Quinto ciclo
Anno liturgico B (2014-2015)
Tempo di Avvento
I Domenica
(30 novembre 2014)
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Is
63,16b-17.19b; 64,2-7; Sal 79; 1 Cor 1,3-9; Mc 13,33-37
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Perché, preparandosi alla
celebrazione del Natale, festa tra le più care e familiari alla cristianità, la
chiesa invita alla penitenza?
Tre sono le venute del Signore che
l’avvento contempla: 1) la venuta umile del Signore nella carne, il Natale di
Gesù, il suo comparire come uomo tra gli uomini; 2) la venuta gloriosa del
Signore alla fine dei tempi come Re e Giudice al quale ogni giudizio è rimesso;
3) la venuta segreta del Signore nei cuori dove vuole crescere fino alla sua
statura perfetta, finché Dio sia tutto in tutti.
La preghiera della chiesa
nell’avvento si fa insistente perché il Signore Gesù finalmente si manifesti ed
è per questo che risuona l'invito alla penitenza, intesa come vigilanza,
attenzione del cuore al Suo mistero. Il ritornello, costante, della preghiera
in questo periodo è dato da due versetti presi dal Salmo 79: ‘risveglia la tua potenza e vieni a salvarci’
(v. 3); ‘o Dio, fa' che ritorniamo, fa’
splendere il tuo volto e noi saremo salvi’ (v. 4, 8, 20). Da intendere: fa’
che possiamo vedere il volto del tuo Figlio; fa’ che il nostro cuore sia rapito
dalla Sua bellezza; apri il nostro cuore alle sue parole perché venga rivelato
al nostro cuore il Suo amore e possiamo venire risanati; facci fare
l’esperienza viva del Suo perdono perché possiamo vivere un corpo solo e
un’anima sola con tutti, nel suo Spirito. Questo chiediamo e questo significa,
nella concretezza quotidiana, l’espressione di Paolo: “La testimonianza di Cristo si è stabilita tra voi così saldamente che
non manca più alcun carisma a voi, che aspettate la manifestazione del Signore
nostro Gesù Cristo” (1Cor 1,6-7).
Attendere la manifestazione del
Signore, però, non significa guardare al ritorno glorioso del Signore quando si
chiuderanno i tempi e la sua parola giudicante svelerà tutta la verità. Quella
tensione caratterizza il desiderio del cuore dei credenti nella vita
quotidiana. Chi riceve le parole del Signore, chi si sforza di metterle in
pratica senza desiderare di poter percepire
e vedere la presenza del Signore
nella sua vita? Questo è appunto l’oggetto specifico della vigilanza, mentre la
sua dinamica è la tensione a entrare nel processo della manifestazione del
Signore al nostro cuore, nella nostra storia, manifestazione di cui la nascita
di Gesù a Betlemme presenterà la realtà alla nostra portata. Se a livello
dell’agire dell’uomo la vigilanza si risolve nella fatica di evitare il male e
di compiere il bene, a livello del cuore si risolve in una memoria calda della presenza del Signore, in una memoria di eventi
e parole che ci possono significare quella presenza, memoria che tenda a
esplodere nella percezione della sua presenza. La vigilanza allora è il compito
di responsabilità dei servi della parabola del vangelo in attesa del ritorno
del loro padrone. Perché è nello splendore di quella presenza percepita che
possiamo vivere fino in fondo la nostra vocazione all’umanità e tornare a far
risplendere il mondo della luce di Dio.
Ma c’è ancora dell’altro. Se
leggiamo il passo parallelo di Lc 12,37, veniamo a sapere come si manifesterà
il Signore: “si stringerà le vesti ai
fianchi, li farà mettere a tavola e passerà a servirli”. L’accudire ai
fratelli non risponde soltanto all'agire bene, ma comporta il partecipare al
servizio divino dell’umanità. Come a dire: quando accogli il tuo fratello
perché guardi al tuo Signore, il tuo cuore godrà dall’essere accudito dal suo
Signore e non potrà non condividere con lui l’ansia di arrivare a tutti perché
lo splendore della sua presenza prevalga comunque.
L’invito, così tipico del periodo di
avvento: ‘State attenti, vegliate’, riguarda proprio la fatica di stare aperti
al Mistero, la fatica di non soccombere alla fascinazione delle cose, di non
cedere alle illusioni del cuore, di non perdersi dietro false seduzioni
abbandonando Colui che il nostro cuore sogna. La vigilanza serve a questo: a
tenerci desti all’amore del Signore. E l’uomo è colui che alza il capo per essere capace di vedere le promesse di Dio, di
vederle compiersi nel suo cuore. Per tutto l’avvento risuonerà l’esortazione:
‘vegliate e pregate’, come a dire: abbiate un occhio acuto e un cuore ardente.
Non si tratta solo di un esercizio di intelligenza (vegliate!) ma di un processo di confidenza (pregate!). Un antico saluto degli indiani Hopi suona: sta’ attento
a che la tua testa resti aperta verso l’alto! Tenere aperta la testa verso
l’alto significa allora superare la paura, perché il Dio che siamo chiamati a
conoscere è un Dio di amore per noi. Attende solo – anche Dio attende! – di
incontrare cuori aperti alla sua promessa, fiduciosi di vedere il bene che la
sua promessa ci rivela.
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Quinto ciclo
Anno liturgico B (2014-2015)
Tempo di Avvento
II Domenica
(7 dicembre 2014)
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Is
40,1-5.9-11; Sal 84; 2 Pt 3,8-14;
Mc 1,1-8
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La vigilanza, di cui ci era stato
fatto comando domenica scorsa, oggi si fa intuito di speranza e di gioia
prossima, con due testimoni singolari: il profeta Isaia e Giovanni Battista.
Non lasciamoci impressionare dalla severità della predicazione del Battista,
che annuncia un battesimo di penitenza per la remissione dei peccati, perché la
sua parola ci riporta l'eco del grido del profeta Isaia: “Consolate, consolate il mio popolo”. Tutte le letture profetiche
della prima settimana di avvento ci riportano lì. Nella settimana abbiamo
supplicato: “Vieni, Signore, a visitarci con la tua pace: la tua presenza ci
riempirà di gioia”; “ridesta la tua potenza e vieni, Signore”. Lo stesso salmo
responsoriale di oggi, il salmo 84, può essere definito come il canto della
pace portata dal natale di Gesù. Ma occorre che la grazia di quel natale parli al nostro cuore; occorre
che il nostro cuore si senta toccato dal mistero che quel natale costituisce per il mondo, proprio come l’antica versione
greca proclama: “Ascolterò che cosa dirà in me il Signore Dio, perché proclamerà
la pace sul suo popolo e sui suoi santi e su quelli che convertono a lui il
loro cuore” (LXX). Appunto perché il nostro cuore si apra a quella ‘grazia
di pace’ il grido del Battista percuote i nostri orecchi: “Preparate la via del Signore ...”.
Quella 'grazia di pace' costituisce
l'annuncio gioioso che è il Vangelo di Gesù, come Marco proclama all'inizio del
suo racconto. Ed è interessante osservare che la citazione profetica di Marco
all’inizio del suo vangelo è una composizione di passi di Malachia e Isaia. Il
libro di Malachia è il libro che chiude l’Antico Testamento per il canone
cristiano. Riprendendo Malachia, Marco sottolinea come Gesù sia il compimento
di tutte le Scritture che a lui conducono e, riprendendolo insieme a Isaia,
manifesta come Gesù sia il supremo desiderio di Dio per l’uomo, desiderio che
attraversa tutte le Scritture. Nelle parole di Malachia 3,1 (“Ecco, io manderò un mio messaggero a
preparare la via”) si allude a Giovanni Battista, mentre in quelle di Isaia
40,5 (“Allora si rivelerà la gloria del
Signore e tutti gli uomini insieme la vedranno”) si allude al Messia, a
Gesù, che il Battista proclama: “Viene
dopo di me colui che è più forte di me...”.
Il desiderio di Dio, quando è
percepito, accende il desiderio dell’uomo e l’uomo, dalla sua condizione di
afflizione nella schiavitù e nell’oppressione, guarda a Dio come al suo
liberatore, che già vede venire in suo soccorso: “Ecco, il Signore Dio viene con potenza, il suo braccio esercita il
dominio” (Is 40,10). Ma di quale ‘potenza’ si fa forte Dio per l’uomo? Noi
contempleremo il nostro Dio farsi bambino, povero e indifeso; lo vedremo
condannato alla morte di croce, come esautorato di tutta la sua potenza. Dov’è
allora la ‘gloria del suo nome’ per cui la colletta ci fa pregare: “O Dio,
Padre di ogni consolazione ... parla oggi al cuore del tuo popolo, perché in
purezza di fede e santità di vita possa camminare verso il giorno in cui
manifesterai pienamente la gloria del tuo nome”.
Con il salmo 84 la liturgia canta
l’incontro del desiderio di Dio con il desiderio dell’uomo: “amore e verità si incontreranno, giustizia e
pace si baceranno”. Tutto ciò che Dio ha voluto per l’uomo, nel suo amore
di sempre per i suoi figli, l’uomo lo potrà ormai godere stabilmente perché
“colei [Elisabetta] che portava il giusto, Giovanni Battista, ha baciato colei
[Maria] che portava la pace, Gesù”. E la visione messianica del salmo si può
interpretare come la manifestazione della gloria del nome di Dio al cuore
dell’uomo che il Battista rivela essere il compito specifico del Messia. Come a
dire: se l’uomo riconosce in verità il suo peccato, troverà la misericordia di
Dio. Il riconoscimento del peccato porta all’esperienza della bontà di Dio. E
se l’esperienza è autentica, allora, la riconciliazione ottenuta non potrà che
essere condivisa con tutti, non potrà che diventare l’unica giustizia degna del
cuore dell’uomo. Da un cuore riconciliato e fonte di riconciliazione
risplenderà la grazia del Salvatore, che lì ha preso dimora. L’azione di Dio
che si compie in me, non è destinata a me, ma al mondo; l’azione di Dio che si
compie nel mondo, non è destinata al mondo in generale, ma a me. Perché, tutti insieme,
possiamo vedere lo splendore dell’amore del Signore. E non esiste altra
possibilità concreta per l’uomo di vedere risplendere l’amore del Signore se
non nella tensione che quell’amore sia condiviso da tutti e da ciascuno.
Se l’antica colletta proclama: “Dio
grande e misericordioso, fa’ che il nostro impegno nel mondo non ci ostacoli
nel cammino verso il tuo figlio, ma la sapienza che viene dal cielo ci guidi
alla comunione con il Cristo, nostro Salvatore”, ciò significa che il preparare
da parte nostra la via al Signore che viene si risolve nel non ostacolare, non
impedirci di lasciarci toccare dal suo annuncio gioioso. Tanto che Pietro,
nella sua seconda lettera, ci avverte: “quale
deve essere la vostra vita nella santità della condotta e nelle preghiere,
mentre aspettate e affrettate la
venuta del giorno di Dio”. Non impedirci significa affrettare la
manifestazione della gloria del Signore, che è splendore di amore per noi,
splendore che possiamo contemplare nel suo Figlio, nato, morto e risorto per
noi.
In rapporto alla manifestazione di
quello splendore possiamo interpretare il paragone che il Battista stabilisce
tra lui e Gesù: “E proclamava: «Viene
dopo di me colui che è più forte di me: io non sono degno di chinarmi per
slegare i lacci dei suoi sandali»”. Gesù si presenta come il forte che ha
legato colui che era ritenuto forte, cioè il diavolo: “Nessuno può entrare nella casa di un uomo forte e rapire i suoi beni,
se prima non lo lega. Soltanto allora potrà saccheggiargli la casa” (Mc
3,27). La sua forza in cosa consiste? Era compito di uno schiavo slacciare i
sandali al padrone, ma uno schiavo ebreo era esentato dal servizio del lavare i
piedi al padrone. E Gesù è proprio quello che fa con i discepoli nell’ultima
cena: va oltre ciò che era richiesto ad uno schiavo! In questo suo andare oltre
scorgiamo l’immensità del suo amore per noi. In quello che compie in quel
momento, preludio di quello che avverrà di lì a poche ore sulla croce, possiamo
leggere tutta la sua vita, tutto il dono della sua vita, tutto il suo
insegnamento e tutta la potenza di vita nuova di cui ci fa partecipi. Ad
un’unica condizione: che noi ci lasciamo toccare, ci lasciamo commuovere.
Proprio in questo consiste il preparare la via del Signore.
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Quinto ciclo
Anno liturgico B (2014-2015)
Solennità e feste
Immacolata Concezione
(8 dicembre 2014)
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Gn
3,9-15.20; Sal 97; Ef 1,3-6.11-12; Lc 1,26-38
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“Benedetto
Dio, Padre del nostro Signore Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni
benedizione …” proclama Paolo nell’esordio della sua lettera agli Efesini.
Come non riferirlo prima di tutto alla Vergine Maria? Lei è la benedizione
dell’umanità in cui tutti siamo benedetti perché da lei nasce il Benedetto che
ci ha consolati, come la liturgia di tutto l’avvento proclama. Della Sapienza è
detto : “ero la sua delizia ogni giorno …
ponendo le mie delizie tra i figli dell’uomo” (Prov 8,30.31). La delizia di
Dio tra i figli dell’uomo è proprio lei, la Vergine Immacolata, come d’altronde
lei è la delizia degli stessi figli dell’uomo perché in lei possiamo
contemplare quanto è grande l’amore di Dio per l’uomo. In lei quella
benedizione si fa così ‘concreta’ che prende addirittura corpo in lei: da lei
nasce il Salvatore, che costituisce la Benedizione di Dio sugli uomini,
benedizione oltre la quale non c’è nulla da desiderare. E tutta la storia, pur
nella sua drammaticità, non è mai abbandonata a se stessa perché da sempre, ‘prima
della creazione del mondo’, quella benedizione la sovrasta, l’accompagna.
Quella benedizione ha raggiunto
l’umanità della Vergine in modo così singolare da renderla tanto ‘umanamente
piena’ da essere degna dimora per il Figlio, come proclama la colletta: “O
Padre, che nell’Immacolata Concezione della Vergine hai preparato una degna
dimora per il tuo Figlio, e in previsione della morte di lui l’hai preservata
da ogni macchia di peccato, concedi anche a noi, per sua intercessione, di
venire incontro a te in santità e purezza di spirito”. La sua umanità, in tutte
le sue fibre, è andata incontro al Signore in santità e purezza di spirito ed è
diventata degna dimora del Figlio. Della sua umanità siamo fatti anche noi,
condividiamo con il suo Figlio la stessa umanità perché anche noi, come è nel
disegno divino della creazione fin dall’inizio, possiamo tornare a far
splendere e a far godere nel mondo la stessa benedizione, la dimora di Dio in
mezzo a noi.
A differenza di noi, la Vergine non
è caduta nell’inganno che tormenta i figli degli uomini, inganno che presenta
il brano della Genesi. Anche lei è stata duramente provata nella sua umanità;
con l’offerta della sua umanità ha permesso all’amore di Dio, nel suo Figlio,
di svelarsi al mondo; ha conosciuto la sofferenza dell’amore con il suo Figlio
e ora accompagna ogni sofferenza umana perché venga aperta all’esperienza
dell’amore. In lei la sofferenza non ha generato ribellione, il dramma non ha
velato la fede, il desiderio non ha compromesso l’amore, l’agire non ha
macchiato la coscienza. E questo perché l’unico rimedio all’inganno è “andare
incontro al Signore”, così tipico dell’anima della Vergine.
L’uomo, invece, si dibatte
nell’inganno: la nostra individualità ce ne certifica la compromissione con la
ribellione, mentre la sofferenza della nostra umanità svela faticosamente le
tracce della nostalgia di Dio. Se rifacciamo a ritroso il tragitto delineato
dal colloquio nel giardino tra Dio e Adamo e Eva dopo la trasgressione, ci
ritroveremo nuovamente in una umanità condivisa e goduta insieme a Dio e a
tutti i fratelli. Dio proclama l’inimicizia tra satana e la donna, simbolo
contemporaneamente di Maria e dell’umanità: la possibilità dell’inganno è
sempre reale, ma quell’inimicizia dichiarata da Dio salvaguarda la nostra
umanità che non può trovare beatitudine nell’inganno e quindi non potrà
compiersi stando dalla parte dell’avversario. Perciò, quando l’uomo cede
all’inganno, trasgredendo la parola del Signore rivolta al suo cuore, si perde,
va in frantumi dentro e non può vivere che in contraddizione, da antagonista,
da avversario a sua volta, sia dentro di sé che fuori di sé, sia con gli uomini
che con gli eventi. Quale sofferenza! Ma la causa è una sola: l’uomo ha ormai
paura di Dio, perché ha vergogna della sua ‘nudità’, della sua perdita di
innocenza. E l’inganno più tremendo è quello di rimuovere quella paura di Dio
allontanando la vergogna ma per acconsentire semplicemente alla legge del più
forte, fonte di illusione e di ingiustizia. Se però l’uomo sa ascoltare
l’invito di Dio che continuamente bussa al suo cuore senza tener conto della
sua paura: “dove sei?’, allora ritorna all’albero della vita, il Cristo
Signore, per vivere nella sua umanità la dimora di Dio, fonte di beatitudine.
La Vergine è proprio Colei che di
quella dimora di Dio ha fatto tutto lo scopo della sua vita, tutto il desiderio
della sua umanità perché l’esperienza di cui è stata gratificata ridiventi, nel
suo Figlio, accessibile a tutti e a ciascuno. Quando di lei dice che è la serva
del Signore allude proprio a quel desiderio della dimora di Dio che si compie
nel mondo, di cui tutto il suo essere è espressione e testimonianza e
intercessione per l’umanità intera.
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Quinto ciclo
Anno liturgico B (2014-2015)
Tempo di Avvento
III Domenica
(14 dicembre 2014)
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Is
61,1-2.10-11; Lc 1,46-54; 1Ts 5,16-24; Gv 1,6-8.19-28
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Come Marco e a differenza di Matteo
e Luca, Giovanni non narra l’evento della nascita di Gesù a Betlemme. Il suo
sguardo si spinge oltre, fino ai confini della storia, oltre la storia.
Giovanni risale alla storia eterna dell’amore di Dio per gli uomini: “In principio era il Verbo…” per arrivare
ad annunciare: “E il Verbo si fece carne
... e noi abbiamo contemplato la sua gloria” (Gv 1,1.14). Il Battista è il
primo testimone di quella gloria che via via apparirà anche agli apostoli, a
tutti i discepoli e ai seguaci loro, fino a noi, fino alla fine del mondo.
La chiesa, convinta dalla
testimonianza del Battista, intravede già l’azione del Messia di cui a breve
celebrerà il natale e la riassume in un unico movimento, quello della letizia.
Tutta la liturgia di oggi è un assaggio di quello che sarà rivelato al mondo
con la nascita dell’Emmanuele, il Dio con noi. L’antifona di ingresso risuona
gioiosa: “Rallegratevi sempre nel Signore”.
L’antica colletta fa pregare: “Guarda, o Padre, il tuo popolo, che attende con
fede il Natale del Signore e fa’ che giunga a celebrare con rinnovata esultanza
il grande mistero della salvezza”. Il brano di Isaia descrive ‘il lieto
annunzio’ di cui è portatore l’Inviato di Dio. Il salmo responsoriale fa
gridare: “la mia anima esulta nel mio Dio”.
Paolo esorta: “State sempre lieti”.
La solenne proclamazione del profeta
sull’Unto del Signore, sull’Inviato a rivelare la grazia del Signore: “Lo Spirito del Signore è su di me …”
esprime tutta la volontà di bene di Dio nei confronti dei suoi figli. Proprio
quell’Inviato è la dimostrazione più evidente di quanto la volontà di Dio è
amore per noi, un amore salvatore, un amore redentore, un amore liberante e
sovrabbondante, instancabile.
Quell’Inviato è sì in mezzo a noi ma
non è conosciuto. Ha bisogno di testimoni che lo segnalino. Giovanni Battista è
uno di questi, il più grande. La sua risposta alla domanda che gli viene
rivolta: “Tu chi sei?” rivela come si percepisce: sono soltanto uno che addita
qualcun altro e sono in quanto addito, perché questa è la volontà del Signore
su di me. Tutta la mia vita sta racchiusa in questo riferirmi a Colui che deve
venire, che è già qui e che vi addito come l’Inviato da seguire. Lui vi
mostrerà quel regno che io ho solo intravisto e atteso.
Sul finire della vita, la stessa
domanda è lui a rivolgerla a Colui che aveva additato: “Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?”. E
Gesù risponde al Battista (cfr. Mt 11,3sgg), che conosceva le Scritture ed era
tutto teso all’adorazione del suo Dio, proprio con le parole del profeta Isaia
della prima lettura, combinate con altri due passi (Is 35,5-6 e 42,7).
