8-14;  Mc 1,1-8

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La vigilanza, di cui ci era stato fatto comando domenica scorsa, oggi si fa intuito di speranza e di gioia prossima, con due testimoni singolari: il profeta Isaia e Giovanni Battista. Non lasciamoci impressionare dalla severità della predicazione del Battista, che annuncia un battesimo di penitenza per la remissione dei peccati, perché la sua parola ci riporta l'eco del grido del profeta Isaia: “Consolate, consolate il mio popolo”. Tutte le letture profetiche della prima settimana di avvento ci riportano lì. Nella settimana abbiamo supplicato: “Vieni, Signore, a visitarci con la tua pace: la tua presenza ci riempirà di gioia”; “ridesta la tua potenza e vieni, Signore”. Lo stesso salmo responsoriale di oggi, il salmo 84, può essere definito come il canto della pace portata dal natale di Gesù. Ma occorre che la grazia di quel natale parli al nostro cuore; occorre che il nostro cuore si senta toccato dal mistero che quel natale costituisce per il mondo, proprio come l’antica versione greca proclama: “Ascolterò che cosa dirà in me il Signore Dio, perché proclamerà la pace sul suo popolo e sui suoi santi e su quelli che convertono a lui il loro cuore” (LXX). Appunto perché il nostro cuore si apra a quella ‘grazia di pace’ il grido del Battista percuote i nostri orecchi: “Preparate la via del Signore ...”.

Quella 'grazia di pace' costituisce l'annuncio gioioso che è il Vangelo di Gesù, come Marco proclama all'inizio del suo racconto. Ed è interessante osservare che la citazione profetica di Marco all’inizio del suo vangelo è una composizione di passi di Malachia e Isaia. Il libro di Malachia è il libro che chiude l’Antico Testamento per il canone cristiano. Riprendendo Malachia, Marco sottolinea come Gesù sia il compimento di tutte le Scritture che a lui conducono e, riprendendolo insieme a Isaia, manifesta come Gesù sia il supremo desiderio di Dio per l’uomo, desiderio che attraversa tutte le Scritture. Nelle parole di Malachia 3,1 (“Ecco, io manderò un mio messaggero a preparare la via”) si allude a Giovanni Battista, mentre in quelle di Isaia 40,5 (“Allora si rivelerà la gloria del Signore e tutti gli uomini insieme la vedranno”) si allude al Messia, a Gesù, che il Battista proclama: “Viene dopo di me colui che è più forte di me...”.

Il desiderio di Dio, quando è percepito, accende il desiderio dell’uomo e l’uomo, dalla sua condizione di afflizione nella schiavitù e nell’oppressione, guarda a Dio come al suo liberatore, che già vede venire in suo soccorso: “Ecco, il Signore Dio viene con potenza, il suo braccio esercita il dominio” (Is 40,10). Ma di quale ‘potenza’ si fa forte Dio per l’uomo? Noi contempleremo il nostro Dio farsi bambino, povero e indifeso; lo vedremo condannato alla morte di croce, come esautorato di tutta la sua potenza. Dov’è allora la ‘gloria del suo nome’ per cui la colletta ci fa pregare: “O Dio, Padre di ogni consolazione ... parla oggi al cuore del tuo popolo, perché in purezza di fede e santità di vita possa camminare verso il giorno in cui manifesterai pienamente la gloria del tuo nome”.

Con il salmo 84 la liturgia canta l’incontro del desiderio di Dio con il desiderio dell’uomo: “amore e verità si incontreranno, giustizia e pace si baceranno”. Tutto ciò che Dio ha voluto per l’uomo, nel suo amore di sempre per i suoi figli, l’uomo lo potrà ormai godere stabilmente perché “colei [Elisabetta] che portava il giusto, Giovanni Battista, ha baciato colei [Maria] che portava la pace, Gesù”. E la visione messianica del salmo si può interpretare come la manifestazione della gloria del nome di Dio al cuore dell’uomo che il Battista rivela essere il compito specifico del Messia. Come a dire: se l’uomo riconosce in verità il suo peccato, troverà la misericordia di Dio. Il riconoscimento del peccato porta all’esperienza della bontà di Dio. E se l’esperienza è autentica, allora, la riconciliazione ottenuta non potrà che essere condivisa con tutti, non potrà che diventare l’unica giustizia degna del cuore dell’uomo. Da un cuore riconciliato e fonte di riconciliazione risplenderà la grazia del Salvatore, che lì ha preso dimora. L’azione di Dio che si compie in me, non è destinata a me, ma al mondo; l’azione di Dio che si compie nel mondo, non è destinata al mondo in generale, ma a me. Perché, tutti insieme, possiamo vedere lo splendore dell’amore del Signore. E non esiste altra possibilità concreta per l’uomo di vedere risplendere l’amore del Signore se non nella tensione che quell’amore sia condiviso da tutti e da ciascuno.

Se l’antica colletta proclama: “Dio grande e misericordioso, fa’ che il nostro impegno nel mondo non ci ostacoli nel cammino verso il tuo figlio, ma la sapienza che viene dal cielo ci guidi alla comunione con il Cristo, nostro Salvatore”, ciò significa che il preparare da parte nostra la via al Signore che viene si risolve nel non ostacolare, non impedirci di lasciarci toccare dal suo annuncio gioioso. Tanto che Pietro, nella sua seconda lettera, ci avverte: “quale deve essere la vostra vita nella santità della condotta e nelle preghiere, mentre aspettate e affrettate la venuta del giorno di Dio”. Non impedirci significa affrettare la manifestazione della gloria del Signore, che è splendore di amore per noi, splendore che possiamo contemplare nel suo Figlio, nato, morto e risorto per noi.

In rapporto alla manifestazione di quello splendore possiamo interpretare il paragone che il Battista stabilisce tra lui e Gesù: “E proclamava: «Viene dopo di me colui che è più forte di me: io non sono degno di chinarmi per slegare i lacci dei suoi sandali»”. Gesù si presenta come il forte che ha legato colui che era ritenuto forte, cioè il diavolo: “Nessuno può entrare nella casa di un uomo forte e rapire i suoi beni, se prima non lo lega. Soltanto allora potrà saccheggiargli la casa” (Mc 3,27). La sua forza in cosa consiste? Era compito di uno schiavo slacciare i sandali al padrone, ma uno schiavo ebreo era esentato dal servizio del lavare i piedi al padrone. E Gesù è proprio quello che fa con i discepoli nell’ultima cena: va oltre ciò che era richiesto ad uno schiavo! In questo suo andare oltre scorgiamo l’immensità del suo amore per noi. In quello che compie in quel momento, preludio di quello che avverrà di lì a poche ore sulla croce, possiamo leggere tutta la sua vita, tutto il dono della sua vita, tutto il suo insegnamento e tutta la potenza di vita nuova di cui ci fa partecipi. Ad un’unica condizione: che noi ci lasciamo toccare, ci lasciamo commuovere. Proprio in questo consiste il preparare la via del Signore.

 

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Quinto ciclo

Anno liturgico B (2014-2015)

Solennità e feste

 

Immacolata Concezione

(8 dicembre 2014)

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Gn 3,9-15.20;  Sal 97;  Ef 1,3-6.11-12;  Lc 1,26-38

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Benedetto Dio, Padre del nostro Signore Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione …” proclama Paolo nell’esordio della sua lettera agli Efesini. Come non riferirlo prima di tutto alla Vergine Maria? Lei è la benedizione dell’umanità in cui tutti siamo benedetti perché da lei nasce il Benedetto che ci ha consolati, come la liturgia di tutto l’avvento proclama. Della Sapienza è detto : “ero la sua delizia ogni giorno … ponendo le mie delizie tra i figli dell’uomo” (Prov 8,30.31). La delizia di Dio tra i figli dell’uomo è proprio lei, la Vergine Immacolata, come d’altronde lei è la delizia degli stessi figli dell’uomo perché in lei possiamo contemplare quanto è grande l’amore di Dio per l’uomo. In lei quella benedizione si fa così ‘concreta’ che prende addirittura corpo in lei: da lei nasce il Salvatore, che costituisce la Benedizione di Dio sugli uomini, benedizione oltre la quale non c’è nulla da desiderare. E tutta la storia, pur nella sua drammaticità, non è mai abbandonata a se stessa perché da sempre, ‘prima della creazione del mondo’, quella benedizione la sovrasta, l’accompagna.

Quella benedizione ha raggiunto l’umanità della Vergine in modo così singolare da renderla tanto ‘umanamente piena’ da essere degna dimora per il Figlio, come proclama la colletta: “O Padre, che nell’Immacolata Concezione della Vergine hai preparato una degna dimora per il tuo Figlio, e in previsione della morte di lui l’hai preservata da ogni macchia di peccato, concedi anche a noi, per sua intercessione, di venire incontro a te in santità e purezza di spirito”. La sua umanità, in tutte le sue fibre, è andata incontro al Signore in santità e purezza di spirito ed è diventata degna dimora del Figlio. Della sua umanità siamo fatti anche noi, condividiamo con il suo Figlio la stessa umanità perché anche noi, come è nel disegno divino della creazione fin dall’inizio, possiamo tornare a far splendere e a far godere nel mondo la stessa benedizione, la dimora di Dio in mezzo a noi.

A differenza di noi, la Vergine non è caduta nell’inganno che tormenta i figli degli uomini, inganno che presenta il brano della Genesi. Anche lei è stata duramente provata nella sua umanità; con l’offerta della sua umanità ha permesso all’amore di Dio, nel suo Figlio, di svelarsi al mondo; ha conosciuto la sofferenza dell’amore con il suo Figlio e ora accompagna ogni sofferenza umana perché venga aperta all’esperienza dell’amore. In lei la sofferenza non ha generato ribellione, il dramma non ha velato la fede, il desiderio non ha compromesso l’amore, l’agire non ha macchiato la coscienza. E questo perché l’unico rimedio all’inganno è “andare incontro al Signore”, così tipico dell’anima della Vergine.

L’uomo, invece, si dibatte nell’inganno: la nostra individualità ce ne certifica la compromissione con la ribellione, mentre la sofferenza della nostra umanità svela faticosamente le tracce della nostalgia di Dio. Se rifacciamo a ritroso il tragitto delineato dal colloquio nel giardino tra Dio e Adamo e Eva dopo la trasgressione, ci ritroveremo nuovamente in una umanità condivisa e goduta insieme a Dio e a tutti i fratelli. Dio proclama l’inimicizia tra satana e la donna, simbolo contemporaneamente di Maria e dell’umanità: la possibilità dell’inganno è sempre reale, ma quell’inimicizia dichiarata da Dio salvaguarda la nostra umanità che non può trovare beatitudine nell’inganno e quindi non potrà compiersi stando dalla parte dell’avversario. Perciò, quando l’uomo cede all’inganno, trasgredendo la parola del Signore rivolta al suo cuore, si perde, va in frantumi dentro e non può vivere che in contraddizione, da antagonista, da avversario a sua volta, sia dentro di sé che fuori di sé, sia con gli uomini che con gli eventi. Quale sofferenza! Ma la causa è una sola: l’uomo ha ormai paura di Dio, perché ha vergogna della sua ‘nudità’, della sua perdita di innocenza. E l’inganno più tremendo è quello di rimuovere quella paura di Dio allontanando la vergogna ma per acconsentire semplicemente alla legge del più forte, fonte di illusione e di ingiustizia. Se però l’uomo sa ascoltare l’invito di Dio che continuamente bussa al suo cuore senza tener conto della sua paura: “dove sei?’, allora ritorna all’albero della vita, il Cristo Signore, per vivere nella sua umanità la dimora di Dio, fonte di beatitudine.

La Vergine è proprio Colei che di quella dimora di Dio ha fatto tutto lo scopo della sua vita, tutto il desiderio della sua umanità perché l’esperienza di cui è stata gratificata ridiventi, nel suo Figlio, accessibile a tutti e a ciascuno. Quando di lei dice che è la serva del Signore allude proprio a quel desiderio della dimora di Dio che si compie nel mondo, di cui tutto il suo essere è espressione e testimonianza e intercessione per l’umanità intera.

 

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Quinto ciclo

Anno liturgico B (2014-2015)

Tempo di Avvento

 

III Domenica

(14 dicembre 2014)

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Is 61,1-2.10-11;  Lc 1,46-54;  1Ts 5,16-24;  Gv 1,6-8.19-28

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Come Marco e a differenza di Matteo e Luca, Giovanni non narra l’evento della nascita di Gesù a Betlemme. Il suo sguardo si spinge oltre, fino ai confini della storia, oltre la storia. Giovanni risale alla storia eterna dell’amore di Dio per gli uomini: “In principio era il Verbo…” per arrivare ad annunciare: “E il Verbo si fece carne ... e noi abbiamo contemplato la sua gloria” (Gv 1,1.14). Il Battista è il primo testimone di quella gloria che via via apparirà anche agli apostoli, a tutti i discepoli e ai seguaci loro, fino a noi, fino alla fine del mondo.

La chiesa, convinta dalla testimonianza del Battista, intravede già l’azione del Messia di cui a breve celebrerà il natale e la riassume in un unico movimento, quello della letizia. Tutta la liturgia di oggi è un assaggio di quello che sarà rivelato al mondo con la nascita dell’Emmanuele, il Dio con noi. L’antifona di ingresso risuona gioiosa: “Rallegratevi sempre nel Signore”. L’antica colletta fa pregare: “Guarda, o Padre, il tuo popolo, che attende con fede il Natale del Signore e fa’ che giunga a celebrare con rinnovata esultanza il grande mistero della salvezza”. Il brano di Isaia descrive ‘il lieto annunzio’ di cui è portatore l’Inviato di Dio. Il salmo responsoriale fa gridare: “la mia anima esulta nel mio Dio”. Paolo esorta: “State sempre lieti”.

La solenne proclamazione del profeta sull’Unto del Signore, sull’Inviato a rivelare la grazia del Signore: “Lo Spirito del Signore è su di me …” esprime tutta la volontà di bene di Dio nei confronti dei suoi figli. Proprio quell’Inviato è la dimostrazione più evidente di quanto la volontà di Dio è amore per noi, un amore salvatore, un amore redentore, un amore liberante e sovrabbondante, instancabile.

Quell’Inviato è sì in mezzo a noi ma non è conosciuto. Ha bisogno di testimoni che lo segnalino. Giovanni Battista è uno di questi, il più grande. La sua risposta alla domanda che gli viene rivolta: “Tu chi sei?” rivela come si percepisce: sono soltanto uno che addita qualcun altro e sono in quanto addito, perché questa è la volontà del Signore su di me. Tutta la mia vita sta racchiusa in questo riferirmi a Colui che deve venire, che è già qui e che vi addito come l’Inviato da seguire. Lui vi mostrerà quel regno che io ho solo intravisto e atteso.

Sul finire della vita, la stessa domanda è lui a rivolgerla a Colui che aveva additato: “Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?”. E Gesù risponde al Battista (cfr. Mt 11,3sgg), che conosceva le Scritture ed era tutto teso all’adorazione del suo Dio, proprio con le parole del profeta Isaia della prima lettura, combinate con altri due passi (Is 35,5-6 e 42,7). L’immagine di riferimento è quella del solenne inizio del giubileo (Lev 25), di cui non si ha notizia che sia mai stato celebrato nella storia di Israele, che comportava la liberazione degli schiavi e il ritorno alla propria terra secondo l’antica assegnazione dei territori alle singole tribù da parte di Mosè e di Giosuè. La terra, dono di Dio al suo popolo, ritornava ad essere dono di Dio oltre le brutture e i calpestamenti della storia. La domanda del Battista svela la fine di ogni immaginazione sul Regno per aprirsi alla venuta di quel Regno in verità come a Dio è piaciuto manifestarlo. Il regno mostrato da Gesù è davvero il compimento delle attese dei cuori e inspiegabilmente diverso, proprio per la sua semplicità, da come i cuori si immaginano che debba essere. Con Gesù finisce questo faticoso riferirsi a qualcosa come deve essere per aprirsi a quello che è: amore pieno di compassione per noi.

Caratteristica l’immagine che usa il profeta Isaia nel definire l’opera del Messia che libera dal carcere i prigionieri. Di per sé il profeta annuncia la percezione del bagliore di luce dei prigionieri che tornano a vedere la luce del sole dopo essere stati tirati fuori dalle tenebrose segrete in cui erano racchiusi. Del resto, anche il Battista è presentato da Giovanni come testimone della luce, testimone della luce vera che viene nel mondo, luce che è vita per gli uomini, luce nella quale tutto era stato creato e che il cammino del pentimento torna a far splendere nel cuore.

Quando Paolo esorta i credenti: “State sempre lieti, pregate ininterrottamente, in ogni cosa rendete grazie”, illustra esattamente le disposizioni che caratterizzano i cuori aperti al regno così come è. Il lieto annunzio che Gesù è per il mondo, una volta accolto per come è, innesca proprio queste tre disposizioni che si richiamano a vicenda. Chi ha percepito l’amore di benevolenza di Dio sul mondo, di cui Gesù è il testimone e il rivelatore, può vivere nella letizia (non è più corroso dalla tristezza, nonostante le ragioni più che plausibili che la alimentano), diventa capace di accogliere il suo Dio nella preghiera (non resta più chiuso all’avventura con il suo Dio) e non ha più bisogno di rivendicare nulla perché rende grazie in ogni cosa. Il legame tra queste tre cose è tanto forte che ognuna, praticata in sincerità, fa ottenere anche le altre due: chi vuole rendere grazie in ogni cosa si ritroverà presto guarito e liberato da ogni forma di pretesa e potrà godere dell’intimità che sogna e della gioia a cui anela. Chi prega in sincerità ritroverà la libertà interiore per stare lieto e vivere la vita in eucaristia, in rendimento di grazie. Ma la letizia che fa vivere è quella che germoglia, come dice il profeta Isaia, dall’incontro con colui che scopro essere il mio Salvatore, col quale attraversare dolori e fatiche della vita.

 

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Quinto ciclo

Anno liturgico B (2014-2015)

Tempo di Avvento

 

IV Domenica

(21 dicembre 2014)

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2 Sam 7,1-5.8b-12.14a.16;  Sal 88;  Rm 16,25-27;  Lc 1,26-38

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La liturgia dell’avvento ci ha accompagnato nell’attesa del Signore che viene con le testimonianze dei profeti e di Giovanni Battista. In prossimità del Natale, il testimone per eccellenza è ormai la stessa Vergine madre sua. Tutto si concentra sulle parole dell’angelo a lei e di lei all’angelo: “Rallègrati, piena di grazia: il Signore è con te” e “Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola”. L’annuncio è di letizia, la risposta è di disponibilità piena a quella letizia.

Sembra che l’evangelista Luca intenda presentare Maria come l’arca dell’alleanza del tempio di Sion, sede della presenza del Signore in mezzo al suo popolo. Per questo l’angelo evoca l’ombra della nube che copriva il tempio, come aveva coperto la tenda del convegno nel deserto (cfr Es 33,7-11). Dalle parole dell’angelo possiamo cogliere due aspetti del mistero che veniva annunciando. Il saluto “rallègrati” si ricollega alle profezie per la Vergine di Sion che poteva vedere lo scendere in campo del suo Re e Salvatore contro i suoi nemici (Sof 3,14), consolando il suo popolo (Is 49,13), mostrando le cose grandi che il Signore operava per il suo popolo (Gioele 2,21) e venendo ad abitare in mezzo al suo popolo (Zac 2,14). Lei, la Vergine Maria, diventava la letizia del suo popolo perché il Signore veniva a prendere dimora e contemporaneamente, sempre secondo le profezie, la letizia di tutti i popoli perché il Signore aveva deciso di estendere a tutti la sua salvezza.

Per questo lei riceve il ‘nome nuovo’, quello che esprime tutta l’iniziativa d’amore di Dio per il suo popolo e per tutte le genti: “piena di grazia”, “ricolmata di ogni grazia”. Non soltanto lei esprimeva tutta la grazia di amore e misericordia che Dio le aveva riservato perché potesse farsi uno di noi, ma con lei il tempo è colmato di grazia, della grazia della dimora di Dio in mezzo ai suoi figli. Quel ‘nome nuovo’ è ciò che costituisce la firma di garanzia dell’amore di Dio per noi, quell’amore che Gesù poi, con la sua vita e il suo insegnamento, con la sua morte e risurrezione, manifesterà in tutto il suo splendore.

In questo si compie la profezia davidica, come leggiamo nella prima lettura: “Il Signore ti annuncia che farà a te una casa”. E che il salmo responsoriale 88/89 riprende con la sottolineatura della fedeltà perenne di Dio a questa sua volontà di bene per noi: “È un amore edificato per sempre ... gli conserverò sempre il mio amore, la mia alleanza gli sarà fedele”. Con la ‘dimora di Dio’ nel seno della Vergine, nostra sorella, quella volontà di bene di Dio suona assoluta, radicale, totale: dall’umanità Dio non potrà più togliersi o essere tolto. E siccome questa volontà di bene è fonte di letizia per l’uomo, quando l’uomo cercherà la letizia al di fuori di questa volontà di bene resterà sulla sua fame.

Forse la nostra indisponibilità ad accogliere la potenza rinnovatrice di tale letizia deriva dal fatto che non abbiamo coscienza di ciò che comporta una tale rivelazione, ci siamo stancati di attenderla. Paolo, nella sua lettera ai Romani, lo fa ben capire quando dice che questo mistero, avvolto nel silenzio per secoli eterni, viene “ora manifestato mediante le scritture dei Profeti”. Se mai abbiamo indagato le scritture dei profeti o le profondità dei nostri cuori, come possiamo commuoverci a quell’ ‘ora’ nella quale viene manifestato? Cosa riusciremo a vedere nel bambino della Vergine Maria che tra pochi giorni contempleremo nelle luci del Natale?

Potremo mai partecipare alla letizia dell’annuncio, alla gioia dell’attesa, senza essere in qualche modo come Maria la quale proclama di sé: “Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola”? Lei è serva perché il desiderio di Dio di abitare in mezzo ai suoi figli finalmente si compia. È serva perché tutto in lei e di lei è spazio di dimora di Dio in mezzo ai suoi figli. È serva dell’amore di Dio che vuole manifestarsi ai suoi figli e lei non offre alcun appiglio, nella sua umanità, al potere del diavolo che lavora per chiudere gli uomini all’esperienza dell’amore di Dio.

In lei si realizza quello che l’antifona di ingresso canta: “Stillate dall’alto, o cieli, la vostra rugiada e dalle nubi scenda a noi il Giusto: si apra la terra e germogli il Salvatore” (cf. Is 45,8). Il passo di Isaia è citato secondo la versione latina della Volgata di s. Girolamo che interpreta in chiave messianica l’invocazione del profeta: “le nubi facciano piovere la giustizia ... si apra la terra e produca la salvezza”.

Il Salvatore viene dall’alto, ma contemporaneamente germoglia dalla terra. Vale per la Vergine, la nostra terra, che ha dato alla luce il Salvatore, ma vale per ogni cuore, che comunque è terra feconda del Salvatore. Bisogna che si compia finalmente quello che preghiamo con il Padre Nostro: ‘sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra’. Intendendo: fa’ che facciamo tale esperienza della bontà del tuo amore per noi tutti i giorni finché la terra del nostro cuore diventi tutta cielo, finché il nostro cuore abbia fatto germogliare Colui che del cielo è sovrano e farà vivere in terra come nel cielo.

Il desiderio di Dio di abitare con gli uomini, di prendere dimora fra gli uomini, di farsi dimora degli uomini, finalmente si compie. E la Vergine vi acconsente, acconsente a che il disegno di Dio si compia in tutto il suo splendore. Il suo acconsentire rivela tutta la purità e sincerità del suo cuore: non sa come si realizzerà il disegno di Dio, ma vi acconsente; non sa cosa le sarà richiesto, ma vi acconsente. Nello stesso tempo, rivela tutta l’intimità del suo cuore, che comunque sta dalla parte di Dio, è un tutt’uno con il sentire di Dio, non cerca altro sentire se non quello stesso di Dio. In effetti, quando il sentire interiore è profondo, il rapporto è potente e quando il sentire tocca le radici del cuore, l’intimità è compiuta: nessun estraneo avrà più accesso in quello spazio. Da quell’intimità mai più si allontanerà e permetterà così che la gioia di Dio e dell’umanità si compia. Il prodigio della concezione e della nascita del Figlio, di cui lei sola conosce il mistero, conferma quell’intimità, non la crea. La fede non ci strappa dalla nostra umanità, ma l’avvalora, la compie nella sua dignità e nei suoi aneliti.

 

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Quinto ciclo

Anno liturgico B (2014-2015)

Tempo di Natale

 

Natale del Signore

(25 dicembre 2014)

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Messa vespertina della vigilia:  Is 62,1-5; Sal 88; At 13,16-17.22-25; Mt 1,1-25

Messa della notte:                   Is 9,1-6; Sal 95; Tt 2,11-14; Lc 2,1-14

Messa dell’aurora:                   Is 62,11-12; Sal 96; Tt 3,4-7; Lc 2,15-20

Messa del giorno:                    Is 52,7-10; Sal 97; Eb 1,1-6; Gv 1,1-18

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La vigilanza, che la liturgia dell’avvento ci aveva insegnato ad assumere davanti al mistero del Signore che viene, ci ha affinato gli sguardi. Ora siamo pronti a vedere ciò che in realtà non è immediatamente visibile. Quale potenza mostra mai un Dio che si fa fragile e inerme bambino? Quali luci in un evento di cui nessuno sembra accorgersi, in una situazione di povertà e di totale discrezione?

Il mistero del Natale appare in tutto il suo splendore considerando lo sviluppo della liturgia nei suoi quattro formulari delle Messe. Una tensione unica percorre la liturgia, sottolineata dalle collette: Dio si fa uomo perché l’uomo diventi ‘dio’. Ciò significa che la natura dell’uomo è strutturata sulla vita divina e la liturgia del natale del Signore appunta lo sguardo sul mistero da dentro tale prospettiva.

Se teniamo presenti i brani evangelici possiamo notare che l’evento della nascita di Gesù, a Betlemme, celebrato nella messa della notte, con la successiva adorazione dei pastori, commemorato nella messa dell’aurora, risulta incastonato dai brani della genealogia di Gesù (messa vespertina della vigilia) e dal prologo di Giovanni (messa del giorno). Quale lettura possibile?

Il Bambino contemplato nella mangiatoia compie finalmente le promesse di Dio. La genealogia di Matteo, all’inizio del suo vangelo, vuol proprio dire questo: Gesù, il Messia annunciato della discendenza di Davide, risale ad Abramo, con cui inizia la storia sacra di Dio col popolo d’Israele. Lui realizza le profezie, Lui compie le promesse. Leggendo però la genealogia nel vangelo di Luca, posta dopo il battesimo di Gesù al Giordano, quando il cielo si apre e si ode la voce del Padre: “Questi è il Figlio mio, l’amato …”, allora il significato muta. Il Bambino è Colui sul quale il Padre dice: “Questi è il mio Figlio amatissimo, in lui mi sono compiaciuto, in lui riposa il mio amore e in lui mi riposo”. In effetti il cielo si apre su di lui e passa per lui (Gesù dirà: ‘io sono la porta…’) in modo che chi entra per lui arriva al principio della sua genealogia umana e la sorpassa, collegandola al mistero che la origina. Nella genealogia di Luca Gesù non risale ad Abramo, ma discende da Dio, assumendo Adamo: viene svelato il mistero della sua identità di Figlio di Dio, il mistero dell’amore di Dio nel quale prende origine la creazione dell’uomo e la storia di amore di Dio con l’umanità.

Con il prologo di Giovanni si afferma la stessa cosa dando la griglia di lettura della storia umana a partire da Dio e dal Figlio, sul quale e per mezzo del quale tutto è stato creato, avvalorata ormai dalla testimonianza apostolica di aver visto lo splendore della gloria di Dio in quel Figlio, nato, vissuto, morto e risorto per noi. Di lui dice Giovanni: “il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi abbiamo contemplato la sua gloria”.

Quando nella notte si celebra l’evento della nascita a Betlemme è da dentro questa prospettiva che gli occhi guardano. Forse noi non ci rendiamo conto della immensa sproporzione e inadeguatezza tra la povertà del segno (un bambino giace nella mangiatoia) e lo splendore della visione celebrata con la voce degli angeli che lodano Dio, con la luce che risplende, con la letizia immensa e incontenibile che riempie i cuori. Dentro questa sproporzione verrà poi descritta tutta la vita di quel Bambino. E quando la chiesa nei suoi inni proclama che una nuova creazione ha inizio con la nascita di Gesù allude alla fecondità di rivelazione racchiusa in questa sproporzione. Con l’Altissimo che si fa bambino si ritorna allo splendore di un’umanità tutta intessuta dall’amore di Dio e che in Dio cerca il motivo della sua gloria, in povertà e tenerezza. Qui risuonano potenti le parole di Paolo ai Corinzi: “Infatti ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini” (1Cor 1,25). Da dentro questa ‘stoltezza’ e ‘debolezza’ Gesù rivelerà la grandezza dell’amore di Dio per noi.

Se consideriamo le collette, la progressione della comprensione del mistero è delineata secondo questa traiettoria: l’evento sprigiona una tale luce (notte) da investire il nostro agire (aurora) per partecipare alla stessa vita di Dio (giorno). “O Dio, che hai illuminato questa santissima notte con lo splendore di Cristo, vera luce del mondo …” (notte);”Fa’ che risplenda nelle nostre opere il mistero della fede che rifulge nel nostro spirito” (aurora); “Fa’ che possiamo condividere la vita divina del tuo Figlio…” (giorno) e questo è lo scopo di tutta la nostra gioiosa adorazione.

Mi piace sottolineare che nei racconti natalizi non si riporta nessuna parola della Madre di Gesù. Si descrivono i gesti di tenerezza, nella povertà della situazione (“lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia”) e la sua disposizione adorante (“custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore”). La sua parola era già stata riferita: “Ecco, la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola”. La sua vita era puro spazio perché il desiderio di Dio di dimorare con noi si compisse in tutto il suo mistero. Nelle icone natalizie, la Madre non guarda il suo bambino, ma coloro per i quali questo bambino è donato!

Un poema natalizio di s. Efrem canta: “Sia benedetto Colui che ha consegnato la nostra anima, che l’ha adornata e se ne è fatta la fidanzata! Sia benedetto Colui che ha fatto del nostro corpo una tenda per la sua Invisibilità! Sia benedetto Colui che nella nostra lingua ha tradotto i suoi segreti!... Gloria a Colui che non ha mai bisogno che noi lo ringraziamo. Ma che ha bisogno di tenerci per cari, che ha sete di amarci e che chiede che noi gli diamo perché Lui possa darci ancora di più”. Possano i nostri cuori percepire quei segreti e scoprire le radici della letizia per noi in questo mondo. La letizia dell’annuncio natalizio costituisca il vigore dell’anima e lo spazio di intelligenza del cuore per la vita propria e quella di tutti.

 

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Quinto ciclo

Anno liturgico B (2014-2015)

Tempo di Natale

 

Santa Famiglia

(28 dicembre 2014)

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Gn 15,1-6; 21,1-3;  Sal 104;  Eb 11,8.11-12.17-19;  Lc 2,22-40

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È significativo che la tradizione non celebri l'incarnazione del Figlio di Dio in generale, ma dentro una singola famiglia della famiglia umana. Per quanto misteriosa e singolare questa famiglia, è proprio a questa famiglia che tutte le altre famiglie possono guardare per comprendere e vivere il loro stesso mistero.

La liturgia di oggi  contempla il mistero dell’incarnazione del Figlio di Dio sottolineandone gli aspetti di veracità storica. Dio si fa uomo in un determinato popolo, dentro una determinata storia, rispettando certe regole: la mamma si dovrà purificare, il bambino ebreo dovrà essere circonciso, gli si darà un nome, sarà presentato al tempio e vivrà in una famiglia che gli assicurerà la crescita e l’educazione.

Due sono i personaggi che introducono a questa contemplazione: Abramo e Simeone. Proprio di Abramo Gesù dirà: “Abramo, vostro padre, esultò nella speranza di vedere il mio giorno; lo vide e fu pieno di gioia” (Gv 8,56). E Simeone esultante  proclama, prendendo tra le sue braccia il bambino Gesù: “i miei occhi hanno visto la tua salvezza”. Quando o come Abramo avrà potuto vedere il giorno di Gesù? L’ha visto profeticamente alla nascita di Isacco, il figlio della promessa, avuto in vecchiaia, ma soprattutto dopo aver riavuto il suo Isacco, amatissimo, allorché il Signore gli impedisce di sacrificarlo e gli fa trovare l’ariete per l’olocausto sul monte Moria (cfr Gn 22). E l’ha visto nella sua discendenza, in Simeone, che da Abramo deriva e che ha tenuto Gesù bambino nelle sue braccia. L’esultanza di Abramo attraversa tutta la sua discendenza per giungere a compiersi in Simeone e da Simeone risale indietro fino a ricadere sullo stesso Abramo.

Il testo del vangelo di Luca che narra della presentazione al tempio di Gesù è ricco di particolari misteriosi, particolari che tradiscono la contemplazione di un mistero, velato ma percepibile. Luca parla della loro purificazione: ma solo la mamma era tenuta a purificarsi dopo il parto (cfr. Lev 12,1-8). Non c’è nessuna legge che prescrive di portare il bambino al tempio. La Legge di Mosè prescrive di consacrare e riscattare ogni primogenito (cfr Es 13); Luca, citando quella norma, ne modifica l’espressione dicendo che ‘ogni maschio primogenito sarà sacro al Signore’ ed usa le stesse parole dell’angelo Gabriele quando reca l’annunzio a Maria. Come a sottolineare: Gesù non ha bisogno di essere consacrato al Signore e non deve essere riscattato; anzi, lui è il Consacrato, il Cristo di Dio; lui sarà il riscatto per il suo popolo, per l’intera umanità. In lui si concentra tutto il senso della storia sacra perché compie in verità quello che nella Legge veniva descritto in simbolo: Gesù è il primogenito diletto che compie il sacrificio di Isacco, come lui è il vero pane celeste che era prefigurato nella manna.

Simeone, che aspettava la consolazione di Israele, figura di tutta l’umanità in attesa, ha ricevuto la promessa che non avrebbe visto la morte prima di aver veduto il Messia del Signore, cioè colui stesso che era la consolazione di Israele, colui nel quale tutte le attese di consolazione si sarebbero compiute. E siccome si sarebbero compiute attraverso la passione della croce, Simeone vede la spada di dolore che trafiggerà la mamma di quel bambino, non solo in ragione del suo dolore di mamma, e nemmeno solo in ragione della sofferenza della divisione nel suo popolo che sperimenta in se stessa in tutta la sua tragedia, ma anche e soprattutto in ragione della sua solidarietà con il Figlio Redentore e con l’Amore del Padre che così perdutamente testimonia la sua dilezione per gli uomini.

Ma anche la visione di Simeone, come quella di Abramo, come del resto la visione di ogni credente, è una visione profetica. Tiene il bambino Gesù in braccio e vede avanti, vede in spirito, sente il mistero di quel bambino venuto a compiere tutte le attese: “Ora puoi lasciare, o Signore, che il tuo servo vada in pace, secondo la tua parola, perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli: luce per rivelarti alle genti e gloria del tuo popolo, Israele”. È il cantico che la chiesa innalza a compieta, tutti i giorni, come a riprova che l’esito dei nostri giorni mortali non può che risolversi in questa contemplazione di Dio. Eppure le parole di Simeone hanno un’altra forza. Potremmo tradurle così: Signore, ora che ho potuto trattenere una tua parola, fa che sia sciolto da ogni legame che impedisce a questa parola di agire, che impedisce al mio cuore di goderne la potenza e possa cominciare a vivere in quella pace che compie la mia attesa ed anche la tua! Sì, perché  non è soltanto l’uomo ad aspettare la consolazione, è anche Dio e la consolazione di Dio è la condivisione della sua gioia e della sua pace con noi. E possano tutte le genti, insieme al popolo di Israele, diventare l’Israele di Dio, nel quale si compie la consolazione e dell’uomo e di Dio.

 

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Quinto ciclo

Anno liturgico B (2014-2015)

Tempo di Natale

 

Maria ss. Madre di Dio

(1° gennaio 2015)

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Nm 6,22-27;  Sal 66;  Gal 4,4-7;  Lc 2,16-21

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Nel calendario liturgico, l’ottavo giorno dopo il Natale del Signore fu consacrato a onorare la Vergine Maria, Madre di Dio. A partire dal 1969, l’antica festività di “Maria Santissima Madre di Dio” venne ripristinata in tutta la sua solennità il 1° gennaio.

Con lei, la Vergine Madre, che ha dato alla luce il Salvatore, si è compiuta in tutta la sua estensione l’antica benedizione di Israele: “Ti benedica il Signore e ti custodisca. Il Signore faccia risplendere per te il suo volto e ti faccia grazia. Il Signore rivolga a te il suo volto e ti conceda pace” (Num 6, 24-26). Dante, nell’ultimo canto del Paradiso, dopo aver innalzato una lode sublime alla Regina del cielo, di lei dice: “Gli occhi da Dio diletti e venerati …”. Chi ha provato l’estasi di uno sguardo amoroso sa a quale intimità si allude, quale benedizione si riceve e quale gioia ciò procura. Il mistero grande è il fatto che anche Dio è rapito dallo splendore dello sguardo della Vergine tanto è puro e sconfinato, specchio limpidissimo dell’amore di Dio per lei e per tutta l’umanità. Sì, perché la bellezza della Vergine è in funzione della bellezza, resa visibile, del Figlio Unigenito, nostro Salvatore, il cui amore per noi lo renderà disposto a perdere ogni ‘bellezza d’uomo’ per ridare a noi quella bellezza che attira il suo sguardo. In questo sguardo di Dio su di lei si concentra tutto il senso della sua intercessione allo scopo di ottenerci la suprema benedizione che si risolve nel voler vedere Dio, vedere il volto di Dio che risplende su di noi, Gesù Signore.

L’esperienza dei pastori alla mangiatoia di Betlemme ha a che vedere proprio con l’esperienza di quella benedizione. Il brano è percorso da un doppio movimento che caratterizza prima gli angeli e poi i pastori. E ogni movimento ha due tempi: l’annuncio e la lode. Appaiono gli angeli per annunciare il messaggio di cui sono portatori e poi lodano Dio ritornando in cielo; i pastori vanno a Betlemme a sincerarsi della veracità dei fatti e poi lodano Dio ritornando a casa loro. Consideriamo il movimento dei pastori. “I pastori se ne tornarono, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto, com’era stato detto loro”. I verbi sono ben collocati: prima ‘udito’ e poi ‘visto’. Esprimono la dinamica della fede, la dinamica dell’intelligenza della Parola. Prima occorre ‘udire’, ‘ascoltare’: noi non siamo produttori di messaggi, tanto meno siamo produttori di significati. Siamo invece invitati a cogliere i messaggi, ad essere testimoni degli eventi e ad assimilarne i significati. Non è però nemmeno sufficiente ascoltare, se l’ascolto non introduce alla visione, all’andare a vedere. Il che significa: se non sei disposto a praticare quello che ascolti, non potrai mai vedere e non scoprirai mai se il messaggio aveva una verità per te. E se non si arriva a vedere, il cuore non potrà convertirsi, la nostra vita non sarà interessata e non potrà mai risolversi in racconto di lode, racconto e lode che costituiranno per altri l’invito angelico: vi annuncio una gioia grande…! Se la dinamica si compie in tutta la sua estensione, la benedizione che dalla Vergine è riversata sull’umanità fa sentire i suoi effetti, ricopre i cuori e la Chiesa, a sua volta, non ha altra vocazione che di rimandare a quella benedizione per tutta la famiglia umana.

D’altro canto, la realtà dell’incarnazione comporta la variabile tempo. Ogni cosa ha il suo tempo, ogni cosa ha bisogno del suo tempo.  Anche la Vergine Maria ha avuto bisogno di tempo per assuefarsi all’agire di Dio. Il brano evangelico la descrive come colei che “custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore”. Evidentemente perché anche per lei la realtà non svelava il suo mistero di colpo. I due verbi, custodiva e meditando significano più direttamente: teneva se stessa e queste cose insieme in cuore, facendole rimbalzare l'una sull'altra in modo da ottenerne una visione d'insieme. Sono termini che illustrano il metodo di lettura delle Scritture: una parola si illumina con un'altra parola ed il senso che ne scaturisce si riverbera nel cuore aprendo la parola al cuore ed il cuore alla parola. E non se ne tralascia nessuna: tutte queste cose del testo sono sia le parole udite (dall'angelo, dai profeti, dai pastori) sia gli eventi successi; non si cerca solo quella 'adatta' a me, ma ci si 'adatta' a loro tutte, insieme. Non si preferisce un tempo (il tempo della gioia, del godimento), ma si tengono insieme tutti i tempi (anche il tempo del dubbio, dell’afflizione). Allora, poco a poco, anche al nostro cuore si svelerà quella benedizione che Dio ha posto sull’umanità e la vita torna a risplendere della presenza del nostro Dio.

La colletta, quando prega: “Padre buono, che in Maria, vergine e madre, benedetta fra tutte le donne, hai stabilito la dimora del tuo Verbo fatto uomo tra noi…”, riprende la dichiarazione di Giovanni: “E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi” (Gv 1,14). Ma anche la promessa di Gesù ai discepoli: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14,23). La benedizione di Dio per l’uomo consiste proprio nel suo dimorare fra noi, in noi. L’aspetto straordinario, sconvolgente, dell’amore di Dio per l’uomo, che però spesso nemmeno siamo più capaci di percepire, è dato dal fatto che possiamo essere accolti in quella stessa intimità di vita e di relazione che esiste tra il Padre e il Figlio nel loro amore per noi. Sembra strano, ma soltanto da dentro quella intimità potremo sperare di compiere la volontà del Padre nella nostra vita e sentirci avvolti dalla sua benedizione. Se prima non si gusta la volontà di benevolenza di Dio nei nostri confronti, che si esprime nella benedizione che è il Cristo per noi, come poter arrivare alla gioia dell’osservanza dei comandamenti e ad essere operatori di pace? Se non capiamo come Cristo non antepose nulla all’amore per noi, come possiamo noi non anteporre nulla all’amore per Cristo e ritrovarci amati dal Padre, che nel suo Figlio ha posto tutta la sua compiacenza?

Il mistero della benedizione di Dio sull’uomo sta tutto qui e tutta la vita della Vergine, come il suo parto prodigioso, è lì a dimostrarlo. Come canta s. Efrem: “Benedetto Colui che ha fatto del nostro corpo una tenda per la sua Invisibilità! Sia benedetto Colui che nella nostra lingua ha tradotto i suoi segreti!...”.

 

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Quinto ciclo

Anno liturgico B (2014-2015)

Tempo di Natale

 

II  Domenica

(4 gennaio 2015)

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Sir 24,1-4.8-12;  Sal 147;  Ef 1,3-6.15-18;  Gv 1,1-18

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Nelle liturgie natalizie non manca mai il riferimento alla benedizione divina che in Gesù scende sull’uomo e che dall’uomo sale copiosa a Dio. Gesù è il Dono fatto da Dio all’umanità e contemporaneamente il frutto dell’umanità che nella Vergine raggiunge il suo esito esemplare. Nelle sue poesie sul mistero del Natale s. Efrem lo sottolinea acutamente: “Maria è il giardino sul quale discese dal Padre la pioggia della benedizione; di quella effusione lei asperse il volto di Adamo”.  O ancora, facendo parlare la stessa Madre di Dio, vede nel riferimento a Cristo lo scopo supremo della vita, capace di una visione nuova, trasformante: “Se una madre ha un bambino, questo diventa fratello del mio diletto. Se ha una figlia o una congiunta, questa diventa la sposa del mio Signore. Colui che ha un servo, gli conceda la libertà, affinché venga per servire il suo Signore [...] A causa tua una serva diventa libera. Se una ti ama, c’è nel suo seno una invisibile liberazione”.

Se davvero crediamo, come dice il ritornello del salmo responsoriale, che “il Verbo si è fatto carne e ha posto la sua dimora in mezzo a noi”, allora l’augurio più bello e convincente, dal punto di vista della fede, non può essere che quello di Paolo agli Efesini: “…il Dio del Signore nostro Gesù Cristo, il Padre della gloria, vi dia uno spirito di sapienza e di rivelazione per una profonda conoscenza di lui; illumini gli occhi del vostro cuore per farvi comprendere a quale speranza vi ha chiamati, quale tesoro di gloria racchiude la sua eredità fra i santi”. Conoscenza, qui, allude all’esperienza degli apostoli che, davanti al mistero del Figlio di Dio fatto uomo, con il quale hanno vissuto, che hanno sentito parlare, che hanno visto all’opera, dal quale sono rimasti folgorati e affascinati, dicono: “e noi abbiamo contemplato la sua gloria” (Gv 1,14). Come prega la colletta: “Padre di eterna gloria, che nel tuo unico Figlio ci hai scelti e amati prima della creazione del mondo e in lui, sapienza incarnata, sei venuto a piantare in mezzo a noi la tua tenda, illuminaci con il tuo Spirito perché accogliendo il mistero del tuo amore, pregustiamo la gioia che ci attende, come figli ed eredi del regno”. Da dentro quell’esperienza, testimoniata dagli apostoli e con noi condivisa, la percezione del mistero dell’amore di Dio per gli uomini, della benevolenza di Dio che tocca le radici dei cuori con il dono di quel Figlio, dato per noi, diventa chiarissima, prepotente: la benedizione non si allontanerà mai più dall’umanità.