L’immagine di riferimento è quella del solenne inizio del giubileo (Lev 25), di
cui non si ha notizia che sia mai stato celebrato nella storia di Israele, che
comportava la liberazione degli schiavi e il ritorno alla propria terra secondo
l’antica assegnazione dei territori alle singole tribù da parte di Mosè e di
Giosuè. La terra, dono di Dio al suo popolo, ritornava ad essere dono di Dio
oltre le brutture e i calpestamenti della storia. La domanda del Battista svela
la fine di ogni immaginazione sul Regno per aprirsi alla venuta di quel Regno
in verità come a Dio è piaciuto manifestarlo. Il regno mostrato da Gesù è
davvero il compimento delle attese dei cuori e inspiegabilmente diverso,
proprio per la sua semplicità, da come i cuori si immaginano che debba essere.
Con Gesù finisce questo faticoso riferirsi a qualcosa come deve essere per
aprirsi a quello che è: amore pieno di compassione per noi.
Caratteristica l’immagine che usa il
profeta Isaia nel definire l’opera del Messia che libera dal carcere i
prigionieri. Di per sé il profeta annuncia la percezione del bagliore di luce
dei prigionieri che tornano a vedere la luce del sole dopo essere stati tirati
fuori dalle tenebrose segrete in cui erano racchiusi. Del resto, anche il
Battista è presentato da Giovanni come testimone della luce, testimone della
luce vera che viene nel mondo, luce che è vita per gli uomini, luce nella quale
tutto era stato creato e che il cammino del pentimento torna a far splendere nel
cuore.
Quando Paolo esorta i credenti: “State sempre lieti, pregate
ininterrottamente, in ogni cosa rendete grazie”, illustra esattamente le
disposizioni che caratterizzano i cuori aperti al regno così come è. Il lieto
annunzio che Gesù è per il mondo, una volta accolto per come è, innesca proprio
queste tre disposizioni che si richiamano a vicenda. Chi ha percepito l’amore
di benevolenza di Dio sul mondo, di cui Gesù è il testimone e il rivelatore,
può vivere nella letizia (non è più corroso dalla tristezza, nonostante le
ragioni più che plausibili che la alimentano), diventa capace di accogliere il
suo Dio nella preghiera (non resta più chiuso all’avventura con il suo Dio) e
non ha più bisogno di rivendicare nulla perché rende grazie in ogni cosa. Il legame
tra queste tre cose è tanto forte che ognuna, praticata in sincerità, fa
ottenere anche le altre due: chi vuole rendere grazie in ogni cosa si ritroverà
presto guarito e liberato da ogni forma di pretesa e potrà godere dell’intimità
che sogna e della gioia a cui anela. Chi prega in sincerità ritroverà la
libertà interiore per stare lieto e vivere la vita in eucaristia, in rendimento
di grazie. Ma la letizia che fa vivere è quella che germoglia, come dice il
profeta Isaia, dall’incontro con colui che scopro essere il mio Salvatore, col
quale attraversare dolori e fatiche della vita.
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Quinto ciclo
Anno liturgico B (2014-2015)
Tempo di Avvento
IV Domenica
(21 dicembre 2014)
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2 Sam
7,1-5.8b-12.14a.16; Sal 88; Rm 16,25-27; Lc 1,26-38
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La liturgia dell’avvento ci ha
accompagnato nell’attesa del Signore che viene con le testimonianze dei profeti
e di Giovanni Battista. In prossimità del Natale, il testimone per eccellenza è
ormai la stessa Vergine madre sua. Tutto si concentra sulle parole dell’angelo
a lei e di lei all’angelo: “Rallègrati,
piena di grazia: il Signore è con te” e “Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola”.
L’annuncio è di letizia, la risposta è di disponibilità piena a quella letizia.
Sembra che l’evangelista Luca
intenda presentare Maria come l’arca dell’alleanza del tempio di Sion, sede
della presenza del Signore in mezzo al suo popolo. Per questo l’angelo evoca
l’ombra della nube che copriva il tempio, come aveva coperto la tenda del
convegno nel deserto (cfr Es 33,7-11). Dalle parole dell’angelo possiamo
cogliere due aspetti del mistero che veniva annunciando. Il saluto “rallègrati”
si ricollega alle profezie per la Vergine di Sion che poteva vedere lo scendere
in campo del suo Re e Salvatore contro i suoi nemici (Sof 3,14), consolando il
suo popolo (Is 49,13), mostrando le cose grandi che il Signore operava per il
suo popolo (Gioele 2,21) e venendo ad abitare in mezzo al suo popolo (Zac
2,14). Lei, la Vergine Maria, diventava la letizia del suo popolo perché il
Signore veniva a prendere dimora e contemporaneamente, sempre secondo le
profezie, la letizia di tutti i popoli perché il Signore aveva deciso di
estendere a tutti la sua salvezza.
Per questo lei riceve il ‘nome
nuovo’, quello che esprime tutta l’iniziativa d’amore di Dio per il suo popolo
e per tutte le genti: “piena di grazia”, “ricolmata di ogni grazia”. Non
soltanto lei esprimeva tutta la grazia di amore e misericordia che Dio le aveva
riservato perché potesse farsi uno di noi, ma con lei il tempo è colmato di
grazia, della grazia della dimora di Dio in mezzo ai suoi figli. Quel ‘nome
nuovo’ è ciò che costituisce la firma di garanzia dell’amore di Dio per noi,
quell’amore che Gesù poi, con la sua vita e il suo insegnamento, con la sua
morte e risurrezione, manifesterà in tutto il suo splendore.
In questo si compie la profezia
davidica, come leggiamo nella prima lettura: “Il Signore ti annuncia che farà a te una casa”. E che il salmo
responsoriale 88/89 riprende con la sottolineatura della fedeltà perenne di Dio
a questa sua volontà di bene per noi: “È
un amore edificato per sempre ... gli conserverò sempre il mio amore, la mia
alleanza gli sarà fedele”. Con la ‘dimora di Dio’ nel seno della Vergine,
nostra sorella, quella volontà di bene di Dio suona assoluta, radicale, totale:
dall’umanità Dio non potrà più togliersi o essere tolto. E siccome questa
volontà di bene è fonte di letizia per l’uomo, quando l’uomo cercherà la
letizia al di fuori di questa volontà di bene resterà sulla sua fame.
Forse la nostra indisponibilità ad
accogliere la potenza rinnovatrice di tale letizia deriva dal fatto che non
abbiamo coscienza di ciò che comporta una tale rivelazione, ci siamo stancati
di attenderla. Paolo, nella sua lettera ai Romani, lo fa ben capire quando dice
che questo mistero, avvolto nel silenzio per secoli eterni, viene “ora
manifestato mediante le scritture dei Profeti”. Se mai abbiamo indagato le scritture
dei profeti o le profondità dei nostri cuori, come possiamo commuoverci a
quell’ ‘ora’ nella quale viene manifestato? Cosa riusciremo a vedere nel
bambino della Vergine Maria che tra pochi giorni contempleremo nelle luci del
Natale?
Potremo mai partecipare alla letizia
dell’annuncio, alla gioia dell’attesa, senza essere in qualche modo come Maria
la quale proclama di sé: “Ecco la serva
del Signore: avvenga per me secondo la tua parola”? Lei è serva perché il
desiderio di Dio di abitare in mezzo ai suoi figli finalmente si compia. È
serva perché tutto in lei e di lei è spazio di dimora di Dio in mezzo ai suoi
figli. È serva dell’amore di Dio che vuole manifestarsi ai suoi figli e lei non
offre alcun appiglio, nella sua umanità, al potere del diavolo che lavora per
chiudere gli uomini all’esperienza dell’amore di Dio.
In lei si realizza quello che
l’antifona di ingresso canta: “Stillate
dall’alto, o cieli, la vostra rugiada e dalle nubi scenda a noi il Giusto: si
apra la terra e germogli il Salvatore” (cf. Is 45,8). Il passo di Isaia è
citato secondo la versione latina della Volgata di s. Girolamo che interpreta
in chiave messianica l’invocazione del profeta: “le nubi facciano piovere la
giustizia ... si apra la terra e produca la salvezza”.
Il Salvatore viene dall’alto, ma
contemporaneamente germoglia dalla terra. Vale per la Vergine, la nostra terra, che ha dato alla luce il
Salvatore, ma vale per ogni cuore, che comunque è terra feconda del Salvatore.
Bisogna che si compia finalmente quello che preghiamo con il Padre Nostro: ‘sia
fatta la tua volontà come in cielo così in terra’. Intendendo: fa’ che facciamo
tale esperienza della bontà del tuo amore per noi tutti i giorni finché la
terra del nostro cuore diventi tutta cielo, finché il nostro cuore abbia fatto
germogliare Colui che del cielo è sovrano e farà vivere in terra come nel
cielo.
Il desiderio di Dio di abitare con
gli uomini, di prendere dimora fra gli uomini, di farsi dimora degli uomini,
finalmente si compie. E la Vergine vi acconsente, acconsente a che il disegno
di Dio si compia in tutto il suo splendore. Il suo acconsentire rivela tutta la
purità e sincerità del suo cuore: non sa come si realizzerà il disegno di Dio,
ma vi acconsente; non sa cosa le sarà richiesto, ma vi acconsente. Nello stesso
tempo, rivela tutta l’intimità del suo cuore, che comunque sta dalla parte di
Dio, è un tutt’uno con il sentire di Dio, non cerca altro sentire se non quello
stesso di Dio. In effetti, quando il sentire interiore è profondo, il rapporto
è potente e quando il sentire tocca le radici del cuore, l’intimità è compiuta:
nessun estraneo avrà più accesso in quello spazio. Da quell’intimità mai più si
allontanerà e permetterà così che la gioia di Dio e dell’umanità si compia. Il
prodigio della concezione e della nascita del Figlio, di cui lei sola conosce
il mistero, conferma quell’intimità, non la crea. La fede non ci strappa dalla
nostra umanità, ma l’avvalora, la compie nella sua dignità e nei suoi aneliti.
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Quinto ciclo
Anno liturgico B (2014-2015)
Tempo di Natale
Natale del Signore
(25 dicembre 2014)
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Messa
vespertina della vigilia: Is 62,1-5; Sal
88; At 13,16-17.22-25; Mt 1,1-25
Messa
della notte: Is 9,1-6;
Sal 95; Tt 2,11-14; Lc 2,1-14
Messa
dell’aurora: Is
62,11-12; Sal 96; Tt 3,4-7; Lc 2,15-20
Messa
del giorno: Is 52,7-10;
Sal 97; Eb 1,1-6; Gv 1,1-18
_________________________________________________
La vigilanza, che la liturgia
dell’avvento ci aveva insegnato ad assumere davanti al mistero del Signore che
viene, ci ha affinato gli sguardi. Ora siamo pronti a vedere ciò che in realtà non è immediatamente visibile. Quale
potenza mostra mai un Dio che si fa fragile e inerme bambino? Quali luci in un
evento di cui nessuno sembra accorgersi, in una situazione di povertà e di
totale discrezione?
Il mistero del Natale appare in
tutto il suo splendore considerando lo sviluppo della liturgia nei suoi quattro
formulari delle Messe. Una tensione unica percorre la liturgia, sottolineata dalle
collette: Dio si fa uomo perché l’uomo diventi ‘dio’. Ciò significa che la
natura dell’uomo è strutturata sulla vita divina e la liturgia del natale del
Signore appunta lo sguardo sul mistero da dentro tale prospettiva.
Se teniamo presenti i brani evangelici
possiamo notare che l’evento della nascita di Gesù, a Betlemme, celebrato nella
messa della notte, con la successiva adorazione dei pastori, commemorato nella
messa dell’aurora, risulta incastonato dai brani della genealogia di Gesù
(messa vespertina della vigilia) e dal prologo di Giovanni (messa del giorno).
Quale lettura possibile?
Il Bambino contemplato nella
mangiatoia compie finalmente le promesse di Dio. La genealogia di Matteo,
all’inizio del suo vangelo, vuol proprio dire questo: Gesù, il Messia
annunciato della discendenza di Davide, risale ad Abramo, con cui inizia la
storia sacra di Dio col popolo d’Israele. Lui realizza le profezie, Lui compie
le promesse. Leggendo però la genealogia nel vangelo di Luca, posta dopo il
battesimo di Gesù al Giordano, quando il cielo si apre e si ode la voce del
Padre: “Questi è il Figlio mio, l’amato
…”, allora il significato muta. Il Bambino è Colui sul quale il Padre dice:
“Questi è il mio Figlio amatissimo, in lui mi sono compiaciuto, in lui riposa
il mio amore e in lui mi riposo”. In effetti il cielo si apre su di lui e passa
per lui (Gesù dirà: ‘io sono la porta…’)
in modo che chi entra per lui arriva al principio della sua genealogia umana e
la sorpassa, collegandola al mistero che la origina. Nella genealogia di Luca
Gesù non risale ad Abramo, ma discende da Dio, assumendo Adamo: viene svelato
il mistero della sua identità di Figlio di Dio, il mistero dell’amore di Dio
nel quale prende origine la creazione dell’uomo e la storia di amore di Dio con
l’umanità.
Con il prologo di Giovanni si
afferma la stessa cosa dando la griglia di lettura della storia umana a partire
da Dio e dal Figlio, sul quale e per mezzo del quale tutto è stato creato,
avvalorata ormai dalla testimonianza apostolica di aver visto lo splendore
della gloria di Dio in quel Figlio, nato, vissuto, morto e risorto per noi. Di
lui dice Giovanni: “il Verbo si fece
carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi abbiamo contemplato la sua
gloria”.
Quando nella notte si celebra
l’evento della nascita a Betlemme è da dentro questa prospettiva che gli occhi
guardano. Forse noi non ci rendiamo conto della immensa sproporzione e
inadeguatezza tra la povertà del segno (un bambino giace nella mangiatoia) e lo
splendore della visione celebrata con la voce degli angeli che lodano Dio, con
la luce che risplende, con la letizia immensa e incontenibile che riempie i
cuori. Dentro questa sproporzione verrà poi descritta tutta la vita di quel
Bambino. E quando la chiesa nei suoi inni proclama che una nuova creazione ha
inizio con la nascita di Gesù allude alla fecondità di rivelazione racchiusa in
questa sproporzione. Con l’Altissimo che si fa bambino si ritorna allo
splendore di un’umanità tutta intessuta dall’amore di Dio e che in Dio cerca il
motivo della sua gloria, in povertà e tenerezza. Qui risuonano potenti le
parole di Paolo ai Corinzi: “Infatti ciò
che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di
Dio è più forte degli uomini” (1Cor 1,25). Da dentro questa ‘stoltezza’ e
‘debolezza’ Gesù rivelerà la grandezza dell’amore di Dio per noi.
Se consideriamo le collette, la
progressione della comprensione del mistero è delineata secondo questa
traiettoria: l’evento sprigiona una tale luce (notte) da investire il nostro
agire (aurora) per partecipare alla stessa vita di Dio (giorno). “O Dio, che
hai illuminato questa santissima notte con lo splendore di Cristo, vera luce
del mondo …” (notte);”Fa’ che risplenda nelle nostre opere il mistero della
fede che rifulge nel nostro spirito” (aurora); “Fa’ che possiamo condividere la
vita divina del tuo Figlio…” (giorno) e questo è lo scopo di tutta la nostra
gioiosa adorazione.
Mi piace sottolineare che nei
racconti natalizi non si riporta nessuna parola della Madre di Gesù. Si
descrivono i gesti di tenerezza, nella povertà della situazione (“lo avvolse in fasce e lo pose in una
mangiatoia”) e la sua disposizione adorante (“custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore”). La sua
parola era già stata riferita: “Ecco, la
serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola”. La sua vita era
puro spazio perché il desiderio di Dio di dimorare con noi si compisse in tutto
il suo mistero. Nelle icone natalizie, la Madre non guarda il suo bambino, ma
coloro per i quali questo bambino è donato!
Un poema natalizio di s. Efrem
canta: “Sia benedetto Colui che ha consegnato la nostra anima, che l’ha
adornata e se ne è fatta la fidanzata! Sia benedetto Colui che ha fatto del
nostro corpo una tenda per la sua Invisibilità! Sia benedetto Colui che nella
nostra lingua ha tradotto i suoi segreti!... Gloria a Colui che non ha mai
bisogno che noi lo ringraziamo. Ma che ha bisogno di tenerci per cari, che ha
sete di amarci e che chiede che noi gli diamo perché Lui possa darci ancora di
più”. Possano i nostri cuori percepire quei segreti e scoprire le radici della
letizia per noi in questo mondo. La letizia dell’annuncio natalizio costituisca
il vigore dell’anima e lo spazio di intelligenza del cuore per la vita propria
e quella di tutti.
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Quinto ciclo
Anno liturgico B (2014-2015)
Tempo di Natale
Santa Famiglia
(28 dicembre 2014)
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Gn
15,1-6; 21,1-3; Sal 104; Eb 11,8.11-12.17-19; Lc 2,22-40
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È significativo che la tradizione
non celebri l'incarnazione del Figlio di Dio in generale, ma dentro una singola
famiglia della famiglia umana. Per quanto misteriosa e singolare questa
famiglia, è proprio a questa famiglia che tutte le altre famiglie possono
guardare per comprendere e vivere il loro stesso mistero.
La liturgia di oggi contempla il mistero dell’incarnazione del
Figlio di Dio sottolineandone gli aspetti di veracità storica. Dio si fa uomo
in un determinato popolo, dentro una determinata storia, rispettando certe
regole: la mamma si dovrà purificare, il bambino ebreo dovrà essere circonciso,
gli si darà un nome, sarà presentato al tempio e vivrà in una famiglia che gli
assicurerà la crescita e l’educazione.
Due sono i personaggi che introducono
a questa contemplazione: Abramo e Simeone. Proprio di Abramo Gesù dirà: “Abramo, vostro padre, esultò nella speranza
di vedere il mio giorno; lo vide e fu pieno di gioia” (Gv 8,56). E Simeone
esultante proclama, prendendo tra le sue
braccia il bambino Gesù: “i miei occhi
hanno visto la tua salvezza”. Quando o come Abramo avrà potuto vedere il
giorno di Gesù? L’ha visto profeticamente alla nascita di Isacco, il figlio
della promessa, avuto in vecchiaia, ma soprattutto dopo aver riavuto il suo
Isacco, amatissimo, allorché il Signore gli impedisce di sacrificarlo e gli fa
trovare l’ariete per l’olocausto sul monte Moria (cfr Gn 22). E l’ha visto
nella sua discendenza, in Simeone, che da Abramo deriva e che ha tenuto Gesù
bambino nelle sue braccia. L’esultanza di Abramo attraversa tutta la sua
discendenza per giungere a compiersi in Simeone e da Simeone risale indietro
fino a ricadere sullo stesso Abramo.
Il testo del vangelo di Luca che
narra della presentazione al tempio di Gesù è ricco di particolari misteriosi,
particolari che tradiscono la contemplazione di un mistero, velato ma
percepibile. Luca parla della loro
purificazione: ma solo la mamma era tenuta a purificarsi dopo il parto (cfr.
Lev 12,1-8). Non c’è nessuna legge che prescrive di portare il bambino al
tempio. La Legge di Mosè prescrive di consacrare e riscattare ogni primogenito
(cfr Es 13); Luca, citando quella norma, ne modifica l’espressione dicendo che
‘ogni maschio primogenito sarà sacro al
Signore’ ed usa le stesse parole dell’angelo Gabriele quando reca
l’annunzio a Maria. Come a sottolineare: Gesù non ha bisogno di essere
consacrato al Signore e non deve essere riscattato; anzi, lui è il Consacrato, il Cristo di Dio; lui sarà il riscatto per il suo popolo, per l’intera
umanità. In lui si concentra tutto il senso della storia sacra perché compie in
verità quello che nella Legge veniva descritto in simbolo: Gesù è il
primogenito diletto che compie il
sacrificio di Isacco, come lui è il vero pane celeste che era prefigurato nella
manna.
Simeone, che aspettava la consolazione di Israele, figura di tutta
l’umanità in attesa, ha ricevuto la promessa che non avrebbe visto la morte
prima di aver veduto il Messia del Signore, cioè colui stesso che era la
consolazione di Israele, colui nel quale tutte le attese di consolazione si
sarebbero compiute. E siccome si sarebbero compiute attraverso la passione
della croce, Simeone vede la spada di dolore che trafiggerà la mamma di quel
bambino, non solo in ragione del suo dolore di mamma, e nemmeno solo in ragione
della sofferenza della divisione nel suo popolo che sperimenta in se stessa in
tutta la sua tragedia, ma anche e soprattutto in ragione della sua solidarietà
con il Figlio Redentore e con l’Amore del Padre che così perdutamente
testimonia la sua dilezione per gli uomini.
Ma anche la visione di Simeone, come
quella di Abramo, come del resto la visione di ogni credente, è una visione
profetica. Tiene il bambino Gesù in braccio e vede avanti, vede in spirito,
sente il mistero di quel bambino venuto a compiere tutte le attese: “Ora puoi lasciare, o Signore, che il tuo
servo vada in pace, secondo la tua parola, perché i miei occhi hanno visto la
tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli: luce per rivelarti alle
genti e gloria del tuo popolo, Israele”. È il cantico che la chiesa innalza
a compieta, tutti i giorni, come a riprova che l’esito dei nostri giorni
mortali non può che risolversi in questa contemplazione di Dio. Eppure le
parole di Simeone hanno un’altra forza. Potremmo tradurle così: Signore, ora
che ho potuto trattenere una tua parola, fa che sia sciolto da ogni legame che
impedisce a questa parola di agire, che impedisce al mio cuore di goderne la
potenza e possa cominciare a vivere in quella pace che compie la mia attesa ed
anche la tua! Sì, perché non è soltanto
l’uomo ad aspettare la consolazione, è anche Dio e la consolazione di Dio è la
condivisione della sua gioia e della sua pace con noi. E possano tutte le
genti, insieme al popolo di Israele, diventare l’Israele di Dio, nel quale si
compie la consolazione e dell’uomo e di Dio.
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Quinto ciclo
Anno liturgico B (2014-2015)
Tempo di Natale
Maria ss. Madre di Dio
(1° gennaio 2015)
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Nm
6,22-27; Sal 66; Gal 4,4-7; Lc 2,16-21
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Nel calendario liturgico, l’ottavo
giorno dopo il Natale del Signore fu consacrato a onorare la Vergine Maria,
Madre di Dio. A partire dal 1969, l’antica festività di “Maria Santissima Madre
di Dio” venne ripristinata in tutta la sua solennità il 1° gennaio.
Con lei, la Vergine Madre, che ha
dato alla luce il Salvatore, si è compiuta in tutta la sua estensione l’antica
benedizione di Israele: “Ti benedica il
Signore e ti custodisca. Il Signore faccia risplendere per te il suo volto e ti
faccia grazia. Il Signore rivolga a te il suo volto e ti conceda pace” (Num
6, 24-26). Dante, nell’ultimo canto del Paradiso, dopo aver innalzato una lode
sublime alla Regina del cielo, di lei dice: “Gli occhi da Dio diletti e
venerati …”. Chi ha provato l’estasi di uno sguardo amoroso sa a quale intimità
si allude, quale benedizione si riceve e quale gioia ciò procura. Il mistero
grande è il fatto che anche Dio è rapito dallo splendore dello sguardo della
Vergine tanto è puro e sconfinato, specchio limpidissimo dell’amore di Dio per
lei e per tutta l’umanità. Sì, perché la bellezza della Vergine è in funzione
della bellezza, resa visibile, del Figlio Unigenito, nostro Salvatore, il cui
amore per noi lo renderà disposto a perdere ogni ‘bellezza d’uomo’ per ridare a
noi quella bellezza che attira il suo sguardo. In questo sguardo di Dio su di
lei si concentra tutto il senso della sua intercessione allo scopo di ottenerci
la suprema benedizione che si risolve nel voler vedere Dio, vedere il volto di
Dio che risplende su di noi, Gesù Signore.
L’esperienza dei pastori alla
mangiatoia di Betlemme ha a che vedere proprio con l’esperienza di quella
benedizione. Il brano è percorso da un doppio movimento che caratterizza prima
gli angeli e poi i pastori. E ogni movimento ha due tempi: l’annuncio e la
lode. Appaiono gli angeli per annunciare il messaggio di cui sono portatori e
poi lodano Dio ritornando in cielo; i pastori vanno a Betlemme a sincerarsi
della veracità dei fatti e poi lodano Dio ritornando a casa loro. Consideriamo
il movimento dei pastori. “I pastori se
ne tornarono, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e
visto, com’era stato detto loro”. I verbi sono ben collocati: prima ‘udito’
e poi ‘visto’. Esprimono la dinamica della fede, la dinamica dell’intelligenza
della Parola. Prima occorre ‘udire’, ‘ascoltare’: noi non siamo produttori di
messaggi, tanto meno siamo produttori di significati. Siamo invece invitati a
cogliere i messaggi, ad essere testimoni degli eventi e ad assimilarne i
significati. Non è però nemmeno sufficiente ascoltare, se l’ascolto non
introduce alla visione, all’andare a vedere. Il che significa: se non sei
disposto a praticare quello che ascolti, non potrai mai vedere e non scoprirai
mai se il messaggio aveva una verità per te. E se non si arriva a vedere, il
cuore non potrà convertirsi, la
nostra vita non sarà interessata e non potrà mai risolversi in racconto di
lode, racconto e lode che costituiranno per altri l’invito angelico: vi
annuncio una gioia grande…! Se la dinamica si compie in tutta la sua
estensione, la benedizione che dalla Vergine è riversata sull’umanità fa
sentire i suoi effetti, ricopre i cuori e la Chiesa, a sua volta, non ha altra
vocazione che di rimandare a quella benedizione per tutta la famiglia umana.
D’altro canto, la realtà
dell’incarnazione comporta la variabile tempo. Ogni cosa ha il suo tempo, ogni
cosa ha bisogno del suo tempo. Anche la
Vergine Maria ha avuto bisogno di tempo per assuefarsi
all’agire di Dio. Il brano evangelico la descrive come colei che “custodiva tutte queste cose, meditandole nel
suo cuore”. Evidentemente perché anche per lei la realtà non svelava il suo
mistero di colpo. I due verbi, custodiva
e meditando significano più
direttamente: teneva se stessa e queste cose insieme in cuore, facendole
rimbalzare l'una sull'altra in modo da ottenerne una visione d'insieme. Sono
termini che illustrano il metodo di lettura delle Scritture: una parola si
illumina con un'altra parola ed il senso che ne scaturisce si riverbera nel
cuore aprendo la parola al cuore ed il cuore alla parola. E non se ne tralascia
nessuna: tutte queste cose del testo
sono sia le parole udite (dall'angelo, dai profeti, dai pastori) sia gli eventi
successi; non si cerca solo quella 'adatta' a me, ma ci si 'adatta' a loro
tutte, insieme. Non si preferisce un tempo (il tempo della gioia, del
godimento), ma si tengono insieme tutti i tempi (anche il tempo del dubbio,
dell’afflizione). Allora, poco a poco, anche al nostro cuore si svelerà quella benedizione che Dio ha posto
sull’umanità e la vita torna a risplendere della presenza del nostro Dio.
La colletta, quando prega: “Padre
buono, che in Maria, vergine e madre, benedetta fra tutte le donne, hai stabilito
la dimora del tuo Verbo fatto uomo tra noi…”, riprende la dichiarazione di
Giovanni: “E il Verbo si fece carne e
venne ad abitare in mezzo a noi” (Gv 1,14). Ma anche la promessa di Gesù ai
discepoli: “Se uno mi ama, osserverà la
mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora
presso di lui” (Gv 14,23). La benedizione di Dio per l’uomo consiste
proprio nel suo dimorare fra noi, in noi. L’aspetto straordinario,
sconvolgente, dell’amore di Dio per l’uomo, che però spesso nemmeno siamo più
capaci di percepire, è dato dal fatto che possiamo essere accolti in quella
stessa intimità di vita e di relazione che esiste tra il Padre e il Figlio nel
loro amore per noi. Sembra strano, ma soltanto da dentro quella intimità
potremo sperare di compiere la volontà del Padre nella nostra vita e sentirci
avvolti dalla sua benedizione. Se prima non si gusta la volontà di benevolenza
di Dio nei nostri confronti, che si esprime nella benedizione che è il Cristo
per noi, come poter arrivare alla gioia dell’osservanza dei comandamenti e ad
essere operatori di pace? Se non capiamo come Cristo non antepose nulla
all’amore per noi, come possiamo noi non anteporre nulla all’amore per Cristo e
ritrovarci amati dal Padre, che nel suo Figlio ha posto tutta la sua
compiacenza?
Il mistero della benedizione di Dio
sull’uomo sta tutto qui e tutta la vita della Vergine, come il suo parto
prodigioso, è lì a dimostrarlo. Come canta s. Efrem: “Benedetto Colui che ha
fatto del nostro corpo una tenda per la sua Invisibilità! Sia benedetto Colui
che nella nostra lingua ha tradotto i suoi segreti!...”.
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Quinto ciclo
Anno liturgico B (2014-2015)
Tempo di Natale
II
Domenica
(4 gennaio 2015)
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Sir
24,1-4.8-12; Sal 147; Ef 1,3-6.15-18; Gv 1,1-18
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Nelle liturgie natalizie non manca
mai il riferimento alla benedizione divina che in Gesù scende sull’uomo e che
dall’uomo sale copiosa a Dio. Gesù è il Dono fatto da Dio all’umanità e
contemporaneamente il frutto dell’umanità che nella Vergine raggiunge il suo
esito esemplare. Nelle sue poesie sul mistero del Natale s. Efrem lo sottolinea
acutamente: “Maria è il giardino sul quale discese dal Padre la pioggia della
benedizione; di quella effusione lei asperse il volto di Adamo”. O ancora, facendo parlare la stessa Madre di
Dio, vede nel riferimento a Cristo lo scopo supremo della vita, capace di una
visione nuova, trasformante: “Se una madre ha un bambino, questo diventa
fratello del mio diletto. Se ha una figlia o una congiunta, questa diventa la
sposa del mio Signore. Colui che ha un servo, gli conceda la libertà, affinché
venga per servire il suo Signore [...] A causa tua una serva diventa libera. Se
una ti ama, c’è nel suo seno una invisibile liberazione”.
Se davvero crediamo, come dice il
ritornello del salmo responsoriale, che “il Verbo si è fatto carne e ha posto
la sua dimora in mezzo a noi”, allora l’augurio più bello e convincente, dal
punto di vista della fede, non può essere che quello di Paolo agli Efesini: “…il Dio del Signore nostro Gesù Cristo, il
Padre della gloria, vi dia uno spirito di sapienza e di rivelazione per una
profonda conoscenza di lui; illumini gli occhi del vostro cuore per farvi comprendere
a quale speranza vi ha chiamati, quale tesoro di gloria racchiude la sua
eredità fra i santi”. Conoscenza, qui, allude all’esperienza degli apostoli
che, davanti al mistero del Figlio di Dio fatto uomo, con il quale hanno
vissuto, che hanno sentito parlare, che hanno visto all’opera, dal quale sono
rimasti folgorati e affascinati, dicono: “e
noi abbiamo contemplato la sua gloria” (Gv 1,14). Come prega la colletta:
“Padre di eterna gloria, che nel tuo unico Figlio ci hai scelti e amati prima
della creazione del mondo e in lui, sapienza incarnata, sei venuto a piantare
in mezzo a noi la tua tenda, illuminaci con il tuo Spirito perché accogliendo
il mistero del tuo amore, pregustiamo la gioia che ci attende, come figli ed
eredi del regno”. Da dentro quell’esperienza, testimoniata dagli apostoli e con
noi condivisa, la percezione del mistero dell’amore di Dio per gli uomini,
della benevolenza di Dio che tocca le radici dei cuori con il dono di quel
Figlio, dato per noi, diventa chiarissima, prepotente: la benedizione non si
allontanerà mai più dall’umanità.
Se vogliamo indagare la ragione
profonda di quella percezione, non possiamo che riconoscerla espressa
nell’affermazione: “Dio nessuno lo ha mai
visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha
rivelato” (Gv 1,18). Qui risiede tutta la fierezza e l’umiltà del cristiano
di fronte ai suoi fratelli, in cammino e alla ricerca della verità che riguarda
tutti allo stesso titolo. Se tutto il creato rimanda al Cristo Signore, a maggior
ragione l’uomo, fatto ad immagine di Lui, che è l’Immagine, lo splendore del
Volto stesso di Dio. Ma se questo è vero, allora tutti i nostri pensieri
rimandano a lui, tutte le nostre aspirazioni, tutti i nostri desideri, tutti i
nostri ideali. Secondo i nostri Padri, la preghiera non è che il luogo di
riconoscimento del Cristo come fondamento dei nostri pensieri. Tutta la bontà,
tutte le virtù che possiamo ottenere non sono che partecipazione ai suoi
sentimenti, alla sua vita, che è vita stessa di Dio.
Le nostre così frequenti ‘lamentele’
nella vita, certamente fondate in buone ragioni, non ci fanno cogliere però la
ragione essenziale per la vita del cuore, che subisce come una mancata
rivelazione, come un’impossibilità di accedere a quel certo orizzonte dove
tutto è bagnato dalla luce della benedizione. Se davvero i nostri occhi stanno
aperti a riconoscere la venuta tra noi di Colui che custodisce quella
benedizione, perché smarrirci allora nelle paure e nelle angosce, come se
qualcosa di essenziale ci mancasse ancora?
Il Padre ci ha donato il suo Figlio
ed il Figlio, per mezzo dello Spirito Santo, ci fa dono del potere di diventare
figli a nostra volta: “A quanti però lo
hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono
nel suo nome, i quali, non da sangue né da volere di carne né da volere di
uomo, ma da Dio sono stati generati” (Gv 1,12-13). Il dono è aperto a
tutti, perché non si nasce cristiani, ma lo si diventa. È il superamento più
radicale di ogni distinzione fra gli uomini basata su etnia, nazione, cultura,
censo, ecc. Ricevere il potere di diventare figli di Dio significa partecipare
alla vita stessa del Figlio di Dio; significa rivestirsi dei suoi sentimenti,
nei quali fondare le radici di un’umanità nuova, trasfigurata, che non si
presenta più temibile in nulla per nessuno. Usassimo questo semplice criterio
di discernimento per giudicare la bontà del nostro agire!
La letizia del Natale rimanda a tale
possibilità, a tale potere e qui si radica la speranza per
il mondo: la gloria di Dio può ancora risplendere in mezzo a noi, la vita nel
mondo può ancora tornare amabile, nonostante i drammi e le tragedie, le
violenze e gli egoismi. Siamo sicuri – anche questo è un corollario della
nostra fede nel Signore Gesù – che sempre ci sarà qualcuno che, discepolo del
Signore, farà risplendere l’umanità in questo mondo. E sempre ci sarà qualcuno
che, affascinato da quello splendore, riconoscerà il Signore e tornerà a far
desiderare la conoscenza di lui, come si augura l’apostolo.
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Quinto ciclo
Anno liturgico B (2014-2015)
Tempo di Natale
Epifania del Signore
(6
gennaio 2015)
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Is 60,1-6; Sal 71; Ef 3,2-3a.5-6; Mt 2,1-12
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Epifania vuol dire manifestazione.
Se il Natale celebra la manifestazione del Verbo di Dio fatto uomo, l’Epifania
celebra la manifestazione della divinità di quel ‘Bambino nato per noi’. In
occidente la liturgia ha preferito costituirsi attorno all’adorazione dei Magi,
mentre l’oriente ha preferito privilegiare la manifestazione della divinità di
Gesù al battesimo. Comunque tre sono i misteri della manifestazione della
divinità di Gesù che la liturgia contempla: l’adorazione dei Magi, il battesimo,
le nozze di Cana.
L’antifona di ingresso della messa
si richiama al libro del profeta Malachia, l’ultimo libro dell’Antico
Testamento: “È venuto il Signore nostro
re: nelle sue mani è il regno, la potenza e la gloria”. La proclamazione
comporta qualcosa di radicalmente nuovo per gli occhi umani o, se vogliamo,
comporta la visione di una realtà con occhi radicalmente nuovi. Stessa novità che sta dietro la proclamazione
di Gesù come re nei vangeli (soltanto durante la sua passione Gesù accetta il
titolo di re) e particolarmente come re della gloria (titolo che fornisce, da
una parte, la ragione della condanna sul patibolo della croce e, dall’altra,
per la visione di fede dei credenti, la ragione dell’amore di Dio per l’uomo
che proprio sulla croce risplende). Quando la colletta fa pregare: “O Dio, che
in questo giorno, con la guida della stella, hai rivelato alle genti il tuo
unico Figlio, conduci benigno anche noi, che ti abbiamo conosciuto per la fede,
a contemplare la grandezza della tua gloria”, guida i credenti alla percezione
di quella novità e li predispone a
cogliere e a vivere dello splendore di quell’amore, che costituisce ormai la
ragione di senso del vivere nella storia.
Paolo ricorda agli Efesini che il
mistero ora rivelato concerne tutti gli uomini, che sono chiamati a godere
della stessa eredità, a formare un unico corpo, a vivere della stessa promessa
di vita. Davanti a Dio sussiste un’unica famiglia umana, destinataria e
portatrice allo stesso tempo del Suo amore. Se il Signore, come dice il salmo
71, interviene a favore del povero e del debole, categorie che attraversano la
diversità dei popoli e si riferiscono all’umanità di tutti, significa che chi
calpesta il povero e il debole ferisce la propria dignità umana e non rispetta
l’immagine di quel Figlio che si è confuso con l’umanità di tutti.
Il numero dei Magi è fissato in
funzione dei doni che sono ricordati nel vangelo: oro, incenso e mirra. Il
titolo di magi è un titolo dottorale
e religioso, ma la leggenda li ha immaginati come re, dal momento che i loro
doni sono doni regali. I loro nomi, Melchiorre, Baltassarre e Gaspare, si
ritrovano nel Libro armeno dell’Infanzia,
risalente al sec. VI, che li reputa tre fratelli: Melchiorre re dei Persiani,
Baltassarre re delle Indie, Gaspare re degli Arabi. La tradizione ha fissato
anche il simbolismo dei tre doni: l’oro al Re, l’incenso al Sommo Sacerdote
eterno, la mirra per la sua sepoltura. E Leone Magno, nelle sue bellissime
omelie sull’Epifania, attualizza così il significato simbolico dei tre doni:
chi viene al Cristo, offre l’oro dal tesoro del suo cuore quando lo riconosce
re di tutte le creature, offre la mirra quando crede che il Figlio Unigenito di
Dio ha assunto una vera natura di uomo ed offre l’incenso quando lo confessa
uguale al Padre.
Nel racconto evangelico
dell’adorazione dei Magi, quanti particolari suggeriscono pensieri profondi! I
Magi, persone colte e osservatrici degli astri, vedono sorgere una stella,
fenomeno che interpretano come l’arrivo di un grande re in Giudea e decidono di
venire a cercarlo. La strada per la Giudea la conoscono ed il testo non dice
che la stella li guidava. Solo dopo aver ricevuto la conferma della profezia da
Israele che un re sarebbe nato a Betlemme, ricompare la stella e li precede fin
là. E quando devono ritornare indietro, cambiano strada. Come a dire: chi si
apre all’adorazione di Dio riscopre la casa propria in altro modo, con altro
sguardo, sotto altri orizzonti. Notiamo il contrasto: i Magi si sono mossi,
senza sapere bene dove andare, mentre Israele conosce la profezia riguardo al
bambino che deve nascere, ma non si muove; i Magi sono nella gioia, Gerusalemme
nel turbamento. I Magi sono partiti perché spinti dal cielo, ma si affidano
alle Scritture di Israele per conoscere il luogo di nascita del nuovo re e solo
dopo essersi affidati alla parola rivelata ricompare la stella del cielo che
conferma loro la profezia; dopo aver riconosciuto il nuovo re, ritornano al
loro paese, ma per altra strada, ad indicare che nulla è più come prima. Come
per i pastori che, dopo aver udito e visto, glorificano e lodano Dio tornando a
casa loro, a sottolineare che un cuore convertito al Signore possiede una luce
e un sapore prima sconosciuti. Non è la stessa situazione dell’uomo di fronte
al desiderio di infinito che porta dentro? Se va a cercare la Parola è perché questo desiderio lo rode
e se si lascia condurre da questo desiderio non solo trova la Parola, ma
ritrova la gioia di quel desiderio che l’accompagna nella pratica della parola fino a trasformare tutto il suo cuore e a
volgerlo in perenne adorazione e nei pensieri e nella vita. È appunto il
mistero della scoperta del tesoro nel campo, è il mistero dell’incontro
dell’uomo con il suo Dio. Il brano finisce con l’accenno alla strage di Erode.