Se vogliamo indagare la ragione profonda di quella percezione, non possiamo che riconoscerla espressa nell’affermazione: “Dio nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato” (Gv 1,18). Qui risiede tutta la fierezza e l’umiltà del cristiano di fronte ai suoi fratelli, in cammino e alla ricerca della verità che riguarda tutti allo stesso titolo. Se tutto il creato rimanda al Cristo Signore, a maggior ragione l’uomo, fatto ad immagine di Lui, che è l’Immagine, lo splendore del Volto stesso di Dio. Ma se questo è vero, allora tutti i nostri pensieri rimandano a lui, tutte le nostre aspirazioni, tutti i nostri desideri, tutti i nostri ideali. Secondo i nostri Padri, la preghiera non è che il luogo di riconoscimento del Cristo come fondamento dei nostri pensieri. Tutta la bontà, tutte le virtù che possiamo ottenere non sono che partecipazione ai suoi sentimenti, alla sua vita, che è vita stessa di Dio.

Le nostre così frequenti ‘lamentele’ nella vita, certamente fondate in buone ragioni, non ci fanno cogliere però la ragione essenziale per la vita del cuore, che subisce come una mancata rivelazione, come un’impossibilità di accedere a quel certo orizzonte dove tutto è bagnato dalla luce della benedizione. Se davvero i nostri occhi stanno aperti a riconoscere la venuta tra noi di Colui che custodisce quella benedizione, perché smarrirci allora nelle paure e nelle angosce, come se qualcosa di essenziale ci mancasse ancora?

Il Padre ci ha donato il suo Figlio ed il Figlio, per mezzo dello Spirito Santo, ci fa dono del potere di diventare figli a nostra volta: “A quanti però lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, i quali, non da sangue né da volere di carne né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati” (Gv 1,12-13). Il dono è aperto a tutti, perché non si nasce cristiani, ma lo si diventa. È il superamento più radicale di ogni distinzione fra gli uomini basata su etnia, nazione, cultura, censo, ecc. Ricevere il potere di diventare figli di Dio significa partecipare alla vita stessa del Figlio di Dio; significa rivestirsi dei suoi sentimenti, nei quali fondare le radici di un’umanità nuova, trasfigurata, che non si presenta più temibile in nulla per nessuno. Usassimo questo semplice criterio di discernimento per giudicare la bontà del nostro agire!

La letizia del Natale rimanda a tale possibilità, a tale potere e qui si radica la speranza per il mondo: la gloria di Dio può ancora risplendere in mezzo a noi, la vita nel mondo può ancora tornare amabile, nonostante i drammi e le tragedie, le violenze e gli egoismi. Siamo sicuri – anche questo è un corollario della nostra fede nel Signore Gesù – che sempre ci sarà qualcuno che, discepolo del Signore, farà risplendere l’umanità in questo mondo. E sempre ci sarà qualcuno che, affascinato da quello splendore, riconoscerà il Signore e tornerà a far desiderare la conoscenza di lui, come si augura l’apostolo.

 

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Quinto ciclo

Anno liturgico B (2014-2015)

Tempo di Natale

 

Epifania del Signore

(6 gennaio 2015)

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Is 60,1-6;  Sal 71;  Ef 3,2-3a.5-6;  Mt 2,1-12

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Epifania vuol dire manifestazione. Se il Natale celebra la manifestazione del Verbo di Dio fatto uomo, l’Epifania celebra la manifestazione della divinità di quel ‘Bambino nato per noi’. In occidente la liturgia ha preferito costituirsi attorno all’adorazione dei Magi, mentre l’oriente ha preferito privilegiare la manifestazione della divinità di Gesù al battesimo. Comunque tre sono i misteri della manifestazione della divinità di Gesù che la liturgia contempla: l’adorazione dei Magi, il battesimo, le nozze di Cana.

L’antifona di ingresso della messa si richiama al libro del profeta Malachia, l’ultimo libro dell’Antico Testamento: “È venuto il Signore nostro re: nelle sue mani è il regno, la potenza e la gloria”. La proclamazione comporta qualcosa di radicalmente nuovo per gli occhi umani o, se vogliamo, comporta la visione di una realtà con occhi radicalmente nuovi. Stessa novità che sta dietro la proclamazione di Gesù come re nei vangeli (soltanto durante la sua passione Gesù accetta il titolo di re) e particolarmente come re della gloria (titolo che fornisce, da una parte, la ragione della condanna sul patibolo della croce e, dall’altra, per la visione di fede dei credenti, la ragione dell’amore di Dio per l’uomo che proprio sulla croce risplende). Quando la colletta fa pregare: “O Dio, che in questo giorno, con la guida della stella, hai rivelato alle genti il tuo unico Figlio, conduci benigno anche noi, che ti abbiamo conosciuto per la fede, a contemplare la grandezza della tua gloria”, guida i credenti alla percezione di quella novità e li predispone a cogliere e a vivere dello splendore di quell’amore, che costituisce ormai la ragione di senso del vivere nella storia.

Paolo ricorda agli Efesini che il mistero ora rivelato concerne tutti gli uomini, che sono chiamati a godere della stessa eredità, a formare un unico corpo, a vivere della stessa promessa di vita. Davanti a Dio sussiste un’unica famiglia umana, destinataria e portatrice allo stesso tempo del Suo amore. Se il Signore, come dice il salmo 71, interviene a favore del povero e del debole, categorie che attraversano la diversità dei popoli e si riferiscono all’umanità di tutti, significa che chi calpesta il povero e il debole ferisce la propria dignità umana e non rispetta l’immagine di quel Figlio che si è confuso con l’umanità di tutti.

Il numero dei Magi è fissato in funzione dei doni che sono ricordati nel vangelo: oro, incenso e mirra. Il titolo di magi è un titolo dottorale e religioso, ma la leggenda li ha immaginati come re, dal momento che i loro doni sono doni regali. I loro nomi, Melchiorre, Baltassarre e Gaspare, si ritrovano nel Libro armeno dell’Infanzia, risalente al sec. VI, che li reputa tre fratelli: Melchiorre re dei Persiani, Baltassarre re delle Indie, Gaspare re degli Arabi. La tradizione ha fissato anche il simbolismo dei tre doni: l’oro al Re, l’incenso al Sommo Sacerdote eterno, la mirra per la sua sepoltura. E Leone Magno, nelle sue bellissime omelie sull’Epifania, attualizza così il significato simbolico dei tre doni: chi viene al Cristo, offre l’oro dal tesoro del suo cuore quando lo riconosce re di tutte le creature, offre la mirra quando crede che il Figlio Unigenito di Dio ha assunto una vera natura di uomo ed offre l’incenso quando lo confessa uguale al Padre.

Nel racconto evangelico dell’adorazione dei Magi, quanti particolari suggeriscono pensieri profondi! I Magi, persone colte e osservatrici degli astri, vedono sorgere una stella, fenomeno che interpretano come l’arrivo di un grande re in Giudea e decidono di venire a cercarlo. La strada per la Giudea la conoscono ed il testo non dice che la stella li guidava. Solo dopo aver ricevuto la conferma della profezia da Israele che un re sarebbe nato a Betlemme, ricompare la stella e li precede fin là. E quando devono ritornare indietro, cambiano strada. Come a dire: chi si apre all’adorazione di Dio riscopre la casa propria in altro modo, con altro sguardo, sotto altri orizzonti. Notiamo il contrasto: i Magi si sono mossi, senza sapere bene dove andare, mentre Israele conosce la profezia riguardo al bambino che deve nascere, ma non si muove; i Magi sono nella gioia, Gerusalemme nel turbamento. I Magi sono partiti perché spinti dal cielo, ma si affidano alle Scritture di Israele per conoscere il luogo di nascita del nuovo re e solo dopo essersi affidati alla parola rivelata ricompare la stella del cielo che conferma loro la profezia; dopo aver riconosciuto il nuovo re, ritornano al loro paese, ma per altra strada, ad indicare che nulla è più come prima. Come per i pastori che, dopo aver udito e visto, glorificano e lodano Dio tornando a casa loro, a sottolineare che un cuore convertito al Signore possiede una luce e un sapore prima sconosciuti. Non è la stessa situazione dell’uomo di fronte al desiderio di infinito che porta dentro? Se va a cercare la Parola è perché questo desiderio lo rode e se si lascia condurre da questo desiderio non solo trova la Parola, ma ritrova la gioia di quel desiderio che l’accompagna nella pratica della parola fino a trasformare tutto il suo cuore e a volgerlo in perenne adorazione e nei pensieri e nella vita. È appunto il mistero della scoperta del tesoro nel campo, è il mistero dell’incontro dell’uomo con il suo Dio. Il brano finisce con l’accenno alla strage di Erode. La presenza del dramma non è lì a gettare una luce fosca sull’idillio appena descritto, ma prelude al dramma finale della vita di quel bambino che, morendo in croce e poi risuscitando, rivela la gloria dell’amore di Dio per l’uomo, che non si arresta e non devia dai suoi progetti di fronte all’ingiustizia, che anzi fa diventare proprio luogo di rivelazione del Suo amore.

Quanto al mistero della trasformazione dell’acqua in vino alle nozze di Cana (cfr. Gv 2,1-10), simbolo delle nozze del Signore Gesù con l’umanità nostra, anche questo ha a che vedere con la manifestazione della gloria di Dio nella nostra vita.  Passare dall’essere acqua al diventare vino significa passare dalla volontà di osservanza del comandamento al gusto del frutto che il comandamento comporta. La promessa nascosta in ogni parola di Dio è questa: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14,23). Ogni comandamento ha un’ispirazione; senza cogliere tale ispirazione non potremo mai gustare la promessa che è nascosta dentro ogni comandamento, la promessa della conoscenza cordiale del Signore. Come in un rapporto d’amore. Non basta fare delle cose, neanche farle per l’altro; se non si coglie l’ispirazione che muove il cuore ad agire, se non si coglie l’effetto che il nostro agire ha sul cuore dell’altro, se non ci viene rimandata la gioia dell’altro che coglie il movimento del nostro cuore, si resta acqua.

Nel Cristo divinità e umanità sono inscindibilmente unite, Dio finalmente risplende nell’uomo e l’uomo risplende del suo Dio. E se tutto diventerà più svelato con la morte e risurrezione di Gesù, già però se ne può intravedere il mistero fin dalla sua nascita dalla Vergine Maria, almeno per coloro che gli si avvicinano con stupore e sanno vedere nelle parole e negli eventi che lo riguardano gli indizi della sua gloria.

 

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Quinto ciclo

Anno liturgico B (2014-2015)

Tempo di Natale

 

Battesimo del Signore

(11 gennaio 2015)

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Is 55,1-11;  Salmo: Is 12,2-6;  1 Gv 5,1-9;  Mc 1,7-11

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La tradizione ha colto il mistero del battesimo di Gesù nell’ottica della sua epifania, della sua manifestazione. Nella celebrazione della festa dell’Epifania, con le antifone solenni del Benedictus e del Magnificat, la chiesa cantava: “Oggi la Chiesa, lavata dalla colpa nel fiume Giordano, si unisce a Cristo, suo Sposo; accorrono i magi con doni alle nozze regali e l’acqua cambiata in vino rallegra la mensa”. La festa di oggi è stata iscritta nel calendario romano solo nel 1960 ed è stata fissata alla data attuale nel 1969.

Appuntiamo lo sguardo su due particolari.

Primo particolare: Gesù viene al Giordano per farsi battezzare. Marco usa la stessa espressione di Es 2,11, letta nel testo greco della LXX con l’annotazione di Mosè che, una volta raggiunta l’età di quarant’anni, uscì dalla casa del faraone per fare visita al suo popolo. Il riferimento è letto in rapporto alla profezia di Mosè in Dt 18,15: “Il Signore, tuo Dio, susciterà per te, in mezzo a te, tra i tuoi fratelli, un profeta pari a me. A lui darete ascolto”. Chi ascolta queste parole è Giosuè, in greco Gesù, colui che traghetta il popolo nella terra di Israele attraversando il Giordano. La deduzione è presto fatta: l’evangelista Marco vede realizzarsi le profezie e l’attesa messianica in Gesù di Nazaret che viene a farsi battezzare, lui, l’Innocente, l’Agnello che toglie i peccati del mondo. Da notare che il Giordano è il fiume della terra che scorre più in basso, raggiungendo circa i 500 m sotto il livello del mare.

Tutti particolari, questi, che descrivono la salvezza operata da Dio secondo la cifra dell’abbassamento, della debolezza, della stoltezza, che Paolo chiamerà più forte e più sapiente degli uomini, e che Giovanni chiamerà gloria ed elevazione. Il primo gesto di Gesù, nel compiere la sua missione, è quello di stare solidale con i peccatori. È in fila con i peccatori per ricevere il battesimo di penitenza di Giovanni. Lui però non ha bisogno del battesimo. Perché allora viene a farsi battezzare? Viene per celebrare il suo sposalizio: nella sua umanità oramai è lavata tutta l’umanità, che può stare unita a lui e godere, come lui, di quello Spirito che come colomba si posa sul suo capo, capo del suo corpo che siamo noi. Nessuno può ancora vedere lo Spirito però; solo Gesù, uscendo dalle acque, lo può vedere perché ne è ripieno ed anche Giovanni, che con quel battesimo dato a Gesù finisce la sua opera di battezzatore per lasciare posto a lui, al suo nuovo battesimo, il battesimo nello Spirito. Si potrà vedere allorquando, compiuta la sua missione, avendo patito per gli uomini, morto e risorto, lo effonderà come lingue di fuoco sugli apostoli. Vedere lo Spirito Santo significa poter penetrare nei cieli ormai aperti, significa aver sperimentato in tutta la sua potenza quel compiacimento che la voce proclama da parte di Dio su Gesù.

Il racconto di Marco è densissimo di allusioni. Se i profeti (cf. Ml 3,22) motivavano l’invito a emendarsi mirando al passato, richiamando cioè Mosè e la Legge, con il Battista oramai si guarda al futuro, alla venuta di colui che battezzerà in Spirito Santo. L’azione dello Spirito è di far sì che l’uomo appartenga a Dio (cf. Ez 36,28; Is 44,5) e denominarlo Santo, oltre che alludere alla natura divina, significa sottolinearne l’azione specifica: introdurre l’uomo nella sfera divina, consacrarlo nella fedeltà a Dio. Con il suo battesimo, a differenza di tutti coloro che ricevono il battesimo di Giovanni, Gesù non confessa la sua complicità con il male, ma manifesta la disposizione di offerta totale di sé: si impegna a compiere la sua missione a favore degli uomini disposto a non risparmiare nemmeno la sua vita. Si tratta di compiere l’esodo definitivo per il nuovo popolo dell’alleanza.

Secondo particolare: i cieli si squarciano e la voce lo proclama il Figlio amato. Il profeta Isaia aveva gridato al Signore: “Se tu squarciassi i cieli e scendessi!” (Is 63,19). Ora avviene, con il richiamo al fatto che con la crocifissione il velo del tempio si squarcia da cima a fondo (Mc 15,38). L’annotazione segnala l’irreversibilità del movimento: non c’è più chiusura tra cielo e terra, tra Dio e uomo e lo Spirito scende su Gesù come nel suo luogo desiderato. Come a dire: colui che si consegna per amore degli uomini è il luogo naturale dello Spirito di Dio. Con l’allusione, nell’immagine della colomba, allo Spirito Creatore di Gen 1,2, il quale in Gesù porta a compimento la creazione dell’uomo, portandola alla pienezza umana, ricolma di Spirito. Se con l’ultimo profeta, Malachia, la tradizione ha visto ritirarsi lo Spirito nel santuario celeste perché nessun nuovo profeta era sorto da allora, ora, con la discesa dello Spirito su Gesù, il santuario celeste è lui. Nell’Antico Testamento, lo Spirito Santo è indicato come lo Spirito del santuario, essendo il Tempio, al suo centro, nel Santo dei Santi, a contenere la Shekhinah, la Presenza, l’Inabitazione. Ora la Shekhinah, la Presenza, è in quel profeta di Nazaret, che la voce proclama: “Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento”.

In quel ‘Figlio mio, l’amato’ risuona l’eco dell’esperienza di Abramo al quale viene chiesto di sacrificare Isacco, il figlio unico, che amava (cf. Gen 22,2). O ancora, l’eco della parabola dei vignaioli assassini, in Mc 12,6, quando il padrone della vigna pensa al suo figlio prediletto da mandare ai vignaioli che non vogliono consegnare il raccolto e che poi lo mettono a morte. Se quell’aggettivo ‘prediletto’ rivela la radicalità della fede di Abramo, che davanti al suo Dio accetta di sacrificare il suo cuore, a maggior ragione rivela la radicalità dell’amore di Dio per l’umanità essendo disposto a mandare il suo Figlio a coloro che ne faranno scempio. L’aggiunta “in te ho posto il mio compiacimento” rivela tutta la profondità del mistero. ‘In te’, non è più solo rivolto al Figlio nella sua divinità, ma al Figlio, Dio fatto uomo. In quel Figlio, Dio-uomo, l’Amore del Padre è perfetto perché in lui si può contemplare tutta l’estensione e la profondità di quell’Amore che realizza compiutamente il suo sogno sulla creazione e sull’umanità.

Chiamare Gesù ‘il Figlio mio’ non esprime solo la qualità di essere di Gesù per cui Dio, oramai, è il Padre di Gesù, ma anche la sottolineatura che il Figlio agisce e si comporta come Dio, il Padre. La dedizione di Gesù in favore degli uomini, per cui il battesimo è simbolo della morte volontariamente accettata, come riporta il canto al vangelo: “Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo”, è la rivelazione dell’amore di Dio per l’umanità. Il Padre rivela che il suo atteggiamento verso gli uomini è lo stesso manifestato da Gesù. In Gesù possiamo vedere chi è Dio. Tutto il vangelo sarà lì a mostrarlo, nelle parole come nelle azioni di Gesù.

 

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Quinto ciclo

Anno liturgico B (2014-2015)

Tempo Ordinario

 

II  Domenica

(18 gennaio 2015)

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1Sam 3,3b-10.19;  Sal 39;  1Cor 6,13c-15a.17-20;  Gv 1,35-42

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La liturgia del tempo ordinario, in tutti e tre i cicli, comporta la lettura dei sinottici, ma l’inizio è sempre riservato a brani del capitolo primo di Giovanni con il riconoscimento di Gesù da parte del Battista al Giordano, la scoperta del Messia da parte dei discepoli e la manifestazione di Gesù a Cana. Tutti i testi evangelici che si leggeranno nell’anno non faranno che dare storia a quella rivelazione degli inizi perché chiunque ascolti si ritrovi nella stessa dinamica vissuta dai discepoli.

Oggi viene letto il brano della scoperta del Messia da parte di Andrea e dell’altro discepolo, non nominato, che da sempre è stato riconosciuto in Giovanni, autore del vangelo. In effetti, si tratta di ricordi personali dell’evangelista a proposito di un’esperienza che l’ha segnato per tutta la vita, come quando uno si innamora per davvero. Giovanni racconta l’incontro che l’ha trasformato completamente, con una precisione di particolari che sono direttamente proporzionali all’intensità dell’esperienza. Se, all’inizio del suo vangelo, Giovanni dichiara: “e noi abbiamo contemplato la sua gloria” (Gv 1,14), ebbene, ha cominciato a essere afferrato da quella gloria proprio in quel giorno, alle quattro del pomeriggio, quando, su invito del suo maestro, il Battista, va da Gesù con Andrea.

La domanda che rivolgono a Gesù: “Rabbì, dove dimori?” attraversa tutto il racconto del vangelo per concludersi con l’affermazione/risposta di Gesù all’ultima cena: “rimanete nel mio amore” (cfr Gv 15). In greco viene usato lo stesso verbo. É come se Gesù, ancora rispondendo alla domanda iniziale dei suoi discepoli: “dove dimori?”, alla fine dicesse: siete venuti da me, avete visto che dimoro nell’amore del Padre per voi e così voi, ora, dimorate in questo stesso amore. É a questa esperienza che Giovanni allude quando annota: “andarono dunque e videro dove egli dimorava”. Il racconto ha il sapore di un’intera vita; ha la potenza, non di un ricordo, ma di una radice, di un principio, di una fonte che continua a sgorgare e che ha sconvolto tutta la sua vita. La carica emotiva di quella scoperta, infatti, è rivelata in tutta la sua forza nell’ultima cena allorquando Gesù, con il paragone della vite e dei tralci, innesta i suoi discepoli nel segreto del Padre, coinvolti nella stessa intimità sua con il Padre. In quel contesto Gesù non chiamerà più servi i suoi discepoli, ma amici, partecipi dei suoi segreti. Sarà l’esito della sequela di Gesù, come dell’ascolto, attento e orante, della Parola.

Le condizioni che permettono al cuore di condividere quei segreti sono indicate dalla prima lettura e dal salmo responsoriale. La prontezza di Samuele a rispondere rivela la libertà di cuore nell’obbedienza, che è la porta di accesso alla visione. Dio non si sottrae mai alla mediazione umana: Giovanni Battista media per Giovanni ed Andrea, Eli per Samuele. Accogliere il mistero di questa mediazione significa custodire una libertà e una purità di cuore nei confronti di Dio. Detto con le parole del salmo 39 : non vengo a fare una certa cosa, di cui ho ascoltato l’invito e che condivido, ma vengo perché sono con te e poi farò quello che mi si chiederà. É l’apertura di cuore che conta, non la disponibilità a un certo progetto. Il brano però fa intravedere la drammaticità che comporta l’apertura di cuore. La prima rivelazione che il giovane Samuele riceve riguarda la condanna della casa di Eli, suo maestro e padre nella fede. Non vorrebbe rivelarla ma non è nemmeno disposto a mentire. La prontezza di obbedienza che gli ha ottenuto la visita di Dio gli ottiene anche la sincerità con Eli e la pace del cuore, nella totale fiducia in Dio.

Quando la colletta prega: “O Dio … fa’ che non lasciamo cadere a vuoto nessuna tua parola” sull’esempio del giovane Samuele, non si riferisce in generale alle parole che ascoltiamo quotidianamente leggendo le Scritture, ma a quelle parole che parlano al nostro cuore, capaci di imprimere una direzione alla nostra vita, fonte di lotta e di gioia per la nostra vita, dandoci orizzonti di senso e di esperienza significativi. Proprio quello che il salmo commenta, in riferimento al Messia: “Nel rotolo del libro su di me è scritto di fare la tua volontà: mio Dio, questo io desidero; la tua legge è nel mio intimo” (Sal 39,8-9). Quando Gesù, invitandoci a rimanere in lui, a dimorare in lui, ci associa alla sua esperienza nel fare la volontà del Padre, vuole indurci a vivere la vita in modo da mostrare quanto è grande l’amore di Dio per i suoi figli. Avere la sua legge nell’intimo significa preferire la comunione con i suoi figli a qualsiasi altra cosa. Ed è quello che la liturgia eucaristica vuole ottenere quando ci fa invocare lo Spirito Santo dopo la consacrazione: formare un cuor solo e un’anima sola. Stessa cosa che viene chiesta con la preghiera dopo la comunione: “Infondi in noi, o Padre, lo Spirito del tuo amore, perché nutriti con l’unico pane di vita formiamo un cuor solo e un’anima sola”.

Per i discepoli di Gesù, seguire il Signore significa andare con il Signore, semplicemente stando con lui, in tutte le vicende della vita. Seguire Gesù comporta il desiderio di vivere con lui e come lui, così come Gesù stesso dichiarerà poco prima di subire la passione: “Padre, voglio che quelli che mi hai dato siano anch’essi con me dove sono io, perché contemplino la mia gloria” (Gv 17,24). Essere dove è lui significa rimanere ad ogni costo nell’amore del Padre per noi perché tutti sono invitati alla stessa mensa. Quando Gesù sceglierà i dodici, secondo il racconto di Mc 3,14, la motivazione sarà: “perché stessero con lui e per mandarli a predicare”. Sarà lo stare con Gesù che permetterà di vedere la sua gloria, vale a dire lo splendore dell’amore che Dio riversa sugli uomini. E non è senza ragione che i discepoli sono presentati in coppia: Gesù non sarà maestro di individui isolati, ma costituirà una nuova comunità. Non si potrà conoscere Gesù che a partire da una fraternità condivisa perché il suo compito è proprio quello di “riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi” (Gv 11,53).

Così, dall’esperienza del vivere con Gesù scaturisce immediatamente il desiderio di aprire la stessa possibilità ad altri che con noi condividono la ricerca della vita. Quando Andrea comunica a suo fratello Simon Pietro la scoperta: “Abbiamo trovato il Messia”, è come se dicesse: quello che i nostri cuori desiderano, quello che abbiamo sempre sognato, che abbiamo aspettato, è proprio lui; vieni anche tu! É l’inizio dell’apostolato: trasmettere a qualcuno il fascino della gloria del Signore e fare in modo che questo stesso fascino e questa stessa gloria risplendano anche per lui.

 

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Quinto ciclo

Anno liturgico B (2014-2015)

Tempo Ordinario

 

III  Domenica

(25 gennaio 2015)

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Gio 3,1-5.10;  Sal 24;  1Cor 7,29-31;  Mc 1,14-20

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L’annuncio di Gesù ruota attorno a tre elementi: la percezione di un certo tempo, la sensazione di una prossimità, la reazione che provoca, cioè la conversione. Nel vangelo di Matteo le parole con le quali Gesù si presenta nella sua predicazione in Galilea ricalcano le parole di Giovanni Battista: “convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino” (Mt 3,2, per Giovanni Battista; Mt 4,17, per Gesù). E Gesù si decide a predicare dopo l’arresto di Giovanni Battista. Marco riprende la circostanza, cioè che Gesù comincia a predicare in Galilea dopo l’arresto del Battista, e presenta la sua predicazione con le parole: “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al Vangelo” (Mc 1,15).

Come intendere il fatto che ‘il tempo è compiuto’? Non significa solo che ormai i tempi dell’attesa sono compiuti e quello che Dio aveva promesso ora lo realizza. Allude anche a qualcos’altro, che ha a che fare con l’esperienza che la sua predicazione ha suscitato. Nella sua lettera ai Corinzi Paolo parla di un tempo breve: “il tempo si è fatto breve” (1Cor 7,29). L’espressione è ripresa dal gergo marinaresco quando i marinai imbrogliano le vele chiudendole rapidamente per sottrarle all’azione del vento mediante la manovra dei cavi che si chiamano imbrogli. Non si tratta di guardare al passato ma al futuro. Non si tratta di cogliere il fatto che le attese sono compiute, ma che le uniche possibilità di vita sono l’accoglimento del tempo di Dio che entra nel nostro presente, dell’eterno che entra nel temporale, del compimento che si fa accessibile. E noi potremmo spiegare: è tale la gioia dell’amore salvatore di Dio, sperimentato in Gesù, che tutto il resto passa in secondo piano. Tutto in questo nostro mondo e in questa nostra storia ha valore, ma tutto va vissuto nell’ottica di quella verità, percepita come la grazia lungamente attesa e finalmente godibile. La nostra cronaca, quello che facciamo e ci succede, prende senso dalla storia di Dio che ci investe alimentando le radici di vita. Il tempo breve è allora il tempo compiuto. Non esiste allora nessun tempo della nostra vita che non possa essere raggiunto dalla rivelazione dell’amore di Dio.

Gesù non prosegue semplicemente l’opera del Battista: il Battista esorta, mentre Gesù mostra, ecco la differenza. Il Battista presagiva la presenza del Regno e predispone a riceverlo; Gesù ne fa vedere la prossimità, la presenza, ne svela la potenza da parte di Dio che viene in soccorso degli uomini. Con Gesù la conversione, che costituisce la reazione alla percezione della prossimità del Regno in Gesù, comporta il lasciarsi invadere dalla fiducia nella promessa di Dio che in lui si compie per noi. Credere al vangelo comporta il ritenere Dio sufficientemente potente per compiere, in Gesù, la sua promessa per noi, capace quindi di soddisfare gli aneliti del nostro cuore. Tutto questo dobbiamo imparare a percepire nell’annuncio di Gesù.

Il brano di Giona illustra splendidamente che l’annuncio di Gesù riguarda tutti, ebrei e gentili, ironizzando sull’ira del profeta che, conoscendo la natura misericordiosa di Dio, non vuole sia condivisa dai pagani. Il profeta, che sa come Dio sia “un Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira, di grande amore”, secondo la rivelazione a Mosè sul Sinai, testimonia controvoglia che le premure di Dio sono estese a tutti, pagani compresi.  La conversione degli uomini resta fondata sulla natura compassionevole di Dio. E quando il salmo responsoriale fa pregare: “Fammi conoscere, Signore, le tue vie”, non si riferisce prima di tutto alle vie che l’uomo deve percorrere per piacere a Dio, ma alla via di Dio che mostra compassione, intendendo: fa’, o Signore, che sia toccato dalla tua compassione, possa ritornare a sentire il tuo amore diventando solidale con tutti i miei fratelli, perché a tutti si rivolge la tua compassione.

Il convertirsi comporta essenzialmente il fidarsi del dono di Dio che è Gesù per noi e si traduce essenzialmente nella sequela di Gesù. Quello, appunto, che Marco sottolinea con la chiamata dei discepoli, figura di ogni vocazione al seguito di Gesù. Seguire il Signore fidandosi della sua promessa e lasciandosi alle spalle tutto il resto è una grande avventura che una vita intera non basta ad esaurire. Lo è stato per Pietro ed Andrea, per Giacomo e Giovanni, per gli apostoli, per i discepoli, come lo è per tutti i credenti in Cristo, di tutti i tempi.

Del resto è assai caratteristico che nel vangelo la conversione sia espressa dall’immagine del seguire Gesù. A dire il vero, spesso il testo evangelico non parla di seguire, ma più direttamente di andare dietro, di stare dietro, di mettersi dietro a Gesù. In questo, si può ancora ascoltare l’eco delle parole di Dio a Mosè: mi si può vedere solo di spalle (cfr Es 33,20). Quando Pietro, spaventato della predizione della passione da parte di Gesù, cercherà di distoglierlo da quella strada, si sentirà dire: stai dietro, poniti dietro, non volere starmi davanti! (cf. Mc 8,33-34). Alla fine del vangelo di Giovanni, dopo che Gesù gli ha predetto che avrebbe sofferto il martirio per lui, Pietro si sente ancora dire: vienimi dietro. In quel venire dietro a, in quel camminare dietro a sta il godimento della promessa di Dio che ha raggiunto l’uomo. Non sta tanto lo sforzo di seguire il Signore, ma la percezione di una rivelazione che si dispiega al cuore dell’uomo. A quella percezione tende la conversione, se vogliamo che si traduca in speranza di vita, come ci indica la preghiera dopo la comunione: “fa che ci rallegriamo sempre del tuo dono, sorgente inesauribile di vita nuova”. Nuova, non nel senso di cambiata, ma pescante in quella novità di vita che ci viene dal Signore Gesù, che ci ha fatto conoscere l’amore di Dio per i suoi figli.

Se il compito degli apostoli sarà quello di annunciare al mondo il vangelo di Dio, dire di Gesù che annuncia il vangelo di Dio significa voler collocare i discepoli nella continuità con Gesù. Così, cantare con il salmo responsoriale: “Fammi conoscere, Signore, le tue vie”, significa prima di tutto domandare che anche al nostro cuore si sveli la possibilità di conoscere l’amore salvatore di Dio in Gesù; significa domandare di cogliere la rivelazione di Gesù e indurci a seguirlo come gli apostoli in modo da godere della potenza di salvezza del suo vangelo, potenza che non concerne soltanto noi, ma tutto il mondo. Gli apostoli non sono stati chiamati semplicemente alla sequela di Gesù, ma alla sequela di Gesù che è inviato a portare a tutti la salvezza e la consolazione. Sarebbe questo il senso di: vi farò pescatori di uomini. Per gli apostoli come per noi, seguire Gesù dice soprattutto l’intimità di vita con lui che ci ha conquistati, intimità così incontenibile che non può ripiegarsi su se stessa ma continuamente si traduce in condivisione della misericordia di Dio per l'umanità.

 

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Quinto ciclo

Anno liturgico B (2014-2015)

Tempo Ordinario

 

IV  Domenica

(1° febbraio 2015)

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Dt 18,15-20;  Sal 94;  1Cor 7,32-35;  Mc 1,21-28

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La colletta della liturgia di oggi ci fa chiedere una cosa assolutamente straordinaria. Dopo averci condotto a riconoscere che Gesù è il Maestro che ci introduce nei segreti di Dio e il Liberatore dal male che ci insidia e opprime, fa pregare: “O Dio …. rendici forti … perché testimoniamo la beatitudine di coloro che a te si affidano”. Dà per avvenuta l’esperienza della gioia invincibile che deriva dalla fede nel Signore Gesù. Possiamo noi pregare in sincerità in questo modo?

Da questa prospettiva possiamo leggere oggi i testi della liturgia. Lo sguardo si fissa su di un unico punto: Gesù parla e agisce come uno che ha autorità, che ha potere. Potere di che cosa, per che cosa? Chi è Gesù? Come rapportarci a lui? Sono le domande di chi assiste all’episodio della cacciata dei demoni nella sinagoga di Cafarnao. I contemporanei di Gesù avevano a disposizione le Scritture per farsi un’idea di quel personaggio straordinario, affascinante e temuto nello stesso tempo. Dallo stupore iniziale si arriva al timore finale.

La prima lettura riporta la promessa di Mosè al popolo da parte di Dio: “Il Signore, tuo Dio, susciterà per te, in mezzo a te, tra i tuoi fratelli, un profeta pari a me. A lui darete ascolto” (Dt 18,15). Mosè parla al popolo che si accinge a entrare in quella terra promessa che a lui è negata e assicura la guida di Dio al suo popolo, come è stato con lui nel viaggio attraverso il deserto. Il giudaismo posteriore ha scorto in questa solenne promessa di Mosè l’annuncio di un profeta eccezionale, a volte identificato con il Messia, tradizione che riaffiora nei rappresentanti delle supreme autorità giudaiche quando chiedono a Giovanni Battista: “Sei tu il profeta?” (Gv 1,21). Forse possiamo scorgere la stessa allusione nelle parole di Filippo a Natanaele: “Abbiamo trovato colui del quale hanno scritto Mosè, nella Legge e i Profeti: Gesù, il figlio di Giuseppe, di Nazaret” (Gv 1,45).

Ora, a differenza degli altri profeti, la Torà di Mosè dà questa testimonianza: «Ascoltate le mie parole! Se ci sarà un vostro profeta, io, il Signore, in visione a lui mi rivelerò, in sogno parlerò con lui. Non così per il mio servo Mosè: egli è l’uomo di fiducia in tutta la mia casa. Bocca a bocca parlo con lui, in visione e non per enigmi, ed egli contempla l’immagine del Signore» (Nm 12,6-7). Tanto che il libro del Deuteronomio finisce con l’annotazione: “Non è più sorto in Israele un profeta come Mosè, che il Signore conosceva faccia a faccia” (Dt 34,10).

Ecco perché, quando Marco deve presentare Gesù, questo nuovo profeta, si ricollega alla figura di Mosè. Non per nulla i vangeli iniziano al Giordano, collegandosi idealmente alla fine del libro del Deuteronomio e all’inizio del libro di Giosuè. Di Gesù il vangelo di Giovanni dirà: “Perché la Legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo. Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato” (Gv 1,17-18). La prima predicazione cristiana si muove nella stessa scia (cfr At 3,12).

L’annotazione di Marco: “insegnava come uno che ha autorità” tende a definire la singolarità di Gesù con negli orecchi l’eco della ingiunzione di Mosè: “A lui darete ascolto”. Non solo i fedeli gli daranno ascolto, ma anche i demoni! E se gli danno ascolto anche i demoni, allora il regno di Dio è venuto, è in mezzo a noi. Gli astanti nella sinagoga di Cafarnao ancora non lo sanno, ma i lettori del vangelo già lo sanno. Perché Gesù ha questa autorità? Perché è il Figlio di Dio, come è stato testimoniato al battesimo al Giordano e sul monte della trasfigurazione.

A lui darete ascolto” sembra anche che riecheggi nella voce che sigilla la visione della trasfigurazione di Gesù sul Tabor: “Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!” (Mc 9,7). Marco sembra alludere proprio a quel testo del Deuteronomio e comunque la sottolineatura nel brano odierno di un Gesù che ‘parla con autorità’ e ‘ha potere sui demoni’ si rivela nella sua ragione specifica e nella sua potenza se la colleghiamo a quella rivelazione.  É tipicamente l’autorità non di chi parla a nome proprio, per quanto grande sia, ma l’autorità di chi ha tutto il potere e la capacità di svelare il volto di Dio, di rivelare i segreti di Dio. E chi conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare? (cf. Lc 10,22). Ha anche potere sui demoni nel senso di sottrarre alla loro influenza gli uomini e di rimetterli nella luce di Dio. In questo si rivela il suo potere di guarigione, che porterà alla rivelazione del suo potere di rimettere i peccati, cosa che svelerà definitivamente, in lui, come Dio si sia appressato all’uomo. È la novità che suscita stupore, sbalordimento, esultanza, perché il male è vinto e l’uomo ritorna nella signoria di Dio che vuole gli uomini commensali al suo amore e alla sua gioia. Qui pesca l’invocazione della colletta di testimoniare la beatitudine per chi ha accolto la testimonianza di questo Profeta.

Così, presentare Gesù come profeta, il cui insegnamento è nuovo, diverso rispetto a quello degli scribi, porta allusione al mistero dell’intimità tra lui e il Padre. Gesù introduce poco a poco i suoi ascoltatori a questo segreto, nel quale tutta la Scrittura si riassume. Ascoltare le parole di quel profeta significa intuire e percepire quel segreto di intimità con il Padre che tanto ama il mondo da mandare il suo Figlio, tanto che in ogni parola da lui pronunciata, in ogni azione da lui compiuta, si apre l’accesso anche per noi all’intimità da lui goduta. Dire poi che Gesù ha il potere di guarirci, di scacciare dal nostro cuore i demoni, equivale a illustrare il mistero dell’accondiscendenza di Dio per gli uomini da farli partecipi dei suoi segreti, da condividere con loro la gioia del suo amore sempre e comunque.

 

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Quinto ciclo

Anno liturgico B (2014-2015)

Tempo Ordinario

 

V  Domenica

(8 febbraio 2015)

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Gb 7,1-4. 6-7;  Sal 146;  1Cor 9,16-19.22-23;  Mc 1,29-39

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La liturgia proclama il brano di vangelo di oggi da un’angolatura particolare. Considerando la figura di Gesù che guarisce e scaccia i demoni, ne vuole mostrare la radice di autorità con il canto al vangelo, l’urgenza dell’opera con il brano di Giobbe e scava nei cuori lo spazio adatto alla supplica con la colletta. Se il potere del male atterra gli uomini, il potere di Gesù atterra il male e rende gli uomini liberi in solidarietà con lui e fra di loro.

Il canto al vangelo “Cristo ha preso le nostre infermità e si è caricato delle nostre malattie” è ripreso da Mt 8,17 e costituisce la traduzione letterale dall’ebraico di Is 53,4, passo che appartiene al quarto canto del Servo. Matteo fa una rilettura dell’operato di Gesù a partire da una theologia crucis e fonda l’autorità di Gesù nello scacciare i demoni proprio sulla vittoria contro di loro sulla croce. Introdurre il brano di Marco con questa rivelazione profetica significa sottolineare da dove viene la potenza di Gesù, significa invitare a leggere la sua opera, i suoi miracoli, in funzione di quella rivelazione. Dietro l’agire di Gesù, sta un segreto da cogliere. Il miracolo delle guarigioni e la cacciata dei demoni non sottolineano tanto il potere divino di Gesù, ma l’accondiscendenza di Dio, la prossimità di Dio in Gesù all’uomo. E questa dimostrazione è in funzione dello svelamento del segreto di Dio per l’uomo, della rivelazione del suo immenso amore al mondo tramite il Figlio, che ci riporta alla comunione con lui strappandoci dal male.

L’urgenza di questa rivelazione è accentuata dal fatto che l’uomo versa in condizioni di oppressione e di angoscia, di cui il brano di Giobbe mostra tutta la drammaticità. Giobbe non ha accettato la devota spiegazione del dolore che i suoi amici gli hanno dato prendendo le difese di Dio. Giobbe protesta la sua innocenza e si sfoga con il suo Dio. Potremmo riassumere il suo intervento così: non si può comprendere la vita dell’uomo a partire da leggi supreme, ma solo da dentro un rapporto. Non è vero che il tormento dell’uomo rispecchi la giustizia di Dio, come sostengono i suoi amici, ricusati però da Dio stesso alla fine del libro; è vero invece che la giustizia di Dio rimane imperscrutabile ma che lui è accessibile all’uomo e suo salvatore.

Nel dramma, la cosa non è affatto scontata e proprio per rispondere all’angoscia dell’uomo viene descritta l’ansia di Gesù di raggiungere tutti, particolare che imprime una forte accelerazione di movimento a ciò che viene raccontato nel vangelo di oggi. Si tratta di un doppio movimento: una tensione verso tutti, ma anche una tensione per arrivare a Gerusalemme; una tensione per l’allargamento della sua predicazione, ma contemporaneamente la tensione per lo svelamento del suo segreto. In quell’ansia di Gesù, nel suo doppio significato di raggiungere tutti e che tutto il suo segreto si sveli, sta racchiusa l’urgenza della missione della chiesa in tutti i tempi.

Marco sottolinea anche la ricerca di solitudine da parte di Gesù ed è caratteristico che l’evangelista collochi la preghiera di Gesù in rapporto alla sua ansia di raggiungere tutti e di svelare tutto il suo segreto. La preghiera non ha forse a che fare con il desiderio di comunione con gli uomini da parte di Dio prima ancora che essere espressione del desiderio degli uomini di stare in compagnia di Dio? Se gli uomini non percepissero l’eco di quel desiderio di Dio, potrebbero mai pregare davvero? Potrebbero mai essere solidali con i loro fratelli e farsi raggiungere dal Suo amore tanto da essere rinnovati totalmente? Il fatto poi che Gesù si ritiri da solo a pregare esprime proprio l’immensità del desiderio di Dio per l'uomo e quando i discepoli gli annunciano che lo cercano, non torna ma va altrove perché tutti deve raggiungere. E si può leggere anche così: Gesù deve percorrere tutta la terra del nostro cuore; se in qualche parte siamo stati guariti, altre parti attendono la guarigione, fino a che tutto in noi possa risplendere del suo amore salvatore.

La colletta mostra che in Gesù Dio si appressa all’uomo, gli uomini sono liberati dalle loro oppressioni e imparano a vivere solidali, abitati dalla speranza: “ ... rendici puri e forti nelle prove, perché sull'esempio di Cristo impariamo a condividere con i fratelli il mistero del dolore, illuminati dalla speranza che ci salva”. La potenza della supplica deriva dall’intensità della coscienza del male che ci ferisce insieme al desiderio di guarigione che ci attrae al Signore Gesù, solidali in umanità con tutti. La preghiera si risolve nel desiderio di sperimentare l’amore salvatore di Dio, non però nel senso di essere preservati dagli effetti dell’azione dei demoni (il male non scompare e non scomparirà dalla scena del mondo) ma nel senso di non essere più asserviti ai loro scopi perversi. A tal punto che, proprio quando il male sembrerà prevalere, come con il Signore Gesù in croce, esso sarà definitivamente vinto perché svuotato del suo scopo perverso, cioè quello di dividere gli uomini da Dio e tra di loro.

 

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Quinto ciclo

Anno liturgico B (2014-2015)

Tempo Ordinario

 

VI  Domenica

(15 febbraio 2015)

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Lv 13,1-2.45-46;  Sal 31;  1Cor 10,31-11,1;  Mc 1,40-45

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I testi biblici parlano di lebbra, le preghiere di peccato. Questa è la corrispondenza da cogliere, intuendo la natura del peccato nell’orrore della lebbra.  E la corrispondenza risalta a partire dalla compassione di Gesù che rinnova lo scenario interiore in cui vivere la vita.