La presenza del dramma non è lì a gettare una luce fosca sull’idillio appena
descritto, ma prelude al dramma finale della vita di quel bambino che, morendo
in croce e poi risuscitando, rivela la gloria dell’amore di Dio per l’uomo, che
non si arresta e non devia dai suoi progetti di fronte all’ingiustizia, che
anzi fa diventare proprio luogo di rivelazione del Suo amore.
Quanto al mistero della
trasformazione dell’acqua in vino alle nozze di Cana (cfr. Gv 2,1-10), simbolo
delle nozze del Signore Gesù con l’umanità nostra, anche questo ha a che vedere
con la manifestazione della gloria di Dio nella nostra vita. Passare dall’essere acqua al diventare vino
significa passare dalla volontà di osservanza del comandamento al gusto del
frutto che il comandamento comporta. La promessa nascosta in ogni parola di Dio
è questa: “Se uno mi ama, osserverà la
mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora
presso di lui” (Gv 14,23). Ogni comandamento ha un’ispirazione; senza
cogliere tale ispirazione non potremo mai gustare la promessa che è nascosta
dentro ogni comandamento, la promessa della conoscenza cordiale del Signore. Come in un rapporto d’amore. Non basta fare
delle cose, neanche farle per l’altro; se non si coglie l’ispirazione che muove
il cuore ad agire, se non si coglie l’effetto che il nostro agire ha sul cuore
dell’altro, se non ci viene rimandata la gioia dell’altro che coglie il
movimento del nostro cuore, si resta acqua.
Nel Cristo divinità e umanità sono
inscindibilmente unite, Dio finalmente risplende nell’uomo e l’uomo risplende
del suo Dio. E se tutto diventerà più svelato
con la morte e risurrezione di Gesù, già però se ne può intravedere il mistero
fin dalla sua nascita dalla Vergine Maria, almeno per coloro che gli si
avvicinano con stupore e sanno vedere nelle parole e negli eventi che lo
riguardano gli indizi della sua gloria.
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Quinto ciclo
Anno liturgico B (2014-2015)
Tempo di Natale
Battesimo del Signore
(11
gennaio 2015)
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Is 55,1-11; Salmo: Is 12,2-6; 1 Gv 5,1-9; Mc 1,7-11
___________________________________________________
La
tradizione ha colto il mistero del battesimo di Gesù nell’ottica della sua epifania, della sua manifestazione. Nella celebrazione della festa dell’Epifania, con
le antifone solenni del Benedictus e del Magnificat, la chiesa cantava: “Oggi
la Chiesa, lavata dalla colpa nel fiume Giordano, si unisce a Cristo, suo
Sposo; accorrono i magi con doni alle nozze regali e l’acqua cambiata in vino
rallegra la mensa”. La festa di oggi è stata iscritta nel calendario romano
solo nel 1960 ed è stata fissata alla data attuale nel 1969.
Appuntiamo
lo sguardo su due particolari.
Primo
particolare: Gesù viene al Giordano per farsi battezzare. Marco usa la stessa espressione
di Es 2,11, letta nel testo greco della LXX con l’annotazione di Mosè che, una
volta raggiunta l’età di quarant’anni, uscì dalla casa del faraone per fare
visita al suo popolo. Il riferimento è letto in rapporto alla profezia di Mosè
in Dt 18,15: “Il Signore, tuo Dio,
susciterà per te, in mezzo a te, tra i tuoi fratelli, un profeta pari a me. A
lui darete ascolto”. Chi ascolta queste parole è Giosuè, in greco Gesù,
colui che traghetta il popolo nella terra di Israele attraversando il Giordano.
La deduzione è presto fatta: l’evangelista Marco vede realizzarsi le profezie e
l’attesa messianica in Gesù di Nazaret che viene a farsi battezzare, lui,
l’Innocente, l’Agnello che toglie i peccati del mondo. Da notare che il
Giordano è il fiume della terra che scorre più in basso, raggiungendo circa i
500 m sotto il livello del mare.
Tutti
particolari, questi, che descrivono la salvezza operata da Dio secondo la cifra
dell’abbassamento, della debolezza, della stoltezza, che Paolo chiamerà più
forte e più sapiente degli uomini, e che Giovanni chiamerà gloria ed
elevazione. Il primo gesto di Gesù, nel compiere la sua missione, è quello di
stare solidale con i peccatori. È in fila con i peccatori per ricevere il
battesimo di penitenza di Giovanni. Lui però non ha bisogno del battesimo.
Perché allora viene a farsi battezzare? Viene per celebrare il suo sposalizio: nella sua umanità oramai è
lavata tutta l’umanità, che può stare unita a lui e godere, come lui, di quello
Spirito che come colomba si posa sul suo capo, capo del suo corpo che siamo
noi. Nessuno può ancora vedere lo Spirito però; solo Gesù, uscendo dalle acque,
lo può vedere perché ne è ripieno ed anche Giovanni, che con quel battesimo
dato a Gesù finisce la sua opera di battezzatore per lasciare posto a lui, al
suo nuovo battesimo, il battesimo nello Spirito. Si potrà vedere allorquando,
compiuta la sua missione, avendo patito per gli uomini, morto e risorto, lo
effonderà come lingue di fuoco sugli apostoli. Vedere lo Spirito Santo
significa poter penetrare nei cieli ormai aperti, significa aver sperimentato
in tutta la sua potenza quel compiacimento
che la voce proclama da parte di Dio su Gesù.
Il racconto
di Marco è densissimo di allusioni. Se i profeti (cf. Ml 3,22) motivavano
l’invito a emendarsi mirando al passato, richiamando cioè Mosè e la Legge, con
il Battista oramai si guarda al futuro, alla venuta di colui che battezzerà in
Spirito Santo. L’azione dello Spirito è di far sì che l’uomo appartenga a Dio
(cf. Ez 36,28; Is 44,5) e denominarlo Santo,
oltre che alludere alla natura divina, significa sottolinearne l’azione
specifica: introdurre l’uomo nella sfera divina, consacrarlo nella fedeltà a
Dio. Con il suo battesimo, a differenza di tutti coloro che ricevono il
battesimo di Giovanni, Gesù non confessa la sua complicità con il male, ma
manifesta la disposizione di offerta totale di sé: si impegna a compiere la sua
missione a favore degli uomini disposto a non risparmiare nemmeno la sua vita.
Si tratta di compiere l’esodo definitivo per il nuovo popolo dell’alleanza.
Secondo
particolare: i cieli si squarciano e la voce lo proclama il Figlio amato. Il
profeta Isaia aveva gridato al Signore: “Se
tu squarciassi i cieli e scendessi!” (Is 63,19). Ora avviene, con il
richiamo al fatto che con la crocifissione il velo del tempio si squarcia da
cima a fondo (Mc 15,38). L’annotazione segnala l’irreversibilità del movimento:
non c’è più chiusura tra cielo e terra, tra Dio e uomo e lo Spirito scende su
Gesù come nel suo luogo desiderato. Come a dire: colui che si consegna per
amore degli uomini è il luogo naturale dello Spirito di Dio. Con l’allusione,
nell’immagine della colomba, allo Spirito Creatore di Gen 1,2, il quale in Gesù
porta a compimento la creazione dell’uomo, portandola alla pienezza umana,
ricolma di Spirito. Se con l’ultimo profeta, Malachia, la tradizione ha visto
ritirarsi lo Spirito nel santuario celeste perché nessun nuovo profeta era
sorto da allora, ora, con la discesa dello Spirito su Gesù, il santuario
celeste è lui. Nell’Antico Testamento, lo Spirito Santo è indicato come lo
Spirito del santuario, essendo il Tempio, al suo centro, nel Santo dei Santi, a
contenere la Shekhinah, la Presenza, l’Inabitazione. Ora la Shekhinah, la
Presenza, è in quel profeta di Nazaret, che la voce proclama: “Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho
posto il mio compiacimento”.
In quel
‘Figlio mio, l’amato’ risuona l’eco dell’esperienza di Abramo al quale viene
chiesto di sacrificare Isacco, il figlio unico, che amava (cf. Gen 22,2). O
ancora, l’eco della parabola dei vignaioli assassini, in Mc 12,6, quando il
padrone della vigna pensa al suo figlio prediletto da mandare ai vignaioli che
non vogliono consegnare il raccolto e che poi lo mettono a morte. Se
quell’aggettivo ‘prediletto’ rivela la radicalità della fede di Abramo, che
davanti al suo Dio accetta di sacrificare il suo cuore, a maggior ragione
rivela la radicalità dell’amore di Dio per l’umanità essendo disposto a mandare
il suo Figlio a coloro che ne faranno scempio. L’aggiunta “in te ho posto il mio compiacimento”
rivela tutta la profondità del mistero. ‘In
te’, non è più solo rivolto al Figlio nella sua divinità, ma al Figlio, Dio
fatto uomo. In quel Figlio, Dio-uomo, l’Amore del Padre è perfetto perché in
lui si può contemplare tutta l’estensione e la profondità di quell’Amore che
realizza compiutamente il suo sogno sulla creazione e sull’umanità.
Chiamare
Gesù ‘il Figlio mio’ non esprime solo la qualità di essere di Gesù per cui Dio,
oramai, è il Padre di Gesù, ma anche la sottolineatura che il Figlio agisce e
si comporta come Dio, il Padre. La dedizione di Gesù in favore degli uomini,
per cui il battesimo è simbolo della morte volontariamente accettata, come
riporta il canto al vangelo: “Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il
peccato del mondo”, è la rivelazione dell’amore di Dio per l’umanità. Il Padre
rivela che il suo atteggiamento verso gli uomini è lo stesso manifestato da
Gesù. In Gesù possiamo vedere chi è Dio. Tutto il vangelo sarà lì a mostrarlo,
nelle parole come nelle azioni di Gesù.
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Quinto ciclo
Anno liturgico B (2014-2015)
Tempo Ordinario
II
Domenica
(18 gennaio 2015)
___________________________________________________
1Sam
3,3b-10.19; Sal 39; 1Cor 6,13c-15a.17-20; Gv 1,35-42
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La liturgia
del tempo ordinario, in tutti e tre i cicli, comporta la lettura dei sinottici,
ma l’inizio è sempre riservato a brani del capitolo primo di Giovanni con il
riconoscimento di Gesù da parte del Battista al Giordano, la scoperta del
Messia da parte dei discepoli e la manifestazione di Gesù a Cana. Tutti i testi
evangelici che si leggeranno nell’anno non faranno che dare storia a quella rivelazione degli inizi perché chiunque
ascolti si ritrovi nella stessa dinamica vissuta dai discepoli.
Oggi viene
letto il brano della scoperta del
Messia da parte di Andrea e dell’altro discepolo, non nominato, che da sempre è
stato riconosciuto in Giovanni, autore del vangelo. In effetti, si tratta di
ricordi personali dell’evangelista a proposito di un’esperienza che l’ha
segnato per tutta la vita, come quando uno si innamora per davvero. Giovanni
racconta l’incontro che l’ha trasformato completamente, con una precisione di
particolari che sono direttamente proporzionali all’intensità dell’esperienza.
Se, all’inizio del suo vangelo, Giovanni dichiara: “e noi abbiamo contemplato la sua gloria” (Gv 1,14), ebbene, ha
cominciato a essere afferrato da quella gloria proprio in quel giorno, alle
quattro del pomeriggio, quando, su invito del suo maestro, il Battista, va da
Gesù con Andrea.
La domanda
che rivolgono a Gesù: “Rabbì, dove
dimori?” attraversa tutto il racconto del vangelo per concludersi con
l’affermazione/risposta di Gesù all’ultima cena: “rimanete nel mio amore” (cfr Gv 15). In greco viene usato lo stesso
verbo. É come se Gesù, ancora rispondendo alla domanda iniziale dei suoi
discepoli: “dove dimori?”, alla fine
dicesse: siete venuti da me, avete visto che dimoro nell’amore del Padre per
voi e così voi, ora, dimorate in questo stesso amore. É a questa esperienza che
Giovanni allude quando annota: “andarono
dunque e videro dove egli dimorava”. Il racconto ha il sapore di un’intera
vita; ha la potenza, non di un ricordo, ma di una radice, di un principio, di
una fonte che continua a sgorgare e che ha sconvolto tutta la sua vita. La
carica emotiva di quella scoperta, infatti, è rivelata in tutta la sua forza
nell’ultima cena allorquando Gesù, con il paragone della vite e dei tralci,
innesta i suoi discepoli nel segreto del Padre, coinvolti nella stessa intimità
sua con il Padre. In quel contesto Gesù non chiamerà più servi i suoi
discepoli, ma amici, partecipi dei suoi segreti. Sarà l’esito della sequela di
Gesù, come dell’ascolto, attento e orante, della Parola.
Le
condizioni che permettono al cuore di condividere quei segreti sono indicate
dalla prima lettura e dal salmo responsoriale. La prontezza di Samuele a
rispondere rivela la libertà di cuore nell’obbedienza, che è la porta di
accesso alla visione. Dio non si sottrae mai alla mediazione umana: Giovanni
Battista media per Giovanni ed Andrea, Eli per Samuele. Accogliere il mistero
di questa mediazione significa custodire una libertà e una purità di cuore nei
confronti di Dio. Detto con le parole del salmo 39 : non vengo a fare una certa
cosa, di cui ho ascoltato l’invito e che condivido, ma vengo perché sono con te
e poi farò quello che mi si chiederà. É l’apertura di cuore che conta, non la
disponibilità a un certo progetto. Il brano però fa intravedere la drammaticità
che comporta l’apertura di cuore. La prima rivelazione che il giovane Samuele
riceve riguarda la condanna della casa di Eli, suo maestro e padre nella fede.
Non vorrebbe rivelarla ma non è nemmeno disposto a mentire. La prontezza di
obbedienza che gli ha ottenuto la visita di Dio gli ottiene anche la sincerità
con Eli e la pace del cuore, nella totale fiducia in Dio.
Quando la
colletta prega: “O Dio … fa’ che non lasciamo cadere a vuoto nessuna tua
parola” sull’esempio del giovane Samuele, non si riferisce in generale alle
parole che ascoltiamo quotidianamente leggendo le Scritture, ma a quelle parole
che parlano al nostro cuore, capaci di imprimere una direzione alla nostra
vita, fonte di lotta e di gioia per la nostra vita, dandoci orizzonti di senso
e di esperienza significativi. Proprio quello che il salmo commenta, in
riferimento al Messia: “Nel rotolo del
libro su di me è scritto di fare la tua volontà: mio Dio, questo io desidero;
la tua legge è nel mio intimo” (Sal 39,8-9). Quando Gesù, invitandoci a
rimanere in lui, a dimorare in lui, ci associa alla sua esperienza nel fare la
volontà del Padre, vuole indurci a vivere la vita in modo da mostrare quanto è
grande l’amore di Dio per i suoi figli. Avere la sua legge nell’intimo
significa preferire la comunione con i suoi figli a qualsiasi altra cosa. Ed è
quello che la liturgia eucaristica vuole ottenere quando ci fa invocare lo
Spirito Santo dopo la consacrazione: formare un cuor solo e un’anima sola.
Stessa cosa che viene chiesta con la preghiera dopo la comunione: “Infondi in noi,
o Padre, lo Spirito del tuo amore, perché nutriti con l’unico pane di vita
formiamo un cuor solo e un’anima sola”.
Per i
discepoli di Gesù, seguire il Signore significa andare con il Signore,
semplicemente stando con lui, in tutte le vicende della vita. Seguire Gesù
comporta il desiderio di vivere con lui e come lui, così come Gesù stesso
dichiarerà poco prima di subire la passione: “Padre, voglio che quelli che mi hai dato siano anch’essi con me dove
sono io, perché contemplino la mia gloria” (Gv 17,24). Essere dove è lui
significa rimanere ad ogni costo nell’amore del Padre per noi perché tutti sono
invitati alla stessa mensa. Quando Gesù sceglierà i dodici, secondo il racconto
di Mc 3,14, la motivazione sarà: “perché
stessero con lui e per mandarli a predicare”. Sarà lo stare con Gesù che permetterà di vedere la sua gloria, vale a dire
lo splendore dell’amore che Dio riversa sugli uomini. E non è senza ragione che
i discepoli sono presentati in coppia: Gesù non sarà maestro di individui
isolati, ma costituirà una nuova comunità. Non si potrà conoscere Gesù che a
partire da una fraternità condivisa perché il suo compito è proprio quello di “riunire insieme i figli di Dio che erano
dispersi” (Gv 11,53).
Così,
dall’esperienza del vivere con Gesù
scaturisce immediatamente il desiderio di aprire la stessa possibilità ad altri
che con noi condividono la ricerca della vita. Quando Andrea comunica a suo
fratello Simon Pietro la scoperta: “Abbiamo
trovato il Messia”, è come se dicesse: quello che i nostri cuori desiderano,
quello che abbiamo sempre sognato, che abbiamo aspettato, è proprio lui; vieni
anche tu! É l’inizio dell’apostolato: trasmettere a qualcuno il fascino della
gloria del Signore e fare in modo che questo stesso fascino e questa stessa
gloria risplendano anche per lui.
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Quinto ciclo
Anno liturgico B (2014-2015)
Tempo Ordinario
III
Domenica
(25 gennaio 2015)
___________________________________________________
Gio
3,1-5.10; Sal 24; 1Cor 7,29-31;
Mc 1,14-20
___________________________________________________
L’annuncio
di Gesù ruota attorno a tre elementi: la percezione di un certo tempo, la
sensazione di una prossimità, la reazione che provoca, cioè la conversione. Nel
vangelo di Matteo le parole con le quali Gesù si presenta nella sua
predicazione in Galilea ricalcano le parole di Giovanni Battista: “convertitevi, perché il regno dei cieli è
vicino” (Mt 3,2, per Giovanni Battista; Mt 4,17, per Gesù). E Gesù si
decide a predicare dopo l’arresto di Giovanni Battista. Marco riprende la
circostanza, cioè che Gesù comincia a predicare in Galilea dopo l’arresto del
Battista, e presenta la sua predicazione con le parole: “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete
al Vangelo” (Mc 1,15).
Come
intendere il fatto che ‘il tempo è compiuto’? Non significa solo che ormai i
tempi dell’attesa sono compiuti e quello che Dio aveva promesso ora lo
realizza. Allude anche a qualcos’altro, che ha a che fare con l’esperienza che
la sua predicazione ha suscitato. Nella sua lettera ai Corinzi Paolo parla di
un tempo breve: “il tempo si è fatto
breve” (1Cor 7,29). L’espressione è ripresa dal gergo marinaresco quando i
marinai imbrogliano le vele chiudendole rapidamente per sottrarle all’azione
del vento mediante la manovra dei cavi che si chiamano imbrogli. Non si tratta
di guardare al passato ma al futuro. Non si tratta di cogliere il fatto che le
attese sono compiute, ma che le uniche possibilità di vita sono l’accoglimento
del tempo di Dio che entra nel nostro presente, dell’eterno che entra nel
temporale, del compimento che si fa accessibile. E noi potremmo spiegare: è
tale la gioia dell’amore salvatore di Dio, sperimentato in Gesù, che tutto il
resto passa in secondo piano. Tutto in questo nostro mondo e in questa nostra storia
ha valore, ma tutto va vissuto nell’ottica di quella verità, percepita come la
grazia lungamente attesa e finalmente godibile. La nostra cronaca, quello che
facciamo e ci succede, prende senso dalla storia di Dio che ci investe
alimentando le radici di vita. Il tempo breve è allora il tempo compiuto. Non
esiste allora nessun tempo della nostra vita che non possa essere raggiunto
dalla rivelazione dell’amore di Dio.
Gesù non
prosegue semplicemente l’opera del Battista: il Battista esorta, mentre Gesù mostra,
ecco la differenza. Il Battista presagiva la presenza del Regno e predispone a
riceverlo; Gesù ne fa vedere la prossimità, la presenza, ne svela la potenza da
parte di Dio che viene in soccorso degli uomini. Con Gesù la conversione, che
costituisce la reazione alla percezione della prossimità del Regno in Gesù,
comporta il lasciarsi invadere dalla fiducia nella promessa di Dio che in lui
si compie per noi. Credere al vangelo comporta il ritenere Dio sufficientemente
potente per compiere, in Gesù, la sua promessa per noi, capace quindi di
soddisfare gli aneliti del nostro cuore. Tutto questo dobbiamo imparare a
percepire nell’annuncio di Gesù.