Il lebbroso aveva un terribile statuto particolare. Dice il libro del Levitico: “Il lebbroso colpito da piaghe porterà vesti strappate e il capo scoperto; velato fino al labbro superiore, andrà gridando: ‘Impuro! Impuro! Sarà impuro finché durerà in lui il male; è impuro, se ne starà solo, abiterà fuori dell’accampamento” (Lev 13,45-46). Davanti al lebbroso che si fa avanti e si presenta a Gesù contravvenendo alla legge, antichi codici riportano la lezione: ‘sdegnato’, invece che la lezione ‘ne ebbe compassione’. Nel caso del lebbroso, la sua malattia comportava direttamente una impurità tanto da venir separato dalla comunità. Oltre il peso sociale dell’esclusione, la lebbra comportava l’esclusione dal culto, dall’accesso alla santità di Dio che la Legge definiva in termini di partecipazione alla vita del popolo santo di Dio e al culto del vero Dio. Quando Gesù guarisce il lebbroso, non guarisce semplicemente un malato, ma modifica radicalmente la condizione interiore del malato restituendolo ad una vita santa. Proprio qui si mostra il prodigio che Gesù opera, che va ben al di là di quella guarigione.

La vita santa, quella in rapporto alla santità di Dio goduto nel suo desiderio di comunione con noi, non è più definita secondo i termini della legge. La discriminante tra santo e non santo si sposta e i confini sono radicalmente cambiati perché Dio si è fatto prossimo a noi nella sua compassione. Il nesso guarigione/purificazione, da leggere in rapporto alla beatitudine: “beati i puri di cuore perché vedranno Dio”, acquista  la luminosità della tenerezza di Dio che libera e ci rende capaci a nostra volta di tenerezza luminosa per l’uomo.

Nel racconto parallelo di Matteo, Gesù guarisce il lebbroso subito dopo la discesa dal monte delle beatitudini, dove con forza aveva proclamato il suo Regno. E le beatitudini sono la rivelazione della fraternità in Dio, quando veniamo guidati dallo Spirito Santo. Guarire dalla lebbra vuol dire allora ricevere la rivelazione che è giunto a noi il regno di Dio, vuol dire che possiamo tornare a non avere paura di Dio e del prossimo, vuol dire ritornare a vivere in umiltà e mitezza, in libertà e gratuità, toccati da Dio.

In quel ‘Lo voglio’ proferito da Gesù non è da leggere soltanto la compassione del Signore per un uomo malato e angosciato, ma l’ansia di riportare il regno di Dio nel cuore dell’uomo, la fretta e l’ardore di mostrare come l’amore di Dio che raggiunge i cuori fa risplendere in modo nuovo l’umanità che li sostanziano. È come se dicesse: ‘ardo dal desiderio di mostrarvi quanto è grande l’amore del Padre’, ‘bramo che il suo amore vi raggiunga’, ‘voglio che la vostra umanità risplenda di tutta la sua luce’. Nel suo volere va letto il desiderio di compiere il disegno del Padre, di riscattare gli uomini non dalle malattie, ma dal peccato, di cui la malattia della lebbra era il segno per eccellenza. Tanto che quando il Signore Gesù si presenta, nella sua Passione, come uomo dei dolori, sono le parole del profeta a risuonare, accorate ma tremende: “Non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per poterci piacere. Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia ...” (Is 53,2-3). Sono le parole confacenti a un lebbroso. Il Signore si è addossato i nostri mali da portarne tutto l'orrore, come un lebbroso.

La colletta ci fa pregare: "Risanaci, o Padre, dal peccato che ci divide e dalle discriminazioni che ci avviliscono". Dividere e avvilire sono le due caratteristiche della malattia della lebbra. Chi ne era affetto era allontanato dal consorzio degli uomini perché impuro, capace cioè di contagiare col suo male. I peccati nostri hanno lo stesso destino: insidiano la fraternità, irrigidiscono i rapporti, contaminano il cuore da renderlo inaccessibile al cuore degli altri, separano ed opprimono, impediscono al Volto di Dio di risplendere. Per questo il peccato è orribile: rende la vita paurosa e temibile. Così la purità, con Gesù, viene definita come spazio luminoso, spazio che torna a risplendere (=guarigione) per rapporti fraterni pacifici, dove il Padre è visto nel suo amore per noi. Ad occupare l’atmosfera del cuore non c’è più l’immondezza dei demoni, ma lo splendore del Figlio di Dio che permette all’umanità di compiersi finalmente e glorificare così il Padre.

Quando il lebbroso guarito, nonostante l’invito contrario di Gesù, non riesce a frenare il bisogno di annunciare a tutti la sua guarigione, il testo annota: “si mise a proclamare e a divulgare il fatto”. In realtà però il testo dice semplicemente: “si mise a proclamare e a divulgare la parola”. È la parola di Gesù diventata per lui fatto. Non si annunciano semplicemente parole, ma fatti che rivelano la potenza della parola. Quello che parla ai cuori sarà sempre la Parola, capace di operare in chi ascolta le stesse cose meravigliose di cui porta testimonianza chi annuncia.

Per questo la preghiera caratteristica della liturgia di oggi è il salmo 32: “Beato l'uomo a cui è tolta la colpa e coperto il peccato. Beato l’uomo a cui Dio non imputa il delitto e nel cui spirito non è inganno ... Confesserò al Signore le mie iniquità e tu hai tolto la mia colpa e il mio peccato”. L’audacia del lebbroso che, contravvenendo alla legge, si avvicina a Gesù, corrisponde nel salmo all’audacia del peccatore che decide di manifestare il suo peccato. La compassione di Gesù che ottiene la guarigione/purificazione del lebbroso corrisponde alla misericordia perdonante di Dio che fa la beatitudine del peccatore, il quale ritrova la gioia dell’alleanza con il suo Signore. E i Padri commentano: “Brevissima è la regola: piace a Dio colui cui piace Dio” (Agostino); “Lui che si dispiace di se stesso soddisfa il Signore poiché quando noi ci scontriamo con noi stessi cerchiamo la verità, ma quando noi cerchiamo di lodare noi stessi le nostre parole sono piene di falsità” (Cassiodoro); “Una persona retta accusa se stessa sin dall’inizio del suo discorso” (Evagrio Pontico). Senza dimenticare che, se l’uomo arriva a manifestare il suo peccato, è perché la misericordia di Dio già ha lavorato il suo cuore, che è pronto a tornare luminoso.

 

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Quinto ciclo

Anno liturgico B (2014-2015)

Tempo di Quaresima

 

I  Domenica

(22 febbraio 2015)

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Gn 9,8-15;  Sal 24;  1Pt 3,18-22;  Mc 1,12-15

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La colletta del mercoledì delle ceneri riconduceva la disciplina penitenziale quaresimale al processo di una vera conversione del cuore: “O Dio, nostro Padre, concedi al popolo cristiano di iniziare con questo digiuno un cammino di vera conversione”. L’antica colletta della prima domenica di quaresima orienta gli sguardi per poter ottenere quella conversione: “O Dio, nostro Padre, con la celebrazione di questa quaresima, segno sacramentale della nostra conversione, concedi a noi tuoi fedeli di crescere nella conoscenza del mistero di Cristo e di testimoniarlo con una degna condotta di vita”. Fin dall’inizio del cammino, tutto è orientato a quel Signore Gesù, che per noi ‘patì, morì, fu sepolto, risuscitò, rendendoci il suo Spirito’.

Subito la liturgia pone davanti agli occhi il brano delle tentazioni di Gesù nel deserto, come a sottolineare l’aspetto drammatico della vita in Dio. Tanto più se consideriamo che il brano delle tentazioni, assai sintetico in Marco, più narrativo in Matteo e Luca, è strettamente collegato al battesimo di Gesù. È come se la ragione della tentazione fosse fatta consistere nella verifica esistenziale dell’affermazione: “Tu sei il Figlio mio, l’amato; in te ho posto il mio compiacimento” (Mc 1,11) che era risuonata al Giordano. Noi facciamo fatica a leggere le tentazioni e le prove della nostra vita in un’ottica positiva, nell’ottica dello Spirito. In effetti, la tentazione non deriva primariamente dal peccato, come fosse una semplice eredità del peccato. Se così fosse, Gesù non sarebbe stato tentato perché non aveva peccato; Adamo non sarebbe stato tentato perché godeva della comunione con Dio. La tentazione ha a che fare con la capacità di vivere una relazione fino in fondo, fino a farla maturare in tutta la potenzialità di amore e di gioia che comporta, fino a condividere quell’amore e quella gioia con tutti, nonostante la fatica e l’afflizione che costituiscono come lo sfondo dal quale emerge appunto lo splendore dell’amore.

Rispetto a Gesù, le tentazioni sono tese a confermarlo dalla parte di Dio anche nella scelta delle modalità con cui rivelare la potente salvezza divina, senza cedere ad alcun altro tipo di gloria, umana o mondana, che l'avrebbe asservito al diavolo. Gesù, come Messia, serve Dio senza che in lui si possa trovare qualcosa che appartenga a questo mondo. Ha vinto il mondo perché il demonio non ha trovato in lui nulla che gli appartenesse (cfr. Gv 14,30). La vita sua, quindi, che sgorgava totalmente dal Padre, la ridà a noi con il suo Spirito perché anche la nostra vita, non custodendo più pegni del demonio, possa manifestare l’amore di Dio al mondo.

E quando alla fine Marco sottolinea che Gesù "stava con le bestie selvatiche e gli angeli lo servivano", possiamo leggervi l’allusione al paradiso ritrovato, come descritto da Gen 1,28 e profeticamente preannunciato da Is 11,6-9. Richiama tutta la tensione quaresimale della chiesa, consapevole che quel paradiso sarà accessibile a partire dalla gloria che risplende dalla croce. In quella tensione trovano posto tutte le pratiche tipiche della quaresima: preghiera, digiuno, elemosina.

Pratiche, che Gesù aveva esortato a fare non davanti agli uomini, ma nel segreto, per ricercare solo la ricompensa presso il Padre (cfr. Mt 6,1-6.16-18). Come ci dicesse: non temete, non avete bisogno di tirare dalla vostra parte il Signore, perché non ci si può fare grandi in nome suo. Lui è già tutto dalla vostra parte e se voi vi accorgete del suo amore per voi, se voi vi lasciate inondare dal suo dinamismo di amore per voi, il vostro cuore si sazierà e non potrà ricercare e condividere nient’altro che quella sazietà. Se vogliamo farci grandi è perché tutto è visto in funzione di noi stessi, divoratori di un mondo in cui cerchiamo affannosamente l’affermazione di noi stessi senza accorgerci che divorando il mondo produciamo, per noi e gli altri, solo angoscia di morte. Se l’esperienza dell’amore è così affascinante ma contemporaneamente drammatica è perché intuiamo che l’amore costituisce la risposta al bisogno di affermazione di sé, ma che viverlo in verità comporta la rinuncia più totale a quel dinamismo perverso dell’affermazione di sé incondizionata. L’invito alla conversione del cammino quaresimale si colloca qui.

Per quanto tutto ciò sia altamente desiderabile, dobbiamo riconoscere che non sappiamo, nel concreto della nostra vita, riconoscere la via per realizzarlo. Ecco allora la preghiera insistente del salmo responsoriale: “Fammi conoscere, Signore, le tue vie, insegnami i tuoi sentieri .. guidami … istruiscimi … ricordati, Signore, della tua misericordia e del tuo amore che è da sempre. Ricordati di me nella tua misericordia, per la tua bontà, Signore” (Sal 24).  Sarà guardando a Gesù che verremo istruiti, guidati, messi in condizione di compiere i desideri grandi che portiamo dentro.

Gesù inizia la sua predicazione proclamando: “Convertitevi e credete nel Vangelo”. Ma qual è il vangelo annunziato da Gesù se non la rivelazione dello splendore dell’amore del Padre per gli uomini, come poi la conclusione del cammino quaresimale, nella celebrazione della Pasqua, farà scoprire? E la novità evangelica, perenne novità divina per l’uomo, novità che risulterà sempre tale rispetto a tutto ciò che il mondo può produrre, è proprio quella di mostrare lo splendore dell’amore di Dio nell’umanità. Nell’umanità risplende la presenza di Dio. Le opere quaresimali sono opere penitenziali solo quando e se portano a liberare il cuore da ogni intralcio perché il dinamismo di questa rivelazione del Figlio di Dio si esprima anche in me, nella mia umanità, e possa così far risplendere la presenza del suo amore in questo mondo. Il digiuno libera il cuore dall’asservire il mondo al corpo e al suo piacere; l’elemosina libera il cuore dalla prevaricazione contro gli altri imparando a stare solidali in umanità; la preghiera libera il cuore dall’illusione del mondo per volerlo trasfigurato dalla luce di Dio.

 

Buon cammino quaresimale a tutti.

 

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Quinto ciclo

Anno liturgico B (2014-2015)

Tempo di Quaresima

 

II  Domenica

(1 marzo 2015)

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Gn 22,1-2.9a.10-13.15-18;  Sal 115;  Rm 8,31b-34;  Mc 9,2-10

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La colletta del martedì della prima settimana di quaresima definiva bene il senso della conversione: “Volgi il tuo sguardo, Padre misericordioso, a questa tua famiglia e fa che superando ogni forma di egoismo risplenda ai tuoi occhi per il desiderio di te”. Oggi, la liturgia, facendoci contemplare il volto di Gesù risplendente di luce luminosissima, un volto bellissimo, rende ragione del desiderio che abita il nostro cuore e canta con l’antifona di ingresso: “Di te dice il mio cuore: ‘Cercate il suo volto’. Il tuo volto io cerco o Signore”.

A differenza però di quello che ci attenderemmo, la liturgia non insiste sulla visione del volto di Gesù trasfigurato, ma sulla tensione che quella rivelazione comporta. La colletta sottolinea, ad esempio: “O Dio, Padre buono, che non hai risparmiato il tuo Figlio unigenito, ma lo hai dato per noi peccatori …”. Nel brano della Genesi, che riporta il dramma di Abramo per il sacrificio del figlio Isacco, leggiamo: “Giuro per me stesso, oracolo del Signore: perché tu hai fatto questo e non hai risparmiato tuo figlio, il tuo unigenito …”. Stessa sottolineatura nel grido dell’apostolo: “Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi, non ci donerà forse ogni cosa insieme a lui?”.

Non solo, ma la gloria che la liturgia declina non si riferisce alla bellezza del volto di Gesù, ma all’amore del Padre che in lui rifulge e dalla cui sorgente deriva tutto lo splendore che si manifesta nella persona di Gesù. Da una parte, è come se gli occhi umani fossero resi capaci di vedere l’oltre della figura di Gesù, quell’oltre che pesca nella incommensurabile bellezza e profondità divina, a noi nascosta, ma per noi vitale. Dall’altra, nulla si svolge secondo la nostra immaginazione. Se i pittori di icone non si fossero sprofondati nella contemplazione del brano evangelico, non avrebbero mai dipinto la scena con i discepoli atterrati, come scaraventati a terra, spaventati, di fronte a un Gesù splendente di luce che fuoriesce dalle profondità divine e che bagna con la sua luce tutto il mondo. Pietro proclama che per lui era bello stare lì, ma il testo continua dicendo che era come fuori di sé dallo spavento. Compaiono, accanto a Gesù, Elia e Mosè in atto di conversare con lui, ma, come specifica l’evangelista Luca, il tema della conversazione era la morte di Gesù. Perché questi accostamenti drammatici?

Nel vangelo di Marco il brano della trasfigurazione sul Tabor è posto al centro del suo tessuto narrativo. Gesù era appena stato riconosciuto da Pietro come Figlio di Dio, ma contemporaneamente aveva svelato il suo esito messianico, che cioè avrebbe dovuto soffrire molto, essere ucciso e risuscitare. Non solo, ma aveva ricordato ai discepoli che, se quella era la via del Maestro, non si immaginassero di seguire un’altra via: “Se qualcuno vuol venire dietro di me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce…”. I discepoli Pietro, Giacomo e Giovanni sono gli stessi che vedranno di Gesù il volto sanguinante, teso e stravolto dalla sofferenza, al Getsemani. I discepoli hanno visto il volto trasfigurato di Gesù sul Tabor perché imparassero a riconoscerlo nella sofferenza della passione, quando hanno dovuto rimirare non l’oltre, ma come l’al di qua della figura, non il volto trasfigurato, ma il volto sfigurato. I vangeli e la tradizione tengono collegate le due esperienze. Quale il senso?

Lo illustra assai bene Leone Magno nella sua omelia LI : “Una tale trasformazione tendeva principalmente a rimuovere dal cuore dei discepoli lo scandalo della croce, sicché l'umiliazione della passione, volontariamente accettata, non venisse a turbare la fede di chi aveva contemplato l'eminente dignità, seppur nascosta, del Cristo. Intanto, secondo un disegno altrettanto previdente, era dato fondamento alla speranza della santa Chiesa, nel senso che tutto il corpo di Cristo veniva a conoscere quale trasformazione avrebbe ricevuto in dono e le singole membra potevano scambiarsi la promessa di compartecipazione all'onore che risplendeva nel loro capo”.

Come Dio promette ad Abramo, sarà il dono del Figlio da parte di Dio all'umanità che costituirà la fonte di ogni benedizione, per tutti, per sempre. Non si pensi però che il dono del Figlio all'umanità da parte del Padre sia in funzione semplicemente di un riscatto, di un sacrificio espiatorio. Il valore del dono è in funzione della grandezza dell'amore e se il Figlio testimonia questo amore fino alla morte non è per essere vittima sacrificale, ma solo per la fedeltà all'amore che non viene meno nemmeno davanti all'oltraggio e all'ingiustizia. Ed è nella corrente di questo dono che i discepoli di Gesù sono chiamati a lasciarsi trascinare, fruitori in ciò di quel “vedere il regno di Dio venire con potenza” (Mc 9,1), che introduce proprio il racconto della trasfigurazione.

Qui si comprende allora il cammino quaresimale, che è lotta perché sia superata ogni forma di egoismo e il cuore viva del desiderio del Cristo. Egoismo è tutto ciò che ci impedisce di essere toccati dall’amore di Dio, tutto ciò che si sovrappone al desiderio del Cristo rinnegandolo e, di conseguenza, rinnegando il nostro stesso cuore e dividendoci dai fratelli.

Con la liturgia di oggi, nell’insieme delle sfumature con cui presenta il mistero della trasfigurazione, incontriamo Dio come un amante così implicato nella vita da non rifuggirla mai, da assicurarcela sempre, in totale abbondanza. Se su Gesù risiede tutta la compiacenza del Padre, come dice la voce a sigillo della visione sul Tabor, è perché lui farà vedere l’amore del Padre per gli uomini con tale radicalità e assolutezza da implicare tutta la sua vita fino alla morte, morte che segnerà proprio il trionfo dell’amore come sorgente di vita per chiunque lo riconoscerà. Il dramma nostro invece è dato dal fatto che neppure davanti a Lui ci lasciamo convincere che l’amore di Dio è per noi, che l’amore suo è vita vera per noi, che l’amore diventi vita vissuta. Vorremmo che Dio con il suo amore ci beatificasse senza dover spendere la vita in amore per tutti perché il Suo amore risplenda. Quale stoltezza! Il cammino quaresimale, con l’invito alla conversione, punta proprio a renderci permeabili dall’amore di Dio in Gesù che si fa radice di vita, misura di vita.

Cercare di ascoltare Gesù, di seguirlo mettendo in pratica le sue parole, è come entrare anche noi nella stessa compiacenza che gode da parte del Padre, compiacenza che in altro non consiste se non nel godimento di una vita che è diventata espressione di amore, tanto che non si vuole altra vita se non quella che provenga e conduca ad un amore capace di far risplendere il volto degli uomini. Ma se si vede risplendere quella luce, allora Dio è con noi, il mondo può risplendere della sua presenza.

 

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Quinto ciclo

Anno liturgico B (2014-2015)

Tempo di Quaresima

 

III  Domenica

(8 marzo 2015)

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Es 20,1-17;  Sal 18;  1Cor 1,22-25;  Gv 2,13-25

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La liturgia oggi collega la santità della Legge alla santità del Luogo dove celebrarla, che non è più il tempio di pietra, ma il corpo del Signore Gesù, nel quale “abita corporalmente tutta la pienezza della divinità” (Col 2,8). L’episodio della cacciata dei venditori dal tempio ne è la profezia e il simbolo contemporaneamente. Il racconto di Giovanni comporta molte allusioni all’attesa del Messia. Chiama la festa ‘pasqua dei giudei’ (e continuerà a chiamarla così fino al cap 11,55) per distinguerla dalla ‘pasqua’ che Gesù stesso vivrà, come compimento della ‘pasqua del Signore’ descritta in Es 12,11. Gesù costruisce una frusta di cordicelle, che corrisponde al flagello messianico, secondo antichi racconti ebraici, nella sua opera di purificazione dal male e che riprende due tradizioni profetiche, quella di Zaccaria 14,21 (“In quel giorno non vi sarà neppure un mercante nella casa del Signore degli eserciti”) e di Malachia “Ecco, io invierò il profeta Elia prima che giunga il giorno grande e terribile del Signore”). Quando Gesù risponde ai capi che gli chiedono un segno di autenticazione della sua autorità, dice: “Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere”. Il termine che usa, però, non è ‘tempio’ riferito al complesso degli edifici (Gesù scaccia i venditori dal recinto del tempio, luogo al quale anche i pagani potevano accedere) ma alla cappella interna, al ‘Santo dei santi’ dove era creduta sussistere la Presenza. Riprende l’immagine della tenda nel deserto, luogo della Presenza del Signore.

Se gli apostoli si ricordano del salmo 69,10: “mi divora lo zelo per la tua casa”, applicandolo a Gesù, non per questo riescono a cogliere il significato vero dell’azione di Gesù. La interpretano ancora nell’ottica del Messia restauratore della santità del Tempio e della Legge, come del resto faranno gli altri di cui si dice che credono in Gesù ma di cui Gesù non si fida. Nessuno è ancora pronto a riconoscere la portata vera di ciò che intende Gesù. Solo con la sua Pasqua tutto si potrà vedere in modo aperto e vero. Solo con la sua Pasqua la santità della Legge si compirà in ‘grazia e verità’, secondo la grandezza dell’amore misericordioso del Signore che attira tutti a Sé. Solo allora risulterà fondante di ogni possibile santità la fede in quel Gesù che, come esprime il canto al vangelo riprendendo una sua espressione nel colloquio con Nicodemo: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito”.

Nella presentazione delle Dieci Parole nel libro dell’Esodo, l’espressione che dà fondamento e senso a tutte le parole è quella iniziale: “Io sono il Signore, tuo Dio”. Senza l’esperienza di quel ‘tuo Dio’ non sarà possibile accogliere e vivere nella sua estensione la serie dei comandamenti. Quel ‘tuo’ si riferisce ad una esperienza tipica: la liberazione dalla condizione servile, la liberazione dalla schiavitù dell’Egitto. Se applichiamo quella solenne dichiarazione: “Io sono il Signore, tuo Dio” al Signore Gesù che con la sua morte e risurrezione ci ha liberati dal male e dalla schiavitù del peccato, allora tutte le parole del Signore suoneranno con altra risonanza nel nostro cuore.

Il ritornello del salmo lo sottolinea con le parole di Pietro in risposta alla tristezza di Gesù per l’incomprensione del suo parlare: “Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna” (Gv 6,68). E il salmo 18, soprattutto nella sua redazione greca della LXX, scolpisce a fuoco nel cuore il senso di quella fiducia nel Signore Gesù e nella sua parola di vita. Accogliendo quel Figlio, dato a noi nella sua morte e risurrezione, il suo comandamento ci riporta a integrità e armonia nel nostro essere (è immacolato), con la sua sapienza dall’alto ci fa bambini desiderosi del Padre e del suo Regno (è fedele), infonde gioia al cuore (è retto), ci ridà uno sguardo luminoso per tutto e per tutti (è splendente), in modo da farci vivere i giudizi del Signore nella nostra vita come espressione del suo amore misericordioso di cui aneliamo l’esperienza. E siccome tutto questo lo viviamo in fragilità e precarietà, restiamo umili domandando di essere liberati dal male che non riusciamo a padroneggiare o a vedere, cercando di tenerci sempre alla sua presenza, nella verità della sua parola che sempre parla al nostro cuore.

La conferma della sapienza dall’alto, che apre a noi la verità della sua parola, si fonda sull’apertura di credito alla dinamica di rivelazione di Gesù, come ci suggerisce la seconda lettura della lettera di Paolo ai Corinzi: “Infatti ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini” (1Cor 1,25). È proprio quella ‘debolezza’ che i capi dei giudei non hanno compreso, che i discepoli hanno stentato molto a comprendere, che i nostri cuori temono perfino di comprendere ma che costituisce l’unica via di grazia per l’esperienza dell’amore di Dio.

Come canta l’antifona d’ingresso, da dentro l’accoglimento della ‘debolezza’ di Dio in Gesù, possiamo dire: “I miei occhi sono sempre rivolti al Signore…”. I nostri occhi sono rivolti al Signore per cercare in ogni evento la traccia del suo passaggio al fine di seguirlo e poterlo conoscere; per cercare in ogni pensiero la scintilla divina che attiri a lui e apra uno spazio di visione del suo volto. Il fatto che i nostri occhi siano rivolti al Signore esprime la tensione del cuore che non si perde nelle cose, ma delle cose cerca il senso; che non si confonde con i suoi pensieri, ma li apre al sogno che racchiudono per compierli in verità. Sarà la Pasqua del Signore per noi.

 

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Quinto ciclo

Anno liturgico B (2014-2015)

Tempo di Quaresima

 

IV  Domenica

(15 marzo 2015)

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2Cr 36,14-16.19-23;  Sal 136;  Ef 2,4-10;  Gv 3,14-21

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La prima lettura, tratta dal secondo libro delle Cronache, si conclude con l’invito ai deportati in Babilonia a salire a Gerusalemme e tornare a godere dell’alleanza che Dio rinnova loro. Questa pagina conclude la terza parte, denominata Scritti, della Bibbia ebraica; è l’ultima pagina della Bibbia secondo la disposizione del canone ebraico. La liturgia di oggi collega il salire a Gerusalemme, così tipico della tensione dell’anima e della storia degli ebrei, con il salire di Gesù alla città santa per la sua Pasqua, per l’esaltazione sulla croce, argomento del suo colloquio con Nicodemo. L’alleanza di Dio con il popolo è rivisitata con l’immagine dell’offerta della salvezza in Gesù da parte del Padre che “ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito”, come proclama il canto al vangelo.

La grandezza di questo amore per il mondo da parte del Padre si manifesta proprio nell’innalzamento di Gesù. Ma quell’innalzamento corrisponde al suo essere crocifisso. Mistero, che assai più tardi, l’apostolo Giovanni nella sua prima lettera definisce così: “In questo abbiamo conosciuto l’amore, nel fatto che egli ha dato la sua vita per noi; quindi anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli” (1Gv 3,16). L’espressione ‘ha dato la vita’, letteralmente dovrebbe rendersi: ‘ha posto la sua anima’, che richiama il passo di Is 53,12: “ha spogliato se stesso fino alla morte”.

La sfumatura di significato risulta essere ormai questa. Gesù non solo ha dato la vita per noi, ma ha dato la vita a noi, quella vita che nemmeno l’ingiustizia più obbrobriosa, la violenza più ignominiosa, riesce a scalfire, a mortificare, a sopprimere, perché quella vita è amore effuso. Quell’amore deriva dall’alto, da Dio, che così svela il suo segreto per il mondo. Gesù ne dà testimonianza con due allusioni: la prima, al sacrificio di Abramo del figlio Isacco, l’unico, l’amato, (Gen 22,2) [ciò che ad Abramo Dio risparmia, Dio lo vive fino in fondo] e la seconda, al serpente di bronzo secondo la narrazione di Numeri 21,4-9. Come il serpente di bronzo innalzato nel deserto recava guarigione (letteralmente: vita) a coloro che l’avessero guardato, così sarà di Gesù quando sarà innalzato sulla croce. Gesù sta istruendo Nicodemo; lo sta introducendo al mistero di Dio, al mistero dell’immenso amore di Dio per l’uomo che in Gesù riceve il suo sigillo definitivo, ultima e ultimativa rivelazione di Dio. La forza del ragionamento di Gesù sta in un particolare: l’altezza, il fatto che per dare salvezza Gesù debba essere innalzato. Questo particolare nasconde la modalità della rivelazione di Dio e costituisce perciò per l’uomo l’accesso a quella rivelazione. È da quell’altezza che ci viene la vita eterna, perché da quell’altezza si rivela in tutto il suo splendore l’amore del Padre per l’uomo e l’intimità del Figlio con Lui che di quello splendore è il testimone per eccellenza. Perché quell’altezza? Di cosa parla quell’altezza?

Spesso gli antichi crocifissi, al posto dell’iscrizione di condanna (in latino, INRI= Gesù nazareno re dei giudei) portavano il titolo ‘re della gloria’. È la gloria di un amore che manifesta la sua radice dall’alto proprio quando dal basso viene vilipeso e calpestato. È la gloria di un amore che rimane libero nel suo dono proprio quando è rifiutato e negletto. Ma, come dice Gesù: “Nessuno è mai salito al cielo fuorché il Figlio dell’uomo che è disceso dal cielo”. Da interpretare oramai: non si può salire al cielo se non discendendo. L’innalzamento della croce mostra la reale discesa di Dio fino all’uomo, fino a consegnarsi all’uomo, fino a star sottomesso all’uomo che lo tradisce e lo calpesta. E proprio perché custodisce la sua divinità nell’essere calpestato, rivela tutta la potenza di un’umanità che è irraggiamento dello splendore di Dio, un’umanità che tutta si muove nell’amore perché sia vinto l’odio, perché il mondo torni ancora a risplendere della presenza di Dio. Così anche per noi non esiste altro modo di salire a Dio se non quello di discendere, di stare sottomessi perché risplenda l’amore di Dio. Quando s. Francesco di Assisi parla di perfetta letizia allude proprio a questo mistero.

Operare la verità (“chi fa la verità viene verso la luce”) è un’espressione semita che si riferisce al fatto di mettere in pratica i comandamenti. Ma la sfumatura essenziale di significato è: i comandamenti non sono causa di meriti, ma autorivelazione di Dio che partecipano, all’uomo che li accoglie, la Sua stessa vita, che è amore per noi. Ciò significa che i comandamenti ci aiutano a ritrovare quella ‘umanità’, rivelata dal Signore Gesù, che costituisce la vocazione dell’uomo e che in Gesù riceve il suo sigillo. Se Dio risplende nell’umanità perché sta sottomesso all’uomo fino a farsi calpestare senza lasciarsi distrarre dal suo amore di benevolenza, anche l’uomo vedrà lo splendore di Dio se sta sottomesso ai suoi fratelli senza lasciarsi vincolare da ingiustizie o malvagità pur di non uscire dall’amore. E se avrà lo sguardo fisso su Colui che di quell’amore, ferito e appassionato, è il testimone per eccellenza, potrà rimanere nel Suo amore nei tormenti dell’esistenza e far fiorire l’umanità.

Se Gesù si premura di ricordare a Nicodemo e ai suoi discepoli che il Figlio dell’uomo deve essere innalzato, vuol dire che si tratta di un evento che non risponde alle nostre attese, che noi non avremmo mai immaginato si dovesse passare per quella strada, perché comporta la rivelazione di un segreto di Dio. E non solo di un segreto nel senso che ci fa conoscere qualcosa che fino ad allora non era noto, ma di un segreto nel senso che caratterizza l'intima vita di Dio e quindi caratterizzerà l'intima vita dei suoi figli. Se Gesù deve essere innalzato, deve morire in croce, non è solo in ragione del peccato dell'uomo, ma della manifestazione del segreto della vita divina che a tutti verrà comunicata in modo da vivere di quella pienezza che appartiene solo a Dio. Gesù è l'Agnello immolato fin dalla fondazione del mondo, come suggerisce il testo dell'Apocalisse 13,8 letto secondo la volgata (“in libro vitae Agni, qui occisus est ab origine mundi”). Il mistero adombrato dalla Parola di Dio è che la sofferenza non è legata al peccato, ma al dono dell'essere da parte di Dio, alla creazione stessa e quindi alla natura della stessa vita trinitaria che Gesù è venuto a svelarci e a comunicarci perché ne diventiamo partecipi e possiamo così non subire più la morte.

L’aspetto straordinario di questa rivelazione è svelato da Paolo nella sua lettera agli Efesini: “Siamo infatti opera sua, creati in Cristo Gesù per le opere buone, che Dio ha preparato perché in esse camminassimo” (Ef 2,10). Significa che quando facciamo il bene accogliamo l’amore eterno di Dio nello spazio del nostro tempo perché la sua presenza risplenda nella nostra umanità. E se potessimo vedere che tutto nella nostra vita è finalizzato a questo, beati i nostri occhi e beato il cuore capace dei segreti di Dio!

 

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Quinto ciclo

Anno liturgico B (2014-2015)

Tempo di Quaresima

 

V  Domenica

(22 marzo 2015)

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Ger 31,31-34;  Sal 50;  Eb 5,7-9;  Gv 12,20-33

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L’antica colletta fa pregare: “Vieni in nostro aiuto, Padre misericordioso, perché possiamo vivere e agire sempre in quella carità, che spinse il tuo Figlio a dare la vita per noi”. È la prospettiva nella quale ascoltare la proclamazione della parola in questa liturgia di quaresima, ormai prossimi alla festa di Pasqua.

Gesù era stato accolto a Betania con la tenerissima e misteriosa unzione di Maria; era appena entrato trionfante in Gerusalemme; la notizia della risurrezione di Lazzaro correva sulla bocca di tutti e tutti accorrevano per vedere l'uno e l'altro. Si era in prossimità della festa di pasqua quando salivano a Gerusalemme non solo gli ebrei ma anche i pagani simpatizzanti di Israele, i proseliti. Le autorità del popolo avevano già decretato la morte di Gesù.

L’ora di Gesù scatta con la richiesta dei gentili a Filippo: “Signore, vogliamo vedere Gesù”. Vedere Gesù vuol dire vedere il Salvatore, vedere il Dio che salva. E in effetti, la risposta di Gesù allude a questo. Parla di glorificazione, di innalzamento, ma si riferisce alla sua morte in croce.

Siamo di fronte al segreto di Dio che si apre allo sguardo dei suoi figli. “Adesso l’anima mia è turbata; che cosa dirò? Padre, salvami da quest’ora? Ma proprio per questo sono giunto a quest’ora! Padre, glorifica il tuo nome”. Il vangelo di Giovanni non parla dell’angoscia del Getsemani. Qui la lascia intravedere, eco delle parole dei salmi 6,3 e 41,6-7: “trema tutta l’anima mia”, “in me si rattrista l’anima mia”. L’intensità dell’angoscia di Gesù, condivisa dal Padre, raccoglie in un punto supremo la sua umanità che si abbandona al Padre nel suo amore per gli uomini. È questo amore condiviso con il Padre e con gli uomini che permetterà a Gesù di attirare tutti alla salvezza e scacciare il principe di questo mondo, vale a dire dare la vita nella morte, ricevere la vita nella morte. Quando Gesù, al culmine della sua angoscia, prega: “Padre, glorifica il tuo nome” manifesta tutta la sua intimità con il Padre, tanto che chiede al Padre di far splendere l’amore suo in lui in tutta la sua potenza, perché il nome del Padre è proprio Gesù, il volto visibile del Padre.

Gesù si paragona al chicco di grano che, caduto in terra, muore e porta frutto. Il paragone era usato sia nella tradizione rabbinica che poi in san Paolo come immagine della risurrezione. L’immagine non verte sulla abbondanza del frutto, ma sulla qualità del frutto, che designa la potenza di una vita non più mortificabile, non più soggetta alla morte, quella vita che il Signore ci rende perché ci fa partecipi della sua, in intimità con il Padre. E la vita che non è più soggetta alla morte è lo splendore di un amore che nessuna ingiustizia e violenza piega o mortifica. Per questo Gesù continua nella sua spiegazione con la massima dell’amare o dell’odiare la propria vita: “Chi ama la propria vita, la perde [la distrugge] e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna”. Odiare, contrapposto ad amare, ha il significato di non considerare come un valore supremo. Ne deriva il significato: chi non teme nemmeno la propria morte è sovranamente libero, per amare totalmente. Chi non teme la propria morte disarma il potere perverso del male e lo caccia fuori dal mondo, cioè lo esclude dalla vita. Evidentemente, non si tratta di un’azione puntuale, ma di un processo, secondo il paragone del chicco di grano che porta frutto, perché interessa tutto il corso della vita.

E come è di Gesù, così sarà del suo discepolo. Se Gesù è nell’amore del Padre per i suoi figli, così anche i discepoli saranno nell’amore di Gesù per tutti, godendo di quella vita in Dio che è splendore di amore per noi. ‘Servire’, ‘seguire’, hanno il valore di essere messi a parte del segreto di Dio nel suo amore per il mondo, che in Gesù, proprio quando è innalzato sulla croce, risplende luminoso. Il suo essere levato il alto non allude semplicemente al morire, ma al trasformarsi in potenza vivificante e salvatrice dalla morte, che a noi si comunica per vivere della sua stessa vita.

Se il salmo responsoriale invoca “rendimi un cuore nuovo”, è perché, guardando al Crocifisso, possiamo avere un cuore di carne dove l’amore è iscritto come partecipazione al segreto di Dio: “quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me”, proprio come viene descritto nella scena della crocifissione, alla sua conclusione: “Visto ciò che era accaduto, il centurione dava gloria a Dio dicendo: ‘Veramente quest’uomo era giusto’. Così pure tutta la folla che era venuta a vedere questo spettacolo, ripensando a quanto era accaduto, se ne tornava battendosi il petto” (Lc 23,47-48). Di lui dice la lettera agli Ebrei: “Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì”. È lo splendore dell’obbedienza dell’amore nel quale troviamo vita noi e confermiamo la  vita di tutti, stando uniti al Signore Gesù. Questo significa avere il cuore puro, il cuore nuovo.

Ora, come accedere a questa visione di Gesù Salvatore? Ce lo rivela il profeta Geremia: “Porrò la mia legge dentro di loro, la scriverò sul loro cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo. Non dovranno più istruirsi l’un l’altro dicendo: ‘Conoscete il Signore’, perché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande – oracolo del Signore -, poiché io perdonerò la loro iniquità e non ricorderò più il loro peccato”. “Tutti mi conosceranno”; “perché io perdonerò la loro iniquità”: ecco i due passaggi nevralgici. Quel perché dice la condizione e il tempo del conoscere. Possiamo conoscere Dio solo sperimentando il suo perdono. E possiamo venire perdonati solo riconoscendo di essere peccatori. Più forte è la coscienza del nostro essere peccatori, più profonda sarà l'esperienza del perdono e più rigenerante l'incontro con il Signore, finalmente conosciuto nel suo amore per noi. E per non cadere nell'illusione sentimentale di sentirsi peccatori, senza averne la coscienza in verità, basta riferirsi alle nostre reazioni di fronte all'ingiustizia e alla violenza che ci arrivano addosso dai fratelli. Se davvero abbiamo coscienza di essere peccatori, non rivendicheremo nulla, non ci offenderemo, non resteremo oppressi, perché non vogliamo perdere l'esperienza di quell'amore che costituisce il vero tesoro di vita del nostro cuore. Allora l'alleanza conclusa da Dio con noi è scritta davvero sul nostro cuore. Allora resteremo innalzati con il nostro Signore, crocifisso, e la salvezza, mentre tiene saldi noi, attirerà anche i nostri fratelli.

 

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Quinto ciclo

Anno liturgico B (2014-2015)

Tempo di Quaresima

 

DOMENICA DELLE PALME E DELLA

PASSIONE DEL SIGNORE

(29 marzo 2015)

 

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Vangelo dell’ingresso a Gerusalemme:  Mc 11,1-10

Is 50,4-7;  Sal21;  Fil 2,6-11;  Mc 14,1 - 15,47

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Il canto al vangelo costituisce la nota dominante della celebrazione di oggi: “Per noi Cristo si è fatto obbediente fino alla morte e a una morte di croce”. È la ripresa del passo di Fil 2,8, che però sottolinea l’umiliazione che ciò ha comportato: “umiliò se stesso facendosi obbediente”. Nello stesso brano l’obbedienza di Gesù, prima è presentata con ‘svuotò se stesso’, sottolineando il suo divenire uomo da Dio che era, poi con ‘umiliò se stesso’, sottolineando il suo farsi schiavo da uomo che era. Nell’ottica di una obbedienza all’amore del Padre per noi, perché risplenda solo l’amore di Dio per noi.

Nella prima parte della celebrazione, accompagniamo festosamente l’ingresso di Gesù a Gerusalemme. La frase di lode e stupore che risuona sulla bocca di tutti davanti all’entrare di Gesù in Gerusalemme, riportata da tutti i vangeli, suona: “Benedetto colui che viene nel nome del Signore”. Corrisponde alla percezione che Gesù ha di se stesso: lui è l’Inviato, colui che è mandato a mostrare quanto è grande l’amore del Padre per noi. Di lì a poco, anche se nessuno dei suoi discepoli si accorge di quanto sta avvenendo, si conoscerà finalmente il segreto di Gesù. Ma i vari vangeli aggiungono anche che l’Inviato è il re di Israele, il Messia, e tutta la scena dell’ingresso in Gerusalemme ha i caratteri di una regalità messianica riconosciuta, anche se non ancora compresa. In particolare, Luca aggiunge un’annotazione particolarissima: “Benedetto colui che viene, il re, nel nome del Signore. Pace in cielo e gloria nel più alto dei cieli”. All’inizio del vangelo di Luca gli angeli, alla nascita del Messia, avevano cantato: “pace in terra”; ora, alla imminente morte del Messia, i discepoli cantano: “pace in cielo”. Dio, con la morte del Messia, finisce la sua creazione: tutto è compiuto perché l’amore di Dio splenda su tutto e in ogni dove. Si realizza la profezia di Michea 5,4: “Egli stesso sarà la pace”. L’invito a imitare le folle di Gerusalemme con i rami di ulivo in mano, mentre la processione entra nella chiesa per celebrare la Passione del Signore, ha il valore di accogliere nel nostro cuore il venire di Gesù, di accoglierlo nel suo mistero di Inviato e di Testimone dell’amore del Padre per noi.

La liturgia, conclusa la processione, cambia registro. Invita alla compassione, alla compagnia, amorosa e partecipante, con l'uomo dei dolori, con l'uomo umiliato e obbediente, vilipeso e condannato, dato per noi perché noi avessimo la vita. Il senso della lettura della passione, celebrata in forma solenne, è proprio quello di introdurci nel mistero di Colui che viene, umiliato e obbediente fino alla morte e a una morte di croce, suscitandoci sentimenti di intima compassione e di riverente amore, sentimenti che ci accompagneranno lungo tutti i riti della settimana santa.

Viene letto il terzo carme del Servo di Jahvé (Is 50,4-7), figura di Gesù flagellato e deriso, che l’assemblea riprende con il salmo 21 (22), ripetendo come versetto responsoriale il primo versetto: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. Parole, che riascolteremo nella solenne proclamazione del vangelo della Passione. Se un non cristiano leggesse questo salmo, dopo che abbia letto la descrizione della passione di Gesù nei vangeli, non potrebbe non restare profondamente meravigliato della precisione con cui il salmo elenca le varie angherie che Gesù subisce: “Ma io sono un verme e non un uomo, rifiuto degli uomini, disprezzato dalla gente. Si fanno beffe di me quelli che mi vedono, storcono le labbra, scuotono il capo: ‘Si rivolga al Signore, lui lo liberi, lo porti in salvo, se davvero lo ama!’ ….un branco di cani mi circonda, mi accerchia una banda di malfattori; hanno scavato [forato] le mie mani e i miei piedi .. si dividono le mie vesti, sulla mia tunica gettano la sorte ...”.

E ascoltando la narrazione della passione di Gesù, nel racconto di Marco, colpisce il silenzio di Gesù. Nel processo Gesù tace davanti ai suoi accusatori. Risponde solo alla domanda del sommo sacerdote confermando che lui è il Messia e il Figlio di Dio, secondo la profezia di Dan 7,13, passo che i sacerdoti conoscevano bene e da cui deducono le loro ragioni per condannare quel millantatore. Davanti a Pilato non risponde alle accuse ma solo alla domanda: “Tu sei il re dei Giudei?” con quel “Tu lo dici”, che però Pilato non prende come motivo di accusa nei suoi confronti. Gesù si attiene alla figura del Servo sofferente che non apre la bocca (Is 53,7). Non si tratta di credere ad una sua parola, ma a Lui, per come si è presentato fino ad allora e per come morirà sulla croce, testimone dell’amore del Padre per noi, oltre ogni violenza e ingiustizia.

Il vangelo di Marco inizia così: “Inizio del vangelo di Gesù Cristo, Figlio di Dio” (Mc 1,1). Con il racconto della passione, che si conclude con la dichiarazione del centurione sotto la croce vedendo morire Gesù: “Davvero quest’uomo era Figlio di Dio” (Mc 15,39), termina l’itinerario del lettore che è stato accompagnato lungo tutta la narrazione perché riconosca in quel Gesù, profeta di Galilea, il Messia e il Figlio di Dio.