Il brano di
Giona illustra splendidamente che l’annuncio di Gesù riguarda tutti, ebrei e
gentili, ironizzando sull’ira del profeta che, conoscendo la natura
misericordiosa di Dio, non vuole sia condivisa dai pagani. Il profeta, che sa
come Dio sia “un Dio misericordioso e
pietoso, lento all’ira, di grande amore”, secondo la rivelazione a Mosè sul
Sinai, testimonia controvoglia che le premure di Dio sono estese a tutti,
pagani compresi. La conversione degli
uomini resta fondata sulla natura compassionevole di Dio. E quando il salmo
responsoriale fa pregare: “Fammi
conoscere, Signore, le tue vie”, non si riferisce prima di tutto alle vie
che l’uomo deve percorrere per piacere a Dio, ma alla via di Dio che mostra
compassione, intendendo: fa’, o Signore, che sia toccato dalla tua compassione,
possa ritornare a sentire il tuo amore diventando solidale con tutti i miei fratelli,
perché a tutti si rivolge la tua compassione.
Il
convertirsi comporta essenzialmente il fidarsi del dono di Dio che è Gesù per
noi e si traduce essenzialmente nella sequela di Gesù. Quello, appunto, che
Marco sottolinea con la chiamata dei discepoli, figura di ogni vocazione al
seguito di Gesù. Seguire il Signore fidandosi della sua promessa e lasciandosi
alle spalle tutto il resto è una grande avventura che una vita intera non basta
ad esaurire. Lo è stato per Pietro ed Andrea, per Giacomo e Giovanni, per gli
apostoli, per i discepoli, come lo è per tutti i credenti in Cristo, di tutti i
tempi.
Del resto è
assai caratteristico che nel vangelo la conversione sia espressa dall’immagine
del seguire Gesù. A dire il vero, spesso il testo evangelico non parla di seguire, ma più direttamente di andare dietro, di stare dietro, di mettersi
dietro a Gesù. In questo, si può ancora ascoltare l’eco delle parole di Dio
a Mosè: mi si può vedere solo di spalle (cfr Es 33,20). Quando Pietro,
spaventato della predizione della passione da parte di Gesù, cercherà di
distoglierlo da quella strada, si sentirà dire: stai dietro, poniti dietro, non
volere starmi davanti! (cf. Mc 8,33-34). Alla fine del vangelo di Giovanni,
dopo che Gesù gli ha predetto che avrebbe sofferto il martirio per lui, Pietro
si sente ancora dire: vienimi dietro. In quel venire dietro a, in quel camminare
dietro a sta il godimento della promessa di Dio che ha raggiunto l’uomo.
Non sta tanto lo sforzo di seguire il Signore, ma la percezione di una rivelazione
che si dispiega al cuore dell’uomo. A quella percezione tende la conversione,
se vogliamo che si traduca in speranza di vita, come ci indica la preghiera
dopo la comunione: “fa che ci rallegriamo sempre del tuo dono, sorgente
inesauribile di vita nuova”. Nuova, non nel senso di cambiata, ma pescante in
quella novità di vita che ci viene dal Signore Gesù, che ci ha fatto conoscere
l’amore di Dio per i suoi figli.
Se il
compito degli apostoli sarà quello di annunciare al mondo il vangelo di Dio,
dire di Gesù che annuncia il vangelo di Dio significa voler collocare i
discepoli nella continuità con Gesù. Così, cantare con il salmo responsoriale:
“Fammi conoscere, Signore, le tue vie”,
significa prima di tutto domandare che anche al nostro cuore si sveli la
possibilità di conoscere l’amore salvatore di Dio in Gesù; significa domandare
di cogliere la rivelazione di Gesù e indurci a seguirlo come gli apostoli in
modo da godere della potenza di salvezza del suo vangelo, potenza che non
concerne soltanto noi, ma tutto il mondo. Gli apostoli non sono stati chiamati
semplicemente alla sequela di Gesù, ma alla sequela di Gesù che è inviato a
portare a tutti la salvezza e la consolazione. Sarebbe questo il senso di: vi farò pescatori di uomini. Per gli
apostoli come per noi, seguire Gesù dice soprattutto l’intimità di vita con lui
che ci ha conquistati, intimità così incontenibile che non può ripiegarsi su se
stessa ma continuamente si traduce in condivisione della misericordia di Dio
per l'umanità.
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Quinto ciclo
Anno liturgico B (2014-2015)
Tempo Ordinario
IV
Domenica
(1° febbraio 2015)
___________________________________________________
Dt
18,15-20; Sal 94; 1Cor 7,32-35;
Mc 1,21-28
___________________________________________________
La colletta
della liturgia di oggi ci fa chiedere una cosa assolutamente straordinaria.
Dopo averci condotto a riconoscere che Gesù è il Maestro che ci introduce nei
segreti di Dio e il Liberatore dal male che ci insidia e opprime, fa pregare:
“O Dio …. rendici forti … perché testimoniamo la beatitudine di coloro che a te
si affidano”. Dà per avvenuta l’esperienza della gioia invincibile che deriva
dalla fede nel Signore Gesù. Possiamo noi pregare in sincerità in questo modo?
Da questa
prospettiva possiamo leggere oggi i testi della liturgia. Lo sguardo si fissa
su di un unico punto: Gesù parla e agisce come uno che ha autorità, che ha
potere. Potere di che cosa, per che cosa? Chi è Gesù? Come rapportarci a lui?
Sono le domande di chi assiste all’episodio della cacciata dei demoni nella
sinagoga di Cafarnao. I contemporanei di Gesù avevano a disposizione le
Scritture per farsi un’idea di quel personaggio straordinario, affascinante e
temuto nello stesso tempo. Dallo stupore iniziale si arriva al timore finale.
La prima
lettura riporta la promessa di Mosè al popolo da parte di Dio: “Il Signore, tuo Dio, susciterà per te, in
mezzo a te, tra i tuoi fratelli, un profeta pari a me. A lui darete ascolto”
(Dt 18,15). Mosè parla al popolo che si accinge a entrare in quella terra
promessa che a lui è negata e assicura la guida di Dio al suo popolo, come è
stato con lui nel viaggio attraverso il deserto. Il giudaismo posteriore ha
scorto in questa solenne promessa di Mosè l’annuncio di un profeta eccezionale,
a volte identificato con il Messia, tradizione che riaffiora nei rappresentanti
delle supreme autorità giudaiche quando chiedono a Giovanni Battista: “Sei tu il profeta?” (Gv 1,21). Forse
possiamo scorgere la stessa allusione nelle parole di Filippo a Natanaele: “Abbiamo trovato colui del quale hanno
scritto Mosè, nella Legge e i Profeti: Gesù, il figlio di Giuseppe, di Nazaret”
(Gv 1,45).
Ora, a
differenza degli altri profeti, la Torà di Mosè dà questa testimonianza: «Ascoltate le mie parole! Se ci sarà un
vostro profeta, io, il Signore, in visione a lui mi rivelerò, in sogno parlerò
con lui. Non così per il mio servo Mosè: egli è l’uomo di fiducia in tutta la
mia casa. Bocca a bocca parlo con lui, in visione e non per enigmi, ed egli
contempla l’immagine del Signore» (Nm 12,6-7). Tanto che il libro del
Deuteronomio finisce con l’annotazione: “Non
è più sorto in Israele un profeta come Mosè, che il Signore conosceva faccia a
faccia” (Dt 34,10).
Ecco perché,
quando Marco deve presentare Gesù, questo nuovo profeta, si ricollega alla
figura di Mosè. Non per nulla i vangeli iniziano al Giordano, collegandosi
idealmente alla fine del libro del Deuteronomio e all’inizio del libro di
Giosuè. Di Gesù il vangelo di Giovanni dirà: “Perché la Legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità
vennero per mezzo di Gesù Cristo. Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio
unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato” (Gv
1,17-18). La prima predicazione cristiana si muove nella stessa scia (cfr At
3,12).
L’annotazione
di Marco: “insegnava come uno che ha
autorità” tende a definire la singolarità di Gesù con negli orecchi l’eco
della ingiunzione di Mosè: “A lui darete
ascolto”. Non solo i fedeli gli daranno ascolto, ma anche i demoni! E se
gli danno ascolto anche i demoni, allora il regno di Dio è venuto, è in mezzo a
noi. Gli astanti nella sinagoga di Cafarnao ancora non lo sanno, ma i lettori
del vangelo già lo sanno. Perché Gesù ha questa autorità? Perché è il Figlio di
Dio, come è stato testimoniato al battesimo al Giordano e sul monte della
trasfigurazione.
“A lui darete ascolto” sembra anche che
riecheggi nella voce che sigilla la visione della trasfigurazione di Gesù sul
Tabor: “Questi è il Figlio mio, l’amato:
ascoltatelo!” (Mc 9,7). Marco sembra alludere proprio a quel testo del
Deuteronomio e comunque la sottolineatura nel brano odierno di un Gesù che
‘parla con autorità’ e ‘ha potere sui demoni’ si rivela nella sua ragione
specifica e nella sua potenza se la colleghiamo a quella rivelazione. É tipicamente l’autorità non di chi parla a
nome proprio, per quanto grande sia, ma l’autorità di chi ha tutto il potere e
la capacità di svelare il volto di Dio, di rivelare i segreti di Dio. E chi
conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare?
(cf. Lc 10,22). Ha anche potere sui demoni nel senso di sottrarre alla loro
influenza gli uomini e di rimetterli nella luce di Dio. In questo si rivela il
suo potere di guarigione, che porterà alla rivelazione del suo potere di
rimettere i peccati, cosa che svelerà definitivamente, in lui, come Dio si sia
appressato all’uomo. È la novità che
suscita stupore, sbalordimento, esultanza, perché il male è vinto e l’uomo
ritorna nella signoria di Dio che vuole gli uomini commensali al suo amore e
alla sua gioia. Qui pesca l’invocazione della colletta di testimoniare la
beatitudine per chi ha accolto la testimonianza di questo Profeta.
Così,
presentare Gesù come profeta, il cui insegnamento è nuovo, diverso rispetto a quello degli scribi, porta allusione al mistero
dell’intimità tra lui e il Padre. Gesù introduce poco a poco i suoi ascoltatori
a questo segreto, nel quale tutta la Scrittura si riassume. Ascoltare le parole
di quel profeta significa intuire e percepire quel segreto di intimità con il
Padre che tanto ama il mondo da mandare il suo Figlio, tanto che in ogni parola
da lui pronunciata, in ogni azione da lui compiuta, si apre l’accesso anche per
noi all’intimità da lui goduta. Dire poi che Gesù ha il potere di guarirci, di
scacciare dal nostro cuore i demoni, equivale a illustrare il mistero
dell’accondiscendenza di Dio per gli uomini da farli partecipi dei suoi
segreti, da condividere con loro la gioia del suo amore sempre e comunque.
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Quinto ciclo
Anno liturgico B (2014-2015)
Tempo Ordinario
V
Domenica
(8 febbraio 2015)
___________________________________________________
Gb
7,1-4. 6-7; Sal 146; 1Cor 9,16-19.22-23; Mc 1,29-39
___________________________________________________
La liturgia proclama il brano di
vangelo di oggi da un’angolatura particolare. Considerando la figura di Gesù
che guarisce e scaccia i demoni, ne vuole mostrare la radice di autorità con il
canto al vangelo, l’urgenza dell’opera con il brano di Giobbe e scava nei cuori
lo spazio adatto alla supplica con la colletta. Se il potere del male atterra
gli uomini, il potere di Gesù atterra il male e rende gli uomini liberi in
solidarietà con lui e fra di loro.
Il canto al vangelo “Cristo ha preso
le nostre infermità e si è caricato delle nostre malattie” è ripreso da Mt 8,17
e costituisce la traduzione letterale dall’ebraico di Is 53,4, passo che
appartiene al quarto canto del Servo. Matteo fa una rilettura dell’operato di
Gesù a partire da una theologia crucis e fonda l’autorità di Gesù nello
scacciare i demoni proprio sulla vittoria contro di loro sulla croce.
Introdurre il brano di Marco con questa rivelazione profetica significa
sottolineare da dove viene la potenza di Gesù, significa invitare a leggere la
sua opera, i suoi miracoli, in funzione di quella rivelazione. Dietro l’agire
di Gesù, sta un segreto da cogliere. Il miracolo delle guarigioni e la cacciata
dei demoni non sottolineano tanto il potere divino di Gesù, ma
l’accondiscendenza di Dio, la prossimità di Dio in Gesù all’uomo. E questa
dimostrazione è in funzione dello svelamento del segreto di Dio per l’uomo,
della rivelazione del suo immenso amore al mondo tramite il Figlio, che ci
riporta alla comunione con lui strappandoci dal male.
L’urgenza di questa rivelazione è
accentuata dal fatto che l’uomo versa in condizioni di oppressione e di
angoscia, di cui il brano di Giobbe mostra tutta la drammaticità. Giobbe non ha
accettato la devota spiegazione del dolore che i suoi amici gli hanno dato
prendendo le difese di Dio. Giobbe protesta la sua innocenza e si sfoga con il
suo Dio. Potremmo riassumere il suo intervento così: non si può comprendere la
vita dell’uomo a partire da leggi supreme, ma solo da dentro un rapporto. Non è
vero che il tormento dell’uomo rispecchi la giustizia di Dio, come sostengono i
suoi amici, ricusati però da Dio stesso alla fine del libro; è vero invece che
la giustizia di Dio rimane imperscrutabile ma che lui è accessibile all’uomo e
suo salvatore.
Nel dramma, la cosa non è affatto
scontata e proprio per rispondere all’angoscia dell’uomo viene descritta
l’ansia di Gesù di raggiungere tutti, particolare che imprime una forte
accelerazione di movimento a ciò che viene raccontato nel vangelo di oggi. Si
tratta di un doppio movimento: una tensione verso tutti, ma anche una tensione per
arrivare a Gerusalemme; una tensione per l’allargamento della sua predicazione,
ma contemporaneamente la tensione per lo svelamento del suo segreto. In
quell’ansia di Gesù, nel suo doppio significato di raggiungere tutti e che
tutto il suo segreto si sveli, sta racchiusa l’urgenza della missione della
chiesa in tutti i tempi.
Marco sottolinea anche la ricerca di
solitudine da parte di Gesù ed è caratteristico che l’evangelista collochi la
preghiera di Gesù in rapporto alla sua ansia di raggiungere tutti e di svelare
tutto il suo segreto. La preghiera non ha forse a che fare con il desiderio di
comunione con gli uomini da parte di Dio prima ancora che essere espressione
del desiderio degli uomini di stare in compagnia di Dio? Se gli uomini non
percepissero l’eco di quel desiderio di Dio, potrebbero mai pregare davvero?
Potrebbero mai essere solidali con i loro fratelli e farsi raggiungere dal Suo
amore tanto da essere rinnovati totalmente? Il fatto poi che Gesù si ritiri da
solo a pregare esprime proprio l’immensità del desiderio di Dio per l'uomo e
quando i discepoli gli annunciano che lo cercano, non torna ma va altrove
perché tutti deve raggiungere. E si può leggere anche così: Gesù deve
percorrere tutta la terra del nostro cuore; se in qualche parte siamo stati
guariti, altre parti attendono la guarigione, fino a che tutto in noi possa
risplendere del suo amore salvatore.
La colletta mostra che in Gesù Dio
si appressa all’uomo, gli uomini sono liberati dalle loro oppressioni e
imparano a vivere solidali, abitati dalla speranza: “ ... rendici puri e forti
nelle prove, perché sull'esempio di Cristo impariamo a condividere con i
fratelli il mistero del dolore, illuminati dalla speranza che ci salva”. La
potenza della supplica deriva dall’intensità della coscienza del male che ci
ferisce insieme al desiderio di guarigione che ci attrae al Signore Gesù,
solidali in umanità con tutti. La preghiera si risolve nel desiderio di
sperimentare l’amore salvatore di Dio, non però nel senso di essere preservati
dagli effetti dell’azione dei demoni (il male non scompare e non scomparirà
dalla scena del mondo) ma nel senso di non essere più asserviti ai loro scopi
perversi. A tal punto che, proprio quando il male sembrerà prevalere, come con
il Signore Gesù in croce, esso sarà definitivamente vinto perché svuotato del
suo scopo perverso, cioè quello di dividere gli uomini da Dio e tra di loro.
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Quinto ciclo
Anno liturgico B (2014-2015)
Tempo Ordinario
VI
Domenica
(15 febbraio 2015)
___________________________________________________
Lv
13,1-2.45-46; Sal 31; 1Cor 10,31-11,1; Mc 1,40-45
___________________________________________________
I testi biblici parlano di lebbra,
le preghiere di peccato. Questa è la corrispondenza da cogliere, intuendo la
natura del peccato nell’orrore della lebbra.
E la corrispondenza risalta a partire dalla compassione di Gesù che
rinnova lo scenario interiore in cui vivere la vita.
Il lebbroso aveva un terribile
statuto particolare. Dice il libro del Levitico: “Il lebbroso colpito da piaghe porterà vesti strappate e il capo
scoperto; velato fino al labbro superiore, andrà gridando: ‘Impuro! Impuro!
Sarà impuro finché durerà in lui il male; è impuro, se ne starà solo, abiterà
fuori dell’accampamento” (Lev 13,45-46). Davanti al lebbroso che si fa
avanti e si presenta a Gesù contravvenendo alla legge, antichi codici riportano
la lezione: ‘sdegnato’, invece che la lezione ‘ne ebbe compassione’. Nel caso
del lebbroso, la sua malattia comportava direttamente una impurità tanto da venir separato dalla comunità. Oltre il peso
sociale dell’esclusione, la lebbra comportava l’esclusione dal culto,
dall’accesso alla santità di Dio che la Legge definiva in termini di
partecipazione alla vita del popolo santo di Dio e al culto del vero Dio.
Quando Gesù guarisce il lebbroso, non guarisce semplicemente un malato, ma
modifica radicalmente la condizione interiore del malato restituendolo ad una
vita santa. Proprio qui si mostra il prodigio che Gesù opera, che va ben al di
là di quella guarigione.
La vita santa, quella in rapporto
alla santità di Dio goduto nel suo desiderio di comunione con noi, non è più
definita secondo i termini della legge. La discriminante tra santo e non santo
si sposta e i confini sono radicalmente cambiati perché Dio si è fatto prossimo
a noi nella sua compassione. Il nesso guarigione/purificazione, da leggere in
rapporto alla beatitudine: “beati i puri
di cuore perché vedranno Dio”, acquista
la luminosità della tenerezza di Dio che libera e ci rende capaci a
nostra volta di tenerezza luminosa per l’uomo.
Nel racconto parallelo di Matteo,
Gesù guarisce il lebbroso subito dopo la discesa dal monte delle beatitudini,
dove con forza aveva proclamato il suo Regno. E le beatitudini sono la
rivelazione della fraternità in Dio, quando veniamo guidati dallo Spirito
Santo. Guarire dalla lebbra vuol dire allora ricevere la rivelazione che è
giunto a noi il regno di Dio, vuol dire che possiamo tornare a non avere paura
di Dio e del prossimo, vuol dire ritornare a vivere in umiltà e mitezza, in
libertà e gratuità, toccati da Dio.
In quel ‘Lo voglio’ proferito da
Gesù non è da leggere soltanto la compassione del Signore per un uomo malato e
angosciato, ma l’ansia di riportare il regno di Dio nel cuore dell’uomo, la
fretta e l’ardore di mostrare come l’amore di Dio che raggiunge i cuori fa
risplendere in modo nuovo l’umanità che li sostanziano. È come se dicesse:
‘ardo dal desiderio di mostrarvi quanto è grande l’amore del Padre’, ‘bramo che
il suo amore vi raggiunga’, ‘voglio che la vostra umanità risplenda di tutta la
sua luce’. Nel suo volere va letto il desiderio di compiere il disegno del
Padre, di riscattare gli uomini non dalle malattie, ma dal peccato, di cui la
malattia della lebbra era il segno per eccellenza. Tanto che quando il Signore
Gesù si presenta, nella sua Passione, come uomo dei dolori, sono le parole del
profeta a risuonare, accorate ma tremende: “Non
ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per
poterci piacere. Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben
conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia ...” (Is
53,2-3). Sono le parole confacenti a un lebbroso. Il Signore si è addossato i
nostri mali da portarne tutto l'orrore, come un lebbroso.
La colletta ci fa pregare:
"Risanaci, o Padre, dal peccato che ci divide e dalle discriminazioni che
ci avviliscono". Dividere e avvilire sono le due caratteristiche della
malattia della lebbra. Chi ne era affetto era allontanato dal consorzio degli
uomini perché impuro, capace cioè di contagiare col suo male. I peccati nostri
hanno lo stesso destino: insidiano la fraternità, irrigidiscono i rapporti,
contaminano il cuore da renderlo inaccessibile al cuore degli altri, separano
ed opprimono, impediscono al Volto di Dio di risplendere. Per questo il peccato
è orribile: rende la vita paurosa e
temibile. Così la purità, con Gesù, viene definita come spazio luminoso, spazio
che torna a risplendere (=guarigione) per rapporti fraterni pacifici, dove il
Padre è visto nel suo amore per noi. Ad occupare l’atmosfera del cuore non c’è
più l’immondezza dei demoni, ma lo splendore del Figlio di Dio che permette
all’umanità di compiersi finalmente e glorificare così il Padre.
Quando il lebbroso guarito,
nonostante l’invito contrario di Gesù, non riesce a frenare il bisogno di
annunciare a tutti la sua guarigione, il testo annota: “si mise a proclamare e a divulgare il fatto”. In realtà però il
testo dice semplicemente: “si mise a
proclamare e a divulgare la parola”. È la parola di Gesù diventata per lui
fatto. Non si annunciano semplicemente parole, ma fatti che rivelano la potenza
della parola. Quello che parla ai cuori sarà sempre la Parola, capace di
operare in chi ascolta le stesse cose meravigliose di cui porta testimonianza
chi annuncia.
Per questo la preghiera
caratteristica della liturgia di oggi è il salmo 32: “Beato l'uomo a cui è tolta la colpa e coperto il peccato. Beato l’uomo
a cui Dio non imputa il delitto e nel cui spirito non è inganno ... Confesserò
al Signore le mie iniquità e tu hai tolto la mia colpa e il mio peccato”.
L’audacia del lebbroso che, contravvenendo alla legge, si avvicina a Gesù,
corrisponde nel salmo all’audacia del peccatore che decide di manifestare il
suo peccato. La compassione di Gesù che ottiene la guarigione/purificazione del
lebbroso corrisponde alla misericordia perdonante di Dio che fa la beatitudine
del peccatore, il quale ritrova la gioia dell’alleanza con il suo Signore. E i
Padri commentano: “Brevissima è la regola: piace a Dio colui cui piace Dio”
(Agostino); “Lui che si dispiace di se stesso soddisfa il Signore poiché quando
noi ci scontriamo con noi stessi cerchiamo la verità, ma quando noi cerchiamo
di lodare noi stessi le nostre parole sono piene di falsità” (Cassiodoro); “Una
persona retta accusa se stessa sin dall’inizio del suo discorso” (Evagrio
Pontico). Senza dimenticare che, se l’uomo arriva a manifestare il suo peccato,
è perché la misericordia di Dio già ha lavorato il suo cuore, che è pronto a
tornare luminoso.
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Quinto ciclo
Anno liturgico B (2014-2015)
Tempo di Quaresima
I
Domenica
(22 febbraio 2015)
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Gn
9,8-15; Sal 24; 1Pt 3,18-22;
Mc 1,12-15
_________________________________________________
La colletta del mercoledì delle
ceneri riconduceva la disciplina penitenziale quaresimale al processo di una
vera conversione del cuore: “O Dio, nostro Padre, concedi al popolo cristiano
di iniziare con questo digiuno un cammino di vera conversione”. L’antica colletta
della prima domenica di quaresima orienta gli sguardi per poter ottenere quella
conversione: “O Dio, nostro Padre, con la celebrazione di questa quaresima,
segno sacramentale della nostra conversione, concedi a noi tuoi fedeli di
crescere nella conoscenza del mistero di Cristo e di testimoniarlo con una
degna condotta di vita”. Fin dall’inizio del cammino, tutto è orientato a quel
Signore Gesù, che per noi ‘patì, morì, fu sepolto, risuscitò, rendendoci il suo
Spirito’.
Subito la liturgia pone davanti agli
occhi il brano delle tentazioni di Gesù nel deserto, come a sottolineare
l’aspetto drammatico della vita in Dio. Tanto più se consideriamo che il brano
delle tentazioni, assai sintetico in Marco, più narrativo in Matteo e Luca, è
strettamente collegato al battesimo di Gesù. È come se la ragione della
tentazione fosse fatta consistere nella verifica esistenziale
dell’affermazione: “Tu sei il Figlio mio,
l’amato; in te ho posto il mio compiacimento” (Mc 1,11) che era risuonata
al Giordano. Noi facciamo fatica a leggere le tentazioni e le prove della
nostra vita in un’ottica positiva, nell’ottica dello Spirito. In effetti, la
tentazione non deriva primariamente dal peccato, come fosse una semplice
eredità del peccato. Se così fosse, Gesù non sarebbe stato tentato perché non
aveva peccato; Adamo non sarebbe stato tentato perché godeva della comunione
con Dio. La tentazione ha a che fare con la capacità di vivere una relazione
fino in fondo, fino a farla maturare in tutta la potenzialità di amore e di
gioia che comporta, fino a condividere quell’amore e quella gioia con tutti,
nonostante la fatica e l’afflizione che costituiscono come lo sfondo dal quale
emerge appunto lo splendore dell’amore.
Rispetto a Gesù, le tentazioni sono
tese a confermarlo dalla parte di Dio anche nella scelta delle modalità con cui
rivelare la potente salvezza divina, senza cedere ad alcun altro tipo di
gloria, umana o mondana, che l'avrebbe asservito al diavolo. Gesù, come Messia,
serve Dio senza che in lui si possa trovare qualcosa che appartenga a questo
mondo. Ha vinto il mondo perché il demonio non ha trovato in lui nulla che gli
appartenesse (cfr. Gv 14,30). La vita sua, quindi, che sgorgava totalmente dal
Padre, la ridà a noi con il suo Spirito perché anche la nostra vita, non custodendo
più pegni del demonio, possa manifestare l’amore di Dio al mondo.
E quando alla fine Marco sottolinea
che Gesù "stava con le bestie
selvatiche e gli angeli lo servivano", possiamo leggervi l’allusione
al paradiso ritrovato, come descritto da Gen 1,28 e profeticamente
preannunciato da Is 11,6-9. Richiama tutta la tensione quaresimale della
chiesa, consapevole che quel paradiso sarà accessibile a partire dalla gloria
che risplende dalla croce. In quella tensione trovano posto tutte le pratiche
tipiche della quaresima: preghiera, digiuno, elemosina.
Pratiche, che Gesù aveva esortato a
fare non davanti agli uomini, ma nel segreto, per ricercare solo la ricompensa
presso il Padre (cfr. Mt 6,1-6.16-18). Come ci dicesse: non temete, non avete
bisogno di tirare dalla vostra parte il Signore, perché non ci si può fare
grandi in nome suo. Lui è già tutto dalla vostra parte e se voi vi accorgete
del suo amore per voi, se voi vi lasciate inondare dal suo dinamismo di amore
per voi, il vostro cuore si sazierà e non potrà ricercare e condividere
nient’altro che quella sazietà. Se vogliamo farci grandi è perché tutto è visto
in funzione di noi stessi, divoratori di un mondo in cui cerchiamo
affannosamente l’affermazione di noi stessi senza accorgerci che divorando il mondo
produciamo, per noi e gli altri, solo angoscia di morte. Se l’esperienza
dell’amore è così affascinante ma contemporaneamente drammatica è perché
intuiamo che l’amore costituisce la risposta al bisogno di affermazione di sé,
ma che viverlo in verità comporta la rinuncia più totale a quel dinamismo
perverso dell’affermazione di sé incondizionata. L’invito alla conversione del
cammino quaresimale si colloca qui.
Per quanto tutto ciò sia altamente
desiderabile, dobbiamo riconoscere che non sappiamo, nel concreto della nostra
vita, riconoscere la via per realizzarlo. Ecco allora la preghiera insistente
del salmo responsoriale: “Fammi
conoscere, Signore, le tue vie, insegnami i tuoi sentieri .. guidami …
istruiscimi … ricordati, Signore, della tua misericordia e del tuo amore che è
da sempre. Ricordati di me nella tua misericordia, per la tua bontà, Signore”
(Sal 24). Sarà guardando a Gesù che
verremo istruiti, guidati, messi in condizione di compiere i desideri grandi
che portiamo dentro.
Gesù inizia la sua predicazione
proclamando: “Convertitevi e credete nel
Vangelo”. Ma qual è il vangelo annunziato da Gesù se non la rivelazione
dello splendore dell’amore del Padre per gli uomini, come poi la conclusione
del cammino quaresimale, nella celebrazione della Pasqua, farà scoprire? E la
novità evangelica, perenne novità divina per l’uomo, novità che risulterà
sempre tale rispetto a tutto ciò che il mondo può produrre, è proprio quella di
mostrare lo splendore dell’amore di Dio nell’umanità. Nell’umanità risplende la
presenza di Dio. Le opere quaresimali sono opere penitenziali solo quando
e se portano a liberare il cuore da
ogni intralcio perché il dinamismo di questa rivelazione del Figlio di Dio si
esprima anche in me, nella mia umanità, e possa così far risplendere la
presenza del suo amore in questo mondo. Il digiuno libera il cuore
dall’asservire il mondo al corpo e al suo piacere; l’elemosina libera il cuore
dalla prevaricazione contro gli altri imparando a stare solidali in umanità; la
preghiera libera il cuore dall’illusione del mondo per volerlo trasfigurato
dalla luce di Dio.
Buon cammino quaresimale a tutti.
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Quinto ciclo
Anno liturgico B (2014-2015)
Tempo di Quaresima
II
Domenica
(1 marzo 2015)
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Gn
22,1-2.9a.10-13.15-18; Sal 115; Rm 8,31b-34; Mc 9,2-10
_________________________________________________
La colletta del martedì della prima
settimana di quaresima definiva bene il senso della conversione: “Volgi il tuo
sguardo, Padre misericordioso, a questa tua famiglia e fa che superando ogni
forma di egoismo risplenda ai tuoi occhi per il desiderio di te”. Oggi, la
liturgia, facendoci contemplare il volto di Gesù risplendente di luce
luminosissima, un volto bellissimo, rende ragione del desiderio che abita il
nostro cuore e canta con l’antifona di ingresso: “Di te dice il mio cuore:
‘Cercate il suo volto’. Il tuo volto io cerco o Signore”.
A differenza però di quello che ci
attenderemmo, la liturgia non insiste sulla visione del volto di Gesù
trasfigurato, ma sulla tensione che quella rivelazione comporta. La colletta
sottolinea, ad esempio: “O Dio, Padre buono, che non hai risparmiato il tuo
Figlio unigenito, ma lo hai dato per noi peccatori …”. Nel brano della Genesi,
che riporta il dramma di Abramo per il sacrificio del figlio Isacco, leggiamo:
“Giuro per me stesso, oracolo del Signore: perché tu hai fatto questo e non hai
risparmiato tuo figlio, il tuo unigenito …”. Stessa sottolineatura nel grido
dell’apostolo: “Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli che non ha
risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi, non ci donerà
forse ogni cosa insieme a lui?”.
Non solo, ma la gloria che la
liturgia declina non si riferisce alla bellezza del volto di Gesù, ma all’amore
del Padre che in lui rifulge e dalla cui sorgente deriva tutto lo splendore che
si manifesta nella persona di Gesù. Da una parte, è come se gli occhi umani
fossero resi capaci di vedere l’oltre della figura di Gesù, quell’oltre che
pesca nella incommensurabile bellezza e profondità divina, a noi nascosta, ma
per noi vitale. Dall’altra, nulla si svolge secondo la nostra immaginazione. Se
i pittori di icone non si fossero sprofondati nella contemplazione del brano
evangelico, non avrebbero mai dipinto la scena con i discepoli atterrati, come
scaraventati a terra, spaventati, di fronte a un Gesù splendente di luce che
fuoriesce dalle profondità divine e che bagna con la sua luce tutto il mondo.
Pietro proclama che per lui era bello stare lì, ma il testo continua dicendo
che era come fuori di sé dallo spavento. Compaiono, accanto a Gesù, Elia e Mosè
in atto di conversare con lui, ma, come specifica l’evangelista Luca, il tema
della conversazione era la morte di Gesù. Perché questi accostamenti
drammatici?
Nel vangelo di Marco il brano della
trasfigurazione sul Tabor è posto al centro del suo tessuto narrativo. Gesù era
appena stato riconosciuto da Pietro come Figlio di Dio, ma contemporaneamente
aveva svelato il suo esito messianico, che cioè avrebbe dovuto soffrire molto,
essere ucciso e risuscitare. Non solo, ma aveva ricordato ai discepoli che, se
quella era la via del Maestro, non si immaginassero di seguire un’altra via:
“Se qualcuno vuol venire dietro di me, rinneghi se stesso, prenda la sua
croce…”. I discepoli Pietro, Giacomo e Giovanni sono gli stessi che vedranno di
Gesù il volto sanguinante, teso e stravolto dalla sofferenza, al Getsemani. I
discepoli hanno visto il volto trasfigurato di Gesù sul Tabor perché
imparassero a riconoscerlo nella sofferenza della passione, quando hanno dovuto
rimirare non l’oltre, ma come l’al di qua della figura, non il volto
trasfigurato, ma il volto sfigurato. I vangeli e la tradizione tengono
collegate le due esperienze. Quale il senso?
Lo illustra assai bene Leone Magno
nella sua omelia LI : “Una tale trasformazione tendeva principalmente a
rimuovere dal cuore dei discepoli lo scandalo della croce, sicché l'umiliazione
della passione, volontariamente accettata, non venisse a turbare la fede di chi
aveva contemplato l'eminente dignità, seppur nascosta, del Cristo. Intanto,
secondo un disegno altrettanto previdente, era dato fondamento alla speranza
della santa Chiesa, nel senso che tutto il corpo di Cristo veniva a conoscere
quale trasformazione avrebbe ricevuto in dono e le singole membra potevano
scambiarsi la promessa di compartecipazione all'onore che risplendeva nel loro
capo”.
Come Dio promette ad Abramo, sarà il
dono del Figlio da parte di Dio all'umanità che costituirà la fonte di ogni
benedizione, per tutti, per sempre. Non si pensi però che il dono del Figlio
all'umanità da parte del Padre sia in funzione semplicemente di un riscatto, di
un sacrificio espiatorio. Il valore del dono è in funzione della grandezza
dell'amore e se il Figlio testimonia questo amore fino alla morte non è per
essere vittima sacrificale, ma solo per la fedeltà all'amore che non viene meno
nemmeno davanti all'oltraggio e all'ingiustizia. Ed è nella corrente di questo
dono che i discepoli di Gesù sono chiamati a lasciarsi trascinare, fruitori in
ciò di quel “vedere il regno di Dio venire con potenza” (Mc 9,1), che introduce
proprio il racconto della trasfigurazione.
Qui si comprende allora il cammino
quaresimale, che è lotta perché sia superata ogni forma di egoismo e il cuore
viva del desiderio del Cristo. Egoismo è tutto ciò che ci impedisce di essere
toccati dall’amore di Dio, tutto ciò che si sovrappone al desiderio del Cristo
rinnegandolo e, di conseguenza, rinnegando il nostro stesso cuore e dividendoci
dai fratelli.
Con la liturgia di oggi,
nell’insieme delle sfumature con cui presenta il mistero della trasfigurazione,
incontriamo Dio come un amante così implicato nella vita da non rifuggirla mai,
da assicurarcela sempre, in totale abbondanza. Se su Gesù risiede tutta la
compiacenza del Padre, come dice la voce a sigillo della visione sul Tabor, è
perché lui farà vedere l’amore del Padre per gli uomini con tale radicalità e
assolutezza da implicare tutta la sua vita fino alla morte, morte che segnerà
proprio il trionfo dell’amore come sorgente di vita per chiunque lo
riconoscerà. Il dramma nostro invece è dato dal fatto che neppure davanti a Lui
ci lasciamo convincere che l’amore di Dio è per noi, che l’amore suo è vita
vera per noi, che l’amore diventi vita vissuta. Vorremmo che Dio con il suo
amore ci beatificasse senza dover spendere la vita in amore per tutti perché il
Suo amore risplenda. Quale stoltezza! Il cammino quaresimale, con l’invito alla
conversione, punta proprio a renderci permeabili dall’amore di Dio in Gesù che
si fa radice di vita, misura di vita.
Cercare di ascoltare Gesù, di
seguirlo mettendo in pratica le sue parole, è come entrare anche noi nella
stessa compiacenza che gode da parte del Padre, compiacenza che in altro non
consiste se non nel godimento di una vita che è diventata espressione di amore,
tanto che non si vuole altra vita se non quella che provenga e conduca ad un
amore capace di far risplendere il volto degli uomini. Ma se si vede
risplendere quella luce, allora Dio è con noi, il mondo può risplendere della
sua presenza.
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Quinto ciclo
Anno liturgico B (2014-2015)
Tempo di Quaresima
III
Domenica
(8 marzo 2015)
___________________________________________________
Es
20,1-17; Sal 18; 1Cor 1,22-25; Gv 2,13-25
___________________________________________________
La liturgia
oggi collega la santità della Legge alla santità del Luogo dove celebrarla, che
non è più il tempio di pietra, ma il corpo del Signore Gesù, nel quale “abita corporalmente tutta la pienezza della
divinità” (Col 2,8). L’episodio della cacciata dei venditori dal tempio ne
è la profezia e il simbolo contemporaneamente. Il racconto di Giovanni comporta
molte allusioni all’attesa del Messia. Chiama la festa ‘pasqua dei giudei’ (e
continuerà a chiamarla così fino al cap 11,55) per distinguerla dalla ‘pasqua’
che Gesù stesso vivrà, come compimento della ‘pasqua del Signore’ descritta in
Es 12,11. Gesù costruisce una frusta di cordicelle, che corrisponde al flagello
messianico, secondo antichi racconti ebraici, nella sua opera di purificazione
dal male e che riprende due tradizioni profetiche, quella di Zaccaria 14,21 (“In quel giorno non vi sarà neppure un
mercante nella casa del Signore degli eserciti”) e di Malachia “Ecco, io invierò il profeta Elia prima che
giunga il giorno grande e terribile del Signore”). Quando Gesù risponde ai
capi che gli chiedono un segno di autenticazione della sua autorità, dice: “Distruggete questo tempio e in tre giorni lo
farò risorgere”. Il termine che usa, però, non è ‘tempio’ riferito al
complesso degli edifici (Gesù scaccia i venditori dal recinto del tempio, luogo
al quale anche i pagani potevano accedere) ma alla cappella interna, al ‘Santo
dei santi’ dove era creduta sussistere la Presenza. Riprende l’immagine della
tenda nel deserto, luogo della Presenza del Signore.
Se gli
apostoli si ricordano del salmo 69,10: “mi
divora lo zelo per la tua casa”, applicandolo a Gesù, non per questo
riescono a cogliere il significato vero dell’azione di Gesù. La interpretano
ancora nell’ottica del Messia restauratore della santità del Tempio e della
Legge, come del resto faranno gli altri di cui si dice che credono in Gesù ma
di cui Gesù non si fida. Nessuno è ancora pronto a riconoscere la portata vera
di ciò che intende Gesù. Solo con la sua Pasqua tutto si potrà vedere in modo
aperto e vero. Solo con la sua Pasqua la santità della Legge si compirà in
‘grazia e verità’, secondo la grandezza dell’amore misericordioso del Signore
che attira tutti a Sé. Solo allora risulterà fondante di ogni possibile santità
la fede in quel Gesù che, come esprime il canto al vangelo riprendendo una sua
espressione nel colloquio con Nicodemo: “Dio
ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito”.
Nella
presentazione delle Dieci Parole nel libro dell’Esodo, l’espressione che dà
fondamento e senso a tutte le parole è quella iniziale: “Io sono il Signore, tuo Dio”. Senza l’esperienza di quel ‘tuo Dio’
non sarà possibile accogliere e vivere nella sua estensione la serie dei
comandamenti. Quel ‘tuo’ si riferisce ad una esperienza tipica: la liberazione
dalla condizione servile, la liberazione dalla schiavitù dell’Egitto. Se
applichiamo quella solenne dichiarazione: “Io sono il Signore, tuo Dio” al
Signore Gesù che con la sua morte e risurrezione ci ha liberati dal male e
dalla schiavitù del peccato, allora tutte le parole del Signore suoneranno con
altra risonanza nel nostro cuore.
Il
ritornello del salmo lo sottolinea con le parole di Pietro in risposta alla
tristezza di Gesù per l’incomprensione del suo parlare: “Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna” (Gv 6,68). E
il salmo 18, soprattutto nella sua redazione greca della LXX, scolpisce a fuoco
nel cuore il senso di quella fiducia nel Signore Gesù e nella sua parola di
vita. Accogliendo quel Figlio, dato a noi nella sua morte e risurrezione, il
suo comandamento ci riporta a integrità e armonia nel nostro essere (è
immacolato), con la sua sapienza dall’alto ci fa bambini desiderosi del Padre e
del suo Regno (è fedele), infonde gioia al cuore (è retto), ci ridà uno sguardo
luminoso per tutto e per tutti (è splendente), in modo da farci vivere i
giudizi del Signore nella nostra vita come espressione del suo amore
misericordioso di cui aneliamo l’esperienza. E siccome tutto questo lo viviamo
in fragilità e precarietà, restiamo umili domandando di essere liberati dal
male che non riusciamo a padroneggiare o a vedere, cercando di tenerci sempre
alla sua presenza, nella verità della sua parola che sempre parla al nostro
cuore.