Se il racconto della passione si apre con la scena della donna che versa il profumo sul capo di Gesù, significa che il mistero di Gesù può essere colto solo nell’allusione al significato della sua morte redentrice. Se nessuno si era accorto di ciò che si andava preparando, una donna sola, nella tenerezza del suo amore, intuisce il segreto di Gesù. Versargli sul capo un unguento preziosissimo (se la stima di Giuda è realistica, il costo ammonterebbe più o meno allo stipendio di un anno per un operaio) risponde al desiderio di accompagnare Gesù nella sua solitudine. Quel profumo rivela la morte imminente, che nessuno è pronto ad accettare, ma anche tutto l'amore che quella morte significa ed esprime. I Padri antichi hanno visto in quel profumo versato su Gesù il pentimento dei nostri cuori, pentimento che si allarga e impregna tutto perché l'amore che Gesù ha testimoniato con la sua passione non resti estraneo a niente di noi e perché niente di noi resista a tale amore. Quando s. Paolo, rivolgendosi ai suoi fedeli, li chiama profumo di Cristo, allude proprio a questa tenerezza che ha conquistato il cuore - così si può chiamare il pentimento per i nostri peccati! Sarebbe il frutto più autentico di un commosso ascolto della passione di Gesù.

 

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Quinto ciclo

Anno liturgico B (2014-2015)

Tempo di Pasqua

 

Pasqua di Risurrezione del Signore

(5 aprile 2015)

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At 10, 34a. 37-43;  Sal 117;  Col 3, 1-4;  Gv 20, 1-9

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Beato colui che nell’Uomo sofferente, di cui i riti della settimana santa hanno commemorato la passione gloriosa, ha visto il Figlio di Dio, il Testimone dell'amore del Padre. Beato colui che lo scandalo della croce non spezza, non deturpa, non divide da Dio e dagli uomini. Beato colui che ha l'intelligenza spirituale allenata per cogliere nella passione gloriosa di Gesù il mistero dell'amore di Dio per gli uomini e la dinamica di vita eterna di cui ci rende partecipi con il dono del suo Spirito.

La settimana santa era cominciata con la colletta del lunedì: “Guarda, Dio onnipotente, l’umanità sfinita per la sua debolezza mortale, e fa’ che riprenda vita per la passione del tuo unico Figlio”. Lungo la settimana più volte era risuonata la profezia di Isaia: “Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce e si sazierà della sua conoscenza; il giusto mio servo giustificherà molti, egli si addosserà le loro iniquità. Perciò io gli darò in premio le moltitudini, dei potenti egli farà bottino, perché ha spogliato se stesso fino alla morte ed è stato annoverato fra gli empi, mentre egli portava il peccato di molti e intercedeva per i colpevoli” (Is 53,11-12). Espressioni che nella traduzione letterale del testo ebraico sono ancora più potenti: “ … poiché ha versato la sua vita nella morte …”. Questo ha fatto Gesù: non ha trionfato sulla morte eliminandola o scartandola ma entrandoci con la sua vita.

Nell’ufficio della santa passione nel rito bizantino, la liturgia addita tre personaggi per suscitare i sentimenti dei cuori nei confronti di quell’Uomo disprezzato e maltrattato, senza più apparenza né bellezza: Giuda, con l’insistente annotazione: “ … ma non ha voluto comprendere l’iniquo Giuda”; il ladrone sulla croce: “Ricordati anche di noi nel tuo regno”; la Vergine, sua Madre, orribilmente straziata dalla spada del dolore, tormentata dalle doglie che non aveva sofferto nel parto, con gli angeli che assistono e dicono: ‘Incomprensibile Signore, gloria a te!’, mentre supplica: “Dimmi una parola, o Verbo, non passare accanto a me in silenzio …”.

Nel riposo del sabato la Chiesa aveva contemplato: “Per riempire della tua gloria tutte le cose, sei disceso nelle profondità della terra; a te infatti non era nascosta la mia persona in Adamo: sepolto e corrotto tu mi rinnovi, o amico degli uomini”.

E con la veglia pasquale viene aperto il mistero della morte e risurrezione di Gesù: se la morte è l'ultimo nemico che deve essere annientato, allora vuol dire che non c'è nemico che abbia potere su Colui che l'ha vinta. E se l'ha vinta come primogenito di tanti fratelli, allora vuol dire che la sua stessa vita, non più segnata dalla morte, diventa la nostra vita, quella che può segnare e vivificare il nostro vivere quotidiano, sempre tallonato e ferito dalla morte e spirituale e fisica.

Nell’annuncio al mondo della risurrezione di Gesù la Chiesa proclama che vivere nel Signore risorto ormai significa vivere in Colui che ci partecipa il suo Amore tanto da farlo diventare in noi radice di vita, scopo supremo dell'essere e dell'agire. Per avvicinare i cuori degli uomini Dio ha messo da parte la sua potenza preferendo la debolezza (cfr Fil 2,8). Questa debolezza di Dio non svela solo l'immensità dell'amore di Dio per l'uomo, ma anche il bisogno dell'uomo per essere tale, compiuto nella sua umanità. Ed il mistero scaturisce proprio qui: l'uomo, per scoprire la sua umanità, non può non guardare a questa debolezza di Dio. Tutto ciò che è fuori da tale debolezza, risulterà illusione e causerà ulteriore sofferenza, ma sorda, tragica, insensata, che porterà divisione e non comunione, che porterà rabbia e non riposo. La gioia pasquale lo proclama.

Come lo sottolinea un canto bizantino: “Giorno della risurrezione! Irradiamo gioia per questa festa solenne e abbracciamoci gli uni gli altri. Chiamiamo fratelli anche quelli che ci odiano: tutto perdoniamo per la risurrezione e poi acclamiamo: Cristo è risorto dai morti, con la morte ha calpestato la morte, e ai morti nei sepolcri ha elargito la vita”. A cui fanno eco le parole di Giovanni Crisostomo: “Tutti godete il banchetto della fede. Tutti godete la ricchezza della bontà. Nessuno lamenti la propria miseria, perché è apparso il nostro comune regno. Nessuno pianga le proprie colpe, perché il perdono è sorto dalla tomba. Nessuno tema la morte, perché la morte del Salvatore ci ha liberati”.

Nella gioia esultante per il Signore risorto, gli angeli dicono alle donne che si erano recate al sepolcro: "Voi cercate Gesù Nazareno, il crocifisso. È risorto, non è qui". Bisogna intendere: Gesù non è più confinato in un posto perché dovunque lo si può vedere e sentire. Come aveva promesso che sarebbe restato con noi fino alla fine del mondo. Dice una preghiera: "Oh, la tua divina, la tua dolcissima voce amica! Con verità hai promesso, Cristo, che saresti rimasto con noi fino alla fine dei secoli. E noi fedeli esultiamo, possedendo quest'ancora di speranza".

L'augurio è proprio quello di sentire la sua voce, come la Maddalena, come i discepoli e non solo quella degli angeli che ci dicono che è vivo. Quella voce che potremo udire e riconoscere nelle parole di vita del suo vangelo quando penetrano nel nostro cuore, quando rivelano quella forza prodigiosa di vita perché in esse sentiamo l'eco di quella 'dolcissima voce amica', di Colui che, vivo, vive in mezzo a noi.

La domenica di Pasqua, il giorno uno della settimana, dischiude un tempo completamente diverso, un tempo nel quale tutto ciò che è stato compiuto fino ad ora si rivela come novità. Il personaggio che ci conduce alla soglia di questa novità è proprio Maria Maddalena, quella che per prima sente la ‘dolcissima voce amica’ chiamarla per nome. Essa viveva un’angoscia personale, un sentimento di assenza irrimediabile; per lei il Signore era l’Assente; non poteva che sentirlo così. Per prima vede la pietra del sepolcro tolta via e corre ad avvertire i discepoli: “Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove lo hanno posto”. E Giovanni parla della pietra tolta via dal sepolcro per sottolineare, in questo Giorno della Risurrezione, che viene tolto l’ultimo impedimento alla ‘vista’, alla ‘visione’, come poi il brano dirà a proposito di Giovanni entrato nel sepolcro: “Vide e credette”.

La letizia pasquale che, poco a poco, invade e conquista i discepoli e che scaturisce dall’esperienza dell’incontro con lui, vivo, capace di far vincere ogni paura, ha anche a che fare con i tre doni che Gesù conferisce: la gioia, la pace e la libertà. Ma se andiamo a vedere, quei tre doni, tipicamente pasquali, uniti all’esperienza dell’incontro con lui, il Vivente, ci partecipano la sua stessa vita. Perché anche noi possiamo dire a noi stessi al termine della nostra vita: “e lo amarono sino alla fine’, ‘amarono i loro fratelli sino alla fine’, secondo come abbiamo potuto. L’augurio pasquale più bello!

 

CRISTO È RISORTO. È VERAMENTE RISORTO!

 

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Quinto ciclo

Anno liturgico B (2014-2015)

Tempo di Pasqua

 

II  Domenica

(12 aprile 2015)

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At 4,32-35;  Sal 117;  1Gv 5,1-6;  Gv 20,19-31

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Se la risurrezione di Gesù inaugura il giorno fatto dal Signore, si comprende come essa non potesse appartenere all’orizzonte mentale dei discepoli. I racconti di risurrezione lo provano. Ma allora qual è il significato di quei racconti? In Giovanni, a differenza dei sinottici, i racconti delle apparizioni del Risorto non hanno un valore apologetico; non mirano semplicemente a comprovare la realtà del corpo risorto di Gesù. La risurrezione di Gesù non è il miracolo che può convincere della sua divinità. La fede degli apostoli come quella dei discepoli che li seguiranno, quindi anche la nostra, riposa sempre sulla parola trasmessa con la forza dello Spirito Santo e non sui segni visibili della Presenza. Non esiste evidenza costringente del mistero di Dio e del suo amore per gli uomini.

Cosa allora costringe il cuore dell’uomo a riconoscere il mistero di Gesù, morto e risorto? Qual è la forza che la Scrittura sottolinea: "Con grande forza gli apostoli rendevano testimonianza della risurrezione del Signore Gesù ..."? Una bella preghiera della liturgia bizantina pasquale canta: "Giorno della risurrezione! Irradiamo gioia per questa festa solenne e abbracciamoci gli uni gli altri. Chiamiamo 'fratelli' anche quelli che ci odiano: tutto perdoniamo per la risurrezione e poi acclamiamo: Cristo è risorto dai morti, con la morte ha calpestato la morte ed ai morti nei sepolcri ha elargito la vita". Questo opera lo Spirito Santo: renderci un corpo solo e un'anima sola. Da qui deriva la forza che rende credibile e convincente la proclamazione della risurrezione del Signore, che abita vivo nei nostri cuori e in mezzo a noi. Proprio come di nuovo sottolinea la prima lettera di Giovanni: ami Dio? E allora ami chi da Lui è stato generato, vale a dire il Figlio che rivela il Padre ed i figli che per mezzo di lui sono rinati a vita nuova. È la gioia della risurrezione che sgombera i cuori da ogni timore e quindi da ogni attaccamento a se stessi rendendoli splendenti della compassione del Cristo per l'umanità, partecipi di quella pace che rivela la gloria di Dio tra gli uomini.

Teniamo presente che non si tratta tanto di riconoscere che Gesù è davvero risorto, quanto piuttosto di restare intimamente coinvolti nel dinamismo di un rapporto che porta vita e cambia tutto. Se Tommaso, che non era stato presente alla prima apparizione di Gesù, non vuol credere ai suoi compagni, non è per mancanza di fede, ma per eccesso di zelo, come ben si attaglia al suo personaggio, fervido e coraggioso. Ha preso sul serio la storia con Gesù e non vuole alcuna illusoria consolazione. Vuole Gesù e basta. Quando Gesù si ripresenta una settimana dopo e si rivolge a lui con le sue stesse parole, Tommaso non ha bisogno di alcuna comprova (di mettere cioè il dito e la mano nelle ferite), riesce solo a sussurrare: “Mio Signore e mio Dio”, che è la professione di fede più solenne e più intima di tutto il vangelo. La frase conclusiva di Gesù: “Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!” è spesso letta come un rimprovero nei suoi confronti, ma niente autorizza a leggerla così. Tommaso ha semplicemente avuto quello che è stato concesso agli altri apostoli e la cosa risponde alla promessa di Gesù nell’ultima cena: “Ancora un poco e il mondo non mi vedrà più; voi invece mi vedrete, perché io vivo e voi vivrete. In quel giorno voi saprete che io sono nel Padre mio e voi in me e io in voi” (Gv 14,19-20).

Il sigillo della rivelazione pasquale è la pace che Gesù Risorto ci offre. Si tratta della pace messianica, quella che racchiude tutti i doni di Dio rendendoceli disponibili. Gesù la proclama e la offre definendola in rapporto a tre cose:

1) in rapporto alle sue piaghe. Mentre dà la sua pace mostra le mani e il costato. Quella pace ci deriva dalle sue piaghe e le sue piaghe ci confermano che il Signore risorto è il Gesù che ha patito, tanto la sua passione e morte ha fatto risplendere l’amore di Dio per gli uomini. Sarà così anche per i suoi discepoli: è la condizione della condivisione della rivelazione del vangelo. La gioia della presenza del Signore risalterà proprio là dove il discepolo è chiamato al martirio in qualunque prova della vita.

2) in rapporto alla missione: “Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi”. Non si tratta semplicemente del fatto che i discepoli sono inviati ad annunciare al mondo la buona notizia, ma del fatto che l’annunceranno nella stessa modalità nella quale Gesù l’ha annunciato e cioè che come Gesù non dice e non fa se non quello che sente e vede fare dal Padre (cf. Gv 5,19), così i discepoli nei confronti del loro Maestro.

3) in rapporto allo Spirito Santo, di cui Gesù ci ha ottenuto l’effusione sulla croce. L’opera dello Spirito è la riconciliazione con Dio ed energia di comunione. Se Luca, nella prima lettura, descrive la prima comunità cristiana con un cuor solo e un’anima sola, non tratteggia un idillio, ma ne rivela la tensione dinamica, la tensione di una vita nella fede del Risorto, che diventa radice di umanità nuova, la cui cifra è appunto la comunione. Come dice Giovanni nella sua prima lettera, è la vittoria della fede sul mondo: la comunione con tutti perché niente ci appartiene e con tutti possiamo condividere la gioia della presenza del Signore. Nel canone eucaristico, quando si invoca la discesa dello Spirito Santo sulla comunità dei credenti, è per essere abilitati a vivere ‘un cuor solo e un’anima sola’, in tutta fraternità.

Si passa così dalla gioia della presenza vista (apparizioni del risorto agli apostoli) alla gioia della presenza percepita (celebrazione dell’eucaristia) fino alla letizia nello Spirito quando si dovrà soffrire per il nome di Cristo perché la sua pace conquisti il mondo intero e la gioia dell’essere in lui riveli a tutti lo splendore dell’amore di Dio per gli uomini. A questo si riferisce la confessione di Tommaso e della chiesa a proposito di Gesù risorto: “Mio Signore e mio Dio!”. E di qui scaturisce la missione nel mondo. Come Gesù è stato inviato dal Padre, così invia gli apostoli. Ciò significa che i credenti in Cristo sono resi partecipi dello stesso amore con cui il Padre ama il Figlio. Gregorio Magno commenta: “Come il Padre mi ha inviato, così anch'io mando voi, vale a dire: quando io vi invio in mezzo agli scandali e alle persecuzioni, io vi amo di quella carità con cui il Padre mi ama, Lui che mi ha inviato alla Passione”. I segni della passione restano nel corpo glorioso del Cristo, a memoria del Suo amore per noi e a ricordare a noi di custodire quell'amore nella passione che ci sarà richiesta.

 

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Quinto ciclo

Anno liturgico B (2014-2015)

Tempo di Pasqua

 

III  Domenica

(19 aprile 2015)

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At 3,13-15.17-19;  Sal 4;  1Gv 2,1-5a;  Lc 24,35-48

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La proclamazione della liturgia di oggi fa sentire ai cuori la benedizione caratteristica di Gesù Risorto: “Allora aprì loro la mente per comprendere le Scritture” (Lc 24,45), secondo l’esperienza dei due discepoli di Emmaus, sempre nella descrizione di Luca: “Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero” (Lc 24,31). In effetti, i racconti evangelici della risurrezione non mirano tanto a mostrare la verità della risurrezione di Gesù, verità che non apparteneva all’orizzonte mentale dei discepoli, quanto ad aprire l’intelligenza delle Scritture, che con la risurrezione di Gesù acquista tutt’altra densità e definitività.

Il canto al vangelo di questa domenica esprime bene la condizione interiore che prelude al riconoscimento del Risorto sia per gli apostoli che per noi: “Signore Gesù, facci comprendere le Scritture; arde il nostro cuore mentre ci parli” (cf. Lc 24, 32). É la confessione dei due discepoli di Emmaus che, dopo aver riconosciuto il Risorto nello spezzare il pane, si confidano i sentimenti profondi del cuore.

Nella prima lettura, Pietro proclama l’evento della risurrezione in questo modo: “Dio ha così compiuto ciò che aveva preannunciato per bocca di tutti i profeti, che cioè il suo Cristo doveva soffrire. Convertitevi dunque e cambiate vita, perché siano cancellati i vostri peccati” (At 3,18-19). E poco prima aveva spiegato: “Il Dio dei vostri padri ha glorificato il suo servo Gesù” (At 3,13). Servo, in greco, sta per figlio e richiama l’invio del Figlio che si fa servo obbediente fino alla morte di croce per mostrare in tutto il suo splendore l’amore del Padre per noi. È dalla testimonianza del Suo amore che scaturisce per noi la vita abbondante, quella vita eterna non più mortificabile nella tensione dell’amore che la origina e la muove.

La conversione, come richiama la colletta: “O Padre, che nella gloriosa morte del tuo Figlio, vittima di espiazione per i nostri peccati, hai posto il fondamento della riconciliazione e della pace, apri il nostro cuore alla conversione e fa di noi i testimoni dell’umanità nuova, pacificata nel tuo amore”, nelle esortazioni degli apostoli, è sembra abbinata al perdono dei peccati. Pietro, invitando a convertirsi, in realtà richiama l’invito che percorre tutte le Scritture: ritornate a Me, ritornate a godere la Mia promessa di vita piena, la Mia alleanza con voi! L’espressione italiana ‘cambiate vita’ significa in realtà: ritornate a Dio. Quel ritorno allude al fatto di fissare lo sguardo su ciò che Dio ha compiuto, vale a dire al Cristo che doveva soffrire e il terzo giorno risorgere dai morti. Come misteriosamente aveva preannunciato il profeta Zaccaria: “Riverserò sopra la casa di Davide e sopra gli abitanti di Gerusalemme uno spirito di grazia e di consolazione: guarderanno a me, colui che hanno trafitto” (Zc 12,10). È proprio Dio che si lascia trafiggere e la salvezza viene dal fatto di guardare a lui trafitto. Non c’è altra strada per convertirsi, per credere. Non è sdegnandosi con se stessi o sognando una giustizia superiore che il cuore attinge al mistero di Dio, ma solo commuovendosi davanti ad un amore così toccante che ti rende prezioso nonostante la tua indegnità. Mi piace ricordare un antico detto talmudico: prima di creare il mondo, Dio ha creato il ritorno a Lui, la teshuvah. Il senso del mondo sta nell’amore preveniente di Dio, sempre, comunque.

È qui che si innesta la questione dell’intelligenza delle Scritture. Ce lo richiama ancora l’apostolo Pietro nel suo discorso alla folla dopo la guarigione miracolosa del paralitico alla porta Bella del tempio. Il punto essenziale del suo discorso non è costituito dal fatto di ricordare che il miracolo è avvenuto nel nome di Gesù risorto, di cui lui e gli altri apostoli sono testimoni, ma nel fatto di legare il pentimento e la conversione al riconoscimento dell’agire di Dio in quell’Uomo che è stato rinnegato, condannato, messo a morte e ora glorificato. Nel riconoscere che Gesù è stato condannato e messo a morte c’è tutta l’ammissione di colpevolezza nei confronti di Dio di cui si è disprezzato l’amore e perciò il cuore si addolora profondamente (si avverte compiuta la profezia di Zaccaria: “Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto”, Gv 19,37), ma per aprirsi al riconoscimento che l’amore di Dio è davvero grande e poter dire, davanti al ‘crocifisso’: questi è davvero il re della gloria, il testimone dello splendore dell’amore di Dio che salva e nella cui energia anche noi possiamo ora vivere. Guardando con dolore e tenerezza a Colui che è stato trafitto possiamo specchiarci e ritrovare la nostra verità: di uomini peccatori, che non hanno voluto tener in conto l’alleanza di Dio, che hanno disprezzato il suo amore e contemporaneamente di uomini redenti, che finalmente vedono l’amore di Dio riversarsi su di loro e fornire loro nuove coordinate di esistenza. In funzione di tale intima percezione, per provocarla e per convalidarla, la chiesa legge le Scritture, le proclama in tutte le sue liturgie, le vive come guida alla partecipazione della potenza della risurrezione.

Quando, nella preghiera dopo la comunione, la chiesa fa pregare: “Guarda con bontà, o Signore, il tuo popolo, che hai rinnovato con i sacramenti pasquali, e guidalo alla gloria incorruttibile della risurrezione”, non intende fare professione di fede nella risurrezione della carne, come la proclamiamo nel Credo, ma più specificamente allude alla possibilità di vivere in compagnia di Gesù Risorto (“Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”, Mt 28,20).

E tutte le preghiere della liturgia di oggi (colletta, offerte, dopo comunione) sottolineano la tensione all’eternità, tipica della risurrezione. È l’eterno che aspira il temporale, è l’apertura all’eterno che lascia intravedere il senso della nostra storia, letta nell’ottica della rivelazione delle Scritture, con lo sguardo fisso al Cristo, nell’annuncio per il mondo che in lui la pace è ormai godibile.

 

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Quinto ciclo

Anno liturgico B (2014-2015)

Tempo di Pasqua

 

IV  Domenica

(26 aprile 2015)

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At 4,8-12;  Sal 117;  1Gv 3,1-2;  Gv 10,11-18

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La confessione del Risorto come il Vivente, Colui sul quale la morte non ha più potere, in questo periodo pasquale, comporta due verità strettamente collegate: anzitutto la realtà che Gesù e il Padre siano una cosa sola e poi che Gesù sia il Redentore, cioè Colui che introduce l'umanità alla piena comunione con Dio. La figura del 'buon pastore', come risalta dal brano evangelico odierno, prende tutto il suo spessore se si collega a queste due verità.

Prima però di definirsi ‘il pastore buono’ (in greco è usato l’aggettivo: bello), Gesù si presenta come colui che entra dalla porta perché è conosciuto dal guardiano. Poco oltre Gesù dirà: “il Padre conosce me e io conosco il Padre”. Tale conoscenza è definita in rapporto al loro amore, totalmente condiviso, per le pecore. Quando Gesù dice che conosce il Padre allude fondamentalmente all’unità del loro sentire e agire in rapporto ai figli, che il Padre vuole nella piena comunione con Sé per partecipare loro la gioia del suo amore. La conferma la possiamo dedurre dall’espressione di Gesù: “Per il questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo” (Gv 10,17).

È proprio ciò che viene suggerito con la seconda immagine che Gesù si applica: lui è la porta (cfr Gv 10,7). È la porta che introduce alla comunione della gioia dell’amore del Padre: “io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza” (Gv 10,10). È l’abbondanza messianica, quel ‘di più’ che solo il Messia poteva ottenerci e tale che sopravanza ogni tipo di merito perché ciò che riempie il cuore dell’uomo è solo questa sovrabbondanza che proviene da lui e non la giustizia che proviene dalle nostre opere. Se il vangelo definisce questa porta come la porta stretta è perché l’uomo con fatica abbandona la sua pretesa di giustizia per far posto a tale sovrabbondanza.

Con la terza immagine: ‘io sono il buon pastore’ Gesù allude al come ci ha gratificato della vita in abbondanza, dandoci cioè la sua. Il testo evangelico, a dire la verità, è più preciso. Non dice semplicemente che dà la vita per noi, ma che la pone, la mette a disposizione, la mette in gioco totalmente, la vive per noi. L’allusione è che Gesù, che pone la sua vita per noi, va colto nel mistero del Padre che gli ha comandato questo, nel mistero dell’amore eterno di Dio per i suoi figli. Per questo la colletta può pregare: O Dio, creatore e Padre, che fai risplendere la gloria del Signore risorto quando nel suo nome è risanata l’infermità della condizione umana, raduna gli uomini dispersi nell’unità di una sola famiglia, perché aderendo a Cristo buon pastore gustino la gioia di essere tuoi figli”.

Dignità filiale, che Giovanni, nella sua prima lettera, definisce in questi termini: “vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente … Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è” (1Gv 3,1-2). È guardando a Gesù, morto e risorto per noi, che tale verità emerge nei cuori e dà senso a tutta la nostra storia, che è sempre storia sacra, una storia d’amore del nostro Dio con noi. Ciò che il paradiso svelerà sarà semplicemente questo: sarà un’esplosione di umanità allorquando tutto sarà visto percorso da questa abbondanza di amore, e precisamente in tutto ciò in cui si è espressa la nostra vita. Non solo tutto sarà consumato nell’amore ma che tutto è stato intriso di questo amore. Come può questa esperienza non generare un inno di lode modulato in infiniti modi, sempre rinnovato?

Quando Pietro dichiara: “In nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti, sotto il cielo, altro nome dato agli uomini, nel quale è stabilito che noi siamo salvati” (At 4,12), allude alla dinamica di amore del Padre che ha accolto e raccolto tutti i suoi figli nell’unico Figlio, testimone del suo amore per noi. È una dichiarazione inclusiva, non esclusiva. Non vuol dire che non ci si salva se non per mezzo di Gesù, ma che ogni ricerca di salvezza, comunque sia vissuta dagli uomini, è mediata da Gesù, a lui si riferisce, perché a lui guarda il Padre, perché in lui riposa tutta la sua compiacenza.

Ora, la ragione di amore del Padre per il Figlio, è la stessa ragione di amore che vale per i discepoli di Gesù. Gesù è amato dal Padre perché pone la sua vita per noi, così noi siamo amati da Gesù perché poniamo la nostra vita per i fratelli. Non è una ragione di merito, ma una ragione fontale, di sorgente. Vale a dire, possiamo scoprire l’amore di Dio nel fatto di porre la nostra vita per i fratelli e lo possiamo fare nell’energia di Colui che ce l’ottiene con la sua morte e risurrezione. Per questo Giovanni dice che Gesù è stato inviato e muore in croce “per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi” (Gv 11,52). Se Gesù è il buon pastore, lo è per questo.

Di fronte ad ogni tipo di ingiustizia, di afflizione, di oppressione, interiore e esteriore, potessimo dire con Gesù: "Per questo il Padre mi ama: perché io offro la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie, ma la offro da me stesso"! Significherebbe diventare collaboratori con Dio alla sua opera di salvezza, quella di radunare i figli di Dio dispersi; significherebbe non permettere che il nostro cuore ceda alla divisione con qualche fratello scavando fossati o respingendolo lontano da noi, perché in tal caso daremmo più importanza all'agire di un uomo che all'agire di Dio e ci sottrarremmo alla comunione con Lui che non ha altro desiderio se non quello di attrarre alla sua comunione tutti i suoi figli.

L’amore del Padre si rivela in Gesù perché Gesù lascia che quell’amore, che in Lui riposa pieno, si espanda e conquisti tutti fino a far vivere tutti di quello stesso amore. Quando dice che il buon pastore conosce le sue pecore e le sue pecore conoscono lui allude al fatto che l’amore per loro, frutto dell’amore del Padre che su di lui riposa, è la ragione stessa della sua vita, la ragione che non permette a nessun’altra di avere voce nel suo cuore. E le pecore possono conoscere lui perché conoscono questo suo amore, che rivela loro la bontà di Dio per loro. Ma tale è la dinamica di ogni amore: conosco se dò la vita; solo se metto a disposizione dell’altro la mia vita potrò conoscerlo perché la conoscenza proviene e conduce all’amore. È il dono del Risorto a coloro che credono in lui. È la speranza che la chiesa deve al mondo per la sua fede nel Risorto che la raduna.

 

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Quinto ciclo

Anno liturgico B (2014-2015)

Tempo di Pasqua

 

V  Domenica

(3 maggio 2015)

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At 9,26-31;  Sal 21;  1Gv 3,18-24;  Gv 15,1-8

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L’immagine della vite ha risonanze profondissime nelle Scritture, soprattutto in rapporto alle premure di Dio per il suo popolo. Si possono leggere i passi di Os 10,1, Is 5,1-7, Ger 2,21. In particolare, però, la vite ricorre nelle parabole di Gesù: nella parabola degli operai inviati alla vigna (Mt 20,1-16), nella parabola dei due figli invitati ad andare a lavorare nella vigna (Mt 21,28-30) e, con accenti assolutamente evocativi, nella parabola dei vignaioli assassini (Mt 21,33-42) dove l’amore di Dio per il suo popolo appare proprio folle.

La vite, per il vino che se ne ricava pestando gli acini e facendo fermentare il mosto, richiama il sacrificio pasquale di Gesù; il vino, frutto della vite, richiama il sangue, il mistero eucaristico, lo Spirito Santo, il regno di Dio.

Nell’orizzonte di questi riferimenti, l’immagine della vite e dei tralci comporta un collegamento che tiene insieme tutto il vangelo. Secondo la narrazione di Giovanni, la prima domanda che gli apostoli fanno a Gesù è: “Rabbì, dove dimori?” (Gv 1,38). Gesù li invita a venire da lui e a costatare di persona e il vangelo annota: “quel giorno rimasero con lui” (Gv 1,39). Ma a quel tempo, i discepoli potevano al massimo rimanere con Gesù, non rimanere in Gesù. Tutto il racconto evangelico della sequela di Gesù da parte dei discepoli non è che la descrizione del passaggio dal rimanere con lui al rimanere in lui. Alla primitiva domanda dei discepoli Gesù in realtà risponde nell’Ultima Cena allorquando rivela dove effettivamente lui dimora, cioè nell’amore del Padre per i suoi figli. Lì lo devono cercare e lì devono rimanere. Non solo, ma Gesù rivela ciò che sperimenteranno i discepoli con la sua morte e risurrezione: “ … verrò di nuovo e vi prenderò con me, perché dove sono io siate anche voi”. La conferma assoluta che lui si trova nell’amore del Padre per noi avverrà con la sua morte e risurrezione e sarà su questa conferma che i discepoli potranno ormai, non semplicemente stare con Gesù, ma stare in Gesù.

I verbi ‘dimorare’, ‘rimanere’, ‘stare’, in greco sono espressi da un unico verbo, su cui si fonda plasticamente l’immagine della vite e dei tralci, riassunta dalle parole di Gesù: “Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla” (Gv 15,5). Rimanere in Gesù, ecco l’unico verbo che attraversa tutto il vangelo dall’inizio alla fine.

La motivazione del rimanere in Gesù riguarda il portare frutto. Ci possiamo allora domandare: cosa significa portare frutto? La prima lettura, con la conversione e la testimonianza di Saulo, ormai Paolo, nel movimento di diffusione del vangelo nel mondo, sembra rispondere: nel diventare discepoli di Gesù. Ma se continuiamo a domandarci: cosa significa in verità diventare discepoli di Gesù, allora ci accorgiamo che il rimanere in Gesù esprime tutto un movimento incredibile. Si tratta di un continuamente sperimentato movimento di adesione, di inabissamento, di radicamento in Gesù, finché tutto di noi sia dentro la dinamica di rivelazione che ha caratterizzato lui, vale a dire: tutto il suo essere e agire, tutta la sua vita, non è che rivelazione dell’amore sconfinato del Padre per noi. In quell’amore tutto confluisce in unità, perché su tutto e in tutti splenda il suo amore salvatore. Ora, Gesù aveva dichiarato: “quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me” (Gv 12,32). E quando i discepoli, a loro volta, nell’occasione del possibile martirio, potranno dire: ‘quando saremo perseguitati attireremo tutti a Gesù’, potrà esprimersi quel frutto che il Padre cerca, quel molto frutto di cui parla Gesù. Verrà cioè moltiplicato nel mondo il frutto del suo amore. Tanto che l'amore al prossimo da parte dei discepoli di Cristo non rivela in primo luogo la generosità degli uomini, ma la loro fede sincera, l'attaccamento al loro Signore, la condivisione di un'intimità di vita e di affetti, nello Spirito, capace di vivere un'umanità trasfigurata. Proprio come abbiamo chiesto nella colletta: “ ...perché, amandoci gli uni gli altri di sincero amore, diventiamo primizie di umanità nuova e portiamo frutti di santità e di pace”. La santità si riferisce al fatto di “avere lo Spirito del Signore e la sua santa operazione”, come dice s. Francesco d'Assisi e la pace riguarda la ritrovata comunione con Dio, in Cristo, che si espande e dilaga su tutto, senza più avanzare rivendicazioni di sorta che ne limiterebbero lo splendore e la portata. Ma come poter sognare di vivere questa realtà se non rimanendo in Cristo, sempre, comunque, a tutti i costi; se non operando perché le sue parole rimangano in noi, sempre, comunque, a tutti i costi?

In effetti, come segnale indicatore di questo scenario vale l’affermazione di Gesù a proposito della preghiera: “Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto” (Gv 15,7). Al discepolo viene promesso quello che Gesù dice di se stesso: “Io sapevo che sempre mi dai ascolto …” (Gv 11,42), allorquando Gesù si accinge a far risorgere l’amico Lazzaro. Quel ‘vi sarà fatto’ allude proprio alla realtà che nulla e nessuno potrà in noi oscurare e sopprimere quel dinamismo di rivelazione dell’amore del Padre per noi, in qualsiasi circostanza. Non che non ci insidieranno i nostri peccati e le nostre fragilità, ma ritorneremo sempre allo splendore dell’amore suo, che non verrà mai meno.

Posso ancora aggiungere un aspetto rispetto al portar frutto che riguarda anche l’intelligenza delle Scritture, colte nella loro capacità di rivelare al nostro cuore il mistero di Dio nella sua volontà di salvezza per l’uomo. Il segreto delle Scritture è il segreto di Dio, che ha sempre a che fare con la vocazione dell’uomo alla gioia del suo Dio. E il frutto per l’uomo sta proprio nel vivere secondo quel segreto, nella potenza che quel segreto comunica. Non si tratta tanto di venire a conoscenza di qualche dato di verità, ma di venir sopraffatti dalla rivelazione di un segreto che ti abilita a un’esperienza, capace per sua stessa natura, data la sua radice dall’alto, di inglobare tutti.

 

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Quinto ciclo

Anno liturgico B (2014-2015)

Tempo di Pasqua

 

VI  Domenica

(10 maggio 2015)

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At 10, 25-27. 34-35. 44-48;  Sal 97;  1Gv 4, 7-10;  Gv 15, 9-17

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Continuando nella meditazione sul mistero della nostra vita in Cristo, al paragone della vite e dei tralci Gesù aggiunge una nota personale : "Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi... come io ho osservato i comandamenti del Padre mio … questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati".

A dire il vero, le frasi di Gesù suonano piuttosto strane. Non ha molto senso infatti dire che uno è amico se fa ciò che gli comanda l’altro oppure unire l’amare al fatto di essere comandati. In questo intensissimo brano, dagli accenti estremamente confidenziali, si aprono continuamente nuovi livelli di comprensione a seconda di come le varie espressioni sono tenute insieme. La complessità è intenzionale perché la densità di ciò che viene rivelato è tale da doverla accostare da più punti e l’ascoltatore o il lettore è condotto, per accostamenti successivi, a entrare sempre più nel profondo.

Ho osservato una particolarità che a me sembra oltremodo significativa. Gesù parla di amore, gioia e comandamento, ma nei versetti 9,10 e 11, si legge una specificazione singolare. “Rimanete nel mio amore”, in greco: nell’amore quello mio; “perché la mia gioia sia in voi”, la gioia quella mia; “questo è il mio comandamento”, il comandamento quello mio. È come se il testo volesse insistere sulla natura, sulla qualità di quell’amore, di quella gioia e di quel comandamento. Se Gesù intesse il suo discorso su tre come, è perché allude a ciò che lo caratterizza in proprio. Evidentemente il come non ha valore di paragone, quasi Gesù volesse additarci lui come esempio in modo da raggiungere l’uguaglianza di intensità con lui nell’amore. Sarebbe oltremodo presuntuoso per noi uomini. Non esprime uguaglianza, ma ragion d’essere, identità di movimento, natura del movimento. Gesù riferisce tutto al Padre, come se dicesse: tutta la compiacenza che il Padre ha posto su di me (si pensi al battesimo e alla trasfigurazione), io l’ho posta su di voi. Voi, in me, siete chiamati a entrare sotto questa compiacenza e a goderne i benefici. Tale compiacenza dura dall’eternità e lungo tutta la storia.

Lo proclamiamo con il salmo 97/98, salmo che fa parte dei cinque salmi con cui gli ebrei ricevono liturgicamente il Sabato (salmi 95-99), con l’espressione: “Il Signore ha fatto conoscere la sua salvezza”, ragion per cui si è invitati a cantare in modo nuovo: “cantate al Signore un canto nuovo”. Se il cuore si apre al mistero del Figlio, inviato a mostrare la grandezza dell’amore del Padre e a riunire i figli di Dio dispersi, allora non può non sentire compiersi la promessa di Gesù: “Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena”, gioia che qualche versetto più avanti verrà definita: “Così anche voi, ora, siete nel dolore; ma vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno potrà togliervi la vostra gioia” (Gv 16,22).

La gioia è collegata all’esperienza dell’amore, amore che lascia sgorgare fluente la vita. È caratteristico il legame dell'amore con la vita. L’amore rende la vita degna di essere vissuta perché l'amore dà vita, porta vita. Ma perché questo sia effettivo e duraturo, deve valere anche l'aggiunta: l'amore fa dare la propria vita, come è stato per Gesù. "Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la propria vita per i propri amici". Il che non comporta solo il morire per l'altro, ma il mettere a disposizione la propria vita per l'altro di modo che la propria vita diventi per l'altro alimento, calore, rifugio, riposo, senza alcun limite. Mi sembra risieda proprio in questo particolare aspetto la promessa di Dio all'uomo: "se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e faremo dimora presso di lui" (Gv 14,23), ripreso dal canto al vangelo. Come a dire: il venire di Dio ed il suo dimorare nel cuore dell'uomo che osserva la parola di Gesù comporta il renderlo partecipe della sua stessa vita, comporta il metterlo a parte dei suoi segreti e della sua sapienza di vita. E questo Gesù chiama: "perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena". La gioia è il frutto più autentico non semplicemente dell'amore, ma dell'amore che si è trasformato in vita piena, donata, consegnata. I passaggi sarebbero così compresi: Dio dà il suo Figlio per amore dell'uomo, ma Dio ama tutti coloro che si trovano nel Figlio, cioè coloro che, guidati dal suo stesso Spirito, perdonati e pacificati, si dispongono a far splendere l’amore del Signore comunque. Per quanto dobbiamo aggiungere che l'amore e la gioia sono gli ultimi due passaggi di una serie di quattro, come lucidamente nota Isacco Siro: "A misura della tua umiltà, ti sarà data la capacità di sopportare le tue difficoltà; a misura della tua capacità di sopportare, si alleggerisce il peso della tua anima ed essa è consolata nelle sue afflizioni; a misura della sua consolazione, si accresce il tuo amore per Dio; e a misura del tuo amore, si accresce la tua gioia nello Spirito". E il movimento continua: a misura della tua gioia si accresce l’umiltà, ecc. (…)

Sono delineati come tre livelli concentrici di realtà: tra il Padre e Gesù, tra Gesù e noi, tra di noi. Il comandamento dell’amore vicendevole pesca nell’intimità di amore del Padre per il Figlio e del Figlio per noi. Fa da perno la persona del Figlio, inviato dal Padre, che si dà a noi nel suo amore salvatore. I comandamenti del Padre sono la salvezza dell’uomo, veicolano la partecipazione alla sua compiacenza in funzione di una comunione nell’amore e questo è il senso della nostra storia. Chi non coglie questa dimensione troverà senza senso o troppo dura la vita perché non riposa in un’intimità (è la sfumatura di significato del termine ‘rimanere’). La dinamica dell’amore è tale che o si estende a tutti o si perde, nel senso che non è possibile limitare a qualcuno l’amore e negarlo ad altri. Non sarebbe più un amore come quello di Gesù. E l’estensione a tutti ha una concretezza che ne qualifica la verità: “Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati”. L’amore a tutti comporta il trascinare tutti dentro quell’amore vicendevole che è tipico dell’esperienza di comunione con Gesù, rivelatore dell’amore del Padre. Tanto che Gesù può riassumere i comandamenti in uno solo: l’amore vicendevole, che deriva dall’intimità di vita con il proprio Dio Salvatore. Se alla fine non si parla più di comandamenti, ma di un solo comandamento, vuol dire che quel comandamento non solo riassume tutti gli altri, ma di tutti mostra lo scopo unico, il sigillo di autenticità e di vigore. L’amore vicendevole è direttamente dipendente dall’esperienza dell’amore salvatore del Signore. Non si accede all’amore per entusiasmo, ma per intima compassione, goduta e condivisa.

 

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Quinto ciclo

Anno liturgico B (2014-2015)

Tempo di Pasqua

 

Ascensione

(17 maggio 2015)

 

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At 1,1-11;  Sal 46;  Ef 4,1-13;  Mc 16,15-20

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La tradizione comune della Chiesa ha sempre collegato l’ascensione di Gesù con la visione della nostra futura assunzione nella gloria, come proclama la colletta: “Esulti di santa gioia la tua Chiesa, o Padre, per il mistero che celebra in questa liturgia di lode, poiché nel tuo Figlio asceso al cielo la nostra umanità è innalzata accanto a te, e noi, membra del suo corpo, viviamo nella speranza di raggiungere Cristo, nostro capo, nella gloria”. Afferma Leone Magno: “l`Ascensione di Cristo è quindi la nostra stessa elevazione e là dove ci ha preceduti la gloria del capo, è chiamata altresì la speranza del corpo”.

La liturgia di oggi, come salmo responsoriale, canta il salmo 46, salmo che profetizza l’ascensione di Gesù. Ma quando si vuol descrivere l’evento nella sua drammatizzazione liturgica si fa uso del salmo 23 dove, incalzanti, si susseguono le grida dei custodi delle porte celesti: “Chi è questo re della gloria? … Alzate, o porte, la vostra fronte, alzatevi, soglie antichi ed entri il re della gloria”. Gli angeli si chiedono – è Gregorio Nazianzeno a spiegare -: Egli non appartiene alla carne e al sangue: come mai le sue vesti sono rosse, simili a quelle di uno che pigia un tino traboccante? Allora tu mostrerai loro la veste del suo corpo, abbellita dagli ornamenti della passione e della divinità, che non ha mai brillato di tanto amore e di tanta bellezza.

E Ambrogio commenta: “Angeli e arcangeli lo precedevano, ammirando il bottino fatto sulla morte. Sapevano che niente di corporeo può accedere a Dio e tuttavia vedevano il trofeo della croce sulla sua spalla: era come se le porte del cielo, che l’avevano visto uscire, non fossero più abbastanza grandi per riaccoglierlo. Non erano mai state a misura della sua grandezza, ma per il suo ingresso di vincitore occorreva una via più trionfale: davvero non aveva perso nulla ad annientarsi!”

Ecco: il senso dell’ascensione sta tutto in questo riportare l’umanità nella gloria di Dio. È la nostra storia che è assunta in Dio; Dio parla alla nostra storia e la nostra storia parla di Dio. Sarà direttamente a partire da questa percezione che gli apostoli, come termina il vangelo di Marco, “Allora essi partirono e predicarono dappertutto”. A tutti è dovuta la storia dell’amore del nostro Dio, perché tutti sono stati creati a partire da quell’amore e tutti sono chiamati a godere di quell’amore.

Nella presentazione dell’evento secondo la narrazione degli Atti degli apostoli, è caratteristico che i discepoli, ad arco terreno di vita di Gesù ormai concluso, chiedano ancora: “Signore, è questo il tempo nel quale ricostituirai il regno per Israele?”. E si sentono rispondere: “Non spetta a voi conoscere … ma riceverete la forza dello Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni …”. Il tempo della nostra vita, il tempo della Chiesa, non è il tempo per stare a vedere gli esiti promessi, non è il tempo per spiare come si realizzano le promesse; è il tempo della testimonianza, vale a dire è il tempo in cui far vedere la grandezza dell’amore di Dio, manifestato in Gesù, che tutti riguarda. Non solo nel senso che riguarda tutti singolarmente, ma che riguarda tutti nel modo di stare insieme, nel modo di vivere quella comunione d’amore che renda presente e percepibile la grandezza dell’amore di Dio.

Per questo, s. Paolo può dichiarare: “Ma cosa significa che ascese, se non che prima era disceso quaggiù sulla terra? Colui che discese è lo stesso che anche ascese al di sopra di tutti i cieli, per essere pienezza di tutte le cose”. L’affermazione però non ha un sapore di un dato di fatto semplicemente, ma costituisce l’indicazione del movimento di rivelazione di Gesù, proprio come commentava s. Ambrogio: “ … davvero non aveva perso nulla ad annientarsi”. Scendere comporta il non preferire nulla all’amore, il non vincolarsi a nulla per non perdere la grazia dell’amore e gustare la comunione con Dio che ci vuole tutti alla sua mensa. Solo chi scende può ascendere.