La conferma
della sapienza dall’alto, che apre a noi la verità della sua parola, si fonda
sull’apertura di credito alla dinamica di rivelazione di Gesù, come ci
suggerisce la seconda lettura della lettera di Paolo ai Corinzi: “Infatti ciò che è stoltezza di Dio è più
sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini”
(1Cor 1,25). È proprio quella ‘debolezza’ che i capi dei giudei non hanno
compreso, che i discepoli hanno stentato molto a comprendere, che i nostri
cuori temono perfino di comprendere ma che costituisce l’unica via di grazia
per l’esperienza dell’amore di Dio.
Come canta
l’antifona d’ingresso, da dentro l’accoglimento della ‘debolezza’ di Dio in
Gesù, possiamo dire: “I miei occhi sono
sempre rivolti al Signore…”. I nostri occhi sono rivolti al Signore per
cercare in ogni evento la traccia del suo passaggio al fine di seguirlo e
poterlo conoscere; per cercare in ogni pensiero la scintilla divina che attiri
a lui e apra uno spazio di visione del suo volto. Il fatto che i nostri occhi
siano rivolti al Signore esprime la tensione del cuore che non si perde nelle
cose, ma delle cose cerca il senso; che non si confonde con i suoi pensieri, ma
li apre al sogno che racchiudono per compierli in verità. Sarà la Pasqua del
Signore per noi.
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Quinto ciclo
Anno liturgico B (2014-2015)
Tempo di Quaresima
IV
Domenica
(15 marzo 2015)
_________________________________________________
2Cr
36,14-16.19-23; Sal 136; Ef 2,4-10;
Gv 3,14-21
_________________________________________________
La prima lettura, tratta dal secondo
libro delle Cronache, si conclude con l’invito ai deportati in Babilonia a
salire a Gerusalemme e tornare a godere dell’alleanza che Dio rinnova loro.
Questa pagina conclude la terza parte, denominata Scritti, della Bibbia ebraica; è l’ultima pagina della Bibbia
secondo la disposizione del canone ebraico. La liturgia di oggi collega il salire a Gerusalemme, così tipico della
tensione dell’anima e della storia degli ebrei, con il salire di Gesù alla città santa per la sua Pasqua, per l’esaltazione sulla croce, argomento del
suo colloquio con Nicodemo. L’alleanza di Dio con il popolo è rivisitata con
l’immagine dell’offerta della salvezza in Gesù da parte del Padre che “ha tanto amato il mondo da dare il Figlio
unigenito”, come proclama il canto al vangelo.
La grandezza di questo amore per il
mondo da parte del Padre si manifesta proprio nell’innalzamento di Gesù. Ma
quell’innalzamento corrisponde al suo essere crocifisso. Mistero, che assai più
tardi, l’apostolo Giovanni nella sua prima lettera definisce così: “In questo abbiamo conosciuto l’amore, nel
fatto che egli ha dato la sua vita per noi; quindi anche noi dobbiamo dare la
vita per i fratelli” (1Gv 3,16). L’espressione ‘ha dato la vita’,
letteralmente dovrebbe rendersi: ‘ha posto la sua anima’, che richiama il passo
di Is 53,12: “ha spogliato se stesso fino alla morte”.
La sfumatura di significato risulta
essere ormai questa. Gesù non solo ha dato la vita per noi, ma ha dato la vita
a noi, quella vita che nemmeno l’ingiustizia più obbrobriosa, la violenza più
ignominiosa, riesce a scalfire, a mortificare, a sopprimere, perché quella vita
è amore effuso. Quell’amore deriva dall’alto, da Dio, che così svela il suo
segreto per il mondo. Gesù ne dà testimonianza con due allusioni: la prima, al
sacrificio di Abramo del figlio Isacco, l’unico, l’amato, (Gen 22,2) [ciò che
ad Abramo Dio risparmia, Dio lo vive fino in fondo] e la seconda, al serpente
di bronzo secondo la narrazione di Numeri 21,4-9. Come il serpente di bronzo
innalzato nel deserto recava guarigione (letteralmente: vita) a coloro che
l’avessero guardato, così sarà di Gesù quando sarà innalzato sulla croce. Gesù
sta istruendo Nicodemo; lo sta introducendo al mistero di Dio, al mistero
dell’immenso amore di Dio per l’uomo che in Gesù riceve il suo sigillo
definitivo, ultima e ultimativa rivelazione di Dio. La forza del ragionamento
di Gesù sta in un particolare: l’altezza, il fatto che per dare salvezza Gesù
debba essere innalzato. Questo particolare nasconde la modalità della
rivelazione di Dio e costituisce perciò per l’uomo l’accesso a quella
rivelazione. È da quell’altezza che ci viene la vita eterna, perché da
quell’altezza si rivela in tutto il suo splendore l’amore del Padre per l’uomo
e l’intimità del Figlio con Lui che di quello splendore è il testimone per
eccellenza. Perché quell’altezza? Di cosa parla quell’altezza?
Spesso gli antichi crocifissi, al
posto dell’iscrizione di condanna (in latino, INRI= Gesù nazareno re dei
giudei) portavano il titolo ‘re della gloria’. È la gloria di un amore che
manifesta la sua radice dall’alto proprio quando dal basso viene vilipeso e
calpestato. È la gloria di un amore che rimane libero nel suo dono proprio
quando è rifiutato e negletto. Ma, come dice Gesù: “Nessuno è mai salito al cielo fuorché il Figlio dell’uomo che è disceso
dal cielo”. Da interpretare oramai: non si può salire al cielo se non
discendendo. L’innalzamento della croce mostra la reale discesa di Dio fino
all’uomo, fino a consegnarsi all’uomo, fino a star sottomesso all’uomo che lo
tradisce e lo calpesta. E proprio perché custodisce la sua divinità nell’essere
calpestato, rivela tutta la potenza di un’umanità che è irraggiamento dello
splendore di Dio, un’umanità che tutta si muove nell’amore perché sia vinto
l’odio, perché il mondo torni ancora a risplendere della presenza di Dio. Così
anche per noi non esiste altro modo di salire a Dio se non quello di
discendere, di stare sottomessi perché risplenda l’amore di Dio. Quando s.
Francesco di Assisi parla di perfetta letizia allude proprio a questo mistero.
Operare la verità (“chi fa la verità viene verso la luce”) è
un’espressione semita che si riferisce al fatto di mettere in pratica i
comandamenti. Ma la sfumatura essenziale di significato è: i comandamenti non
sono causa di meriti, ma autorivelazione di Dio che partecipano, all’uomo che
li accoglie, la Sua stessa vita, che è amore per noi. Ciò significa che i
comandamenti ci aiutano a ritrovare quella ‘umanità’, rivelata dal Signore
Gesù, che costituisce la vocazione dell’uomo e che in Gesù riceve il suo
sigillo. Se Dio risplende nell’umanità perché sta sottomesso all’uomo fino a
farsi calpestare senza lasciarsi distrarre dal suo amore di benevolenza, anche
l’uomo vedrà lo splendore di Dio se sta sottomesso ai suoi fratelli senza
lasciarsi vincolare da ingiustizie o malvagità pur di non uscire dall’amore. E
se avrà lo sguardo fisso su Colui che di quell’amore, ferito e appassionato, è
il testimone per eccellenza, potrà rimanere nel Suo amore nei tormenti
dell’esistenza e far fiorire l’umanità.
Se Gesù si premura di ricordare a
Nicodemo e ai suoi discepoli che il Figlio dell’uomo deve essere innalzato,
vuol dire che si tratta di un evento che non risponde alle nostre attese, che
noi non avremmo mai immaginato si dovesse passare per quella strada, perché
comporta la rivelazione di un segreto di Dio. E non solo di un segreto nel
senso che ci fa conoscere qualcosa che fino ad allora non era noto, ma di un
segreto nel senso che caratterizza l'intima vita di Dio e quindi caratterizzerà
l'intima vita dei suoi figli. Se Gesù deve essere innalzato, deve morire in
croce, non è solo in ragione del peccato dell'uomo, ma della manifestazione del
segreto della vita divina che a tutti verrà comunicata in modo da vivere di
quella pienezza che appartiene solo a Dio. Gesù è l'Agnello immolato fin dalla
fondazione del mondo, come suggerisce il testo dell'Apocalisse 13,8 letto
secondo la volgata (“in libro vitae Agni, qui occisus est ab origine mundi”).
Il mistero adombrato dalla Parola di Dio è che la sofferenza non è legata al
peccato, ma al dono dell'essere da parte di Dio, alla creazione stessa e quindi
alla natura della stessa vita trinitaria che Gesù è venuto a svelarci e a
comunicarci perché ne diventiamo partecipi e possiamo così non subire più la
morte.
L’aspetto straordinario di questa
rivelazione è svelato da Paolo nella sua lettera agli Efesini: “Siamo infatti opera sua, creati in Cristo
Gesù per le opere buone, che Dio ha preparato perché in esse camminassimo”
(Ef 2,10). Significa che quando facciamo il bene accogliamo l’amore eterno di
Dio nello spazio del nostro tempo perché la sua presenza risplenda nella nostra
umanità. E se potessimo vedere che tutto nella nostra vita è finalizzato a
questo, beati i nostri occhi e beato il cuore capace dei segreti di Dio!
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Quinto ciclo
Anno liturgico B (2014-2015)
Tempo di Quaresima
V
Domenica
(22 marzo 2015)
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Ger
31,31-34; Sal 50; Eb 5,7-9;
Gv 12,20-33
_________________________________________________
L’antica colletta fa pregare: “Vieni
in nostro aiuto, Padre misericordioso, perché possiamo vivere e agire sempre in
quella carità, che spinse il tuo Figlio a dare la vita per noi”. È la
prospettiva nella quale ascoltare la proclamazione della parola in questa
liturgia di quaresima, ormai prossimi alla festa di Pasqua.
Gesù era stato accolto a Betania con
la tenerissima e misteriosa unzione di Maria; era appena entrato trionfante in
Gerusalemme; la notizia della risurrezione di Lazzaro correva sulla bocca di
tutti e tutti accorrevano per vedere l'uno e l'altro. Si era in prossimità
della festa di pasqua quando salivano a Gerusalemme non solo gli ebrei ma anche
i pagani simpatizzanti di Israele, i proseliti. Le autorità del popolo avevano
già decretato la morte di Gesù.
L’ora di Gesù scatta con la
richiesta dei gentili a Filippo: “Signore,
vogliamo vedere Gesù”. Vedere Gesù vuol dire vedere il Salvatore, vedere il
Dio che salva. E in effetti, la risposta di Gesù allude a questo. Parla di
glorificazione, di innalzamento, ma si riferisce alla sua morte in croce.
Siamo di fronte al segreto di Dio
che si apre allo sguardo dei suoi figli. “Adesso
l’anima mia è turbata; che cosa dirò? Padre, salvami da quest’ora? Ma proprio
per questo sono giunto a quest’ora! Padre, glorifica il tuo nome”. Il
vangelo di Giovanni non parla dell’angoscia del Getsemani. Qui la lascia
intravedere, eco delle parole dei salmi 6,3 e 41,6-7: “trema tutta l’anima mia”, “in
me si rattrista l’anima mia”. L’intensità dell’angoscia di Gesù, condivisa
dal Padre, raccoglie in un punto supremo la sua umanità che si abbandona al
Padre nel suo amore per gli uomini. È questo amore condiviso con il Padre e con
gli uomini che permetterà a Gesù di attirare tutti alla salvezza e scacciare il
principe di questo mondo, vale a dire dare la vita nella morte, ricevere la
vita nella morte. Quando Gesù, al culmine della sua angoscia, prega: “Padre, glorifica il tuo nome” manifesta
tutta la sua intimità con il Padre, tanto che chiede al Padre di far splendere
l’amore suo in lui in tutta la sua potenza, perché il nome del Padre è proprio
Gesù, il volto visibile del Padre.
Gesù si paragona al chicco di grano
che, caduto in terra, muore e porta frutto. Il paragone era usato sia nella
tradizione rabbinica che poi in san Paolo come immagine della risurrezione.
L’immagine non verte sulla abbondanza del frutto, ma sulla qualità del frutto,
che designa la potenza di una vita non più mortificabile, non più soggetta alla
morte, quella vita che il Signore ci rende perché ci fa partecipi della sua, in
intimità con il Padre. E la vita che non è più soggetta alla morte è lo
splendore di un amore che nessuna ingiustizia e violenza piega o mortifica. Per
questo Gesù continua nella sua spiegazione con la massima dell’amare o dell’odiare
la propria vita: “Chi ama la propria
vita, la perde [la distrugge] e chi odia la propria vita in questo mondo, la
conserverà per la vita eterna”. Odiare, contrapposto ad amare, ha il
significato di non considerare come un valore supremo. Ne deriva il
significato: chi non teme nemmeno la propria morte è sovranamente libero, per
amare totalmente. Chi non teme la propria morte disarma il potere perverso del
male e lo caccia fuori dal mondo, cioè lo esclude dalla vita. Evidentemente,
non si tratta di un’azione puntuale, ma di un processo, secondo il paragone del
chicco di grano che porta frutto, perché interessa tutto il corso della vita.
E come è di Gesù, così sarà del suo
discepolo. Se Gesù è nell’amore del Padre per i suoi figli, così anche i discepoli
saranno nell’amore di Gesù per tutti, godendo di quella vita in Dio che è
splendore di amore per noi. ‘Servire’, ‘seguire’, hanno il valore di essere
messi a parte del segreto di Dio nel suo amore per il mondo, che in Gesù,
proprio quando è innalzato sulla croce, risplende luminoso. Il suo essere
levato il alto non allude semplicemente al morire, ma al trasformarsi in
potenza vivificante e salvatrice dalla morte, che a noi si comunica per vivere
della sua stessa vita.
Se il salmo responsoriale invoca “rendimi
un cuore nuovo”, è perché, guardando al Crocifisso, possiamo avere un cuore di
carne dove l’amore è iscritto come partecipazione al segreto di Dio: “quando sarò innalzato da terra, attirerò
tutti a me”, proprio come viene descritto nella scena della crocifissione,
alla sua conclusione: “Visto ciò che era
accaduto, il centurione dava gloria a Dio dicendo: ‘Veramente quest’uomo era
giusto’. Così pure tutta la folla che era venuta a vedere questo spettacolo,
ripensando a quanto era accaduto, se ne tornava battendosi il petto” (Lc
23,47-48). Di lui dice la lettera agli Ebrei: “Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì”. È lo
splendore dell’obbedienza dell’amore nel quale troviamo vita noi e confermiamo
la vita di tutti, stando uniti al Signore
Gesù. Questo significa avere il cuore puro, il cuore nuovo.
Ora, come accedere a questa visione
di Gesù Salvatore? Ce lo rivela il profeta Geremia: “Porrò la mia legge dentro di loro, la scriverò sul loro cuore. Allora
io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo. Non dovranno più istruirsi
l’un l’altro dicendo: ‘Conoscete il Signore’, perché tutti mi conosceranno, dal
più piccolo al più grande – oracolo del Signore -, poiché io perdonerò la loro
iniquità e non ricorderò più il loro peccato”. “Tutti mi conosceranno”;
“perché io perdonerò la loro iniquità”: ecco i due passaggi nevralgici. Quel
perché dice la condizione e il tempo del conoscere. Possiamo conoscere Dio solo
sperimentando il suo perdono. E possiamo venire perdonati solo riconoscendo di
essere peccatori. Più forte è la coscienza del nostro essere peccatori, più
profonda sarà l'esperienza del perdono e più rigenerante l'incontro con il
Signore, finalmente conosciuto nel
suo amore per noi. E per non cadere nell'illusione sentimentale di sentirsi
peccatori, senza averne la coscienza in verità, basta riferirsi alle nostre
reazioni di fronte all'ingiustizia e alla violenza che ci arrivano addosso dai
fratelli. Se davvero abbiamo coscienza di essere peccatori, non rivendicheremo
nulla, non ci offenderemo, non resteremo oppressi, perché non vogliamo perdere
l'esperienza di quell'amore che costituisce il vero tesoro di vita del nostro
cuore. Allora l'alleanza conclusa da Dio con noi è scritta davvero sul nostro
cuore. Allora resteremo innalzati con il nostro Signore, crocifisso, e la
salvezza, mentre tiene saldi noi, attirerà anche i nostri fratelli.
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Quinto ciclo
Anno liturgico B (2014-2015)
Tempo di Quaresima
DOMENICA DELLE PALME E DELLA
PASSIONE DEL SIGNORE
(29 marzo 2015)
_________________________________________________
Vangelo
dell’ingresso a Gerusalemme: Mc 11,1-10
Is
50,4-7; Sal21; Fil 2,6-11;
Mc 14,1 - 15,47
_________________________________________________
Il canto al vangelo costituisce la
nota dominante della celebrazione di oggi: “Per noi Cristo si è fatto
obbediente fino alla morte e a una morte di croce”. È la ripresa del passo di
Fil 2,8, che però sottolinea l’umiliazione che ciò ha comportato: “umiliò se
stesso facendosi obbediente”. Nello stesso brano l’obbedienza di Gesù, prima è
presentata con ‘svuotò se stesso’, sottolineando il suo divenire uomo da Dio
che era, poi con ‘umiliò se stesso’, sottolineando il suo farsi schiavo da uomo
che era. Nell’ottica di una obbedienza all’amore del Padre per noi, perché
risplenda solo l’amore di Dio per noi.
Nella prima parte della
celebrazione, accompagniamo festosamente l’ingresso di Gesù a Gerusalemme. La
frase di lode e stupore che risuona sulla bocca di tutti davanti all’entrare di
Gesù in Gerusalemme, riportata da tutti i vangeli, suona: “Benedetto colui che viene nel nome del Signore”. Corrisponde alla
percezione che Gesù ha di se stesso: lui è l’Inviato, colui che è mandato a
mostrare quanto è grande l’amore del Padre per noi. Di lì a poco, anche se
nessuno dei suoi discepoli si accorge di quanto sta avvenendo, si conoscerà
finalmente il segreto di Gesù. Ma i vari vangeli aggiungono anche che l’Inviato
è il re di Israele, il Messia, e tutta la scena dell’ingresso in Gerusalemme ha
i caratteri di una regalità messianica riconosciuta, anche se non ancora
compresa. In particolare, Luca aggiunge un’annotazione particolarissima: “Benedetto colui che viene, il re, nel nome
del Signore. Pace in cielo e gloria nel più alto dei cieli”. All’inizio del
vangelo di Luca gli angeli, alla nascita del Messia, avevano cantato: “pace in
terra”; ora, alla imminente morte del Messia, i discepoli cantano: “pace in
cielo”. Dio, con la morte del Messia, finisce la sua creazione: tutto è
compiuto perché l’amore di Dio splenda su tutto e in ogni dove. Si realizza la
profezia di Michea 5,4: “Egli stesso sarà
la pace”. L’invito a imitare le folle di Gerusalemme con i rami di ulivo in
mano, mentre la processione entra nella chiesa per celebrare la Passione del
Signore, ha il valore di accogliere nel nostro cuore il venire di Gesù, di
accoglierlo nel suo mistero di Inviato e di Testimone dell’amore del Padre per
noi.
La liturgia, conclusa la
processione, cambia registro. Invita alla compassione, alla compagnia, amorosa
e partecipante, con l'uomo dei dolori, con l'uomo umiliato e obbediente,
vilipeso e condannato, dato per noi perché noi avessimo la vita. Il senso della
lettura della passione, celebrata in forma solenne, è proprio quello di
introdurci nel mistero di Colui che viene, umiliato e obbediente fino alla
morte e a una morte di croce, suscitandoci sentimenti di intima compassione e
di riverente amore, sentimenti che ci accompagneranno lungo tutti i riti della
settimana santa.