In questa ‘discesa’ va collocato il contesto della missione alle genti con  l'assicurazione della presenza costante del Signore. Quando Gesù, nell'ultima cena, aveva ricordato il suo ritorno al Padre, aveva causato negli apostoli una grande tristezza. Ora che gli apostoli lo vedono sparire in cielo senza poterlo più rivedere provano una grande gioia. Evidentemente il mistero vissuto dagli apostoli era d’altra natura rispetto a quello che immaginiamo. I discepoli hanno visto il fatto materiale dell’ascendere di Gesù al cielo (il testo usa il verbo greco βλέπω, vedere) ma hanno anche intravisto la portata mistica del fenomeno (il testo usa il verbo θεάομαι, contemplare). Ciò significa che lo sparire di Gesù dalla loro vista permetteva di coglierlo presente nei loro cuori. Nella percezione degli apostoli l’ascensione è colta come un dono di presenza, come un’interiorizzazione di rapporto, che non solo non perde nulla della sua realtà con la sottrazione della fisicità di Gesù, ma acquista profondità e intensità insospettate.

Nel racconto di Marco ciò che colpisce è una specie di forza potente che muove tutto: il cuore degli apostoli come l’insieme del mondo e lo stesso desiderio di Dio per l’uomo. In quel correre alla predicazione non va visto solo lo zelo degli apostoli, ma anche l’attesa degli uomini e il desiderio di Dio. Così la presenza potente di Gesù accanto ai suoi non va vista nella capacità di fare miracoli, come farebbe supporre l’annotazione dell’evangelista nel finale del suo vangelo; va vista piuttosto in riferimento alla predicazione, vale a dire alla capacità che ha di riempire il cuore, che parla a tutti della sua presenza viva, senza che il mondo lo possa soffocare. La molla segreta di tale capacità è lo stesso desiderio di salvezza che Dio nutre nei riguardi degli uomini e che si comunica ai discepoli per raggiungere tutto il mondo.

 

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Quinto ciclo

Anno liturgico B (2014-2015)

Tempo di Pasqua

 

Pentecoste

(24 maggio 2015)

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At 2,1-11;  Sal 103;  Gal 5,16-25;  Gv 15,26.27; 16,12-15

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O fuoco la cui venuta è parola, il cui silenzio è luce! Fuoco che fissi i cuori nell’azione di grazie” canta s. Efrem e la liturgia di oggi, con il canto al vangelo, proclama: “Vieni, santo Spirito, riempi i cuori dei tuoi fedeli e accendi in essi il fuoco del tuo amore”.

Con la festa di Pentecoste si chiude il tempo pasquale. Il mistero pasquale si celebra nella sua interezza proprio con l'invio dello Spirito Santo, il quale ci inserisce e ci fa vivere nel Signore Gesù Cristo, morto e risorto per noi.

Gesù, durante la festa delle Capanne, annunciatrice delle benedizioni messianiche, aveva fatto una promessa: “Nell’ultimo giorno, il grande giorno della festa, Gesù, ritto in piedi, gridò: «Se qualcuno ha sete, venga a me, e beva chi crede in me. Come dice la Scrittura: Dal suo grembo sgorgheranno fiumi di acqua viva». Questo egli disse dello Spirito che avrebbero ricevuto i credenti in lui: infatti non vi era ancora lo Spirito, perché Gesù non era ancora stato glorificato” (Gv 7,37-39). Aveva promesso di inviarci il suo Spirito come fonte zampillante di vita eterna da dentro il nostro cuore.

La promessa si realizza nel giorno di Pentecoste con la discesa dello Spirito Santo descritta con la doppia immagine delle lingue e del fuoco: “Apparvero loro lingue come di fuoco, che si dividevano, e si posarono su ciascuno di loro, e tutti furono colmati di Spirito Santo” (At 2,3-4). E Gesù aveva anticipato: “Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito” (Gv 16,13) e “Lo Spirito vi insegnerà ogni cosa; vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto” (Gv 14,26).

L’azione dello Spirito è un’azione di memoria. Non però semplicemente di far venire alla mente, di riportare alla mente. La memoria è collegata al fuoco, perché la verità che costituisce la natura dello Spirito è la verità dello splendore dell’amore del Padre e di Gesù per noi. E se Gesù dice che lo Spirito ci guiderà a tutta la verità (nel testo greco, propriamente, è detto che ci guida nella verità, stato in luogo e non alla verità, moto a luogo) vuol dire che la guida dello Spirito non è tesa a farci raggiungere la verità, ma ad aprire ogni evento della vita alla manifestazione della verità. In altre parole, in gioco è la possibilità di vivere la nostra vita, dentro tutti gli eventi che la caratterizzano, esteriori e interiori, nella logica dell’esperienza dell’amore di Dio per noi, che nell’umanità di Gesù ha la sua manifestazione più totale. Ogni evento può essere vissuto nell’esperienza dell’amore di Dio che ci trascina nella sua dinamica di comunione con Lui e tra di noi. La guida dello Spirito è tesa proprio a far sì che nessun evento ci impedisca l’esperienza di questo amore; a far sì che ogni evento ci richiami a vivere la potenza di quell’amore, che nulla può mortificare.

E quando si sottolinea che lo Spirito dirà tutto ciò che ha udito, non si fa riferimento alle semplici parole di Gesù che noi troviamo nei vangeli, ma al colloquio eterno di Dio in se stesso a proposito della creazione e della salvezza dell’uomo, scopo di tutta la creazione. Quel colloquio riguarda il destino di comunione dell’uomo nella gioia dell’amore con il suo Dio, destino che si gioca sull’immolazione dell’Agnello prima della fondazione del mondo (Ap 13,8). Lo Spirito ha udito tutto quello che il Padre e il Figlio si dicono dall’eternità nella condivisione del loro amore folle per l’uomo. Quella memoria incendierà nel nostro cuore, del contenuto di quella memoria incendierà il nostro cuore. Il fuoco esprime appunto la cifra di quel colloquio, la condivisione di un segreto capace di far ardere il cuore. Significa poter conoscere il mistero del Signore Gesù in tutta la potenza di rivelazione dell’amore di Dio per l’uomo, nella condivisione del suo segreto.

Oltre al fuoco, l’immagine caratteristica della Pentecoste è quella delle lingue. Il miracolo di pentecoste possiamo esprimerlo così: i vari idiomi si unificano in un’unica lingua, la diversità si apre alla comunione e tutti comprendono la stessa cosa. Ciò che accomuna, comunque, è solo l’opera di Dio riconosciuto nel suo amore per gli uomini. Tutti mantengono la proprietà dei rispettivi linguaggi, ma tutti esprimono l’identica cosa: i cuori parlano oramai un’unica lingua, a differenza dell’esperimento della torre di Babele, quando gli uomini parlavano l’unica lingua del dominatore di turno in ordine al sogno di grandezza di qualche potente, ma i cuori erano schiavizzati, zittiti nella loro lingua. É il miracolo operato nei cuori dallo Spirito quando li convince a muoversi nella carità, aprendo la diversità alla comunione e facendo esperienza che così viene proclamato l’amore di Dio che riempie i cuori. Riconoscere, assecondare, favorire tale dinamica, significa aver ricevuto e agire nella potenza dello Spirito Santo. E lo Spirito Santo non può che condurre alla conoscenza del mistero del Signore Gesù che dell’amore di Dio per gli uomini è il testimone per eccellenza.

L’unità dell’opera di Dio si manifesta in quei frutti di cui Paolo attribuisce l’azione allo Spirito: “Il frutto dello Spirito, invece, è amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé; contro queste cose non c’è Legge” (Gal 5,22). Quei frutti si possono interpretare così: i primi tre rivelano la partecipazione all’umanità di Gesù perché di essi Gesù dice che sono suoi: ‘rimanete nel mio amore, vi do la mia gioia, vi do la mia pace’; gli altri tre rivelano la radice del cuore dove pescano i sentimenti: larghezza, senso e capacità di bene; gli ultimi tre rivelano la modalità con cui tenere aperto il proprio vissuto rispetto alla grazia dell’amore: fede, mitezza e vigilanza. Possiamo però domandarci: perché quei frutti parlano dello Spirito, se lo Spirito è dato in ordine alla missione nel mondo? Lo Spirito investe l’universo irradiando dal centro delle persone; opera nel mondo a partire dalla trasfigurazione delle persone. I frutti alludono alla realizzazione della vocazione all’umanità che scaturisce dalla comunione con Dio, di cui Gesù ci fa partecipi nel suo Spirito e che si riversa, in solidarietà con i suoi sentimenti, su tutti gli uomini, destinatari come noi del suo amore misericordioso. La funzione perciò dello Spirito è quella di farci ritrovare in Gesù, di renderci appartenenti a Gesù (“Io sono la vite, voi i tralci” ... “rimanete in me”) in quella umanità ormai aperta alla comunione con Dio, solidale con lui e con gli uomini. Appena il cuore viene liberato dalle sue illusioni di potenza o presunzioni di potere, torna a godere della sua umanità compiendone gli aneliti e ritrovandosi solidale con tutti, in Gesù. E questo fa vivere ‘un cuore solo e un’anima sola’ con i nostri fratelli, proprio come invochiamo nella liturgia eucaristica: “dona la pienezza dello Spirito Santo perché diventiamo in Cristo un solo corpo e un solo spirito” (Canone III).

 

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Quinto ciclo

Anno liturgico B (2014-2015)

Solennità e feste

 

Ss. Trinità

(31 maggio 2015)

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Dt 4,32-34.39-40;  Sal 32;  Rm 8,14-17;  Mt 28,16-20

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La liturgia oggi celebra la confessione della fede in Dio: Padre, Figlio e Spirito Santo. Ora, la confessione della fede non esprime semplicemente la convinzione dei credenti in certi dati di verità, ma più propriamente esprime l’esperienza che ha permesso la formulazione di quei dati. Il principio della proclamazione del Credo nella liturgia, come di tutte le formule di confessione della fede, si radica nella grande esperienza religiosa del popolo di Israele: Dio non è un oggetto di conoscenza, ma un Soggetto di relazione. Non si arriva a Dio per via speculativa, ma dentro una storia di salvezza, accogliendo l’iniziativa di Dio. Dire “io credo” significa prima di tutto dire: benedico colui che ha fatto questo e questo per me, accetto di rispondere all’alleanza che ha voluto offrirmi, sono suo servo, erede delle sue promesse e fruitore del suo regno. La proclamazione delle Scritture come la celebrazione liturgica sono percepite come memoriale dell’iniziativa di Dio per l’uomo, il quale è chiamato a riconoscere l’amore di Dio per lui nella sua storia che diventa sacra, storia di salvezza.

L’antifona di ingresso della liturgia di oggi lo esprime molto bene: “Sia benedetto Dio Padre, e l’unigenito Figlio di Dio, e lo Spirito Santo: perché grande è il suo amore per noi”. È la stessa cosa che proclamano i beati in paradiso, con il segno del tau in fronte: “La salvezza appartiene al nostro Dio seduto sul trono e all’Agnello” (Apoc 7,10). La proclamazione, a livello sonoro, esprime quello che il tau significa a livello visivo: Dio è santo, a Lui la salvezza! Il sigillo e le parole rivelano la comprensione di Dio da parte degli uomini secondo la definizione giovannea: Dio è amore (1Gv 4,8). Come a dire: ora sappiamo per esperienza che il Dio che conosciamo è un Dio pieno di amore per noi! Ora ammiriamo la sua gloria nel vedere che Lui è tutto in tutti.

E Dante può cantare alla fine del suo poema, ormai abilitato alla visione del suo Dio:

Nel suo profondo vidi che s'interna, / legato con amore in un volume, / ciò che per l'universo si squaderna: ///   sustanze e accidenti e lor costume / quasi conflati insieme, per tal modo / che ciò ch'i' dico è un semplice lume. ///  La forma universal di questo nodo / credo ch'i' vidi, perché più di largo,/ dicendo questo, mi sento ch'i' godo.

E negli ultimi versi del canto XXXIII del Paradiso esclama:

veder voleva come si convenne / l'imago al cerchio e come vi s'indova; /// ma non eran da ciò le proprie penne: /se non che la mia mente fu percossa / da un fulgore in che sua voglia venne. /// A l'alta fantasia qui mancò possa; / ma già volgeva il mio disio e 'l velle, / sì come rota ch'igualmente è mossa, /// l'amor che move il sole e l'altre stelle.

Non si può spiegare, ma si può godere. Non si può comprendere, ma si può restare pacificati e riempiti nel volere e nel desiderare, pienamente, in modo che l’esperienza dell’amore di Dio sia la causa efficiente prima del nostro agire e del nostro sentire.

Quello che san Paolo proclama nella sua lettera ai Romani: “Tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, questi sono figli di Dio” (Rm 8,14)! Da comprendersi: “noi sappiamo che tutto concorre al bene, per quelli che amano Dio …. Io sono persuaso che né morte né vita … potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore” (Rm 8,28.38).

Gesù aveva promesso che lo Spirito che avrebbe mandato ci avrebbe guidati a tutta la verità (cfr Gv 16,13). Il che significa: ci farà conoscere l’amore del Padre, che in Gesù ha il suo Testimone assoluto, nel quale ci radica e ci fa vivere. E se il vangelo di Matteo finisce con la promessa: “Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,20) noi possiamo intendere: con l’invio dello Spirito Santo, siamo diventati un solo spirito con il Signore Gesù da vivere la nostra umanità nello splendore della sua vocazione, vale a dire di essere chiamata alla mensa dell’amore di Dio insieme a tutti i fratelli. Perché Gesù, che è con noi, ci innesta nel suo movimento di rivelazione al mondo dell’amore di Dio, riunendo tutti alla stessa mensa, perché tutti chiamati allo stesso destino.

E allora, rifacendomi ancora ai versi del poeta, avverrà anche per noi quello che è avvenuto per lui nella sua ascesa verso Dio:

Al Padre, al Figlio, a lo Spirito Santo / cominciò, ‘gloria!’, tutto ‘l paradiso, / sì che m’inebriava il dolce canto.

Ciò ch’io vedeva mi sembiava un riso / de l’universo; per che mia ebbrezza / intrava per l’udire e per lo viso (Par XXVII).

 

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Quinto ciclo

Anno liturgico B (2014-2015)

Solennità e feste

 

Ss. Corpo e Sangue di Cristo

(7 giugno 2015)

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Es 24, 3-8;  Sal 115;  Eb 9, 11-15;  Mc 14, 12-16. 22-26

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Furono le visioni di Giuliana di Cornillon, monaca agostiniana di Liegi, ad avere un influsso decisivo nell’introduzione di questa festività, che per la prima volta si celebrò nella diocesi di Liegi nel 1247. Urbano IV, già arcidiacono di Liegi e confessore di Giuliana, la prescrisse per tutta la Chiesa nel 1264.

Parafrasando il Padre Nostro, s. Francesco così commenta l'invocazione 'dacci oggi il nostro pane quotidiano': “Il nostro pane quotidiano, il tuo Figlio diletto, il Signore nostro Gesù Cristo, dà a noi oggi: in memoria, comprensione e reverenza dell'amore che egli ebbe per noi e di tutto quello che per noi disse, fece e patì” (FF 271). E nella sua prima ammonizione, tutta dedicata al mistero del Corpo del Signore, scrive stupendamente: "Per cui lo Spirito del Signore, che abita nei suoi fedeli, è lui che riceve il santissimo corpo e il sangue del Signore. ... Ecco, ogni giorno egli si umilia, come quando dalla sede regale discese nel grembo della Vergine; ogni giorno egli stesso viene a noi in apparenza umile; ogni giorno discende dal seno del Padre sull'altare nelle mani del sacerdote. E come ai santi apostoli si mostrò nella vera carne, così anche ora si mostra a noi nel pane consacrato. E come essi con gli occhi del loro corpo vedevano soltanto la carne di lui, ma, contemplandolo con gli occhi dello spirito, credevano che egli era lo stesso Dio, così anche noi, vedendo pane e vino con gli occhi del corpo, dobbiamo vedere e credere fermamente che questo è il suo santissimo corpo e sangue vivo e vero. E in tale maniera il Signore è sempre presente con i suoi fedeli ..." (FF 143-145).

Ignazio di Antiochia, scrivendo ai Romani poco prima di essere condotto al supplizio, diceva: "Voglio il pane di Dio che è la carne di Gesù Cristo, della stirpe di David e come bevanda voglio il suo sangue che è l'amore incorruttibile" (Lett. ai Romani, VII,3).

È il fervore dei santi davanti ai misteri di Dio. Le celebrazioni eucaristiche che facciamo ci trovano in tale fervore? Muovono il nostro desiderio?

Il mistero dell’Eucaristia è celebrato coralmente dagli inni di s. Tommaso d’Aquino (Pange lingua, Lauda Sion) e soprattutto dai tre prefazi, ai quali mi rifaccio per suggerire qualche porta di accesso allo splendore di questa festa.

Il primo si incentra sul memoriale del sacrificio: viene celebrato il mistero d’amore di Dio per l’uomo, che nel sacramento continuamente si ripresenta perché ognuno vi possa essere immesso e in esso rimanere.

Il secondo celebra l’eucaristia come vincolo di unità e perfezione: “in questo grande mistero tu nutri e santifichi i tuoi fedeli, perché una sola fede illumini e una sola carità riunisca l’umanità diffusa su tutta la terra. E noi ci accostiamo a questo sacro convito, perché l’effusione del tuo Spirito ci trasformi a immagine della tua gloria”. È il mistero della santità come mistero di fraternità realizzata, a immagine della Trinità. La vita eterna che il sacramento ci procura è la vita nello Spirito che ci fa vivere un cuor solo e un’anima sola, nella lode di Dio; un assaggio di paradiso.

Il terzo celebra l’eucaristia come pegno di risurrezione: “nell’eucaristia, testamento del suo amore, egli si fa cibo e bevanda spirituale per il nostro viaggio verso la Pasqua eterna. Con questo pegno della risurrezione finale partecipiamo nella speranza alla mensa gloriosa del tuo regno”. È la celebrazione del mistero del Regno. Il principio di fondo, illustrato dai Padri nella spiegazione della preghiera del Padre nostro, è semplice: su quello che sarà e che non verrà mai meno va orientata la nostra esistenza. Accedere alla mensa del Corpo e Sangue di Cristo vuol dunque dire imparare a percepire ciò che soddisfa il cuore dell’uomo e a vivere del Dono di Dio, fino a che la verità di questo appaia finalmente al nostro cuore in tutto il suo splendore.

Tre sono i verbi significativi che ricorrono nei prefazi: “… a te per primo si offrì vittima di salvezza”, “in questo grande mistero tu nutri e santifichi”. “Si offrì” vuol dire ‘non si tirò indietro’, ‘non preferì nulla all’amore che lo consumava dentro’, ‘svelò tutta la sua passione d’amore per il Padre e per gli uomini’. In quell’offrirsi non è accentuato tanto la natura riparatrice del suo sacrificio quanto lo splendore dell’amore del Padre che tanto ha amato gli uomini da dare quel suo Figlio unigenito, su cui era posto tutto il suo compiacimento. Il nutrire (il suo Corpo si fa pane di vita, il suo Sangue bevanda di salvezza) allude al fatto che comunica la forza del suo amore che risana e vivifica, rendendoci capaci di percorrere la via per il Regno. Il santificare (è lo Spirito Santo che in noi assume il Corpo e il Sangue di Cristo, rendendoci un tutt’uno con quel Corpo – si veda la prima ammonizione di s. Francesco di Assisi) allude alla potenza di trasfigurazione dello Spirito che ci fa vivere in Cristo e di Cristo fino a che tutto di noi parli di Lui. La cosa straordinaria è che la tensione del santificare non mira che al mistero della fraternità, l’unico segno inequivocabile della presenza di Dio, dello splendore della sua gloria. Quando preghiamo che ci trasformi a immagine della sua gloria, in effetti, chiediamo di poter essere immessi nel mistero d’amore della Trinità da cui deriva la fraternità tra gli uomini. Il segno più eloquente di quell’amore e dello spazio nuovo di fraternità che ne deriva per gli uomini è la dicitura ‘re della gloria’ posta sul capo del Crocifisso.

Se ci domandiamo qual è la virtù specifica dell'Eucarestia, a cosa tende, non possiamo non rispondere con s. Agostino: "La virtù propria di questo nutrimento è quello di produrre l'unità, affinché, ridotti ad essere il corpo di Cristo, divenuti sue membra, siamo ciò che riceviamo" (Disc. 272). L'amen che rispondiamo al 'corpo di Cristo' proferito dal sacerdote al momento della comunione eucaristica ha proprio questo significato: sì, riconosco di far parte di quel Corpo e accetto di vivere in modo da non ferire mai l'unità di quel corpo. È il mistero della comunione con Dio e tra gli uomini diventato lo scopo supremo dell'agire del cuore. Come dice l'orazione sulle offerte: "Concedi benigno alla tua Chiesa, o Padre, i doni dell'unità e della pace, misticamente significati nelle offerte che ti presentiamo".

 

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Quinto ciclo

Anno liturgico B (2014-2015)

Solennità e feste

 

Sacro Cuore di Gesù

(12 giugno 2015)

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Os 11,1.3-4.8c-9;  Is 12,2-6;  Ef 3,8-12.14-19;  Gv 19,31-37

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Il simbolo più eloquente dell’amore di Dio per l’uomo, almeno nella liturgia latina, è il ‘sacratissimo cuore di Gesù’ che la lancia del soldato apre sul mondo, spalancando sull’universo il segreto di Dio. L’antifona d’ingresso della festa del S. Cuore canta: “Di generazione in generazione durano i pensieri del suo cuore, per salvare dalla morte i suoi figli e nutrirli in tempo di fame”, eco del salmo 32 là dove proclama: “Il Signore annulla i disegni delle nazioni, rende vani i progetti dei popoli. Ma il piano del Signore sussiste per sempre, i pensieri del suo cuore per tutte le generazioni”. Il piano del Signore è la sua determinazione all’amore per l’uomo, una determinazione che non si lascia vincere da nessuna diffidenza e cattiveria. Dio resta solidale con l’uomo comunque. Il Cuore di Gesù svela questo piano e lo rende noto a tutti, a chiunque, per sempre.

Lo ripete s. Paolo nella sua lettera agli Efesini quando descrive l’annuncio evangelico del mistero nascosto da secoli in Dio e ora rivelato al mondo dicendo: “…secondo il progetto eterno che egli ha attuato in Cristo Gesù nostro Signore …”. Con lo straordinario invito finale: “Che il Cristo abiti per mezzo della fede nei vostri cuori, e così, radicati e fondati nella carità, siate in grado di comprendere con tutti i santi quale sia l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità, e di conoscere l’amore di Cristo che supera ogni conoscenza …” (Ef 3,11.17-19).

Esperienza certamente fascinosa ma per nulla scontata. Se interrogo il mio cuore, nella sua fatica del vivere, non posso non domandarmi: ma perché resto così insensibile davanti al suo cuore spalancato?  Perché non mi faccio toccare? I comandamenti del Signore, rispetto alla sapienza del mondo che pervade la nostra carne, non hanno spesso quella risonanza per la quale non ci sentiamo attirati, ma come impauriti, respinti?  Eppure, come dice misteriosamente il profeta Zaccaria: “Riverserò sopra la casa di Davide e sopra gli abitanti di Gerusalemme uno spirito di grazia e di consolazione: guarderanno a me, colui che hanno trafitto” (Zc 12,10). Profezia, che il vangelo di Giovanni interpreta come figura della morte in croce di Gesù (cfr Gv 19,37). È proprio Dio che si lascia trafiggere e la salvezza viene dal fatto di guardare a lui trafitto con altri occhi. Non c’è altra strada per convertirsi, per credere. Non è sdegnandosi con se stessi o sognando una giustizia superiore che il cuore attinge al mistero di Dio, ma solo commuovendosi davanti ad un amore così toccante che ti rende prezioso nonostante la tua indegnità.

Acquistano una risonanza insospettata le parole di Giovanni nella sua prima lettera se le riferiamo direttamente al Cuore di Gesù: “… davanti a lui rassicureremo il nostro cuore, qualunque cosa esso ci rimproveri. Dio è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa” (1Gv 3,19-20). È Dio a sovrastare il nostro peccato con la sua bontà. Il riconoscimento del peccato richiama in primo luogo la bontà di Dio, non la nostra condanna. La bontà crea sempre uno spazio nuovo al cuore dell'altro permettendogli di entrare nuovamente nella vita, apre un tempo nuovo senza bloccare il cuore al passato. Il Suo amore è più grande del nostro peccato. E proprio questa esperienza è la garanzia più solida della nostra speranza che ci apre alla comunione con Dio e con i fratelli, pacificando noi stessi.

Giovanni è testimone oculare: “uno dei soldati con una lancia gli colpì il fianco, e subito ne uscì sangue e acqua” (Gv 19,34).  Evidentemente, non allude solo al fatto visto, ma al significato che ne ha dedotto, significato che corrisponde a quanto aveva scritto all’inizio del suo vangelo: “ e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre, pieno di grazia e di verità … Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato” (Gv 1,14.18). Il cuore squarciato illustra quella gloria e il fatto viene narrato perché anche chi legge possa ritrovarsi nella stessa esperienza del discepolo prediletto. Non si tratta di una informazione di cronaca, ma dello svelamento di un segreto capace di rinnovare tutta la vita. Quella gloria appare a chi guarderà verso quel trafitto sentendosi trafitto dalla intensità del suo amore e dal dolore di non averlo compreso prima. Vedremo allora, come dice il profeta Osea, l’opera di Dio per noi: “A Efraim io insegnavo a camminare tenendolo per mano, ma essi non compresero che avevo cura di loro” (Os 11,3). Così prega la colletta: “Padre di infinita bontà e tenerezza… donaci di attingere dal Cuore di Cristo trafitto sulla croce la sublime conoscenza del tuo amore …”.

Mi piace riportare un aneddoto delle fonti francescane. Vi si narra di un sogno rivelatore di due eretici, poi convertiti. Avevano visto il Signore Gesù chinarsi sul petto di Giovanni e questi a sua volta su quello di Gesù. Ad un certo punto, Gesù aprì con le sue stesse mani la ferita del costato e vi apparve perfettamente visibile san Francesco, all’interno del petto di nostro Signore; poi Gesù chiuse la sua ferita e vi rinchiuse san Francesco (FF 2547). Ma di Francesco si dice che avesse costantemente davanti agli occhi il suo dolce Gesù, crocifisso: “I frati che vissero con lui, inoltre sanno molto bene come ogni giorno, anzi ogni momento affiorasse sulle sue labbra il ricordo di Cristo; con quanta soavità e dolcezza gli parlava, con quale tenero amore discorreva con Lui. Era davvero molto occupato con Gesù. Gesù portava sempre nel cuore, Gesù sulle labbra, Gesù nelle orecchie, Gesù negli occhi, Gesù nelle mani, Gesù in tutte le altre membra (FF 522).

L’invito alla fede da parte di Giovanni evangelista nel riportare l’episodio della lancia che squarcia il costato di Cristo allude all’esperienza di visione dell’amore di Dio per noi che proietta la vita in spazi assolutamente nuovi, fino ad allora impensabili. Non è che l’uomo abbia motivi così evidenti per amare Dio; ma se sosta in preghiera quei motivi incominciano ad apparire al cuore e tutti alla fine si riducono all’esperienza del venir come rinchiusi nel fianco aperto di Cristo, spalancato sul mondo, resi ormai suoi compagni di testimonianza dello splendore dell’amore di Dio per l’uomo.

 

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Quinto ciclo

Anno liturgico B (2014-2015)

Tempo Ordinario

 

XI  Domenica

(14 giugno 2015)

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Ez 17,22-24;  Sal 91;  2 Cor 5,6-10;  Mc 4, 26-34

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Se paragoniamo il testo di Ezechiele con le parabole di Gesù ci accorgiamo del cambiamento di prospettiva con cui considerare il regno di Dio. Il profeta concepisce una restaurazione gloriosa in continuità con il passato (vedi la talea dall’antico cedro), mentre Gesù parla di un seme nuovo. Il regno di Dio non prolunga il passato né sposa la sua grandezza agli occhi del mondo. La talea del testo profetico è presa da un cedro, albero molto grande e piantata su un alto monte, mentre per Gesù il regno di Dio nasce da un seme piccolissimo e piantato sulla terra, nel mondo intero. La talea del cedro diventerà un albero magnifico (il cedro era considerato il re degli alberi), mentre per Gesù il regno di Dio sarà un albero molto modesto.

Se le descrizioni profetiche hanno dato vita ad attese messianiche trionfali, con le sue parabole Gesù smonta queste vane speranze: il regno di Dio avrà origini insignificanti e anche nel suo prodigioso sviluppo mancherà di splendore mondano. Ecco quanto risultava indigesto agli ascoltatori di Gesù e quanto risulta indigesto anche a noi, per le attese fasulle di una gloria di imperio di Dio che saranno sempre disattese.

Il racconto delle due parabole è la ripresa dell’invito iniziale del vangelo di Marco: “Credete al vangelo” (Mc 1,15), che, per essere percepito nella sua reale novità, potremmo tradurre: ‘abbiate fede in questa buona notizia’, ‘date fiducia a questa buona notizia’. In una duplice direzione, come sottolineano le due parabole del seme gettato nella terra e del granello di senape: ciascun cuore è invitato ad accogliere il seme della parola di Gesù, che, crescendo, costruisce una nuova fraternità dallo spirito evangelico; questa nuova comunità agisce nel mondo crescendo e attirando al Signore Gesù gli uomini di ogni dove, sempre custodendo la modestia dell’opera di Dio che non si impone, ma che affascina e attira.

Le parabole in effetti sono costruite sul contrasto tra il seme e il frutto, tra il seme piccolissimo e la pianta grande. Sottolineano la potenza del seme e l'esito certo finale. La parabola del seme non insiste tanto sulla sua piccolezza, ma sulla potenza che possiede nonostante la sua piccolezza. Il paragone del seme vale anche per la fede: “se aveste fede quanto un granellino di senapa ...” (Lc 17,6). Non da intendere: basta che abbiate almeno un pochino di fede. Piuttosto: aveste fede autentica, grande come un minutissimo seme di senape. I semi di senapa sono così minuti che se si mettono sul palmo della mano e si capovolge la mano come per rovesciarli per terra, nemmeno cadono giù. Era proverbiale l’immagine della piccolezza del seme di senapa. Il paragone è basato sulla potenza che il seme racchiude. E quando questa potenza si dispiega cresce a dismisura e diventa un albero e tutti gli uccelli del cielo (intesi dalla tradizione: i popoli pagani, i pensieri malvagi, tutti i pensieri dell’uomo) vengono a nidificare sui suoi rami, cioè sono attratti e lì trovano riposo. Tale potenza appartiene al seme, non a noi: questo è il motivo profondo della fiducia del cuore rispetto al peso della vita, al peso dei malvagi nella vita. Non importa se abbiamo una fede grande o piccola, basta che sia genuina e questa ha la potenza di fare miracoli, cioè di trasformare tutto il nostro cuore fino a che ogni desiderio e pensiero che vi si trova si riunisca e trovi riposo e compimento nel Signore Gesù.

L’allusione si deduce dai termini che il vangelo di Marco usa, inusuali per una semplice descrizione. Ad esempio, non usa il verbo ‘nidificare’ ma ‘accamparsi’; per dire che il frutto matura dice: il frutto si consegna (allusione alla consegna di Gesù agli uomini, alla consegna dei discepoli a Gesù!); per la mietitura che è arrivata usa l’espressione di Gioele 4,13 in cui si parla del raccolto che è presente, vale a dire che il messaggio di Gesù è destinato a tutti i popoli e tutti lo riconosceranno. Così la piccolezza del seme non è solo allusiva dell’inizio insignificante, ma dell’irrilevanza sociale della comunità dei credenti.

Come viene cantato al vangelo: “Il seme è la parola di Dio, il seminatore è Cristo: chiunque trova lui, ha la vita eterna”, la parola del Signore ha così potenza che basta accoglierne una in verità da essere capace di riunificare tutto di noi attorno, su e dentro di essa. Così, davanti al dramma del male che ci accompagna, resta la fiducia ancora più grande della potenza della parola di Dio, di quel Verbo, fatto uomo, accolto in cuore e capace di portare tutto a Lui e in Lui, come s. Paolo nella sua lettera ai Corinzi proclama: “sempre pieni di fiducia … siamo pieni di fiducia”.

L’aspetto singolare dell’immagine della pianta che cresce fino a permettere agli uccelli di nidificare è il capovolgimento di prospettiva rispetto al suo uso profetico tradizionale. Se, nel brano di Ezechiele, l’immagine indicava l’umiliazione dei due potenti regni antagonisti del Medio Oriente antico, Egitto e Assiria, nell’intelligenza evangelica l’immagine perde tutto il sapore di potenza mondana e si applica al regno di Dio che cresce a tal punto da attirare tutte le nazioni. L’inizio è insignificante, la modalità di crescita nascosta, ma l’esito fecondo.

Aggiungo ancora che Luca, all’immagine del seme, unisce quella del lievito, per mostrare come l’evidenza del Regno non riguardi una cosa o l’altra. Del regno non si può dire: eccolo qui, eccolo là. Riguarda l’insieme del mondo, della vita, dei rapporti, dell’agire e del sentire, dell’essere e del fare. Girolamo spiega come il lievito sia la conoscenza del mistero del Figlio di Dio fatto uomo per noi, la gioia della scoperta del Figlio di Dio come tesoro e perla preziosa tanto da investire tutte le proprie energie in quel cammino di scoperta e da cedere ogni altro bene in vista di ottenere e di condividere con tutti quel tesoro. Quel Verbo, seminato nella terra del nostro cuore, cresce e attira tutto a sé.

 

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Quinto ciclo

Anno liturgico B (2014-2015)

Tempo Ordinario

 

XII  Domenica

(21 giugno 2015)

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Gb 38,1.8-11; Sal 106; 2 Cor 5,14-17; Mc 4,35-41

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La liturgia collega l’immagine di Gesù che comanda al vento e al mare con quella di Dio che parla a Giobbe in mezzo all’uragano. Non viene sottolineata semplicemente la potenza di Dio: sarebbe banale l’esibizione di potenza da parte di Dio che domina il mare, pur così terribile. Se Dio parla di mezzo al turbine a Giobbe (siamo alla fine del libro, quando Dio ormai ha conquistato Giobbe all’incontro con lui e lo elogia davanti ai suoi amici perché ha pensato più rettamente di loro) è per introdurlo al mistero di un incontro che apre al senso del vivere. La vita è assai più misteriosa di quanto siamo portati ad ammettere. Così Gesù, che si è messo a dormire sulla barca nel lago in burrasca, non è destato dai discepoli per lasciarli a bocca aperta davanti al suo potere sul mare.

L’antifona di ingresso ci fornisce la finestra di luce appropriata: “Salva il tuo popolo e benedici la tua eredità, e sii la sua guida per sempre”. Si tratta del v. 9 del salmo 27/28, la cui versione recente, più in linea con il testo ebraico e greco, suona: “Salva il tuo popolo e benedici la tua eredità, sii loro pastore e sostegno per sempre”. Questa invocazione risuona alla fine della liturgia eucaristica celebrata secondo il rito bizantino, dopo che i fedeli hanno ricevuto la comunione e il sacerdote invoca sui fedeli la benedizione di Dio: “O Signore, tu che benedici coloro che ti benedicono e santifichi quelli che hanno fiducia in te, salva il tuo popolo e benedici la tua eredità. Custodisci tutta quanta la tua Chiesa, santifica coloro che amano il decoro della tua casa…”. L’intervento di Gesù per calmare il mare allude proprio al suo essere Pastore (vedi Gv 10) che non solo raduna e custodisce le sue pecore, ma dà anche la sua vita per loro.

Il passo della tempesta sedata comporta più livelli di lettura. Si inserisce anzitutto nella storia dei discepoli. Questi hanno accettato di stare con il loro Maestro, lo stanno imparando a conoscere e Gesù si premura di introdurli poco a poco nel suo mistero. Nella stessa giornata, i cui eventi coprono il racconto dei capitoli 4 e 5 di Marco, sono riunite sia la proclamazione delle parabole sul regno che la realizzazione di alcuni miracoli. Quella parola di Gesù che illustrava la realtà del regno di Dio nelle parabole e nelle spiegazioni private ai suoi discepoli era la medesima che aveva il potere di calmare la tempesta, guarire l’indemoniato e l’emorroissa, risuscitare la figlia di Giairo. Di fronte a quelle parole e a quella parola potente, i discepoli non possono non domandarsi, profondamente toccati nel loro intimo: davanti a chi ci troviamo? Chi è dunque costui? È il primo significato del brano. Il canto al vangelo ci introduce alla condivisione dei sentimenti dei discepoli riportando l’esclamazione della gente di fronte al miracolo di Gesù che risuscita il figlio della vedova di Nain: “Un grande profeta è sorto tra noi, e Dio ha visitato il suo popolo” (cf. Lc 7,16) e prelude allo stupore dei commensali di fronte al comportamento di Gesù che rimanda la peccatrice perdonata nei suoi peccati: “Chi è costui che perdona anche i peccati?” (cf. Lc 7,49).

Ma il brano si inserisce anche nella storia di Gesù. Lui dorme sulla barca in mezzo alla tempesta e viene svegliato dai discepoli spaventati. L’annotazione non ha semplicemente il sapore di cronaca vissuta, ma di accesso a un mistero più profondo. Il mare in tempesta assume il valore simbolico delle potenze del male che Dio domina. In effetti, i verbi usati da Marco nel descrivere la scena non si addicono tanto ad un’azione di potenza sul mare, ma si riferiscono all’azione di un esorcismo: ‘minacciò’, ‘taci’, verbi che si ritrovano in altre esperienze di esorcismo narrate nei vangeli. L’allusione alla lotta contro il male è evidente. E quando Dio svelerà tutta la sua potenza contro il male? Quando si addormenterà sulla croce e attraverso quel sonno sconvolgerà il regno degli inferi. La morte in croce di Gesù viene spesso percepita come un sonno perché poi si sveglia, perché poi risuscita e su di lui la morte non avrà più alcun potere e il male è vinto.

C’è pure un’allusione alla storia dei credenti, che si sentiranno molte volte oggetto del rimprovero, amorevole, del Signore: “Perché avete paura? Non avete ancora fede?”. Potremmo rendere: perché avete così paura del male? Oppure: forse che non vi fidate di me? Temete che vi inganni? Gesù è amorevole nel fare il rimprovero perché sa che il cuore dell’uomo, per quanto desideri la vita, ha paura di viverla temendo l’inganno e che occorre un lungo tragitto per collocarsi stabilmente nella fiducia. É la nostra storia.

Di fronte alla scena evangelica, possiamo anche farci un’ulteriore domanda: perché i discepoli hanno avuto paura? Detto in altre parole: quando il male comincia a ghermirci? Sappiamo che il male serpeggia dentro di noi e non è un problema, sappiamo che ci lambisce; ma quando comincia ad avere la meglio su di noi? Un particolare del racconto ci può illuminare. I discepoli hanno dimenticato che quella traversata l’aveva ordinata Gesù. È Gesù che ordina: “Passiamo all’altra riva”. Nel passo parallelo di Matteo è tanto evidente che si dice: “Salito sulla barca, i suoi discepoli lo seguirono” (Mt 8,23). Tutto ciò che quella traversata comporta sta dentro il comando di Gesù. Se i discepoli non avessero completamente dimenticato che era stato Gesù a chiedere loro di iniziare la traversata, probabilmente non si sarebbero lasciati sorprendere dalla paura, che li ha fatti sentire soli, in balia delle onde. La fede è appunto percezione di compagnia, una compagnia di alleanza. Non che l’uomo non provi più paura di fronte al male, ma se la vive in compagnia del proprio Signore è tutt’altra cosa. Così è la nostra vita, una traversata tra i marosi, all’interno e all’esterno. Vivere la vita dentro un’obbedienza a un’alleanza che sperimentiamo a nostro favore significa allora non permettere al male di ghermirci, significa non essere in balia degli inevitabili marosi. Sarebbe il senso della scena nella sua valenza ecclesiale: la barca è la chiesa che attraversa il mare di questo mondo in subbuglio; sebbene Gesù dorma, è sulla barca e la fede lo risveglia e le onde non l’affondano.

 

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Quinto ciclo

Anno liturgico B (2014-2015)

Tempo Ordinario

 

XIII  Domenica

(28 giugno 2015)

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Sap 1,13-15; 2,23-24;  Sal 29;  2 Cor 8,7.9.13-15;  Mc 5,21-43

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La narrazione dei due miracoli, la riconsegna alla vita della bambina morta e la guarigione dell’emorroissa, illustra la potenza della parola di Gesù che poco a poco svela il mistero della sua persona.

Possiamo entrare nel brano evangelico attraverso il canto del vangelo: “Il salvatore nostro Gesù Cristo ha vinto la morte e ha fatto risplendere la vita per mezzo del Vangelo” (cfr. 2Tm 1,10) e la conclusione della prima lettura tratta dal libro della Sapienza: “Ma per l’invidia del diavolo la morte è entrata nel mondo e ne fanno esperienza coloro che le appartengono” (Sap 2,24). Una prima osservazione sulla traduzione. Paolo, alla fine della sua vita, nell’imminenza del martirio, sintetizza il senso del vangelo nello splendore della vita che il Signore Gesù ha fatto scaturire per l’uomo riscattandolo dalla morte. A dire il vero, il testo greco non riporta ‘ha vinto’, ma, in contrapposizione al ‘fece risplendere’, dice con più precisione ‘ha reso inefficace la morte’, vale a dire ha svigorito la morte di tutto il suo potere, potendola ormai patire senza subirne la condanna. Ha lo stesso valore dell’espressione che viene riportata nel vangelo di Giovanni: satana gli viene contro con tutto il suo potere ma non trovando nulla di suo in lui non lo può distogliere dal suo compito di mostrare quanto è grande l’amore di Dio per gli uomini e quanto lui ama il Padre (cf. Gv 14,30-31). É vinta definitivamente l’invidia del diavolo e il cuore dell’uomo può tornare a splendere dell’amore di Dio che conferisce la vita.

La conclusione del brano della Sapienza andrebbe così inteso: “Ma per l’invidia del diavolo la morte è entrata nel mondo e quelli della sua parte la sperimentano”. E il versetto precedente: “Dio ha creato l’uomo con incorruttibilità, lo ha creato a immagine della propria eternità”, intendendo: l’eternità è la perfetta felicità perché senza possibilità di corruzione. Così, quelli che sono tratti dalla parte del diavolo sperimentano la morte. E qui morte non allude alla morte biologica, ma alla morte spirituale, alla mortificazione del cuore che non conosce più l’amore e subisce la mortificazione dell’essere.

Si tratta della conclusione del ragionamento degli empi, introdotto con le parole: “Dicono fra loro sragionando” e definito: “Hanno  pensato così, ma si sono sbagliati; la loro malizia li ha accecati. Non conoscono i misteriosi segreti di Dio ...” (Sap 2,1.21-22). Ora, quel ragionamento è ripreso nel vangelo di Matteo alla crocifissione di Gesù quando i capi: “... facendosi beffe di lui dicevano: ‘Ha salvato gli altri e non può salvare se stesso! È il re d’Israele; scenda ora dalla croce e crederemo in lui. Ha confidato in Dio, lo liberi lui, ora, se gli vuol bene” (Mt 27,42-43). I segreti di Dio riguardano proprio quel Figlio, venuto perché gli uomini abbiano la vita e la vita in abbondanza.

Così, i miracoli, narrati nel brano di oggi con tale intensità da assumere valenze simboliche precise, alludono alla potenza salvatrice del Figlio, testimone dell’amore di Dio per l’uomo, amore che farà risplendere proprio nel suo essere innalzato sulla croce, quando il potere della morte sarà esautorato. I miracoli sono l’occasione di rivelazione del Figlio di Dio, rivelazione che necessita, per esplicitare la sua potenza nel cuore dell’uomo, della fede.

Di due personaggi è mostrata la fede: un capo della sinagoga, Giairo e una donna, l’emorroissa. Alcuni particolari sono assolutamente significativi. Gesù è già stato scomunicato dalla sinagoga (cfr. Mc 3,6 e 3,22) e uno dei capi insiste, prostrandosi ai piedi di Gesù, perché venga a guarire sua figlia agli estremi e che muore prima che possano arrivare a casa. Ma Giairo continua a credere, anche quando tutti ormai lo dissuadono. Il brano suggerisce almeno due cose. La prima: quando Gesù è supplicato con fede, interviene. Il testo annota: “Andò con lui”. Gesù accompagna chi ha fede in lui nel tempo e lungo la strada per ottenere la grazia, che avviene in condizioni insperate o disperate. Gesù salva e fa vivere: questo significa fare il bene, come aveva espressamente dichiarato in sinagoga davanti all’uomo della mano inaridita (cfr. Mc 3,1-6). La seconda: il contrario della fede non è la non fede, ma la derisione, come il testo annota rispetto alla gente che piangeva e urlava forte: “E lo deridevano” (Mc 5,40). Stessa derisione che avviene sotto la croce! È la derisione che ci chiude nelle nostre impossibilità di avere la vita!

L’emorroissa, la donna che per la sua malattia era dichiarata immonda (cf. Lev 15,25-27), nella calca generale, è l’unica a toccare Gesù. Gesù se ne accorge perché chi lo tocca nella fede permette alla sua potenza salvatrice di operare. Così lui, che è il Santo, santifica; lui, che è il Salvatore, salva; lui, che è il Potente, soccorre e guarisce. Chi non ha vivo il senso della propria immondezza, della propria miseria, non ha fede sufficiente per ottenere salvezza. Il particolare del mantello (o della frangia, come nel passo parallelo di Matteo) ha fatto pensare al vestito del Verbo che sono le parole della Scrittura. Ci si può accalcare attorno alla Scrittura, ma non succede nulla, come non successe nulla alla folla dei discepoli che pressava il Maestro lungo la strada. Se però ci si accosta anche a una sola parola con fede, allora ne scaturisce la potenza che racchiudeva e l’anima è guarita. E la parola come il suo corpo sono lì (pensiamo alla celebrazione eucaristica) proprio nell’attesa di lasciar uscire la potenza che racchiudono e rivelare l’amore per cui è stata proferita ed è stata inviata. Gesù resta nell’attesa di dirci: la tua fede ti ha salvato, va’ in pace e sii guarito dal tuo male!

La tua fede: è la fiducia nel Messia salvatore, in colui che ci può accogliere e guarire e far vivere dell’amore del Padre, rendendo splendore alla nostra umanità.

Va’ in pace: dopo l’incontro con il Salvatore nulla è più come prima, come tanti episodi dei vangeli dimostrano, perché il cuore ha potuto gustare qualcosa che frantuma le nostre pretese e rivendicazioni disponendoci a vivere riconciliati.

Sii guarita: si torna a vivere nella luce della santità di Dio, che è amore per noi, diventato radice e forza dei nostri comportamenti e del nostro orizzonte interiore.

 

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Quinto ciclo

Anno liturgico B (2014-2015)

Tempo Ordinario

 

XIV  Domenica

(5 luglio 2015)

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Ez 2,2-5;  Sal 122;  2Cor 12,7-10;  Mc 6,1-6

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La liturgia di oggi mette in risalto il contrasto tra la fantasia d’amore di Dio per il suo popolo e la resistenza del popolo ad accogliere l’amore del suo Dio. Difficile spiegare la cosa, ma è un’evidenza della storia, un’evidenza della nostra storia.

La prima lettura sottolinea la tenacia di Dio verso il suo popolo: manda un suo profeta a ricordare al suo popolo la sua promessa di bene, sebbene sappia già in partenza che il popolo non ascolterà quel profeta. E allora avverte il profeta: tu non temere, annuncia loro quello che ti dirò, così sapranno almeno che un profeta è in mezzo a loro. Tradotto con altre parole, ecco quello che potranno capire: la storia di Dio con il suo popolo continua, continua sempre, Dio non si stanca mai di inseguire, di venire a cercare. E il salmo responsoriale traduce in supplica quello che il popolo potrà capire, anche se confusamente: “A te alzo i miei occhi … finché abbia pietà di noi”.

Il brano evangelico, in modo ancora più drammatico, illustra la stessa cosa. Gesù viene a Nazareth, il luogo che l’ha visto crescere e non è accolto, viene rifiutato. Se mettiamo a confronto i tre vangeli sinottici l’evento ci appare in tutta la sua drammaticità. Marco narra l’episodio dopo il racconto dei miracoli di Gesù ed è l’unico ad apporre una certa firma all’evento: “E si meravigliava della loro incredulità”. Luca è l’unico a spiegare la diffidenza dei suoi concittadini: sembra suggerire che non abbiano accolto di buon grado il ricordo della preferenza dei pagani da parte di Dio (la vedova di Zarepta di Sidone al tempo del profeta Elia e Naaman il siro ai tempi di Eliseo) e così contrastano la predicazione di Gesù gelosi dei doni di Dio. Per Luca, che pone l’evento all’inizio dell’attività di Gesù, l’esito negativo della prima predicazione di Gesù a Nazaret è la prefigurazione del rifiuto finale di Gesù e della sua morte in croce. Matteo invece sembra suggerire altro perché il passo di oggi fa da contrappunto alla scelta di Gesù, con la proclamazione delle parabole del regno, di chiamare sua madre e suoi fratelli i suoi discepoli, ai quali “è dato conoscere i misteri del regno dei cieli” (Mt 13,11). Alla fine però gli ascoltatori non comprendono e Matteo li definisce come coloro che non vogliono essere familiari di Dio, esattamente come i concittadini di Gesù che lo rifiutano.

L’episodio della predicazione di Gesù a Nazaret illustra bene la premura di Dio. La scena è racchiusa da due identici sentimenti di valore diametralmente opposto. Si apre con la meraviglia, sospettosa, diffidente, che si tramuta poi in ostilità da parte degli ascoltatori presenti nella sinagoga e si chiude con la meraviglia, dispiaciuta, di Gesù che si vede costretto a fuggire: “E si meravigliava della loro incredulità”. Una meraviglia, quella di Gesù, però, che non si tramuta in ostilità con la sua fuga, bensì in tenacia e immaginazione per creare nuove occasioni, fino alla fine, come il resto del racconto evangelico proverà, perché i cuori finalmente si aprano all’amore del Padre testimoniato da lui e dalla sua attività ovunque.

Noi non ci accorgiamo che spesso la nostra incredulità nasconde una cattiva idea di Dio. A dire il vero non si tratta realmente di una mancanza di fede, ma di diffidenza, di riserva mentale.  Come per i concittadini di Gesù descritti da Luca 4,16-31: gli ascoltatori della sinagoga si sentono offesi quando Gesù ricorda loro che Dio non ha disdegnato i pagani come se questa preferenza comportasse un’accusa ai suoi figli. Così è per noi: è vero che ci accorgiamo che Gesù insegna cose belle, cose degne della massima stima, ma essere disposti ad accoglierlo e seguirlo nella sua rivelazione di Dio e nel suo servizio agli uomini non ci è agevole.

La liturgia ci invita allora a cogliere il nodo essenziale della vita: la salvezza è data dalla potenza di Dio ma ha bisogno di essere accolta con fede, senza riserve mentali. Il problema più o meno può essere posto così: perché la grazia non compie tutto ciò che promette? Pensiamo al perdono che domandiamo a Dio per i nostri peccati. Perché, pur chiedendolo sinceramente e ottenendolo, non agisce in profondità da trasformarci completamente? Forse che Dio vincola il suo perdono? Non sarebbe morto per noi! Pensiamo alla richiesta di una virtù: “Signore, fammi umile”. Perché dopo la richiesta restiamo ancora in preda all'orgoglio e all'egoismo? Forse che Dio è geloso dei suoi doni? Non ci avrebbe dato il suo Figlio! Ecco dunque la meraviglia di Gesù: la nostra incredulità.

Dio non si stanca però della nostra incredulità perché sa che il nostro cuore ha bisogno di tempo per cedere, per arrendersi, per sciogliere le sue paure, le sue resistenze, le sue ambiguità. L'importante è non lasciare mai il Signore, lasciarsi sempre riaccostare da lui tanto che, come dice la colletta: “sappiamo riconoscere la tua gloria nell’umiliazione del tuo Figlio e nella nostra infermità umana sperimentiamo la potenza della sua risurrezione”. Il movimento suggerito dalla preghiera è appunto quello di imparare a vedere la gloria, cioè lo splendore dell’amore del Padre per gli uomini, proprio nell’umiliazione del Figlio che si consegna agli uomini perché sappiano quanto lui ama il Padre e quanto è grande il suo amore per noi. Il che significa riconoscersi dentro una provvidenza di bene per noi, stando solidale con i sentimenti di Dio, in favore dei fratelli. Così facendo, potremo sperimentare la potenza della vita che viene da Dio accogliendo in pace le infermità e le afflizioni della nostra storia perché non ci allontanano dalla comunione con Colui che il nostro cuore cerca e di cui potente è la salvezza.

 

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Quinto ciclo

Anno liturgico B (2014-2015)

Tempo Ordinario

 

XV  Domenica

(12 luglio 2015)

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Am 7,12-15;  Sal 84;  Ef 1,3-14;  Mc 6,7-13

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La bellissima colletta: "Donaci, o Padre, di non avere nulla di più caro del tuo Figlio, che rivela al mondo il mistero del tuo amore e la vera dignità dell'uomo; colmaci del tuo Spirito, perché lo annunziamo ai fratelli con la fede e con le opere", mostra la radice da dove l’annuncio apostolico prende linfa e vigore. Chi annuncia, mandato dal Signore, ha già sperimentato quel ‘non avere nulla di più caro del Figlio’, lo stesso che invia e l’unico che può colmare i cuori nei loro aneliti e nelle loro angosce.

Il canto al vangelo: “il Padre del Signore nostro Gesù Cristo illumini gli occhi del nostro cuore per farci comprendere a quale speranza ci ha chiamati” (cfr. Ef 1,17-18), mostra come l’annuncio apostolico alimenti la speranza iscritta nei cuori, sebbene spesso sepolta e perduta.

La prima cosa di cui Gesù dota i suoi discepoli nel loro ministero di annuncio è: “dava loro potere sugli spiriti impuri”. Come si vince o si scaccia il male che sempre insidia, ferisce, opprime la vita? Nel vangelo di Giovanni, quando Gesù parla della vite e dei tralci per illustrare l’invito a rimanere in lui, si trova questa espressione: “voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato” (Gv 15,3). È l’accoglienza del Signore che rende puri, cioè inattaccabili dal male; è la fede in lui che ci associa alla sua vittoria sul male. L’aspetto straordinario di questa verità risalta nella lavanda dei piedi all’ultima cena: Gesù si mette a lavare i piedi ai discepoli per renderli partecipi del suo segreto ed è l’accoglienza di questo segreto che li stabilisce nella purità (cfr. Gv 13). Il suo segreto è di mostrare la grandezza dell’amore del Padre nel suo farsi servo, nel suo farsi schiavo, in totale solidarietà con l’amore del Padre per noi e solidale con la nostra umanità che lui ha amorevolmente rivestito. Quando Gesù invia i discepoli con il potere sugli spiriti impuri, li introduce nel segreto della sua persona e della sua missione, sebbene i discepoli ancora non possono sapere tutta la sconvolgente profondità di quel segreto e il coinvolgimento delle loro persone.

Nella tenuta dell’apostolo, secondo la descrizione di Marco, si può ravvisare l’allusione alla tenuta da viaggio del popolo all’uscita dall’Egitto raccontata in Es 12,11. Gli apostoli guidano il nuovo esodo con l’annuncio del Regno di Dio che in Gesù si manifesta. Ogni annuncio nella Chiesa ha così un sapore pasquale: comporta l’esodo dall’Egitto e l’accoglienza del regno di Dio, dentro l’esperienza della manifestazione della potenza di salvezza di Dio. Il gesto dello scuotere la polvere dai piedi, quando non dovessero accogliere l’annuncio, - gesto che era comune al pio israelita quando saliva in pellegrinaggio a Gerusalemme proveniente da territori pagani e non voleva contaminare il sacro suolo d’Israele -, assume anche questo significato: la pace che non avete raccolto voi, non ha lasciato noi; avete la possibilità di rifiutarla, ma non avete il potere di fermarla perché sarà rivolta ad altri; e se resta a noi, se è condivisa da altri, è perché prima o poi la possiate desiderare anche voi; non temete, sarà sempre vostra eredità. La forza dell’annuncio evangelico sta in questo potere della pace di Dio che raggiunge tutti. La responsabilità dei discepoli sta appunto nel far vedere la loro vita confermata da quella pace perché possa apparire davvero desiderabile.

Quella pace ha un volto misterioso, invisibile, che riluce, ma nel nostro cuore, ed è il volto del Signore Gesù. Ma ha anche un volto visibile, costatabile, amabile, che è quello della fraternità condivisa. Che cosa possono insegnare gli apostoli agli uomini se semplicemente ripetono le parole del Signore? Le ripeteranno, sì, ma con potenza, con la potenza di coloro che possono mostrare come siano diventate efficaci per il loro cuore. E l'efficacia appare dalla fraternità condivisa. Ecco perché sono mandati ad annunciare la Buona Novella non da soli, ma a due a due. É la stessa rivelazione del Padre Nostro, allorquando la fraternità vissuta ('venga il tuo regno', venga cioè lo Spirito del Signore a renderci un corpo solo e un'anima sola, così come preghiamo anche nel canone eucaristico) rivela a tutti il volto di Dio come Padre, rivela il suo amore per gli uomini. E come ottenere questo senza la preghiera: "Donaci, o Padre, di non avere nulla di più caro del tuo Figlio", lui che ha rivelato in tutto il suo splendore l'amore di Dio per gli uomini e la grandezza della vocazione dell'uomo? Credo sia assai significativo che la chiesa vincoli l’intelligenza della verità al fatto di percepirla capace di interferire con le radici del nostro cuore (‘donaci di non avere nulla di più caro’), dentro cioè la possibilità di un’esperienza che renda la verità amabile e rigenerante.

Nel salmo responsoriale si canta: “Misericordia e verità si incontreranno, giustizia e pace si baceranno”. L’amore di misericordia di Dio per l’uomo tocca chi è disposto a non vivere nell’illusione, a vedere il suo peccato, a riconoscersi debitore di verità presso Dio, così che la santità di Dio, lo splendore del suo amore per noi, si risolva in desiderio di pace con tutti, in solidarietà con l’umanità di tutti. Siamo chiamati proprio a essere annunciatori di quella pace che guarisce e ristora, da viverla come il tesoro più prezioso del cuore e la rivelazione della bellezza del volto di Dio, in Gesù. Per questo il salmo, dopo avere supplicato: “Mostraci, Signore, la tua misericordia”, aggiunge: “Ascolterò che cosa dirà in me il Signore Dio” (antica versione greca e latina), vale a dire: nella misericordia posso ascoltare la parola d’amore che spingerà il mio cuore a vivere nella misericordia perché l’amore sia condiviso.

 

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Quinto ciclo

Anno liturgico B (2014-2015)

Tempo Ordinario

 

XVI  Domenica

(19 luglio 2015)

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Ger 23,1-6;  Sal 22;  Ef 2,13-18;  Mc 6,30-34

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L’immagine che fa da sfondo a tutta la liturgia di oggi è quella del pastore. Nel brano di Geremia Dio rimprovera i cattivi pastori perché non hanno cura delle sue pecore e promette che lui stesso si incaricherà di pascere le sue pecore. Il salmo responsoriale riprende quella promessa di Dio e la mostra compiuta nell’anima: “Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla”. Il brano di vangelo, a sua volta, mostra in Gesù colui che adempie quel desiderio di Dio tanto che diventa lui stesso il ‘buon pastore’.

Il vangelo annota che Gesù davanti alla moltitudine ‘ebbe compassione di loro, perché erano come pecore che non hanno pastore’. Il brano fa parte del racconto della missione degli apostoli, racconto che era iniziato proprio con l’annotazione che Gesù ‘sentì compassione’ (cfr. Mt 9,36) e si chiude con l’annuncio eucaristico, simboleggiato dal miracolo della moltiplicazione dei pani, introdotto con la commozione di Gesù davanti alle folle. La compassione di Gesù per l’umanità è alla radice della sua missione sia come rivelatore del Padre che come salvatore. In essa prendono senso e valore tutti i suoi gesti e le sue parole, come anche tutte le parole e le opere di Dio lungo la storia sacra.

Per il nostro cuore è estremamente importante riuscire a percepire almeno gli echi di quella compassione. E se Gesù prova compassione è perché sa che può dire: “Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro” (Mt 11,28). E ancora perché sa che il cuore dell'uomo cerca il ristoro e se non lo trova è perché si illude di trovarlo fuori di Lui. Così quando, mosso dalla sua compassione, Gesù invita i discepoli a pregare perché il Padre mandi operai nella sua messe, fa pregare non solo perché mandi tanti operai, ma soprattutto perché ne mandi di quelli che si muoveranno spinti dalla stessa sua compassione. Gli operai che lavorassero in questa messe immensa, senza essere il riflesso di questo amore e di questa compassione, non favorirebbero il ristoro del cuore degli uomini. Ma come diventare il riflesso dell’amore e della compassione di Dio per gli uomini senza la preghiera? Per questo Gesù fa pregare, trattiene in disparte gli apostoli, li tiene in sua compagnia.

Un particolare del brano apre orizzonti insospettati. Quando Gesù invita in disparte gli apostoli, lo fa perché si riposino un poco. L’accenno al riposarsi è misterioso. Si tratta dello stesso termine che ricorre nell’affermazione di Gesù: “Venite a me … e io vi darò ristoro... e troverete ristoro”. Quel ‘ristoro/riposo’ corrisponde al movimento della sua compassione che viene incontro all’uomo perché l’uomo, agitato, tormentato, sfinito, finalmente si riposi. Ma esso pesca nel riposo di Dio il settimo giorno della creazione, riposo che viene ripreso dal salmo responsoriale. Gli antichi rabbini hanno pensato che vi fu un atto di creazione anche il settimo giorno: “Che cosa è stato creato il settimo giorno? La ‘menuchà’, la tranquillità, la serenità, la pace e il riposo” (Cfr. Gen Rabbà, 10, 9). È lo stato in cui non vi è contesa né lotta, né paura né diffidenza; è felicità, pace e armonia; vita nel mondo futuro, vita eterna. Quando nel salmo si proclama: “Il Signore è il mio pastore, non manco di nulla; su pascoli erbosi mi fa riposare, ad acque tranquille mi conduce” (Sal 23,1-2) si allude proprio alle acque di ‘menuchoth’. Stessa allusione che troviamo nelle parole del Signore Gesù quando dice ai suoi discepoli: “Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero” (Mt 11,28-31). Vi darò ristoro = vi farò riposare; sarò la vostra felicità, pace, riposo. L’umiltà/mitezza che lo definisce costituisce la cifra della luce della santità di Dio che si riversa sul mondo e che abilita a quello sguardo capace di cogliere il mondo nel suo insieme.

È singolare che Gesù inviti i discepoli a starsene in disparte, a cercare un luogo solitario per riposare e che contemporaneamente si trovino davanti una folla numerosa della quale Gesù ha compassione. Quando i discepoli annunceranno il regno di Dio non faranno che far arrivare ai cuori l'eco di quella 'compassione', di quella 'profonda commozione' di Gesù, buon pastore, mandato a riunire i figli di Dio dispersi. L'annuncio che non provenga dalla condivisione, dalla solidarietà con quella 'compassione' sarà piatto e ripetitivo e non toccherà i cuori. D'altra parte, se i discepoli non impareranno a starsene in disparte con il loro Signore, non sentiranno la profondità di quella 'compassione' e non potranno annunciare 'con potenza' il regno di Dio. La vivacità, la vitalità, nel senso che porta vita, della parola di Dio trova qui le sue radici. D’altronde è la stessa dinamica dei doni di Dio, della stessa elezione del popolo, dei discepoli, dei ministri nella chiesa. Essere scelti dal Signore non è in funzione di un privilegio, ma di una intimità per farsi eco presso tutti di quella 'compassione' che tutti raggiunge, perché non si dà pace finché uno solo resti escluso.

Inviando gli apostoli in missione, Gesù li aveva forniti delle stesse sue prerogative: ‘scacciare i demoni, guarire ogni malattia e infermità’. Nessuno può proclamare la verità della vita a titolo proprio, come nessuno può procurare ristoro al cuore degli uomini a titolo proprio. La verità e il ristoro che essa procura procedono dall'alto, esprimono la compassione di Dio che raggiunge il cuore degli uomini, in Cristo. E se il discepolo non lascia intravedere chiaramente tale rimando, non è un 'chiamato', un 'inviato', lavora per la sua gloria e non potrà sanare nessuno. Così avverrà quando dirà agli apostoli di dare da mangiare a una folla sterminata, tema della liturgia di domenica prossima.

 

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Quinto ciclo

Anno liturgico B (2014-2015)

Tempo Ordinario

 

XVII  Domenica

(26 luglio 2015)

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2 Re4,42-44;  Sal 144;  Ef 4,1-6;  Gv 6,1-15

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Per il brano della moltiplicazione dei pani la liturgia preferisce seguire il racconto di Giovanni invece che quello di Marco letto nel ciclo B. Il testo di Giovanni non solo narra il miracolo, ma ne svela il suo contenuto simbolico e lo commenta con un lungo discorso di Gesù, discorso che la liturgia riprenderà per esteso nelle domeniche successive.

La colletta ci colloca immediatamente nella comprensione eucaristica del brano: “O Padre, che nella Pasqua domenicale ci chiami a condividere il pane vivo disceso dal cielo, aiutaci a spezzare nella carità di Cristo anche il pane terreno, perché sia saziata ogni fame del corpo e dello spirito”.

La rivelazione di Gesù che l’evangelista vuole presentare è ottenuta sovrapponendo il racconto del miracolo con la trama della storia di Israele e la celebrazione liturgica dell’eucaristia della chiesa. La moltiplicazione dei pani per sfamare la gente (cfr. 2Re 4,42-44) è un gesto messianico e la folla sente giusto, anche se poi interpreterà male. Molti particolari, soprattutto nel testo di Mc 6,30-44, proiettano una luce speciale. Siamo nel deserto, prossimi alla festa della Pasqua, in un luogo con tanta erba, in occasione di un pasto, con una disposizione particolare dei partecipanti (a gruppi di cento e cinquanta). Sono tutte allusioni all’organizzazione del popolo nel deserto secondo i racconti del Pentateuco, specialmente in occasione della conclusione dell’Alleanza tra Dio e il suo popolo. È lui, Gesù, come ribadirà nel suo discorso, il vero Pane disceso dal cielo che nutre e dà la vita, che ristora e dà riposo, nel quale celebrare la definitiva Alleanza tra Dio e il suo popolo. Gli accenni al raccogliere gli avanzi valgono a sottolineare la sovrabbondanza di grazia di questa alleanza, data a tutti, oltre la quale non c’è nulla di significativo che possa colmare i desideri degli uomini. I verbi usati per descrivere il miracolo (prese, benedisse, spezzò e diede) sono i verbi caratteristici della celebrazione eucaristica.

Il brano è percorso da dinamiche sotterranee che danno al messaggio tutta la sua consistenza specifica. Anzitutto, a dispetto della grandiosità dell’evento, l’azione di Gesù è presentata sotto la cifra del fallimento, come sottolineerà la finale del brano. Gesù dovrà cambiare strategia: le folle non possono comprendere il suo messaggio. Rivolgerà allora le sue cure ai discepoli più stretti, accompagnandoli ad entrare nel mistero della sua persona e dell’opera di Dio. Gesù aveva operato il miracolo come segno perché i cuori si potessero aprire a cogliere il Dono di Dio, che era lui. La gente però reagisce interessata, vede soltanto ciò che si aspetta e pensa di veder realizzati i propri sogni di liberazione politica. E Gesù deve sottrarsi. Gesù aveva annunciato parole di vita, ma la conclusione in bocca alla folla sarà: “Questa parola è dura! Chi può ascoltarla?” (Gv 6,60). Solo Pietro, che pur avverte il malessere, si rafforza ancor più nella sua fede e proclama: “Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio” (Gv 6,68-69). Ancora non comprende, ma alla fede del suo cuore il mistero sarà rivelato e diverrà, con i suoi compagni, annunciatore a tutti del segreto di Dio: Dio ha tanto amato il mondo da mandare il suo Figlio Unigenito … E rammentando un altro passo del vangelo, potremmo dire che effettivamente troviamo se cerchiamo ma non troveremo quello che cerchiamo. Se la grazia è grazia, vuol dire che non è semplicemente in funzione dei nostri desideri, sebbene sia proprio la grazia a colmare davvero i nostri desideri.

 

Caratteristica la modalità con cui Gesù opera il miracolo: Gesù non crea i pani, li moltiplica solo. Un’altra volta si era trovato alle prese con la fame e si era sentito provocare: “Se tu sei Figlio di Dio, dì che queste pietre diventino pane” (Mt 4,3). Ora non è più lui ad avere fame, è la gente, ma la posta in gioco non cambia. Ecco un’altra dinamica sotterranea: Dio agisce in condivisione profonda con l’umanità degli uomini. Non agisce da prestigiatore o da illusionista, non vuole catturare o soggiogare nessuno: il miracolo è in funzione del suo mistero, capace di parlare al cuore dell’uomo, di suscitare la sua libertà e la sua condivisione, in termini umani. Dio moltiplica quel poco di noi che possiamo presentare, senza sostituirsi a noi, senza comprarci. E volere che crei in noi la grazia, quando rifiutiamo di affidargli quel poco che siamo, sarebbe come condannarci alla delusione sicura. Nello stesso contesto si situa la collaborazione degli uomini all’opera di Dio. Gesù non ha solo bisogno dei cinque pani e due pesci del ragazzo, ma anche della collaborazione dei discepoli che distribuiscono il cibo moltiplicato, che raccolgono gli avanzi, che collaborano alla gioia di Dio e degli uomini. È il mistero della Chiesa, il segreto della potenza evangelica dell’amore fraterno. Anche questo è un aspetto dell’agire di Dio in condivisione dell’umanità degli uomini.

Nella stessa azione di Gesù si evidenzia anche un’altra dinamica, quella che corre tra l’offerta della parola e l’offerta di cibo. Gesù si era sentito commosso davanti a tutta quella gente, aveva cercato di insegnare loro tante cose, aveva rivolto loro una parola vera, di consolazione, di ristoro, di salvezza. Come avrebbe potuto non preoccuparsi della loro fatica, della loro fame? Annunciare così una parola vera a qualcuno significa nello stesso tempo farsi carico dei suoi bisogni, significa condividere quello che si ha e creare spazi di condivisione sempre più allargati. Senza questo risvolto, cadrebbe anche la verità del nostro parlare perché sarà mai possibile annunciare il vangelo a qualcuno, se questo qualcuno non ci diventa caro? E una persona ci può essere cara se non ci facciamo carico dei suoi bisogni? Tutt’altra questione è poi considerare l’esito di questo farsi carico. Gesù sapeva dell’insuccesso a cui andava incontro, ma non si sottrae al miracolo della moltiplicazione dei pani, come non si era sottratto all’annunzio della parola. Quello che fa da fondamento al suo agire, come anche all’agire poi dei suoi discepoli quando sarà loro rivelato il segreto di Dio, ce lo descrive il testo della lettera agli Efesini proclamando l’opera dell’amore di Dio che si esprime nel mistero della fraternità : “un solo Dio Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, opera per mezzo di tutti ed è presente in tutti” (Ef 4,6). L’uomo evangelico persegue quell’unico mistero, affigge i suoi sguardi su quell’unico punto, ragione del vivere la sua chiamata alla fede nel Figlio di Dio, dato per noi, per cui “con ogni umiltà, dolcezza e magnanimità”, sostiene (= ha pazienza con) sé e tutti, contemporaneamente, perché quel mistero sia finalmente rivelato ai cuori.

 

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Quinto ciclo

Anno liturgico B (2014-2015)

Tempo Ordinario

 

XVIII  Domenica

(12 luglio 2015)

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Es 16,2-4.12-15;  Sal 77;  Ef 4,17.20-24;  Gv 6,24-35

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Questa domenica e le successive viene letto ciò che segue al racconto della moltiplicazione dei pani. Gesù, a più riprese, in un colloquio serrato ed esigente con la folla che aveva assistito al miracolo, tenta di dar conto del mistero della sua persona. È tipico di Giovanni formulare la verità su Gesù attraverso un dialogo che collega la storia dell’alleanza di Dio con Israele con gli aneliti e i sogni dei cuori. Il colloquio al pozzo di Giacobbe con la donna samaritana l’aveva già mostrato.

Al centro del brano di oggi sta una grande questione: come decifrare i segni di Dio. Tutti avevano visto il miracolo, si erano entusiasmati di quel profeta straordinario e taumaturgo, ma alla fine tutti l’abbandonano. Perché? Perché non sono riusciti a vedere? Che cosa è mancato loro?

La colletta sembra rispondervi: “O Dio … risveglia in noi il desiderio della tua parola, perché possiamo saziare la fame di verità che hai posto nel nostro cuore”. Sì, è molto facile dimenticare, come dice il salmo responsoriale “Dimenticarono le sue opere, le meraviglie che aveva loro mostrato … non ebbero fede in Dio e non confidarono nella sua salvezza” (Sal 77/78, 11.22). Dimenticarono proprio quello che lo stesso salmo proclama: “Ciò che abbiamo udito e conosciuto e i nostri padri ci hanno raccontato non lo terremo nascosto ai nostri figli …” (v. 3). In sostanza il salmo vuol definire l’esperienza di Israele nel deserto così: hanno visto, sì, certi fatti straordinari (la manna), ma l’oggetto del loro racconto è altro; loro vogliono raccontare le meraviglie del Signore. Dicono la storia, ma raccontano Dio. Non si sono solo sfamati mangiando la manna, ne hanno colto il valore di segno: Dio li guidava, adempiva le sue promesse, restava fedele al suo amore per loro. Così per noi: dal fatto si passa ad una storia, ad una relazione che mi ha costituito in essere e dà senso alle mie fatiche e ai miei drammi, che fa la mia storia.

Con questo riferimento, ogni dettaglio della narrazione evangelica ha una densità insospettata. All’inizio vediamo una folla smarrita: non trova più Gesù, che si è ritirato in solitudine sul monte. La ragione è da ricercarsi nel fatto che i discepoli avevano abbandonato il maestro e se ne erano andati senza di lui. La gente non sa più dove trovare il Signore quando la sua comunità l’abbandona. Ritorna allora a Cafarnao, da dove era partita. Cercano Gesù perché sentono che quel profeta ha qualche cosa da dire da parte di Dio, dentro la storia di alleanza con Dio che tutti condividono. Gesù li rincalza nelle loro domande per portarli a vedere il dono di Dio che sta avvenendo e di cui essi non si avvedono. Sembra che continuamente si aprano porte per poi richiudersi di nuovo. Sono indicati tutta una serie di passaggi.

Primo passaggio. Gesù sposta l’attenzione dal cibo come alimento di vita alla vita che il cuore desidera. Dichiara subito che quella vita la darà lui, sul quale il Padre ha posto il suo sigillo. Ma il sigillo è lo Spirito Santo che su di lui riposa in pienezza e che lo rende capace di dare la sua vita perché si manifesti quanto è grande l’amore di Dio per gli uomini e perché gli uomini tornino capaci a loro volta di dare la vita nella stessa sua dinamica di amore.

Secondo passaggio. Dalle opere all’unica opera. La gente capisce che Gesù si attribuisce un compito che viene da Dio e chiede di venire istruita su ciò che è gradito a Dio. La singolarità della risposta di Gesù sta nel fatto che Gesù non indica alcuna nuova legge o comandamento da attuare. Come a dire: il cuore non troverà il compimento dei suoi desideri nelle opere. Un’opera sola ricerca Dio: credere in Colui che egli ha mandato. Ma credere a Dio significa accogliere il suo amore per l’uomo, manifestato nel Figlio, al punto da non poter vivere che di quell’amore, che dentro quell’amore, che dà senso a tutte le opere che si possono intraprendere. Non sono però le opere a precedere, ma l’amore di cui queste si nutrono. E senza questa esperienza le opere non porteranno gioia e non si risolveranno in conoscenza amorosa di Dio.

Terzo passaggio. Dio aveva dato la manna al popolo confermandosi così il loro Dio, secondo il racconto dell’Esodo, ripreso anche dalla prima lettura. E Gesù cosa dà?, questo chiede la gente. La risposta di Gesù introduce al suo mistero, che è il mistero dell’amore di Dio per il mondo. Ogni dettaglio acquista qui una risonanza particolarissima: gli aggettivi, i verbi, le espressioni. Gesù sottolinea il dono attuale di Dio: “è il Padre mio che vi dà il pane dal cielo, quello vero”; “il pane di Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo”, cioè la sua, quella piena di Spirito Santo, di cui fa dono facendo dono di se stesso. Accogliere il Figlio come l’Inviato significa accogliere la storia dell’amore di Dio per l’uomo; significa radicare in quell’amore l’intelligibilità della nostra vita e avere la vita, quella che dura per la vita eterna, cioè quella che, custodita dalla potenza dell’amore di Dio per noi, risulta insopprimibile e inattaccabile.

Quarto passaggio. Come non volere questo pane? Ma il pane non è più qualcosa, non si riferisce più a un prodigio: riguarda la sua persona, riguarda il prodigio dell’amore di Dio che nel Figlio fa grazia di sé agli uomini perché gli uomini possano, nel Figlio, fare grazia di loro a tutti e così far splendere la signoria di Dio nel mondo, ormai trasfigurato nello Spirito. A questo punto si intravede tutta la rischiosità e la radicalità del passaggio: dare fiducia al Signore, all’amore del Signore, consegnandosi a quel Figlio che promette libertà, verità e vita. Qui i cuori comprendono di essere sull’orlo dell’abisso: o ti trattieni nelle tue sicurezze di un tempo o ti abbandoni ad una fiducia che senti nascere ma di cui non sei per nulla padrone.

Difatti l’esito non è scontato. Alcuni rinunciano, alcuni accettano; di quelli che rinunciano, alcuni accetteranno poi; di quelli che accettano, alcuni lasceranno dopo. Resta comunque sempre l’offerta del Signore che non si stanca dei suoi figli e di cui ricerca sempre l’adesione del cuore. Nel racconto di Giovanni, la folla rivela molto bene i desideri che portiamo in cuore, senza però alla fine trovare soddisfazione perché incagliata nel suo passato piuttosto che affascinata per il futuro di Dio: l’urgenza etica per una qualità di vita accettabile, l’apertura al mistero di Dio che si manifesta, la fame del pane della vita. Gesù però si darà premura di illustrare sempre più precisamente il senso del mistero della sua persona come risposta a quei desideri.

 

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Quinto ciclo

Anno liturgico B (2014-2015)

Tempo Ordinario

 

XIX  Domenica

(9 agosto 2015)

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1 Re 19,4-8;  Sal 33;  Ef 4,30-5,2;  Gv 6,41-51

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Tutto il lungo discorso eucaristico di Gesù narrato nel cap. 6 di Giovanni può essere letto come l’illustrazione della difficoltà per l’uomo di cogliere e accogliere i segreti di Dio. Davanti alla difficoltà di riconoscere la sua provenienza divina, Gesù esorta: “non mormorate tra voi”. Mormorare vuol dire prendere le distanze, vuol dire uscire dalla fiducia, uscire da una storia con. Ma appena si esce da una storia con, tutto si fa incomprensibile e soprattutto si resta nell’impossibilità di soddisfare i desideri del cuore, si resta cioè sulla nostra fame.

E aggiunge: “Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato”. S. Agostino, commentando questi versetti, ha un’intuizione geniale. Osserva che se siamo attirati dal Padre, questo non vuol dire che siamo attirati per forza: “Che significa essere attratti dal piacere? Metti il tuo piacere nel Signore, ed egli soddisferà i desideri del tuo cuore (Sal 36,4). Che se il poeta ha potuto dire: ‘Ciascuno è attratto dal suo piacere’ [“trahit sua quemque voluptas”, Virgilio, Egloghe 2], non dalla necessità ma dal piacere, non dalla costrizione ma dal diletto; a maggior ragione possiamo dire che si sente attratto da Cristo l’uomo che trova il suo diletto nella verità, nella beatitudine, nella giustizia, nella vita eterna, in tutto ciò, insomma, che è Cristo. Se i sensi del corpo hanno i loro piaceri, perché l’anima non dovrebbe averli? Se l’anima non avesse i suoi piaceri, il salmista non direbbe: ‘I figli degli uomini si rifugiano all’ombra delle tue ali; s’inebriano per l’abbondanza della tua casa, bevono al torrente delle tue delizie; poiché presso di te è la fonte della vita e nella tua luce noi vediamo la luce’ (Sal 35,8-10)” [Commento al vangelo di Giovanni, 26,4].

Ma solo un cuore che ama sa cosa significa questo. Solo un cuore che ha conosciuto l’amore sa di cosa si parla qui. È come se dicessimo a Dio: fa, Signore, che io trovi in te la mia felicità e tu mi darai i desideri del mio cuore (cfr Sal 36,4).  Il salmo non dice che Dio soddisferà i desideri del nostro cuore, ma che farà nascere i desideri del nostro cuore, il nostro cuore vorrà ciò che forma la sua felicità. In questo verremo ammaestrati da Dio, perché saremo attirati là dove il piacere del nostro cuore ci spinge. Gesù poi cita il profeta Geremia: “tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande, dice il Signore; poiché io perdonerò la loro iniquità e non mi ricorderò più del loro peccato” (Ger 31,33-34), eco di Isaia 54,13: “Tutti i tuoi figli saranno discepoli del Signore”. Ora, proprio nel Cristo siamo accolti nel perdono di Dio che ci consente di vederlo, di scoprirlo cioè nella sua verità di amore per noi. Quando Gesù proclama che lui è il pane di vita, dice essenzialmente che lui ci comunica quell’amore di Dio che è radice di vita e che ci permette di conoscere personalmente Dio accogliendoci senza riserve nel suo perdono. Proprio questo è ciò che la folla desiderava nel profondo del suo cuore, ma alla fine si trova impossibilitata ad accettare perché non si riconosce adatta al mistero di Dio, per cui scade nella mormorazione.

Come sempre nel vangelo di Giovanni, ma in particolare in questo dialogo, le espressioni hanno un valore intensivo. Tutto può suonare in una certa ovvietà, materiale o religiosa, eppure tutto può avere sfumature insospettate. I verbi usati: discendere, mangiare, vedere, credere, imparare, hanno tutti risonanze, scritturistiche e interiori, impensabili. Gesù cerca di illustrare il mistero che costituisce la sua persona come il segreto di Dio svelato agli uomini che, pur immensamente desiderabile, non è facilmente ricevibile. Perché? La reazione della gente al fatto che Gesù si presenti come il pane della vita è rivelatrice. Di per sé la gente non rifiuta l’equiparazione di Gesù al pane di vita; rifiuta l’affermazione che lui discenda dal cielo. Loro ne conoscono la sua origine: conoscono la famiglia, la provenienza (cfr Mt 13,55; Mc 6,3; Lc 4,22; Gv 7,15). Come può dire di venire dal cielo? Forse c’è l’allusione alla credenza che del Messia non si potesse sapere l’origine oppure, velatamente, potrebbe esserci un’allusione alla nascita verginale di Gesù. Il fatto comunque è che la rivelazione definitiva di Dio è ormai l’umanità di Gesù, tanto che mangiare la carne del Figlio dell’uomo significa assimilare il Figlio di Dio fino a vivere di lui. Non è possibile che l’uomo non desideri la presenza del Signore e il suo amore e proprio quando gli viene rivelato che quel desiderio può essere soddisfatto fa resistenza. Perché i cuori non riescono a vedere?

Forse la risposta va cercata proprio in quel movimento di discesa che caratterizza l’agire di Dio. Il ‘discendere dal cielo’ non indica semplicemente la provenienza di Gesù; indica piuttosto il movimento dell’abbassarsi di Dio per comunicare il suo amore e far vivere. Gli uomini non amano abbassarsi, benché vogliano la vita e desiderino l’amore e quindi pensano sempre in termini di grandezza mondana, dove il potente prevale sul debole, dove l’alto la spunta sul basso, dove l’affermazione di sé presuppone l’innalzamento. Gesù, quando parla di innalzamento, allude sempre al suo essere innalzato sulla croce, là dove risplende l’amore di Dio per l’uomo.

Tanto, che san Paolo riassume il senso della rivelazione di Gesù nell’espressione ‘Dio fa grazia di sé a noi in Cristo’, resa in italiano con “perdonandovi a vicenda come Dio ha perdonato a voi in Cristo. Fatevi dunque imitatori di Dio …”. Perché mangiare il pane disceso dal cielo, questo significa! Come lui ha fatto dono di sé agli uomini in Cristo, così noi siamo chiamati a fare dono di noi agli altri in Cristo. Ora, tutta la difficoltà per l’uomo deriva proprio dal fatto che invece di accogliere la grazia ne cerca una a sua misura. Ma non esiste altra grazia se non quella, da parte di Dio, del  suo ‘far grazia di Sé’ a noi, in benevolenza e misericordia, nel Cristo. Qui è racchiusa tutta l’abbondanza di vita che una rivelazione siffatta promette. Se il segreto di Dio è racchiuso in quella rivelazione, pure il nostro cuore trova in quel segreto le radici dei suoi sogni per sé e per il mondo. Aprire il cuore al credere significa approdare alla percezione di quella grazia, grazia che apre alla bellezza di un amore gustato e condiviso, nell’accondiscendere a quel movimento di abbassamento perché risplenda in questo mondo l’amore di Dio. La fede è proprio a servizio dello splendore di quell’amore che ‘discende dall’alto’ e di cui il pane eucaristico è simbolo perfetto.

 

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Quinto ciclo

Anno liturgico B (2014-2015)

Solennità

 

Assunzione della Beata Vergine Maria

(15 agosto 2015)

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Ap 11,19a; 12,1-6a.10ab;  Sal 44;  1 Cor 15,20-27a;  Lc 1, 39-56

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La glorificazione della Madre di Dio è la conseguenza più diretta dell’abbassamento volontario del Figlio: il Figlio di Dio si è fatto uomo nel seno della Vergine Maria ed è diventato ‘Figlio dell’uomo’, capace di morire, mentre Maria, Madre di Dio, riceve la gloria che appartiene a Dio ed è la prima creatura umana a partecipare alla deificazione finale delle creature. Dio si è fatto uomo, dicono i Padri, perché l’uomo potesse diventare dio: in Maria l’assunto si realizza in pienezza, si fa assolutamente concreto. Partecipa alla gloria del secolo futuro in tutta pienezza, immagine di quello che tutti siamo chiamati a diventare.

Tutta la liturgia di oggi parla di compimento. Il brano dell’Apocalisse, con il suono della settima tromba che segnala il compimento del mistero di Dio, mette in scena l’apertura del tempio di Dio e la discesa dell’arca dell’alleanza con la Donna che deve partorire il Messia, tutti segni interpretati dalla voce celeste: “Ora si è compiuta la salvezza, la forza e il regno del nostro Dio e la potenza del suo Cristo”. Paolo ricorda che l’ultimo nemico ad essere annientato sarà la morte. Il prefazio, nella celebrazione della Madre di Dio assunta in cielo, parla del ‘compimento del mistero di salvezza’. Tutto visto contemplando la gloria di questa ‘figlia di Sion’, la cui suprema intercessione per noi, come Regina del cielo, si risolve nel chiedere a Dio per noi ciò che ha costituito l’anelito supremo della sua anima, come prega la Chiesa con l’orazione sui doni: “ .. per sua intercessione i nostri cuori, ardenti del tuo amore, aspirino continuamente a te”.

Da dove deriva alla Vergine tutta la sua gloria? L’elogio alla madre da parte della donna che ascoltava affascinata Gesù: “Beato il grembo che ti ha portato e il seno che ti ha allattato [letteralmente: i seni che hai succhiato]!” è trasformato da Gesù nell’elogio ai discepoli: “Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano!” (Lc 11,27-28). Gesù definisce esattamente in che cosa consiste la beatitudine di sua madre. Come i Padri sottolineano spesso: prima di essere madre fisicamente di Gesù, Maria lo è spiritualmente, perché il suo cuore ascolta e osserva la Parola, l'ha sempre ascoltata e osservata. Ascoltare e osservare la parola di Dio comporta sempre il fatto di generare il Verbo di Dio, di vivere della felicità di Dio di farsi uno di noi perché noi si possa essere tutti di Dio; significa dare spazio e voce a quell’anelito che Gesù ha detto essere il suo ‘tormento’, il tormento della sua umanità, che è anche la nostra: “Sono venuto a gettare fuoco sulla terra, e quanto vorrei che fosse già acceso” (Lc 12,49).

D’altra parte, se colleghiamo l’espressione di Gesù a quella pronunciata da Elisabetta nel saluto alla Vergine: “Beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto” [altra possibile traduzione: ‘beata colei che ha creduto che ci sarà compimento rispetto a ciò che le è stato detto dal Signore’], ci viene svelato un altro aspetto fondamentale. Ascoltare e osservare la Parola non è semplicemente un mettere in pratica quello che Dio dice. È assai di più. Significa permettere alla promessa di Dio racchiusa nella sua parola di compiersi, di rivelarsi finalmente al cuore e al mondo. Significa acconsentire al desiderio di Dio di compiersi, significa fare in modo che il desiderio che Dio ha di incontrare l'uomo finalmente trovi compimento. Ora, da dove deriva la vita all'uomo se non da un incontro d'amore? Sia in senso fisico, un figlio, sia nel senso di procurare vitalità, gioia di vivere, visione di speranza, forza ed energia. Più questo consenso da parte dell'uomo è totale, più la vita che deriva da Dio è fluente e incontenibile. Vince la morte. Per sempre.

In quel “ha creduto” è indicata tutta la disponibilità della Vergine all’azione di Dio (“Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola”, Lc 1,38) dove il proprio essere è vissuto come risposta al desiderio di Dio, come spazio di compimento all’agire di Dio. Nell’“adempimento” è adombrata la generazione del Verbo che in lei prende forma. Accogliere il Verbo nella propria umanità significa ritrovarsi nel mistero di Dio Trinità, che è amore comunicato; significa far risplendere l’amore di Dio nel mondo e compiere la propria umanità permettendole di far trasparire la divina Presenza. La grazia di questa 'maternità' spirituale è estesa a tutti i credenti: tutti possono ereditare la beatitudine che deriva dall'ascoltare e osservare la Parola. Nella dinamica dell’obbedienza della fede, l’ascolto della Parola equivale alla fin fine ad accogliere e generare in noi il Verbo, di cui risplendono tutte le parole della Scrittura.

         Ora, la vera meraviglia di Dio per gli uomini è proprio il dono del Figlio, che di quell’umanità che ci costituisce svela i confini e le sorgenti divine. Chi, più della Vergine, ha goduto tutta la potenza di splendore di questo dono per l’umanità? Così l’intercessione della Vergine va nella direzione dell’invocazione della preghiera del Padre nostro: ‘sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra’. Interpretando: ‘si sveli il tuo amore finché la terra diventi tutta cielo’. Nulla rimanga inaccessibile all’amore di Dio che si dispiega potente. Lei, la serva del Signore, terra come noi, ma totalmente disponibile all’agire di Dio, è diventata tutta cielo. Intercede perché anche la nostra umanità, in ciascuno e in tutti, si allarghi agli spazi e alle profondità della sua stessa umanità, nella comunione con il suo Dio.

 

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Quinto ciclo

Anno liturgico B (2014-2015)

Tempo Ordinario

 

XX  Domenica

(16 agosto 2015)

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Pr 9,1-6;  Sal 33;  Ef 5,15-20;  Gv 6,51-58

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Oggi la liturgia ci richiama una grande questione: come ottenere l’intelligenza della vita. Appare desiderabile, chi non la vuole? Non è segreta, non è inaccessibile, non è complicata, non richiede studi particolari. Eppure, non è proprio a portata di mano. E nonostante tutto, il cuore la gradirebbe sempre.

S. Paolo, nella sua lettera agli Efesini, ne mostra le condizioni indicandocela nel fatto di diventare intelligenti della volontà di Bene di Dio. In sostanza ci dice che per essere intelligenti, occorre essere spirituali, per essere spirituali occorre essere oranti, per essere oranti occorre diventare capaci di rendere grazie, per avere questa capacità occorre essere sottomessi: “…siate ricolmi dello Spirito, intrattenendovi fra voi con salmi, inni, canti spirituali, cantando e inneggiando al Signore con il vostro cuore, rendendo continuamente grazie per ogni cosa a Dio Padre, nel nome del Signore nostro Gesù Cristo. Nel timore di Cristo, siate sottomessi gli uni agli altri” (Ef 5,18-21). Purtroppo le edizioni moderne della Bibbia suddividono la frase, che in greco è unica e suona così: "...rendendo continuamente grazie per ogni cosa a Dio Padre, nel nome del Signore nostro Gesù Cristo, sottomettendosi gli uni agli altri nel timore di Cristo". Il dono dello Spirito è il contenuto della preghiera nel senso di imparare a percepire la volontà di Bene di Dio per noi; il rendere grazie esprime l’esperienza della percezione di quel Bene per noi e lo stare sottomessi indica il radicamento di quel Bene nel cuore da risultare il tesoro più prezioso. Ma tra il rendere grazie e lo stare sottomessi c'è tutto il tragitto del cammino da fare. Se si rende grazie senza stare sottomessi si è boriosi; se si è sottomessi senza rendere grazie si è servili. Invece, il segno che un cuore adora sinceramente il suo Dio è proprio il fatto di rendere continuamente (= sempre, in ogni circostanza, comunque) grazie e di stare sottomessi (ai propri fratelli, ma anche alla vita in generale) portando pazienza con il tempo, le cose, le circostanze, il nostro cuore e i nostri difetti.

Dalla prospettiva di questa ‘intelligenza di Dio’, le parole di Gesù suonano con tutt’altro accento. A conclusione del suo discorso, Gesù riassume in tre passaggi la rivelazione della volontà di Bene di Dio per l’uomo che in Lui si compie: avere la vita, dimorare in lui, vivere per lui. Tutte realtà che solamente coloro che accettano di mangiare la carne del Figlio dell’uomo possono ereditare. Espressione più forte Gesù non poteva usare: ‘chi mangia [masticare, rompere con i denti] la mia carne…’. Come accoglierla se non a partire dal dono dello Spirito che di quel mistero ci rende intelligenti?

In effetti, se coloro che ascoltavano Gesù non avevano accettato l’idea di Gesù ‘pane vivo che discende dal cielo’, come avrebbero potuto accettare l’idea di Gesù che si fa pane da mangiare, di un Gesù che intende dar da mangiare il suo stesso corpo? È evidentemente necessario un forte supplemento di intelligenza! Il discorso di Gesù è impostato su due verbi: mangiare e dimorare. Il mangiare è in funzione del dimorare. Lo stesso modo di parlare Gesù lo userà nell’Ultima Cena insistendo però assai di più allora sul dimorare per mostrarne le conseguenze: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui”; “Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può far frutto da se stesso se non rimane nella vite, così anche voi se non rimanete in me”; “Come il Padre ha amato me, così anch’io ho amato voi. Rimanete nel mio amore. Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore. Questo vi ho detto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena” (Gv 14-16). Come rimanere in Gesù senza assumere Gesù? E dove più concretamente, più realmente, più intimamente assumiamo Gesù se non nell’Eucaristia? E’ appunto questo il mistero che vuole illustrare Gesù: se non assumete me, non potrete essere in me e se non sarete trovati in me, non potrete riuscire graditi a Dio.

Come una parola ascoltata resta nel nostro cuore, così chi mangia il Corpo del Signore dimora in Lui. Sarà la logica della similitudine della vite (cfr Gv 15): lui dimora in me e io in lui, fino a poter dire con s. Paolo: “non vivo più io, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20). Quando mangiamo il pane eucaristico, in realtà non siamo noi a mangiare il Corpo di Gesù, ma è Lui ad assimilarci al suo Corpo, ad assumerci in Sé. Come fa dire a Gesù una bella preghiera di Lorenzo Scupoli (1530-1610): “Io voglio da te, che niente voglia, niente intenda, niente veda fuori di me e della mia volontà, acciocché io in te tutto voglia, pensi, intenda e veda in modo che il tuo niente assorto nell’abisso della mia infinità, in quella si converta, così tu sarai in me pienamente felice e beata, e io in te tutto contento”. È la consumazione di quella ‘vita in Cristo’ in cui consiste lo scopo della comunione eucaristica e a cui tende ogni sforzo ascetico e l’anelito di ogni preghiera.

Dimorare allude alla dinamica di un amore che diventa radice di vita, che si fa vita di amore partecipando alla stessa potenza di amore che qualifica la vita del Figlio dell’uomo, splendore dell’amore di Dio per il mondo. La preghiera dopo la comunione della messa di oggi lo ricorda molto bene: “O Dio, che in questo sacramento ci hai fatti partecipi della vita del Cristo, trasformaci a immagine del tuo Figlio, perché diventiamo coeredi della sua gloria nel cielo”. Diventare partecipi della vita del Cristo significa somigliargli, rivestirsi dei suoi sentimenti, vivere della sua stessa umanità sulla quale risplende, imperitura, la gloria dell’amore di Dio per gli uomini. Significa incarnare la Presenza di Dio in mezzo al suo popolo. Perché, per la nostra stoltezza, non ritenerci ‘degni’ dell’offerta di Dio, del suo mistero? E così, se l’uomo vuole la vita e dimora nella vita, non può non viverla che in forza e per estendere a tutti quell’amore che gli si è rivelato in quel Gesù, che ha accolto nel suo cuore come la parola definitiva di Dio per l’uomo, sigillo di Bene e di Verità, principio di vita vera che riempie il suo desiderio.

 

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Quinto ciclo

Anno liturgico B (2014-2015)

Tempo Ordinario

 

XXI  Domenica

(23 agosto 2015)

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Gs 24,1-2a.15-17.18b;  Sal 33;  Ef 5,21-32;  Gv 6,60-69

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Gesù termina il suo discorso nella sinagoga di Cafarnao. L’esito è drammatico; molti lo abbandonano: "Questa parola è dura! Chi può ascoltarla?". Le attese riposte in quel Maestro sono andate deluse.

Ecco il problema: l’uomo può scandalizzarsi di Dio; facilmente l’uomo si scandalizza di Dio. Non è facile spiegare perché avviene, ma avviene facilmente. Forse la ragione la svela la prima lettura tratta dal libro di Giosuè. Il popolo d’Israele era ormai penetrato nella Terra promessa, dopo la liberazione dalla schiavitù dell’Egitto e la tortuosa peregrinazione nel deserto. Nessuno di coloro che in età adulta avevano lasciato l’Egitto, nemmeno Mosè, e con la sola eccezione di Giosuè, era entrato nella Terra promessa. Si tratta ora di impostare la vita nella nuova condizione di libertà. Chi si vuole servire? Nel linguaggio della Scrittura ‘servire Dio’ allude a un rapporto gioioso e liberatorio che esalta le energie dell’anima sottraendola alle schiavitù quotidiane e all’oppressione del male. Quale Dio servire? È la scelta che si presenta al cuore dell’uomo, sebbene spesso la scelta risulti come obbligata dall’inerzia stessa della vita: prendi quello che risulta più comodo o più facile o più conveniente o più interessato. Ma il ‘servizio’ funziona in ragione della continuamente reiterata libertà di scelta per la verità. Ma per quale verità si è disposti ad impegnarsi?

Lo esprime bene il popolo: “Perciò anche noi serviremo il Signore, perché Egli è il nostro Dio”. ‘Nostro’ non tanto perché lo scegliamo noi, ma perché Lui ha mostrato il suo favore a noi, perché Lui ha fatto questo e questo per noi. In quel ‘anche noi’ non c’è solo il riconoscimento della fede dei padri; c'è soprattutto il riconoscimento dell’agire di Dio per i nostri padri, per noi. Di fronte a Gesù, questo appunto risalta: lui mostra il Dio che si appressa a noi. Come in lui Dio serve noi, così noi con lui serviamo Dio, vale a dire lo riconosciamo nel suo amore per noi. E il salmo responsoriale proclama: ‘il Signore è vicino a chi lo serve’, cioè il Signore è riconosciuto vicino da chi lo accoglie nella sua fatica del vivere, senza scandalizzarsi. Perché l'amore di Dio si mostra nell'umanità di Gesù sotto le categorie della debolezza e della stoltezza al giudizio del mondo, che è lo stesso giudizio della carne, quella che Gesù dice non servire a nulla per trovare e avere la vita.

Due particolari fanno riflettere. Di fronte all’incomprensione dei suoi discepoli Gesù non riduce il Dono di Dio, non banalizza il suo mistero. Svela i vari aspetti del suo mistero, ma il mistero resta. Questo significa che la rivelazione di Dio non comporta una semplificazione del suo mistero, ma più semplicemente la sua maggiore prossimità. La tensione del cuore non va puntata sul contenuto del mistero, ma sul dinamismo che lo caratterizza: ‘Dio ha tanto amato gli uomini da dare il suo Figlio unigenito…”. Da cogliere è questa ‘intenzione’ di Dio, che va diritta al cuore. Quando la moltitudine lo abbandona e Gesù si rivolge agli apostoli: “Volete andarvene anche voi?”, Pietro risponde: “Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio”. Pietro non si esprime in merito al discorso che Gesù ha fatto, ostico anche per lui, ma si esprime in merito al senso della Sua persona per il suo cuore perché intuisce che lì può trovare la vita.

Ma c’è un secondo particolare, ancora più misterioso. Il brano finisce con l’allusione al tradimento di Giuda, nonostante che la scelta di Giuda fosse stata fatta dallo stesso Gesù. Ecco la questione: se è Dio ad attirare gli uomini, allora in che cosa gli uomini sono responsabili del suo rifiuto? È Dio a scegliere, ma la sua scelta non comporta automatismi, perché fidarsi di Dio significa fidarsi dello spazio di libertà in cui ci pone. Lo spazio di libertà è in funzione della possibilità dell’incontro, gioia di Dio e dell’uomo insieme. Così la fede esprime l’umano nella sua radicalità quando, per compiersi, si scopre fondato e attratto da un oltre che lo sorpassa, benché gli appartenga.

La scelta di Dio non comporta perciò l’esito scontato. È il dramma che segna tanto Dio (che resta solo, se abbandonato da noi) come pure noi, che restiamo soli senza di Lui, incapaci come siamo a realizzare la nostra stessa vocazione umana. L’amore di Dio però non viene meno tanto che quei discepoli, che ora abbandonano Gesù perché il suo discorso è troppo duro, saranno gli stessi che, guardando a Colui che hanno trafitto, potranno ricredersi e convertirsi e finalmente avere la vita, cosa sempre possibile per tutti noi. Perché l’uomo non si condanni alla solitudine, restando in balia delle sue ossessioni, è invitato a vivere nell’alleanza offertaci da Dio, in Cristo, e non a condizionare l’alleanza ai suoi scopi, che comportano il rifiuto di quelli di Dio. Ma negli scopi di Dio sta appunto l’offerta di vita eterna, che non può provenire da noi stessi. È lo stesso spazio del dramma che si trasforma nello spazio di una vita piena, intrisa di gioia inattaccabile, allorché Dio e l’uomo si incontrano, esperienza sempre misteriosa e imprevedibile.

 

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Quinto ciclo

Anno liturgico B (2014-2015)

Tempo Ordinario

 

XXII  Domenica

(30 agosto 2015)

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Dt 4,1-2.6-8;  Sal 14;  Gc 1,17-18.21b-22.27;  Mc 7,1-8.14-15.21-23

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Se ‘i puri di cuore vedranno Dio’ (cfr Mt 5,8) o, come dice il salmo responsoriale: "Chi teme il Signore abiterà nella sua tenda", perché stupirci di non sentirci a nostro agio nella sua casa, di non riuscire mai ad esserci per davvero o di non risiedervi stabilmente? Se Dio guarda il cuore, perché noi invece ci perdiamo nell’illusione dei nostri meriti o delle nostre rivendicazioni, palesi o segrete?

Potremmo considerare da questo punto di vista le letture di oggi. Tutte richiamano il valore fondante della parola di Dio, del suo comandamento, per la vita dell’uomo. Nel libro del Deuteronomio Mosè avverte: “Ora, Israele, ascolta le leggi e le norme che io vi insegno, affinché le mettiate in pratica, perché viviate ed entriate in possesso della terra che il Signore, Dio dei vostri padri, sta per darvi. Non aggiungerete nulla a ciò che io vi comando e non ne toglierete nulla; ma osserverete i comandi del Signore, vostro Dio, che io vi prescrivo”. Come Gesù fa ben risaltare nel brano evangelico di oggi, il guaio proviene dal fatto che la nostra pratica proviene spesso, non dal comandamento di Dio, ma da tradizioni, atteggiamenti, pensieri, obblighi, esclusivamente umani. Così, la promessa di trovare la vita ed entrare in possesso della terra del cuore, cioè gustare il mistero del regno dei cieli svelato dal Signore Gesù Cristo, non si compie mai. Quella promessa è abbinata solo alla pratica del comandamento di Dio, non ad altro. Ora, il comandamento di Dio tocca sempre il cuore, mentre la tradizione umana, spesso, non ha nulla a che vedere con il cuore. Tutto il discorso di Gesù verte appunto sulla contrapposizione: comandamento di Dio/tradizione umana (“Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini”) e, di conseguenza, sulla purità o meno del cuore.

Ben a proposito, rispetto al comandamento di Dio, la Scrittura dice: non aggiungere né togliere. Se è abbastanza facile capire quando ci rifiutiamo di compiere un comandamento, non lo è quando in qualche modo ci imponiamo un comandamento, quando cioè crediamo di fare qualcosa di bene, ma non secondo Dio. La tradizione midrashica ebraica incastona in questo contesto l’occasione del peccato di Adamo ed Eva. Se si leggono attentamente i primi capitoli della Genesi si noterà l’aggiunta di Eva al comandamento di Dio. Dio dice: “…dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, nel giorno in cui tu ne mangerai, certamente dovrai morire”. Ma Eva al serpente risponde: “…del frutto dell’albero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: Non dovete mangiarne e non lo dovete toccare, altrimenti morirete”. Eva aveva provato a toccare il frutto proibito, ma non era successo niente. Quindi conclude: allora Dio non ha detto il vero, ha ragione il serpente. Allora posso mangiare per avere la conoscenza…! E incontra la morte.

L’aspetto misterioso del comandamento di Dio deriva dal fatto che la parola di Dio cela la rivelazione del Suo volto al nostro cuore abilitandolo a vivere in pienezza la sua vocazione all’umanità. Per questo la logica dell’intelligenza della parola di Dio capovolge la logica normale della comprensione. Davanti alla parola di Dio siamo invitati subito a metterla in pratica al fine di comprenderla, al fine cioè di cogliere la rivelazione di Dio che si svela al cuore. La comprensione viene dalla pratica; io accetto di mettere in pratica per capire e non, come solitamente ci riduciamo a fare, cerco di capire per mettere in pratica. Il primo moto è affettivo, non intellettivo, nel senso che prima devo poter cogliere l’intenzione segreta di Dio che a me si rivolge fidandomi del suo amore. È per questo che, continuando la lettura del brano del Deuteronomio, al v. 9, si proclama: “Ma bada a te e guardati bene dal dimenticare le cose [parole] che i tuoi occhi hanno visto, non ti sfuggano dal cuore per tutto il tempo della tua vita”.

L’accento cade sulla sincerità del cuore, che si trova dentro una storia d’amore che lo precede e l’accompagna e a cui risponde, e non sulla sua generosità. Cosa significa ‘vedere’ le parole? Significa aver accolto la parola per metterla in pratica e avanzare in quella realizzazione di umanità che fa risplendere la prossimità di Dio.

La liturgia ha ben collocato, a commento del brano del Deuteronomio, il salmo 14, il quale riassume la sincerità del cuore davanti a Dio nell’agire con giustizia e nel parlare lealmente, cioè nel non danneggiare il prossimo, noi stessi compresi, né coi fatti né con la lingua (quello che i nostri Padri chiamavano: non ferire mai la coscienza del prossimo, né coi fatti né con le parole). Questo vale assai di più di qualsiasi pratica umana, pur grandiosa, perché in questo risplende la vicinanza di Dio.

 

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Quinto ciclo

Anno liturgico B (2014-2015)

Tempo Ordinario

 

XXIII  Domenica

(6 settembre 2015)

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Is 35,4-7a;  Sal 145;  Gc 2,1-5;  Mc 7,31-37

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Potremmo domandarci se sia significativo il fatto che la guarigione del sordomuto avvenga in territorio pagano. Non possiamo dimenticare che la confessione di fede in Gesù, Figlio di Dio, alla fine del vangelo di Marco, è pronunciata da un pagano, il centurione ai piedi della croce: “…avendolo visto spirare in quel modo, disse: Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!” (Mc 15,39).

I gesti e le parole di Gesù hanno un’alta valenza simbolica perché toccare gli orecchi e la lingua sono diventati gesti battesimali che ancora oggi sono ripetuti nel rito del battesimo. Parto proprio da qui per suggerire una porta di accesso al brano evangelico. Alla fine del rito del battesimo di un bambino, dopo che il battezzando è stato unto col sacro crisma, ha ricevuto la veste bianca e il cero acceso, il ministro compie il rito dell’effeta (dal brano evangelico odierno: effatà, àpriti) dicendo: “Il Signore Gesù che fece udire i sordi e parlare i muti, ti conceda di ascoltare presto la sua parola e di professare la tua fede, a lode e gloria di Dio Padre”. E invita tutti a proclamare la preghiera del Padre nostro. Anticamente, anche quando i battezzandi erano adulti, la Chiesa si riferisce loro come a bambini piccoli che imparano a parlare. E quale parola si suggerisce loro di dire? “Padre nostro” e non: padre mio, rinunciando così ad ogni dipendenza nei confronti di qualsiasi altro padre terreno e carnale, cioè al diavolo. Proprio in questa rinuncia a una paternità terrena e carnale e nel riconoscimento di avere ormai un unico Padre celeste, si aprono gli orecchi per ascoltare la Parola di vita e si apre la bocca per proclamare la lode di Dio. Ecco delineato il passaggio dal paganesimo alla fede: ascoltare e proclamare parole vere, lodando l’unico Dio e Padre, in Gesù.

Tale passaggio, che avviene in verità con il battesimo, va poi vissuto concretamente nel cammino della vita finché la verità dell’essere figli di Dio possa splendere in tutta la sua concretezza. Nel cammino della vita il passaggio si rinnova con il pentimento rispetto ai peccati che ancora ci mantengono nell’orbita del padre terreno e carnale rinnegando quello celeste. L’espressione di Sal 51,16-17 è illuminante: “Liberami dal sangue, o Dio, mia salvezza: la mia lingua esalterà la tua giustizia. Signore, apri le mie labbra e la mia bocca proclami la tua lode”. Davide è consapevole che, con il suo assassinio, è meritevole di morte. Ha pregato che il suo peccato gli venisse perdonato e nella gioia del perdono ritrovato promette di far conoscere la misericordia del Signore a tutti, testimoniandola davanti a tutti e chiede che il suo parlare costituisca appunto non solo una lode sua al suo Dio, ma che susciti la stessa lode a Dio in coloro che l’ascoltano e tutti conoscano la misericordia del Signore.

È per questo che la chiesa fa iniziare le preghiere del fedele ogni mattino con le parole del salmo: “Signore, apri le mie labbra. E la mia bocca proclami la tua lode”, consapevole che se tutte le altre parole, che si pronunceranno nella giornata, non pescano la loro verità e il loro vigore nella lode del Signore, feriranno. E nelle preghiere quaresimali, ad es. quella di s. Efrem, domandiamo di venir liberati dalla parola vana, dalla parola vuota. La preghiera del giusto è descritta: “Benedirò il Signore in ogni tempo. Sulla mia bocca sempre la tua lode”.

Due particolari del brano evangelico risultano significativi. La lode finale in bocca alla gente che aveva visto il miracolo suona: “Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti”. Quando, alla fine della creazione secondo il racconto della Genesi, Dio contempla ciò che ha fatto, viene sottolineato: “Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona” (Gen 1,31). L’espressione della gente rivela che siamo in presenza ormai della nuova creazione, quella dei tempi messianici, quando Dio rinnova ogni cosa ridando a ciascuna cosa il suo splendore eterno perché tutto torni a proclamare la gloria del suo amore.

Il secondo particolare è dato dalla particolare espressione con cui viene designato il sordomuto: un sordo che parlava confusamente. E quando viene guarito si dice che parlava correttamente, distintamente. Ora la confusione del linguaggio è la conseguenza della stoltezza degli uomini che vogliono competere con Dio per il dominio della terra, come ben si vede nell’episodio della torre di Babele. Rinunciando alla gloria di Dio gli uomini si troveranno estranei tra di loro tanto da non capirsi più. La guarigione avviene il giorno di Pentecoste quando la comprensione è data nonostante la diversità delle lingue e la comprensione si baserà proprio sul fatto che tutti riconosceranno le meraviglie di Dio, ciascuno nella sua lingua. Una volta che gli orecchi possono ascoltare la Parola, la lingua sarà libera di glorificare Dio perché in quella parola, sanante, è riconosciuta la Presenza del Signore, presenza che non ci sarà mai più tolta e che unifica tutti.

Il salmo 45 che viene proclamato oggi può essere letto come la descrizione dell’umanità che attende la salvezza, il compimento cioè della promessa di vita, di bene, di felicità, inscritta nel suo intimo e la cui nostalgia è acuita dalle ferite e dalle oppressioni del peccato simboleggiato dalle varie malattie elencate. E la salvezza riguarda tutti, perché in Gesù, che ha tolto il muro di separazione (cf Ef 2,13-18), non c’è più giudeo e pagano, trovando tutti la stessa consolazione e la stessa lode nello stesso amore di Dio.

 

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Quinto ciclo

Anno liturgico B (2014-2015)

Tempo Ordinario

 

XXIV  Domenica

(13 settembre 2015)

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Is 50,5-9a;  Sal 114;  Gc 2,14-18;  Mc 8,27-35

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Con il brano di vangelo proclamato oggi siamo al centro della narrazione di Marco. Gesù incomincia a rivelare direttamente la sua passione, a cui seguirà subito dopo l’episodio della trasfigurazione. La liturgia indica come un percorso per arrivare a cogliere la realtà del mistero della persona di Gesù. Gesù aveva operato segni straordinari e il suo dire, il suo raccontare in parabole, aveva catturato il cuore di tanti. Era giunto il momento di traghettare i discepoli ad una comprensione più profonda e veritiera della sua persona.

La domanda a proposito della sua identità sottende la stessa problematica di Giovanni Battista: è lui o dobbiamo aspettare un altro? “La gente, chi dice che io sia?”; “Ma voi, chi dite che io sia?”. La gente pensa che lui sia stato mandato a preparare la via al Messia, mentre Pietro confessa invece che proprio lui è il Messia.  Gesù prende così sul serio la risposta di Pietro che apertamente svela il suo futuro di passione, annunciato dal terzo canto del Servo del Signore secondo il testo di Isaia della prima lettura.

Marco per tre volte riporta l’annuncio della passione di Gesù: 8,31/9,31/10,33. Tutte e tre le volte Gesù si trova per strada (qui per Cesarea, la seconda volta per Cafarnao e la terza per Gerusalemme) e sempre l’annuncio è accompagnato da una sua istruzione ai discepoli, tanto che l’annuncio va colto proprio a partire dalla rivelazione che comporta quell’istruzione.

Da notare subito: il testo sottolinea che Gesù insegnava che doveva soffrire molto. I due termini indicano che l’uomo non avrebbe mai potuto arrivare al mistero della persona di Gesù dal basso; vi si giunge per rivelazione, dall’alto. Non solo, ma che “dall’alto” corrisponde allo “star dietro” a Gesù. Pietro, che rifiuta quella rivelazione, in effetti non può comprendere perché, invece di star dietro a Gesù, vuole mettersi davanti, come a far da suggeritore al suo Maestro e si prende il rimprovero: “Va’ dietro a me, Satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini”. In quel rimprovero però c’è tutta la pedagogia di Dio con l’uomo e Pietro ne farà tesoro. Gesù riprende la testimonianza di Es 33,20-23, là dove Dio dice a Mosè che potrà vederlo solo di spalle. Il che significa: solo accettando di camminare per dove Dio indica lo si potrà vedere in verità. E ancora: solo disponendoci a praticare la sua parola si può scoprire la verità della promessa di vita che la sua parola comporta. Solo camminando dietro il Maestro si potrà vederlo in verità fino alla visione della croce, là dove risplende l’amore di Dio per gli uomini, convincendo i cuori che solo da quell’amore scaturisce la vita per l’uomo e che solo in quell’amore la dignità della vita si fa godibile. La verità che vale per il Maestro non è diversa da quella che vale per il discepolo.

Quando Gesù invita i discepoli a rinnegare se stessi, prendere la croce e seguirlo, non fa che estendere a tutti il rimprovero rivolto a Pietro. Potremmo intendere le cose così. Pietro, nel rimproverare Gesù, aveva probabilmente temuto per sé. Se Gesù, il Messia, avesse dovuto subire tutti quei tormenti, certamente sarebbe svanito il prestigio dell’essere ‘compagno’ del Messia. E allora che ne sarebbe stato di lui? Il ‘rinnegare se stessi’ vale in rapporto al mistero di Dio che in Gesù si fa prossimo agli uomini per la potenza del suo amore tanto da far scaturire la vita proprio là dove gli uomini mai la cercherebbero. Se gli uomini pensano in prospettiva mondana come potranno vedere i segreti di Dio? La rinuncia a ogni prospettiva mondana è la condizione per accogliere il mistero di Gesù che sulla croce rivela lo splendore dell’amore, motivo di ogni rinuncia a qualsiasi cosa che non sia collegabile o derivante da quell’amore. D’altronde qui risiede tutta la dignità della vita. Ma, per quanto desiderabile, come resta velata ai nostri occhi! Siamo sempre nella condizione di dover essere istruiti dall’alto per afferrare la verità dell’umanità di Gesù consegnata agli uomini e scoprire vero per noi e per tutti lo splendore dell’amore. Così il portare la croce non si riferisce primariamente alla fatica del vivere, ma alla condizione perché la fatica del vivere risulti fruttuosa: la rinuncia a ogni prospettiva mondana ci apre alla rivelazione dell’amore di Dio nella nostra vita, amore che possiamo cogliere in tutto il suo splendore proprio nella croce di Gesù. Seguire Gesù significa essere partecipi di questa rivelazione fino a viverla nel concreto della propria vita per dare spazio alla stessa dinamica di amore.

Come sottolinea la bellissima preghiera dopo la comunione: ‘La potenza di questo sacramento, o Padre, ci pervada corpo e anima, perché non prevalga in noi il nostro sentimento, ma l’azione del tuo santo Spirito’. Nella consapevolezza che l’azione dello Spirito induce a vivere in pienezza quella vocazione all’umanità che resta inscritta nei nostri cuori. E sarà proprio la potenza della visione del Signore trafitto che diventerà fonte di vita perché apre alla conoscenza dell’amore.

È per quella visione e dentro quella potenza che san Paolo, nella sua lettera ai Galati, ripresa dal canto al vangelo, proclama: “Quanto a me non ci sia altro vanto che nella croce del Signore, per mezzo della quale il mondo per me è stato crocifisso, come io per il mondo” (Gal 6,14). Come a dire: rispetto a quell’amore, rivelato dall’alto e colto nel seguire il Signore Gesù, di cui ho avuto la visione nel guardarlo trafitto in croce, non c’è nulla nel mondo che meriti la preferenza e non c’è nulla in me che può trovare adeguato compimento a partire dal mondo. La preghiera della chiesa tende a rendere vivace per il nostro cuore tale verità.

 

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Quinto ciclo

Anno liturgico B (2014-2015)

Tempo Ordinario

 

XXV  Domenica

(20 settembre 2015)

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Sap 2,12.17-20;  Sal 53,  Gc 3,16-4,3,  Mc 9,30-37

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Il brano evangelico concatena tre contesti: il secondo annuncio della passione, la discussione tra i discepoli su chi sia il più grande, l’esortazione di Gesù di accogliere i bambini. Partiamo dalla discussione dei discepoli. In effetti, non si tratta semplicemente di un parlarsi, ma della contesa della discussione, come esprime il verbo che usa Gesù quando fa loro la domanda: “Di che cosa stavate discutendo per la strada? .... Per la via infatti avevano discusso tra loro chi fosse il più grande”.

La liturgia ci introduce nei sentimenti di Gesù e dei discepoli con la lettura del libro della Sapienza. Il brano non va letto solo come un annuncio profetico della passione di Gesù, ma per la prospettiva nella quale la profezia dona la sua luce. Il brano riporta il discorso degli empi introducendolo con le parole: “Dicono fra loro sragionando…” e concludendolo: “Non conoscono i segreti di Dio”. Ecco, la rivelazione di Gesù consiste nell’essere messi a parte dei segreti di Dio, che sono appunto i misteri del regno dei cieli. E l’annuncio della passione rivela quanto i segreti di Dio siano lontani dalla mente degli uomini, eppur così essenziali alla vita dei loro cuori.

La ricerca della grandezza è tema sensibile per il cuore dell'uomo. Gesù non condanna i discepoli; accetta che l’uomo desideri essere grande. La sfida è appunto: quale grandezza cercare? Così al desiderio di grandezza dell’uomo segue l’indicazione della sapienza dall’alto che indica la strada e la natura della grandezza secondo Dio, come fa pregare la colletta: “ O Dio, Padre di tutti gli uomini…donaci la sapienza dall’alto, perché accogliamo la parola del tuo Figlio e comprendiamo che davanti a te il più grande è colui che serve”. La qualità della grandezza gradita a Dio è nell’ordine della comunione, della gioia per l’altro, della gioia condivisa con il Maestro: questo è il senso del servizio.

Quando Gesù dice: “Se uno vuol essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servo di tutti”, pone se stesso a modello della grandezza. Di sé dice: “Eppure io sto in mezzo a voi come colui che serve” (Lc 22,27). Dopo aver lavato i piedi agli apostoli dice: “Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri. Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi. In verità, in verità io vi dico: un servo non è più grande del suo padrone, né un inviato è più grande di chi lo ha mandato. Sapendo queste cose, siete beati se le mettete in pratica” (Gv 13,13-17).

Voler essere il servo di tutti significa allora voler essere trovato in Cristo. Voler essere il primo significa voler essere ritrovato in colui che è il Primo e che si è fatto servo di tutti.  Qui si scopre la grandezza che Dio gradisce. Lo dice l’annuncio della passione: quel Figlio, che sarà esaltato, dovrà patire. Da intendere: non certo che il ‘soffrire’ abbia qualche titolo di merito per ottenere grandezza, ma che è preferibile custodire l’amore per l’altro comunque; non certo che occorra rassegnarsi al male, ma che si accetti il fatto che il bene sia comunque preferibile e quindi si attraversi il male senza perdere il bene.

E perché è necessario percorrere questa via? L’esempio dei bambini ce lo illustra. Per comprendere il riferimento ai bambini bisogna rifarsi al passo parallelo di Mt 18,1-5, dove Gesù, prima di invitare ad accogliere i bambini, fissa la condizione interiore di conversione che permette di coglierne il mistero: “Perciò chiunque si farà piccolo come questo bambino, costui è il più grande nel regno dei cieli”. Ma la traduzione ‘si farà piccolo’ è fuorviante rispetto al contesto di rivelazione dell’annuncio della passione. In effetti, il testo comporta il verbo ‘umiliare’ e la traduzione sarebbe: ‘chi umilierà se stesso come un bambino’. Il significato è più diretto rispetto all’annuncio della passione, perché Gesù è proprio colui che ha umiliato se stesso, facendo risplendere, nella sua umiliazione, tutta la potenza dell’amore di Dio per gli uomini e questo è motivo della sua grandezza. Allora il riferimento al bambino può essere compreso sia nel senso della confidenza verso il Padre sia nel senso della debolezza estrema patita e diventata luogo di gloria. A tal punto, che Gesù si confonde con ogni ‘bambino’, cioè con ogni uomo nella sua debolezza, tanto che chi onora un uomo nella sua debolezza onora lo stesso Signore Gesù e chi onora il Signore Gesù onora il Padre. I segreti di Dio sono ravvisabili in questa ‘equazione’, svelata nella sua bellezza dal Signore che per noi ha patito, è morto ed è risuscitato.

Quando accogliamo un uomo senza altra qualificazione se non quella della sua ‘umanità’, senza altro titolo di importanza o di merito o di demerito, allora accogliamo Gesù. E lo possiamo fare perché già abbiamo imparato a godere dell’intimità con il Padre, che in quella ‘umanità’ ha posto la sua compiacenza e di cui abbiamo potuto fare esperienza credendo al Figlio dell’Uomo dato per noi. Così diventare come bambini comporta l’esperienza di una umanità che non ha bisogno di altri titoli di gloria, proprio come davanti ai bambini non si guarda ad altro se non che sono bambini. Ma diventare come bambini significa entrare nel Regno di Dio perché siamo messi in presenza del mistero stesso di quel Figlio dell’Uomo che rivela l’amore di Dio per gli uomini. E sarà solo a partire da quell’amore che potremo accogliere tutti come fratelli, destinati allo stesso Regno.

Gesù parla appunto della grandezza per il regno dei cieli, che è grandezza di rivelazione dell’amore di Dio per gli uomini. Essere ultimo non significa essere dietro a tutti gli altri, ma solo servo di  tutti perché l’amore di Dio risplenda e questo comporta che non ci sia cosa o persona più significative per il nostro cuore da indurlo a preferirle contro l’amore di Dio. Con il corollario evidente, anche se assolutamente mai scontato: non c’è grandezza vera se non nel preferire tutti a noi stessi perché solo così l’amore di Dio splende. E ciò significa che la nostra umanità vivrà della gloria del Signore.

Se Giacomo, nella sua lettera, parla di una sapienza che viene dall’alto, indicandola come “pura, pacifica, mite, arrendevole, piena di misericordia e di buoni frutti, senza parzialità, senza ipocrisia”, allude proprio a quella rivelazione che ha conquistato il cuore e che lo muove con la potenza del suo dinamismo. E quando, nella preghiera dopo la comunione, domandiamo che ‘la redenzione operata da questi misteri trasformi tutta la nostra vita’, in realtà preghiamo perché il nostro cuore si apra a quella rivelazione e ne sia conquistato.

 

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Quinto ciclo

Anno liturgico B (2014-2015)

Tempo Ordinario

 

XXVI  Domenica

(27 settembre 2015)

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Nm 11,25-29;  Sal 18;  Gc 5,1-6;  Mc 9,38-43.45.47-48

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Il brano di Marco, al di là del contenuto specifico delle parole di Gesù, sottolinea due realtà: l’estrema preziosità della fede nel Signore Gesù e la tensione per il Regno, segreto della vita. Ambedue le realtà sono suggerite dal canto al vangelo: “La tua parola, Signore, è verità; consacraci nella verità” (cf Gv 17,17). Come se, davanti alla proclamazione del vangelo, pregassimo: fa’ che viviamo della verità delle tue parole, aderendovi intimamente, in tutta evidenza per il nostro cuore. In questo brano, Gesù proclama la verità sotto forma di promessa e sotto forma di minaccia. La promessa è rivolta a chi non ha ancora aderito a lui e la minaccia a chi ha già aderito, ma il contenuto della promessa e della minaccia è il medesimo: quanto è preziosa per la nostra vita la conoscenza dei misteri del Regno!

Ma l’uomo non sa vedere. Anche l’uomo zelante per Dio rischia di non saper vedere, come Giosuè, il servitore di Mosè. L’episodio del dono dello Spirito ai settanta anziani, tra i quali sono stati annoverati anche i due uomini rimasti nell’accampamento, Eldad e Medad, non va visto solo a conferma dell’atteggiamento di Gesù che non vuole venga impedita l’azione di Dio dovunque si manifesti, a differenza dei discepoli che vorrebbero invece limitarla al loro gruppo (“Chi non è contro di noi è per noi”). Va visto in rapporto alla necessità dell’effusione dello Spirito per accedere ai misteri del Regno. Mosè non può essere geloso della visita di Dio perché se Dio visita è appunto per attrarre tutti a Sé; così i discepoli non possono essere gelosi del dono dello Spirito perché quel dono è dato proprio perché tutti entrino nei misteri di Dio. Così, nel salmo responsoriale, la supplica è quella di essere liberati dai peccati nascosti, soprattutto dal peccato di orgoglio che impedisce di vedere in modo puro i doni di Dio: “Assolvimi dai peccati nascosti. Anche dall’orgoglio salva il tuo servo perché su di me non abbia potere…”.

In rapporto a questa supplica, coloro che hanno responsabilità nella chiesa sono i primi destinatari della minaccia di Gesù: “Chi scandalizzerà uno solo di questi piccoli che credono in me...”. La fede in lui è così preziosa che chi, con il suo comportamento altero o litigioso oppure con la sua eccessiva severità verso i fratelli più deboli, la rende impraticabile o impossibile a tenersi, sarà condannato. L’aggiunta del paragone, che sarebbe meglio che fosse gettato in mare con appesa al collo una macina da mulino, allude al tradimento di Giuda (cf Mt 26,24) per sottolineare questa equazione: ricevere un discepolo di Cristo equivale a ricevere il Cristo, ma scandalizzare un discepolo di Cristo equivale a tradire il Cristo. Scandalo, in questo contesto, è riferito allo scoraggiamento che si istilla nei deboli con un atteggiamento troppo severo di fronte alle loro mancanze.

Rispetto a chi non ha ancora fede in lui Gesù dice: “Chiunque infatti vi darà da bere un bicchiere d’acqua nel mio nome perché siete di Cristo, in verità io vi dico che non perderà la sua ricompensa”. Gesù ritiene fatta a sé ogni attenzione o cortesia rivolta ai suoi discepoli. E potremmo dedurre per tutti in generale: anche un semplice bicchiere d’acqua è degno di ricompensa, se offerto in rettitudine di cuore! L’aspetto misterioso consiste appunto nel fatto che ogni minima cosa, fatta nel nome di Cristo, apre sul mistero del regno dei cieli, che Gesù è venuto ad indicarci presente, fruibile. Nel nome di Gesù ogni minima azione può aprirsi sul regno dei cieli e ciò è accessibile a tutti perché a tutti Gesù rende vicino il Regno.

Rispetto invece ai suoi discepoli Gesù dice: “Se la tua mano ti scandalizza, tagliala … Se il tuo piede ti scandalizza, taglialo … Se il tuo occhio ti scandalizza, cavalo: è meglio per te entrare nel regno di Dio con un occhio solo, anziché con due occhi essere gettato nella Geenna …”. Il senso delle sue parole potrebbe essere così interpretato: se l’uomo ha il coraggio di agire seguendo i desideri più profondi del suo cuore, nell’esperienza della fede, allora abbandonerà i desideri superficiali, momentanei, che sono in contrasto con quelli. Posso portare un esempio. Vengo offeso da un fratello. Il mio cuore mi convince di esigere scuse da lui per ristabilire il mio diritto e se il fratello tarda o si rifiuta io resto nella mia offesa, anche se, a volte, è solo il senso della mia importanza ad essere ferito o la mia vanità o la mia presunzione. Vuoi ottenere il tuo diritto? Rischi di perderti completamente. La tua importanza ti impedisce (=scandalizza) di entrare nel regno dei cieli? Abbandonala, tagliala via e tu entrerai nel regno. La difesa del tuo diritto ti fa entrare in guerra con il tuo fratello? Lascialo, taglialo via e tu vedrai il regno dei cieli. Vuoi prevalere sul tuo fratello? Taglia via quella volontà, stagli invece sottomesso: scoprirai la grazia del Regno.

I misteri del Regno sono i misteri della conoscenza del Signore Gesù, fuoco e sale della vita. Non per nulla il capitolo 9 di Marco termina con queste parole misteriose: “Ognuno infatti sarà salato con il fuoco. Buona cosa è il sale ... Abbiate sale in voi stessi e siate in pace gli uni con gli altri”. Potremmo interpretare: se vi lascerete convincere a percepire i misteri del Regno come tesoro del vostro cuore (ecco il fuoco) e rinuncerete sia a ogni forma di ambizione e rivalità che di impoverimento di desideri e di tensione spirituale (ecco il sale) , vivrete custoditi e lieti, potrete godere la pace tra voi come sigillo dell’opera di Dio in voi, come frutto del dono dello Spirito Santo e godimento dell’esperienza della conoscenza del vostro Maestro che per voi è venuto, ha patito, è morto ed è risuscitato.

Gli atteggiamenti interiori che rivelano l’esperienza del Regno si riducono così a due: gioire del bene (sia quello fatto da noi che da altri, in qualsiasi condizione) e non ferire mai la coscienza del prossimo, specie dei deboli e dei piccoli. Allora potremo cantare con il salmo responsoriale: “i precetti del Signore fanno gioire il cuore”.

 

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Quinto ciclo

Anno liturgico B (2014-2015)

Tempo Ordinario

 

XXVII  Domenica

(4 ottobre 2015)

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Gn 2,18-24;  Sal 127;  Eb 2,9-11;  Mc 10,2-16

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Per comprendere il brano evangelico di oggi dobbiamo collocarlo nel contesto religioso del tempo. La domanda dei farisei, domanda tranello, non verteva tanto sul carattere lecito del divorzio, che anche la Legge consentiva (Dt 24,1: “Quando un uomo ha preso una donna e ha vissuto con lei da marito, se poi avviene che ella non trovi grazia ai suoi occhi, perché egli ha trovato in lei qualche cosa di vergognoso, scriva per lei un libello di ripudio e glielo consegni in mano e la mandi via dalla casa”), ma a quale condizione lo fosse. Nella controversia tra le due scuole di Hillel e Shammai, ai tempi di Gesù prevaleva la prima, più rigorista: il divorzio è lecito solo a una condizione, in caso cioè di unione illegittima (che anche Mt 5,32 contempla) o di adulterio, mentre più tardi prevalse la seconda, più lassista: il divorzio è lecito per qualsiasi motivo. La legge sul divorzio proteggeva la donna dall’accusa di adulterio, perché le permetteva un nuovo matrimonio.

Tutti sapevano che il ripudio era una consuetudine pacificamente accettata e che Mosè aveva avallato con un’indicazione precisa. I farisei sembrano intuire che l’insegnamento di Gesù vada contro la Legge. Vogliono che lo dichiari apertamente per aver motivo così di accusarlo.

La risposta di Gesù, se si colloca nell’interpretazione più rigorista della legge mosaica, affronta la questione in una prospettiva completamente diversa. Gesù, contrapponendo comandamento a concessione, arriva al cuore del problema. In gioco non c’è l’interpretazione restrittiva o estesa di una norma e neppure la norma stessa, ma il fondamento su cui la norma prende valore. Il valore di riferimento non è la consuetudine, per quanto avvalorata, sebbene in semplice concessione, dalla stessa Legge, bensì l’agire di Dio che esprime il suo volere quanto all’uomo. E Gesù richiama l’atto della creazione: “Dio li fece maschio e femmina; per questo l'uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una carne sola” (cf. Gen 1,27; 2,24). Faccio notare che nel testo ebraico quel ‘si unirà’ non ha una marcata valenza sessuale, valenza che si accentuerà nelle versioni e nei commenti successivi. Quella benedizione di Dio non è mai venuta meno, nonostante i peccati e le fragilità umane. E quella benedizione costituisce l’asse di riferimento perenne del valore del matrimonio.

Gesù si riferisce al secondo racconto della creazione dove l’uomo non è più considerato come coronamento del cosmo, bensì suo principio. Quando, con l’antifona di ingresso, proclamiamo: “Tutte le cose sono in tuo potere, Signore, e nessuno può resistere al tuo volere”, alludiamo alla parola: “Non è bene che l’uomo sia solo”. Tutte le cose sono date all’uomo, ma in nessuna cosa l’uomo trova il suo compimento, la sua felicità, perché questo non è il volere di Dio per lui. Da notare che Adamo godeva pienamente della pace con Dio, non era ancora venuto il peccato a turbare l’armonia con Dio e con il creato.

Dio è Uno, ma non è solo. In questo mistero insondabile del Dio, uno nella natura e tre nelle Persone, rivelato da Gesù, si fonda il volere di Dio per l’uomo. È come se Dio dicesse: non è possibile che l’uomo non partecipi alla realtà più bella che mi costituisce, l’amore. Non basta che l’uomo ami Me, suo Creatore, se non può amare anche chi è della sua stessa natura; l’amore che Noi, Padre Figlio Spirito Santo, ci costituisce, voglio che anche l’uomo lo possa vivere al pari di Noi. Ora la donna, che non è tratta come Adamo e tutte le cose dalla polvere del suolo, ma dallo stesso Adamo, è plasmata perché l’uomo potesse ‘essere come Dio’, amare come Dio: realizzare la comunione in un’unica natura e tra persone diverse.

Lo sottolinea anche la liturgia con il canto al vangelo: “Se ci amiamo gli uni gli altri, Dio rimane in noi e l’amore di lui è perfetto in noi”. Come a suggerire: l’amore, che ha le sue origini in Dio, rende uomini e donne di pari dignità perché solo attraverso l’amore possiamo fare esperienza di Dio. E quando un uomo e una donna sono consacrati nel loro amore, in gioco è proprio la consumazione dell’amore di Dio che si rivela in essi. Solo la tensione al Regno dei cieli, però, può motivare fino in fondo la decisione di quell’amore.

In effetti, la posizione di Gesù è vincolata all’accoglienza del Regno, al fatto di vederlo come colui che compie il volere di Dio per l’uomo. Il brano è inserito in un contesto preciso, quello della sua sequela, che si chiude con il suo ingresso a Gerusalemme. I suoi discepoli sono come storditi, perché subito dopo Gesù proclama il valore del celibato volontario per il regno dei cieli, l’inciampo delle ricchezze per il sincero servizio del cuore e, per la terza volta, annuncia la sua prossima passione.

Così, l’indissolubilità del matrimonio diventa una esigenza del regime messianico insieme a tutto il resto. Proprio in questo trova senso il paragone dei bambini che leggiamo subito dopo: “a chi è come loro infatti appartiene il regno di Dio”. Vi è l’allusione alle beatitudini: “Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli ...”. I bambini, da interpretare come ragazzi di 10-12 anni, prima del bar mitzvah, quando cioè a pieno titolo entrano nella società degli adulti con il poter leggere pubblicamente la Bibbia e contribuendo al numero legale per un’assemblea di preghiera, sono l’immagine dei discepoli che non hanno titolo di importanza o prestigio, che non si aspettano nulla, che non esercitano alcun potere, che possono confidare solo in chi vuole loro bene. Di questi è il regno dei cieli, di quanti cioè hanno posto in esso tutta la loro confidenza e in nient’altro, non cercando quindi ricchezze o prestigio o finendo di servirsi di Dio invece che essere suoi servi. L’insegnamento di Gesù è chiaro e i discepoli restano pensierosi. Dovranno fare ancora tanta strada insieme al loro Maestro per accogliere queste sue parole e viverne la potenza.

 

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Quinto ciclo

Anno liturgico B (2014-2015)

Tempo Ordinario

 

XXVIII  Domenica

(11 ottobre 2015)

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Sap 7,7-11;  Sal 89;  Eb 4,12-13;  Mc 10,17-30

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Lo sbigottimento dei discepoli davanti alle parole di Gesù è pure il nostro sbigottimento. Domandiamoci però subito: la domanda del giovane ricco e la risposta di Gesù ricoprono lo stesso ordine di preoccupazione interiore? Oppure, ancora: la domanda di sbigottimento degli apostoli (“E chi può essere salvato?”) ricopre lo stesso ordine di preoccupazione dell’intervento di Pietro (“Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito”)?

Sembra che l’orizzonte della richiesta del giovane ricco sia limitato. Non è soddisfatto delle sue ricchezze e della sua vita, e per questo corre da Gesù, ma la vita eterna che mostra di volere è assai diversa da quella che Gesù chiama l’entrare nel regno di Dio. È come se non riuscisse a distinguere il comandamento dalla ispirazione che l’ha dettato. Il dramma dei credenti viene proprio dal fatto che si può praticare il bene e non arrivare mai a gustarne il frutto. La messa in guardia risuona nell’affermazione di Gesù: “Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo”.

Ciò significa che si possono fare atti buoni senza diventare buoni o, meglio, fare i comandamenti senza partecipare alle segrete intenzioni per cui Dio ci ha dato quei comandamenti e così non veniamo messi a parte del suo segreto e del desiderio del suo cuore, non diventiamo mai intimi suoi. Lo spartiacque tra quei due livelli è costituito da quel ‘vieni e seguimi’ nel senso che accettare di seguire il Signore Gesù significa essere attirati dal Padre, significa porre il segreto della propria vita nell’invio di quel Figlio che è stato dato per noi, significa fidarsi di Colui che ci si fa incontro dalla parte di Dio per ritrovare la propria umanità guarita e riscattata. Se accettiamo di seguire il Signore è perché qualcosa di Lui ci ha affascinato, qualcosa ha parlato al nostro cuore nel senso di percepire di trovare felicità e compimento in ciò che ci chiama ad essere, in ciò che ci chiama a fare. Impariamo a riceverci dal nostro futuro perché la chiamata del Signore cela una sua promessa che col tempo si rivelerà. E noi acconsentiamo proprio a questa rivelazione che ci viene dal futuro.

Di per sé la posizione del giovane ricco e dei discepoli si equivale. In fondo, pensano ancora come il giovane ricco. La differenza risiede nel fatto che i discepoli sono però capaci di provare a credere a Gesù, capacità che permetterà al loro cuore, a tempo debito, di condividere i segreti di Dio che in Gesù si manifestano, lasciandosi conquistare totalmente. Pietro non pretende qualcosa se sottolinea cosa ci guadagneranno dall’aver abbandonato tutto per seguire il loro Maestro. Dichiara semplicemente che a loro non è ancora dato di godere il frutto della loro rinuncia. E Gesù gli risponde con la promessa che ciò avverrà sicuramente e in abbondanza, a patto che seguano il Maestro fino in fondo, fino a conoscere nell’esperienza del loro cuore la prima beatitudine, ripresa dal canto al vangelo: “Beati i poveri in spirito, perché di esse è il regno dei cieli” (Mt 5,3).

È per questo motivo che Gesù, desideroso di avere amici che condividono quei segreti, invita il giovane. Non si tratta tanto di lasciare tutto, quanto di venire dietro a Gesù, l’Inviato sul quale riposa tutta la compiacenza del Padre e nel quale anche gli uomini possono gustare la benedizione di quella compiacenza. Il vendere i propri beni allude al fatto che non sono quei beni ad assicurarci il Bene cercato dal cuore. Non che sia necessario disfarsene (Gesù ha accettato con sé discepoli senza aver imposto loro di lasciare i beni!), ma che è necessario rinunciare a preferire i beni al Bene. Si potrebbe dire che il senso della nostra vita si gioca non nel voler fare il bene, ma nel farlo per entrare nel segreto di Dio e il segreto di Dio che ci rivela il suo amore per noi è proprio quel Figlio che è stato dato per noi.

Ora, non è possibile all’uomo entrare nel segreto di Dio. Solo Dio ce lo può ottenere, Lui che ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio perché anche noi, in Lui, possiamo godere della sua gioia. In questo senso si capisce bene la tristezza di Gesù davanti alla tristezza del giovane ricco che se ne va disilluso: il giovane rifiuta l’ingresso in una gioia che aveva intravisto e di cui si rassegna a non godere più. La conseguenza sarà che i comandamenti eseguiti non saranno mai per lui motivo di intimità e di gioia del cuore. E per questo non può ancora entrare nel Regno, che gli è balenato davanti.

La prima lettura illustra come sia da intendere questa impossibilità per l’uomo di ‘salvarsi’, cioè di entrare in intimità con Dio e vivere in comunione con lui e con tutti i suoi figli. Se Salomone prega per ottenere la sapienza vuol dire che la sapienza non è una conquista umana. Il salmo responsoriale lo mostra chiaramente. Parla di ‘saziarsi di grazia’, di ‘manifestazione della gloria di Dio’, di ‘consistenza’ dell’agire dell’uomo. Grazia, gloria e consistenza, che esprimono la rivelazione dell’amore di Dio per l’uomo, rivelazione che in Gesù si manifesta in tutto il suo splendore. Accogliere Gesù significa accogliere la sapienza di Dio che è splendore di amore per l’uomo. Tutto ciò che ha a che fare con quello splendore nella vita degli uomini parla della sapienza che ha lambito il cuore dell’uomo e lo rende splendente. A paragone con questa sapienza, le ricchezze e ogni altro bene di cui godere nella vita non costituiscono nulla di davvero significativo per il cuore. Salomone lo sa e prega ardentemente per partecipare a quella sapienza.

E se l’antifona di ingresso proclama, eco del salmo 129: “Se consideri le nostre colpe, Signore, chi potrà resistere? Ma presso di te è il perdono, o Dio di Israele”, vuol dire che l’uomo non può accedere alla sapienza sulla base dei suoi meriti, non può conoscere la sapienza a partire dal suo buon comportamento; vuol dire che si accede alla sapienza con il riconoscere il bisogno del perdono, che non equivale semplicemente a riconoscere la colpa, ma a riconoscerla davanti a Qualcuno che ci vuol far dono di Sé.

 

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Quinto ciclo

Anno liturgico B (2014-2015)

Tempo Ordinario

 

XXIX  Domenica

(18 ottobre 2015)

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Is 53,2a.3a.10-11;  Sal 32;  Eb 4.14-16;  Mc 10,35-45

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Gesù sta salendo a Gerusalemme con tale decisione che i discepoli sono sgomenti e impauriti. Lui cammina davanti e a un certo punto raccoglie gli apostoli e consegna loro il terzo annuncio della sua passione, il più dettagliato: “Ecco, noi saliamo a Gerusalemme e il Figlio dell’uomo sarà consegnato ai capi dei sacerdoti e agli scribi; lo condanneranno a morte e lo consegneranno ai pagani, lo derideranno, gli sputeranno addosso, lo flagelleranno e lo uccideranno, e dopo tre giorni risorgerà” (Mc 10,33-34). Ha appena finito di rivelare il suo drammatico destino, ed ecco che si fanno avanti Giacomo e Giovanni, i quali chiedono di poter condividere la gloria del loro Maestro, pensandolo evidentemente come un Messia vittorioso, in posizione di privilegio rispetto agli altri compagni. Davanti alla loro richiesta Gesù non si ritrae e deve riconoscere che i suoi due apostoli sono tutto d’un pezzo, intendono seguirlo davvero fino in fondo. Non dimentichiamo che, insieme a Pietro, questi due discepoli sono quelli che hanno ricevuto un nome nuovo da Gesù, a differenza di tutti gli altri. Nell’elenco degli apostoli (cfr. Mc 3,16-19), Giacomo e Giovanni vengono subito dopo Pietro e sono denominati ‘Boanerghes’, figli del tuono. Insieme a Pietro, accompagnano Gesù nei momenti più significativi e misteriosi e hanno sentito la voce dal cielo: “Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!” (Mc 9,7).

Giovanni Crisostomo, commentando la richiesta dei due fratelli, osserva che la loro domanda era inopportuna: si immaginano la gloria prima del patire e avanzano una pretesa sui compagni. Ancora non sapevano che sarebbe stata l’umiliazione a produrre frutti sorprendenti. L’unico modello di umanità compiuta è quello di Gesù e lui ha scelto la via dell’abbassamento per manifestare l’amore. Ogni altra richiesta di compimento di umanità non raggiungerà lo scopo. Così l’abbassamento del Figlio è lo spazio nel quale gli uomini sono collocati per apprendere l’amore del loro Dio, mentre tutti gli eventi della vita sono retti dalla Provvidenza di Dio che ci vuole partecipi del frutto che quell’abbassamento ci ha procurato. Rivelazione, questa, che tutta la liturgia di oggi si premura di sottolineare con la solenne dichiarazione di Gesù: “il Figlio dell’uomo è venuto per servire e dare la propria vita in riscatto per molti”, proclamato dal canto al vangelo.

In poche parole, Gesù rifiuta ogni collegamento tra il desiderio di gloria e la sua sequela. Quel nesso è custodito da Dio solo. Non che non esista, ma guai a volerlo perseguire, perché ne scaturirebbe un fraintendimento colossale per i nostri cuori. La ragione profonda credo risieda nel fatto che ad attirare a Gesù è il Padre: “Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato” (Gv 6,44). Essere mossi dal Padre significa condividere l’amore di benevolenza che in quel Figlio ci raggiunge e ci fa riposare. Non si può desiderare altro. Volere altro significa uscire da quella dinamica e fallire il compimento dei desideri del cuore. A questa assolutezza Gesù richiama e rimanda.

Del resto si concatena bene a questa anche l’altra risposta di Gesù all’irritazione dei discepoli contro i due figli di Zebedeo: “…chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti. Anche il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti”. Perché voler essere grandi comporta dover servire? Di nuovo si è rimandati al mistero del Padre che attira al Figlio. Servire significa compiere quella ‘volontà di benevolenza’ del Padre nei confronti degli uomini che in Gesù si realizza perfettamente. Compiere la volontà di benevolenza significa far risplendere, comunque, in qualsiasi condizione, quell’amore di Dio per gli uomini in cui si radica la loro dignità e la loro libertà. Si tratta di realizzare una grandezza che sa liberare la dignità degli uomini rivelando loro di essere non soltanto oggetto di amore, ma soggetti di amore. Il servire procura questo riscatto: libera la dignità degli uomini e fa risplendere la presenza del Signore. E se non porta lì, allora vuol dire che il servire messo in atto sa troppo di questo mondo, sul quale esercita il suo potere il diavolo. Se non porta lì, vuol dire che il dinamismo del sacrificio di Gesù, dinamismo di amore sotto la duplice forma di docilità filiale verso Dio e di solidarietà fraterna aperta a tutti, non ci ha toccati. Ma se quel dinamismo non ci ha toccati, allora non siamo discepoli di Gesù e la nostra sequela di lui è illusoria. Occorre lasciare ogni tipo di potere e prestigio se si vuole condividere la grandezza dell’amore, che in Gesù splende di tutta la sua bellezza in umanità.

Un’ultima annotazione. Nel brano di Marco, rispetto alla grandezza vale il servizio vicendevole (nel testo: sarà vostro servitore), rispetto al primato vale l’essere ultimi nel senso di essere schiavi di tutti (nel testo: sarà schiavo di tutti). Nell’ultima cena, Gesù si muove non solo come servitore, ma come schiavo e in questo rivela il segreto di Dio per l’uomo. Se l’uomo potesse condividere quel segreto, si troverebbe a muoversi come Gesù e vivrebbe la sua vita nella dinamica di liberare la dignità degli uomini in modo che sia esaltato l’amore di Dio per loro.

 

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Quinto ciclo

Anno liturgico B (2014-2015)

Tempo Ordinario

 

XXX  Domenica

(25 ottobre 2015)

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Ger 31,7-9;  Sal 125;  Eb 5,1-6;  Mc 10,46-52

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Il brano evangelico di oggi ha degli accenti assolutamente speciali. I verbi, anzitutto. Tutti i verbi del brano sono intensivi: Bartimeo, il cieco alle porte di Gerico, grida, non semplicemente chiama; ripetutamente grida (tra l’altro, il grido del cieco è diventato il paradigma dell’invocazione della preghiera di Gesù, della preghiera del cuore!); getta via il mantello, non semplicemente se lo toglie; balza in piedi, non semplicemente si alza; si rivolge a Gesù da dentro un’emozione che aveva già lavorato il suo cuore, sebbene non avesse ancora mai potuto vederlo in faccia e, appena lo vede, non può che mettersi a seguirlo. Tutto il racconto assume una valenza simbolica precisa, che la liturgia fa risaltare.

La prima lettura è tratta dal cap. 31 di Geremia, il capitolo che descrive il compiersi della promessa di Dio per gli esuli a Babilonia, l’arrivo a Sion del Signore con il suo popolo, realizzazione che allude a un’altra promessa, quella di una nuova alleanza, scritta sui cuori, quando Israele corrisponderà con la stessa dedizione all’attaccamento del Signore al suo popolo e tutto sarà riedificato nuovamente. Straordinaria è la descrizione dei sentimenti di Dio: “Ti ho amato di amore eterno … il mio cuore si commuove e sento per lui profonda tenerezza … tutti mi conosceranno … poiché io perdonerò la loro iniquità e non ricorderò più il loro peccato”. Il salmo responsoriale celebra l’esperienza del ritorno dall’esilio e la riconsegna del popolo al suo destino di bene e di felicità, come il Signore aveva promesso.

A noi sfugge la dimensione drammatica di queste promesse di Dio, come sfugge la tensione emotiva del cuore del cieco che ha tanto atteso il suo momento. Geremia vede in sogno la realizzazione del ritorno del popolo dall’esilio e legge il suo sogno come la profezia del futuro. In realtà, attorno a lui, a Gerusalemme, tutto è distrutto, la città svuotata, le sofferenze immani e la prostrazione abissale. Ma Dio non può venir meno alle sue promesse e il profeta vede, spera, crede, lotta per rianimare e consolare.

Così per Bartimeo, che troppo a lungo ha dovuto soffrire, troppo a lungo ha dovuto aspettare, troppo a lungo aveva sperato. Quando gli si presenta l’occasione, tutto scoppia, prorompe, e lui perde ogni ritegno. E Gesù, che anche lui vive con impazienza ormai la dinamica di rivelazione dell’amore di Dio per gli uomini da non vedere l’ora di arrivare a Gerusalemme, riconosce il suo desiderio, lo risana e lo rende suo compagno di viaggio, partecipe ‘vedente’ del suo segreto da parte di Dio.

I particolari che illustrano la tensione interiore di Bartimeo sono due: il grido, ‘Figlio di Davide’ e il nome con il quale si rivolge a Gesù: ‘Rabbunì’. Nei vangeli sinottici, se non vado errato, soltanto nel caso del o dei ciechi di Gerico ci si rivolge a Gesù con ‘Figlio di Davide’ (in Matteo, anche la donna cananea usa quel titolo, lei, pagana!). L’espressione è da collegare all’esclamazione che subito dopo, entrando Gesù in Gerusalemme, la folla proclama festante. Allude al mistero di Gesù che si sta svelando e che nessuno coglie. Bartimeo sembra presagirlo. Lo conferma il titolo con il quale si rivolge a Gesù quando gli arriva davanti: “Rabbunì”, evidentemente pronunciato con un tono accorato, a differenza delle grida che gli avevano ottenuto l’attenzione dello stesso Gesù. Quella espressione nasconde un mondo. Quel modo di riferirsi a Gesù fiorisce solo sulle labbra di un’altra persona: Maria Maddalena. Quando, nel giardino, si sente chiamare per nome da Gesù subito dopo la sua resurrezione (cfr. Gv 20,16), ella risponde: Rabbunì! Immaginiamo il trasporto, l’emozione con cui viene pronunciato! Rivela la natura di un rapporto ricco di intimità, assolutamente personale, riassume la sua storia, contiene tutto il suo cuore di donna e di discepola. Per Bartimeo quell’appellativo cela tutto il desiderio che aveva a lungo lavorato il suo cuore, esprime una tensione fortissima dell’anima. E non solo in funzione della guarigione che invoca, ma in funzione dell’orientamento di tutta la sua vita, come poi il brano testimonia annotando che Bartimeo va dietro a Gesù. Quel suo ‘andar dietro’ a Gesù porta l’eco del comando di Gesù: “Va’, la tua fede ti ha salvato”. E dove Gesù lo porta? A Gerusalemme, perché subito dopo il miracolo, il testo del vangelo prosegue descrivendo l’entrata trionfale di Gesù in Gerusalemme, dove si compie la sua ora. La vista che gli ha ridato, nella visione della fede che ormai abita il cuore, lo porta a vedere in Lui il Regno che si compie, il Paradiso nel quale tutti i discepoli di Cristo sono chiamati ad entrare. E così la figura di questo cieco diventa l’immagine-simbolo della tensione dell’anima e della scoperta di Colui che ormai ha rapito i nostri cuori.

Ora, questo è l’esito della preghiera: tornare ad avere il cuore che vede svelarsi e compiersi nel concreto della vita il segreto di Dio. In questa prospettiva va letta l’esultanza del credente come ripete l’antifona d’ingresso di oggi, ripresa dal salmo 105: “Gioisca il cuore di chi cerca il Signore. Cercate il Signore e la sua potenza, cercate sempre il suo volto”, perché vi renda complici del suo segreto per l’uomo. Come la versione greca e latina rendono: ‘cercate il Signore e siate fortificati’. Fortificati dalla comunanza di vita con colui che dell’amore per noi ha fatto la ragione della sua umanità. La preghiera è allora la condivisione della fretta che muove Gesù di veder compiersi il segreto di Dio in favore degli uomini, fretta che trascina i discepoli e muove il mondo. Soltanto l’invocazione gridata con tutto il cuore, senza alcun ritegno, come è avvenuto per la donna Cananea (Mc 7, 26) e Bartimeo: “Figlio di Davide, abbi pietà di me” farà vedere la fretta che muove il Signore nel suo appressarsi all’uomo aprendoci il suo segreto e sanando così il nostro cuore, tanto da trascinarci nella sua stessa dinamica perché tutti ne siano lambiti e il mondo risplenda della Sua presenza.

 

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Quinto ciclo

Anno liturgico B (2014-2015)

Solennità e feste

 

Tutti i Santi

(1° novembre 2015)

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Ap 7,2-4.9-14;  Sal 23;  1 Gv 3,1-3;  Mt 5,1-12a

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Le preghiere e le letture di oggi mostrano in cosa consiste la gioia della santità: godere dello splendore dell’amore di Dio per noi. E tutti gli sguardi si accentrano sulla figura dell’Agnello glorioso e immolato ‘fin dalla fondazione del mondo’ (Ap 13,8). Il mondo è uscito dall’amore di Dio, di esso è intessuto e percorso, di esso parla, ma quanta tenebra ne impedisce la visione!

Lo sguardo della Chiesa non è però attirato come da un punto di fuga situato oltre la storia, come si trattasse di riempirsi gli occhi con una visione consolatoria. La sua visione parla di un’esperienza quotidiana; parla di realtà ultima ma vicina, più reale delle cose di tutti i giorni. Parla al cuore degli aneliti che lo assillano, delle radici che lo costituiscono, delle tensioni che lo lavorano, dei desideri che l’abitano.

La proclamazione dei santi, come viene descritta nella prima lettura, non si riferisce ad un futuro dopo la storia, ma esprime la verità della nostra storia, verità che non passerà e riempirà tutto del suo splendore. Quello splendore costituisce già il senso della nostra storia, anche se spesso i nostri occhi sono così velati da non accorgercene più. Sarebbe il senso dell’urgenza della preghiera: renderci accorti di quella verità! Non abbiamo altro modo di sconfinare nell’eterno se non quello di giocare la nostra vita terrena, secondo tutto lo spessore di dignità che comporta. L’immagine chiave di tale dignità è la realtà degli uomini come ‘figli di Dio’: “Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è. Chiunque ha questa speranza in lui, purifica se stesso, come egli è puro”. Quello che siamo, siamo chiamati a diventarlo: è tutto il senso della vocazione umana. La stessa Eucaristia non è che la celebrazione di questo mistero.

Ora, chi sono i figli di Dio? Sono coloro che lo Spirito di Dio guida - risponde tutta la tradizione della chiesa. E le beatitudini evangeliche sono le vie che lo Spirito di Dio fa percorrere per essere trovati in quel Figlio, che è la rivelazione dell’amore di Dio per gli uomini.

beati i poveri: beati coloro che non fanno consistere la loro ricchezza che nell'essere figli di Dio, che non hanno nulla di più caro al mondo se non quel Figlio che ha loro manifestato l'amore grande di Dio per l'umanità;

beati gli afflitti: beati coloro che non hanno lacrime più amare di quelle versate quando dovessero allontanarsi dall'agire come figli di Dio e, pentiti, ritornano al loro Signore, ritrovando la consolazione della solidarietà con Dio e con gli uomini;

beati i miti: beati coloro che con pazienza sopporteranno ogni prova per non venir meno al loro essere ed agire come figli di Dio, fino a che la terra del loro cuore splenda della presenza del loro Signore;

beati quelli che hanno fame e sete della giustizia: beati coloro il cui unico tormento è quello di perseverare nella fedeltà all'essere figli di Dio, fin tanto che il volto di Dio si manifesti al loro cuore e li consoli;

beati i misericordiosi: beati coloro che, avendo sperimentato quanto è grande l'amore di Dio che li ha resi figli suoi, per sua sola misericordia, saranno capaci di estendere a tutti la possibilità di tale esperienza aprendo il loro cuore al perdono;

beati i puri di cuore: beati coloro che avranno sperimentato la luce dell'amore di Dio in modo da collocare i loro cuori nella luce e poter vedere tutto in questa luce;

beati gli operatori di pace: beati coloro che, come figli di Dio, vivono nella dinamica dell'amore di Dio per gli uomini che vuole tutti riconciliati; beati coloro che non hanno altro scopo se non di perseguire la pace con tutti ottenutaci dal Figlio di Dio;

beati i perseguitati per causa della giustizia: è l'ottava beatitudine, quella che ingloba le altre nel senso che di tutte rappresenta la condizione suprema: qualsiasi cosa abbiate a soffrire, non vi turbi e non vi distolga dalla volontà di vivere da figli di Dio, fiduciosi nella promessa del Signore, nella sua parola che è potente, cioè capace di far vivere quello che promette.

Con l’invito a purificarci: “Non rimproveriamo il mondo, non rimproveriamo la vita, di velare per noi il volto di Dio. Troviamolo questo volto, ed esso velerà, assorbirà ogni cosa” (Madeleine Delbrêl).

 

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Quinto ciclo

Anno liturgico B (2014-2015)

Tempo Ordinario

 

XXXII  Domenica

(8 novembre 2015)

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1 Re 17,10-16;  Sal 145;  Eb 9,24-28;  Mc 12,38-44

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Nella liturgia di oggi qualcosa di strano risuona per il nostro modo di ragionare. Dio ordina al profeta Elia di rifugiarsi a Sarepta, in territorio pagano, perché una vedova provvederà a lui, ma quella donna non ha di che sfamarlo. Come vedova già viveva di elemosine e ora che è tempo di carestia raccoglie solo briciole. Eppure proprio a lei il profeta viene inviato per la sua sopravvivenza. Prima, nella sua solitudine, il profeta riceveva cibo dai corvi, termine che alcuni commentatori rendono con ‘arabi’ intendendo che un israelita viene aiutato proprio da uno straniero. Gesù, che si è messo in posizione di osservazione davanti al tesoro del tempio, elogia una povera vedova per i due spiccioli che vi aveva buttato restando senza più risorse lei per vivere.

Tutta la liturgia di oggi può essere letta come il commento della Chiesa alla prima beatitudine cantata nel versetto all’alleluia: “Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli” (Mt 5,3), secondo l’elogio che Gesù tributa ad una povera vedova a sua insaputa. L’antifona alla comunione ne svela la ragione la ragione profonda: “Il Signore è il mio pastore, non manco di nulla ...”. Di questa certezza era colmo il suo cuore, certezza che fa dire a Gesù: “In verità io vi dico: questa vedova, così povera, ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri. Tutti infatti hanno gettato parte del loro superfluo. Lei invece, nella sua miseria, vi ha gettato tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere”.

Gesù, elogiando la vedova, vuol esaltare un tipo di legame, di attaccamento, di comportamento dei cuori tra Dio e i suoi servi. La vedova, nel dare tutto quello che aveva per vivere, fa affidamento alla promessa di Dio che, nella sua grandezza e generosità, non lascerà mancare il necessario ai suoi servi. Quella donna, che vuole ottemperare al comando di Dio di portare l’offerta al tempio, come era richiesto a tutti gli ebrei, si fida del suo Dio, con tutto il suo cuore. E come sempre, la promessa di Dio, per rivelarsi nella sua gratuità, non ha bisogno di sfruttare nulla che appartenga all’uomo. Dio in effetti ha soltanto bisogno dello spazio di un cuore che si faccia semplicemente e totalmente accogliente, anche quando le apparenze sembrano giocare a sfavore.

Traducendo letteralmente si potrebbe rendere: “i ricchi hanno preso sul loro superfluo, lei, vedova, ha preso sulla sua indigenza tutto quello che aveva, che costituiva tutta la sua vita”. Oppure, ancora più significativamente: “dalla sua mancanza gettò tutto quanto aveva, tutta la sua vita”. Il nostro Dio è un Signore strano: non chiede né poco né tanto né tutto; chiede quello che non hai. Il gesto della vedova, che trae dalla sua mancanza quello che costituiva la sua vita, assume una valenza spirituale paradigmatica. Basta pensare ai comandamenti. Dio ci comanda: “siate miti … portatori di pace … misericordiosi …”. Uno dà quello che ha, questa è la norma dell’agire tra gli uomini. Con Dio non vale: uno deve dare quello che non ha per averlo anche lui. Così, io, che non sono affatto mite, che non sono affatto in pace, sono richiesto di usare mitezza, di portare pace. Ma come è possibile? Sulla promessa della fedeltà di Dio al suo comandamento. Dare mitezza in nome di Dio a un fratello vuol dire fidarsi totalmente della promessa che farà gustare anche al mio cuore quella mitezza. Ed in questo gusto trovare finalmente la compagnia di colui che il mio cuore ama. Perché se già non lo amassi, come farei a fidarmi? Per questo la vedova è tanto elogiata da Gesù. Il fidarsi del suo Dio rivela il suo amore per lui, per tutte le sue cose, vale a dire il tempio e il popolo per cui si portavano le monete al tesoro. E in cambio tutta la sua vita resta assicurata, in modo inspiegabile, sulla fedeltà di Dio.

Come annota Madeleine Delbrel commentando la prima beatitudine: “Non pensate che la nostra gioia sia trascorrere i giorni a vuotare le nostre mani, le nostre menti, i nostri cuori. La nostra gioia è trascorrere i giorni a scavare nelle nostre mani, nelle nostre menti, nei nostri cuori un posto per il Regno dei Cieli che passa. Perché è straordinario saperlo così imminente, saper Dio così vicino. È prodigioso sapere il suo amore tanto possibile in noi e su di noi. E non aprirgli questa porta unica e semplice che è la povertà di spirito”.

Gregorio Magno, commentando la prontezza dei pescatori a seguire la chiamata di Gesù, riflette sul fatto che a dire il vero quegli uomini avevano ben poco da lasciare essendo poveri. Ma – aggiunge – “ha molto lasciato chi non ha tenuto nulla per sé”. É il senso della fede genuina. Non importa lasciare poco o tanto; l'importante è non conservare nulla per sé, vale a dire fidarsi fino in fondo, lungo tutto il cammino, con tutte le fatiche che comporta, in modo che la grazia dell'incontro possa rivelare tutti i suoi frutti, nel tempo.

La vicenda del profeta Elia e della vedova di Sarepta allude alla medesima realtà. Se la vedova si fida della parola del profeta, il quale si era fidato della parola di Dio, non solo non muore nella sua indigenza, ma con la sua indigenza, offerta, ricostituirà la vita del profeta e la sua. Così, rispetto alla prima beatitudine, la vedova è tra quei poveri nei quali prevale la beatitudine promessa perché la fedeltà di Dio per lei è cosa saputa, vera, tanto da scavare nella sua indigenza la gioia del vivere, proprio perché con il suo Dio. Ma la beatitudine va letta non solo in rapporto al fatto che i poveri in spirito toccheranno il regno dei cieli, ma anche in rapporto al fatto che, se incontreremo questi poveri, il regno dei cieli sarà reso visibile a noi. Così in effetti prega la chiesa dopo la comunione: “La forza dello Spirito Santo, che ci hai comunicato in questi sacramenti, rimanga in noi e trasformi tutta la nostra vita”. Come a dire: lo Spirito del Signore radichi i nostri cuori nello stesso atteggiamento di fede della vedova che ha strappato a Gesù quell’elogio pieno di ammirazione.

 

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Quinto ciclo

Anno liturgico B (2014-2015)

Tempo Ordinario

 

XXXIII  Domenica

(15 novembre 2015)

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Dn 12,1-3;  Sal 15;  Eb 10,11-14.18;  Mc 13, 24-32

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Il ciclo dell’anno liturgico volge al termine e la chiesa contempla le cose ultime per collocare nella loro vera luce le cose presenti. Il capitolo 13 di Marco mescola in un’unica sequenza gli avvenimenti della morte-risurrezione di Gesù, della distruzione di Gerusalemme, delle tragedie della storia umana, delle prove e del martirio dei credenti, dei segni cosmici alla fine dei tempi, del giudizio finale imminente. Con la predizione della rovina del tempio, avvenuta per opera dei romani nell’anno 70 d.C., mentre i lavori di ricostruzione, iniziati sotto Erode il Grande negli anni 20/19 a.C., si erano conclusi nell’anno 64 d.C., Gesù mette in guardia i suoi discepoli: sappiate sfuggire all’inganno, vegliate! Quell’avvertimento, Vegliate, è l’ultima parola del cap. 13, quella che introduce il racconto della passione di Gesù. Tutto è orientato alla manifestazione della gloria del Signore crocifisso, non semplicemente nel suo aspetto giudicante alla fine dei tempi, ma nel suo aspetto di rivelazione dell’amore del Padre per i suoi figli che costituisce l’unico mistero significativo per il nostro cuore. Così prega la colletta: “donaci il tuo Spirito, perché operosi nella carità attendiamo ogni giorno la manifestazione gloriosa del tuo Figlio”. La stessa immagine suggerisce il canto al vangelo: “Vegliate in ogni momento pregando, perché abbiate la forza di comparire davanti al Figlio dell’uomo” (Lc 21,36), da intendere: possiate essere degni di veder manifestato in voi l’amore del Signore in modo tale da vivere la vostra vita nel segno del suo splendore.

L’antifona di ingresso, che riprende alcuni versetti del cap. 29 del profeta Geremia, offre il contesto di intelligenza per le parole di Gesù: “Dice il Signore: «Io ho progetti di pace e non di sventura; voi mi invocherete e io vi esaudirò, e vi farò tornare da tutti i luoghi dove vi ho dispersi»”. È la testimonianza del profeta fatta recapitare per lettera agli esiliati in Babilonia invitati ad accettare la prova nell’attesa dell’intervento liberatore del Signore, senza cedere a false promesse di falsi profeti per false e presunte liberazioni che non ci saranno. Se Gesù è venuto per mostrare la grandezza dell’amore del Padre e per riunire i figli di Dio dispersi, proprio in questo possiamo vedere i progetti di pace di Dio realizzarsi. L’insistenza sulle prove, sui dolori, sulle tribolazioni, sul martirio, che il linguaggio apocalittico esalta con immagini penetranti, non fa che acuire la vista sull’unicum necessario, mantenere cioè il cuore in quell’amore che da lui discende e che a lui riporta perché tutti possa conquistare, finalmente. Al di fuori di lui, progetto di pace di Dio per l’uomo, quell’amore non si attinge e la tragedia della storia resta solo tragedia, la dispersione resta solo un sogno irrimediabilmente infranto che acuisce la rabbia e la separazione tra gli uomini e appressa semplicemente la fine senza far raggiungere il fine. Per questo, quando la prova incombe, la tentazione assale, lo sconvolgimento irrompe, l’avvertimento che risuona è sempre il medesimo: badate bene, state attenti, vegliate! Non ingannate il vostro cuore, non lasciatevi ingannare!

Perché “chi avrà perseverato fino alla fine sarà salvato” (Mc 13,13). La consolazione scaturisce dalla lucidità della coscienza che Lui “è vicino, è alle porte” per indicarci “il sentiero della vita, gioia piena alla tua presenza” (Sal 15,11). Nel bene e nel male che accade, Lui è vicino, possiamo attenderne la manifestazione al nostro cuore, certi che il futuro si decide sulla fedeltà alla sua parola, certi che il male verrà riscattato. Come diceva Gesù a proposito della malattia di Lazzaro: “questa malattia non porterà alla morte, ma è per la gloria di Dio” (Gv 11,4).

Proprio perché crediamo che l’esito finale sarà la manifestazione gloriosa del regno di Dio, per cui tutti vedranno quanto è grande l’amore di Dio per i suoi figli sia che se ne partecipi nella gioia sia che ce ne si senta dolorosamente privati, ci diamo premura perché anche il nostro agire, nell’oggi che ci è dato, sia teso a rivelare quella manifestazione, a far sì che appaia al nostro cuore, oggi, nel suo splendore, quell’amore che ci è stato riversato nella persona del Figlio dell’uomo. Così, ogni evento della fine non può che ricollegarsi all’evento della morte-risurrezione del Figlio dell’uomo il quale davvero consuma la storia aprendola al suo fine, alla rivelazione di quel progetto di pace. La domanda angosciosa che ci accompagna resta sempre la medesima: ma perché la storia deve contemplare nel suo seno tanto dolore? Perché il Figlio dell’uomo è anche l’uomo dei dolori? Si convince un cuore dell’amore che gli porti se non vede che puoi anche soffrire per lui? E la risposta resta segreta nel cuore di Dio, segreto a cui il cuore attinge quando non si premura d’altro che di condividere il progetto di pace di Dio. Proprio come canta l’antifona alla comunione: “Il mio bene è stare vicino a Dio, nel Signore Dio riporre la mia speranza”. Oppure, come nel ritornello del salmo responsoriale: “Proteggimi, o Dio: in te mi rifugio”. Da intendere: veniamo custoditi proprio dalla manifestazione dell’amore del Signore al nostro cuore, che così ne resta conquistato, in modo tale che quell’amore risulta il segreto vero della nostra umanità, la nostra radice di vita.

 

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Quinto ciclo

Anno liturgico B (2014-2015)

Tempo Ordinario

 

XXXIV  Domenica

Nostro Signore Gesù Cristo Re dell'universo

(22 novembre 2015)

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Dn 7,13-14;  Sal 92;  Ap 1,5-8;  Gv 18,33b-37

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Il ciclo liturgico si chiude sull’immagine del Cristo Re. È l’ultima domenica del tempo ordinario; domenica prossima inizia l’Avvento. L’immagine del re richiama la signoria universale di Gesù, il suo ruolo di Giudice alla fine dei tempi, l’ammissione alla gioia di quel Regno che non avrà mai fine. Eppure la liturgia sceglie come icona della regalità il brano del processo davanti a Ponzio Pilato e ai capi dei giudei dove il potere religioso e il potere politico rivelano la loro inconsistenza rispetto alla verità.

Il re messianico, colui che avrebbe inaugurato l’era messianica, era designato con l’espressione ‘colui che viene’, espressione che era risuonata festosa, pochi giorni prima, sulla bocca dei discepoli all’ingresso trionfale di Gesù in Gerusalemme, ripresa dal canto al vangelo: “Benedetto colui che viene nel nome del Signore! Benedetto il Regno che viene, del nostro padre Davide!” (Mc 11,9-10). Per mettere maggiormente in risalto il valore dell’espressione sarebbe bene tradurre: ‘Benedetto nel nome del Signore colui che viene!’. Se teniamo presente che quell’espressione risuona come definizione di Dio: “Io sono l’Alfa e l’Omega, Colui che è, che era e che viene, l’Onnipotente” (Ap 1,8) e che l’ultima parola della Bibbia si raccoglie in un doppio grido da e per Colui che viene: “Sì, vengo presto! Amen. Vieni, Signore Gesù” (Ap 22,20), allora se ne può intuire la densità di significato. Colui che da sempre è stato atteso, colui che da sempre si attende, Colui che riassume tutte le nostre attese è proprio Lui, il re dei giudei, sotto processo, condannato, giustiziato. Perché a questo è destinato colui che proclama la verità, colui il cui regno non è e non appartiene a questo mondo, ma di cui il senso è noto e svelato soltanto da Lui.

Quando dice che il suo regno non è di questo mondo, non vuol dire che non riguarda questo mondo, ma più semplicemente e più potentemente che proprio perché non è di questo mondo, può essere in questo mondo, può riprenderne le minime cose senza sciuparle, può riprendere ciò che è rotto e farne un canale. Lo proclamerà dall’alto della croce quando si svelerà la profezia messianica: “E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me” (Gv 12,32). È la verità dell’amore del Padre per tutti i suoi figli che in lui splende.

È d’altronde caratteristico che il re promesso sia crocifisso: crocifisso in quanto re, re in quanto crocifisso. Non vale più alcun titolo di prestigio o potere, solo lo splendore dell’amore! Mi sembra che nel corso del processo si richiamino a vicenda, nella loro profondità di verità, le due espressioni sarcastiche, una proferita e l’altra pensata: ‘Ecco l’uomo’; ‘Ecco il vostro Dio’. Fin sotto la croce arriva l’eco di questo sarcasmo. Ma il sarcasmo non toglie la verità: Gesù è davvero l’uomo pieno, libero, sovrano nell’amore e nella dedizione ed è davvero il vero volto di Dio, il volto di compassione e misericordia, capace di salvare.

Credo sia questo il senso per cui Gesù abbina il titolo di re alla verità: “Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce”. La regalità di Gesù ha a che fare con la verità, che è amore. É la proclamazione ferma, sovrana, del brano dell’Apocalisse: “A Colui che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue, che ha fatto di noi un regno, sacerdoti per il suo Dio e Padre…”. A Lui, all’Agnello immolato fin dalla fondazione del mondo, a colui che costituisce l’inizio e la fine, a lui tutti volgeranno gli sguardi perché tutti vanno in cerca della verità che acquieta solo quando si rivela come amore, amore per noi.

Così l’espressione ‘chiunque è dalla verità ascolta la mia voce’ acquista il significato: chiunque vuol compiere in verità i desideri del suo cuore ascolta la mia voce, vale a dire regna con me, serve come me. Servire e regnare si richiamano a vicenda perché ambedue sono in funzione dell’amore che risplende in verità: nel servire è allusa la fedeltà all’alleanza con Dio, mentre nel regnare è allusa la libertà dei cuori liberata da odio e tristezza e perciò sovrana. L’alleanza si traduce in desiderio di fraternità, dove ormai non si tratta più di attirare a me le simpatie del Re, che è già tutto dalla mia parte, ma di condividere con lui i suoi sentimenti verso l’umanità intera. Posso così chiamare mio il mio Re, quando rispetto a tutti sono soltanto servo perché condivido ormai il suo segreto, che è il suo desiderio di comunione con gli uomini che diventa lo scopo supremo dell’agire umano.

Quando, nell’orazione dopo la comunione, preghiamo: “Fa’ che obbediamo con gioia a Cristo, Re dell’universo, per vivere senza fine con lui, nel suo regno glorioso”, domandiamo di imparare ad assumere il servizio all’umanità come condivisione del segreto di Dio perché si manifesti lo splendore di verità del suo amore per noi, in mezzo a noi. E come viverlo senza che i nostri sguardi si volgano con tenerezza a quel ‘re, crocifisso’ per tutti?