Viene letto il terzo carme del Servo
di Jahvé (Is 50,4-7), figura di Gesù flagellato e deriso, che l’assemblea
riprende con il salmo 21 (22), ripetendo come versetto responsoriale il primo
versetto: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. Parole, che
riascolteremo nella solenne proclamazione del vangelo della Passione. Se un non
cristiano leggesse questo salmo, dopo che abbia letto la descrizione della
passione di Gesù nei vangeli, non potrebbe non restare profondamente
meravigliato della precisione con cui il salmo elenca le varie angherie che
Gesù subisce: “Ma io sono un verme e non
un uomo, rifiuto degli uomini, disprezzato dalla gente. Si fanno beffe di me
quelli che mi vedono, storcono le labbra, scuotono il capo: ‘Si rivolga al
Signore, lui lo liberi, lo porti in salvo, se davvero lo ama!’ ….un branco di cani
mi circonda, mi accerchia una banda di malfattori; hanno scavato [forato] le
mie mani e i miei piedi .. si dividono le mie vesti, sulla mia tunica gettano
la sorte ...”.
E ascoltando la narrazione della
passione di Gesù, nel racconto di Marco, colpisce il silenzio di Gesù. Nel
processo Gesù tace davanti ai suoi accusatori. Risponde solo alla domanda del
sommo sacerdote confermando che lui è il Messia e il Figlio di Dio, secondo la
profezia di Dan 7,13, passo che i sacerdoti conoscevano bene e da cui deducono
le loro ragioni per condannare quel millantatore. Davanti a Pilato non risponde
alle accuse ma solo alla domanda: “Tu sei il re dei Giudei?” con quel “Tu lo
dici”, che però Pilato non prende come motivo di accusa nei suoi confronti.
Gesù si attiene alla figura del Servo sofferente che non apre la bocca (Is
53,7). Non si tratta di credere ad una sua parola, ma a Lui, per come si è
presentato fino ad allora e per come morirà sulla croce, testimone dell’amore
del Padre per noi, oltre ogni violenza e ingiustizia.
Il vangelo di Marco inizia così: “Inizio del vangelo di Gesù Cristo, Figlio di
Dio” (Mc 1,1). Con il racconto della passione, che si conclude con la
dichiarazione del centurione sotto la croce vedendo morire Gesù: “Davvero quest’uomo era Figlio di Dio”
(Mc 15,39), termina l’itinerario del lettore che è stato accompagnato lungo
tutta la narrazione perché riconosca in quel Gesù, profeta di Galilea, il
Messia e il Figlio di Dio.
Se il racconto della passione si
apre con la scena della donna che versa il profumo sul capo di Gesù, significa
che il mistero di Gesù può essere colto solo nell’allusione al significato
della sua morte redentrice. Se nessuno si era accorto di ciò che si andava
preparando, una donna sola, nella tenerezza del suo amore, intuisce il segreto
di Gesù. Versargli sul capo un unguento preziosissimo (se la stima di Giuda è
realistica, il costo ammonterebbe più o meno allo stipendio di un anno per un
operaio) risponde al desiderio di accompagnare Gesù nella sua solitudine. Quel
profumo rivela la morte imminente, che nessuno è pronto ad accettare, ma anche
tutto l'amore che quella morte significa ed esprime. I Padri antichi hanno
visto in quel profumo versato su Gesù il pentimento dei nostri cuori,
pentimento che si allarga e impregna tutto perché l'amore che Gesù ha
testimoniato con la sua passione non resti estraneo a niente di noi e perché
niente di noi resista a tale amore. Quando s. Paolo, rivolgendosi ai suoi
fedeli, li chiama profumo di Cristo,
allude proprio a questa tenerezza che ha conquistato il cuore - così si può
chiamare il pentimento per i nostri peccati! Sarebbe il frutto più autentico di
un commosso ascolto della passione di Gesù.
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Quinto ciclo
Anno liturgico B (2014-2015)
Tempo di Pasqua
Pasqua di Risurrezione del Signore
(5 aprile 2015)
___________________________________________________
At
10, 34a. 37-43; Sal 117; Col 3, 1-4; Gv 20, 1-9
___________________________________________________
Beato colui
che nell’Uomo sofferente, di cui i riti della settimana santa hanno commemorato
la passione gloriosa, ha visto il Figlio di Dio, il Testimone dell'amore del
Padre. Beato colui che lo scandalo della croce non spezza, non deturpa, non
divide da Dio e dagli uomini. Beato colui che ha l'intelligenza spirituale
allenata per cogliere nella passione gloriosa di Gesù il mistero dell'amore di
Dio per gli uomini e la dinamica di vita eterna di cui ci rende partecipi con
il dono del suo Spirito.
La settimana
santa era cominciata con la colletta del lunedì: “Guarda, Dio onnipotente,
l’umanità sfinita per la sua debolezza mortale, e fa’ che riprenda vita per la
passione del tuo unico Figlio”. Lungo la settimana più volte era risuonata la
profezia di Isaia: “Dopo il suo intimo
tormento vedrà la luce e si sazierà della sua conoscenza; il giusto mio servo
giustificherà molti, egli si addosserà le loro iniquità. Perciò io gli darò in
premio le moltitudini, dei potenti egli farà bottino, perché ha spogliato se
stesso fino alla morte ed è stato annoverato fra gli empi, mentre egli portava
il peccato di molti e intercedeva per i colpevoli” (Is 53,11-12).
Espressioni che nella traduzione letterale del testo ebraico sono ancora più
potenti: “ … poiché ha versato la sua
vita nella morte …”. Questo ha fatto Gesù: non ha trionfato sulla morte
eliminandola o scartandola ma entrandoci con la sua vita.
Nell’ufficio
della santa passione nel rito bizantino, la liturgia addita tre personaggi per
suscitare i sentimenti dei cuori nei confronti di quell’Uomo disprezzato e
maltrattato, senza più apparenza né bellezza: Giuda, con l’insistente
annotazione: “ … ma non ha voluto comprendere l’iniquo Giuda”; il ladrone sulla
croce: “Ricordati anche di noi nel tuo regno”; la Vergine, sua Madre,
orribilmente straziata dalla spada del dolore, tormentata dalle doglie che non
aveva sofferto nel parto, con gli angeli che assistono e dicono:
‘Incomprensibile Signore, gloria a te!’, mentre supplica: “Dimmi una parola, o
Verbo, non passare accanto a me in silenzio …”.
Nel riposo
del sabato la Chiesa aveva contemplato: “Per riempire della tua gloria tutte le
cose, sei disceso nelle profondità della terra; a te infatti non era nascosta
la mia persona in Adamo: sepolto e corrotto tu mi rinnovi, o amico degli
uomini”.
E con la
veglia pasquale viene aperto il mistero della morte e risurrezione di Gesù: se
la morte è l'ultimo nemico che deve essere annientato, allora vuol dire che non
c'è nemico che abbia potere su Colui che l'ha vinta. E se l'ha vinta come
primogenito di tanti fratelli, allora vuol dire che la sua stessa vita, non più
segnata dalla morte, diventa la nostra vita, quella che può segnare e
vivificare il nostro vivere quotidiano, sempre tallonato e ferito dalla morte e
spirituale e fisica.
Nell’annuncio
al mondo della risurrezione di Gesù la Chiesa proclama che vivere nel Signore
risorto ormai significa vivere in Colui che ci partecipa il suo Amore tanto da
farlo diventare in noi radice di vita, scopo supremo dell'essere e dell'agire.
Per avvicinare i cuori degli uomini Dio ha messo da parte la sua potenza preferendo la debolezza (cfr Fil 2,8). Questa
debolezza di Dio non svela solo l'immensità dell'amore di Dio per l'uomo, ma
anche il bisogno dell'uomo per essere tale, compiuto nella sua umanità. Ed il
mistero scaturisce proprio qui: l'uomo, per scoprire la sua umanità, non può
non guardare a questa debolezza di
Dio. Tutto ciò che è fuori da tale debolezza, risulterà illusione e causerà
ulteriore sofferenza, ma sorda, tragica, insensata, che porterà divisione e non
comunione, che porterà rabbia e non riposo. La gioia pasquale lo proclama.
Come lo
sottolinea un canto bizantino: “Giorno della risurrezione! Irradiamo gioia per
questa festa solenne e abbracciamoci gli uni gli altri. Chiamiamo fratelli
anche quelli che ci odiano: tutto perdoniamo per la risurrezione e poi
acclamiamo: Cristo è risorto dai morti, con la morte ha calpestato la morte, e
ai morti nei sepolcri ha elargito la vita”. A cui fanno eco le parole di
Giovanni Crisostomo: “Tutti godete il banchetto della fede. Tutti godete la
ricchezza della bontà. Nessuno lamenti la propria miseria, perché è apparso il
nostro comune regno. Nessuno pianga le proprie colpe, perché il perdono è sorto
dalla tomba. Nessuno tema la morte, perché la morte del Salvatore ci ha
liberati”.
Nella gioia
esultante per il Signore risorto, gli angeli dicono alle donne che si erano
recate al sepolcro: "Voi cercate
Gesù Nazareno, il crocifisso. È risorto, non è qui". Bisogna
intendere: Gesù non è più confinato in un posto perché dovunque lo si può
vedere e sentire. Come aveva promesso che sarebbe restato con noi fino alla
fine del mondo. Dice una preghiera: "Oh, la tua divina, la tua dolcissima
voce amica! Con verità hai promesso, Cristo, che saresti rimasto con noi fino
alla fine dei secoli. E noi fedeli esultiamo, possedendo quest'ancora di
speranza".
L'augurio è
proprio quello di sentire la sua voce, come la Maddalena, come i discepoli e
non solo quella degli angeli che ci dicono che è vivo. Quella voce che potremo
udire e riconoscere nelle parole di vita del suo vangelo quando penetrano nel
nostro cuore, quando rivelano quella forza prodigiosa di vita perché in esse
sentiamo l'eco di quella 'dolcissima voce amica', di Colui che, vivo, vive in
mezzo a noi.
La domenica
di Pasqua, il giorno uno della settimana, dischiude un tempo completamente
diverso, un tempo nel quale tutto ciò che è stato compiuto fino ad ora si
rivela come novità. Il personaggio che ci conduce alla soglia di questa novità
è proprio Maria Maddalena, quella che per prima sente la ‘dolcissima voce
amica’ chiamarla per nome. Essa viveva un’angoscia personale, un sentimento di
assenza irrimediabile; per lei il Signore era l’Assente; non poteva che
sentirlo così. Per prima vede la pietra del sepolcro tolta via e corre ad
avvertire i discepoli: “Hanno portato via
il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove lo hanno posto”. E Giovanni
parla della pietra tolta via dal sepolcro per sottolineare, in questo Giorno
della Risurrezione, che viene tolto l’ultimo impedimento alla ‘vista’, alla
‘visione’, come poi il brano dirà a proposito di Giovanni entrato nel sepolcro:
“Vide e credette”.
La letizia
pasquale che, poco a poco, invade e conquista i discepoli e che scaturisce
dall’esperienza dell’incontro con lui, vivo, capace di far vincere ogni paura,
ha anche a che fare con i tre doni che Gesù conferisce: la gioia, la pace e la
libertà. Ma se andiamo a vedere, quei tre doni, tipicamente pasquali, uniti
all’esperienza dell’incontro con lui, il Vivente, ci partecipano la sua stessa
vita. Perché anche noi possiamo dire a noi stessi al termine della nostra vita:
“e lo amarono sino alla fine’, ‘amarono i loro fratelli sino alla fine’,
secondo come abbiamo potuto. L’augurio pasquale più bello!
CRISTO È
RISORTO. È VERAMENTE RISORTO!
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Quinto ciclo
Anno liturgico B (2014-2015)
Tempo di Pasqua
II
Domenica
(12 aprile 2015)
___________________________________________________
At
4,32-35; Sal 117; 1Gv 5,1-6; Gv 20,19-31
___________________________________________________
Se la risurrezione di Gesù inaugura
il giorno fatto dal Signore, si comprende come essa non potesse appartenere
all’orizzonte mentale dei discepoli. I racconti di risurrezione lo provano. Ma
allora qual è il significato di quei racconti? In Giovanni, a differenza dei
sinottici, i racconti delle apparizioni del Risorto non hanno un valore
apologetico; non mirano semplicemente a comprovare la realtà del corpo risorto
di Gesù. La risurrezione di Gesù non è il miracolo che può convincere della sua
divinità. La fede degli apostoli come quella dei discepoli che li seguiranno,
quindi anche la nostra, riposa sempre sulla parola trasmessa con la forza dello
Spirito Santo e non sui segni visibili della Presenza. Non esiste evidenza
costringente del mistero di Dio e del suo amore per gli uomini.
Cosa allora costringe il cuore
dell’uomo a riconoscere il mistero di Gesù, morto e risorto? Qual è la forza
che la Scrittura sottolinea: "Con
grande forza gli apostoli rendevano testimonianza della risurrezione del
Signore Gesù ..."? Una bella preghiera della liturgia bizantina
pasquale canta: "Giorno della risurrezione! Irradiamo gioia per questa
festa solenne e abbracciamoci gli uni gli altri. Chiamiamo 'fratelli' anche
quelli che ci odiano: tutto perdoniamo per la risurrezione e poi acclamiamo:
Cristo è risorto dai morti, con la morte ha calpestato la morte ed ai morti nei
sepolcri ha elargito la vita". Questo opera lo Spirito Santo: renderci un
corpo solo e un'anima sola. Da qui deriva la forza che rende credibile e
convincente la proclamazione della risurrezione del Signore, che abita vivo nei
nostri cuori e in mezzo a noi. Proprio come di nuovo sottolinea la prima
lettera di Giovanni: ami Dio? E allora ami chi da Lui è stato generato, vale a
dire il Figlio che rivela il Padre ed i figli che per mezzo di lui sono rinati
a vita nuova. È la gioia della risurrezione che sgombera i cuori da ogni timore
e quindi da ogni attaccamento a se stessi rendendoli splendenti della
compassione del Cristo per l'umanità, partecipi di quella pace che rivela la
gloria di Dio tra gli uomini.
Teniamo presente che non si tratta
tanto di riconoscere che Gesù è davvero risorto, quanto piuttosto di restare
intimamente coinvolti nel dinamismo di un rapporto che porta vita e cambia
tutto. Se Tommaso, che non era stato presente alla prima apparizione di Gesù,
non vuol credere ai suoi compagni, non è per mancanza di fede, ma per eccesso
di zelo, come ben si attaglia al suo personaggio, fervido e coraggioso. Ha
preso sul serio la storia con Gesù e non vuole alcuna illusoria consolazione.
Vuole Gesù e basta. Quando Gesù si ripresenta una settimana dopo e si rivolge a
lui con le sue stesse parole, Tommaso non ha bisogno di alcuna comprova (di
mettere cioè il dito e la mano nelle ferite), riesce solo a sussurrare: “Mio
Signore e mio Dio”, che è la professione di fede più solenne e più intima di
tutto il vangelo. La frase conclusiva di Gesù: “Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto
e hanno creduto!” è spesso letta come un rimprovero nei suoi confronti, ma
niente autorizza a leggerla così. Tommaso ha semplicemente avuto quello che è
stato concesso agli altri apostoli e la cosa risponde alla promessa di Gesù
nell’ultima cena: “Ancora un poco e il
mondo non mi vedrà più; voi invece mi vedrete, perché io vivo e voi vivrete. In
quel giorno voi saprete che io sono nel Padre mio e voi in me e io in voi”
(Gv 14,19-20).
Il sigillo della rivelazione
pasquale è la pace che Gesù Risorto ci offre. Si tratta della pace messianica,
quella che racchiude tutti i doni di Dio rendendoceli disponibili. Gesù la
proclama e la offre definendola in rapporto a tre cose:
1) in rapporto alle sue piaghe.
Mentre dà la sua pace mostra le mani e il costato. Quella pace ci deriva dalle
sue piaghe e le sue piaghe ci confermano che il Signore risorto è il Gesù che
ha patito, tanto la sua passione e morte ha fatto risplendere l’amore di Dio
per gli uomini. Sarà così anche per i suoi discepoli: è la condizione della
condivisione della rivelazione del vangelo. La gioia della presenza del Signore
risalterà proprio là dove il discepolo è chiamato al martirio in qualunque prova della vita.
2) in rapporto alla missione: “Come il Padre ha mandato me, anche io mando
voi”. Non si tratta semplicemente del fatto che i discepoli sono inviati ad
annunciare al mondo la buona notizia, ma del fatto che l’annunceranno nella
stessa modalità nella quale Gesù l’ha annunciato e cioè che come Gesù non dice
e non fa se non quello che sente e vede fare dal Padre (cf. Gv 5,19), così i
discepoli nei confronti del loro Maestro.
3) in rapporto allo Spirito Santo,
di cui Gesù ci ha ottenuto l’effusione sulla croce. L’opera dello Spirito è la
riconciliazione con Dio ed energia di comunione. Se Luca, nella prima lettura,
descrive la prima comunità cristiana con un cuor solo e un’anima sola, non tratteggia
un idillio, ma ne rivela la tensione dinamica, la tensione di una vita nella
fede del Risorto, che diventa radice di umanità nuova, la cui cifra è appunto
la comunione. Come dice Giovanni nella sua prima lettera, è la vittoria della
fede sul mondo: la comunione con tutti perché niente ci appartiene e con tutti
possiamo condividere la gioia della presenza del Signore. Nel canone
eucaristico, quando si invoca la discesa dello Spirito Santo sulla comunità dei
credenti, è per essere abilitati a vivere ‘un cuor solo e un’anima sola’, in
tutta fraternità.
Si passa così dalla gioia della
presenza vista (apparizioni del risorto agli apostoli) alla gioia della
presenza percepita (celebrazione dell’eucaristia) fino alla letizia nello
Spirito quando si dovrà soffrire per il nome di Cristo perché la sua pace
conquisti il mondo intero e la gioia dell’essere in lui riveli a tutti lo
splendore dell’amore di Dio per gli uomini. A questo si riferisce la
confessione di Tommaso e della chiesa a proposito di Gesù risorto: “Mio Signore e mio Dio!”. E di qui
scaturisce la missione nel mondo. Come Gesù è stato inviato dal Padre, così
invia gli apostoli. Ciò significa che i credenti in Cristo sono resi partecipi
dello stesso amore con cui il Padre ama il Figlio. Gregorio Magno commenta: “Come il Padre mi ha inviato, così anch'io
mando voi, vale a dire: quando io vi invio in mezzo agli scandali e alle
persecuzioni, io vi amo di quella carità con cui il Padre mi ama, Lui che mi ha
inviato alla Passione”. I segni della passione restano nel corpo glorioso del
Cristo, a memoria del Suo amore per noi e a ricordare a noi di custodire
quell'amore nella passione che ci sarà richiesta.
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Quinto ciclo
Anno liturgico B (2014-2015)
Tempo di Pasqua
III
Domenica
(19 aprile 2015)
___________________________________________________
At
3,13-15.17-19; Sal 4; 1Gv 2,1-5a; Lc 24,35-48
___________________________________________________
La
proclamazione della liturgia di oggi fa sentire ai cuori la benedizione
caratteristica di Gesù Risorto: “Allora
aprì loro la mente per comprendere le Scritture” (Lc 24,45), secondo
l’esperienza dei due discepoli di Emmaus, sempre nella descrizione di Luca: “Allora si aprirono loro gli occhi e lo
riconobbero” (Lc 24,31). In effetti, i racconti evangelici della
risurrezione non mirano tanto a mostrare la verità della risurrezione di Gesù,
verità che non apparteneva all’orizzonte mentale dei discepoli, quanto ad
aprire l’intelligenza delle Scritture, che con la risurrezione di Gesù acquista
tutt’altra densità e definitività.
Il canto al
vangelo di questa domenica esprime bene la condizione interiore che prelude al
riconoscimento del Risorto sia per gli apostoli che per noi: “Signore Gesù,
facci comprendere le Scritture; arde il nostro cuore mentre ci parli” (cf. Lc
24, 32). É la confessione dei due discepoli di Emmaus che, dopo aver
riconosciuto il Risorto nello spezzare il pane, si confidano i sentimenti
profondi del cuore.
Nella prima
lettura, Pietro proclama l’evento della risurrezione in questo modo: “Dio ha così compiuto ciò che aveva
preannunciato per bocca di tutti i profeti, che cioè il suo Cristo doveva
soffrire. Convertitevi dunque e cambiate vita, perché siano cancellati i vostri
peccati” (At 3,18-19). E poco prima aveva spiegato: “Il Dio dei vostri padri ha glorificato il suo servo Gesù” (At
3,13). Servo, in greco, sta per figlio e richiama l’invio del Figlio che si fa
servo obbediente fino alla morte di croce per mostrare in tutto il suo
splendore l’amore del Padre per noi. È dalla testimonianza del Suo amore che
scaturisce per noi la vita abbondante, quella vita eterna non più mortificabile
nella tensione dell’amore che la origina e la muove.
La
conversione, come richiama la colletta: “O Padre, che nella gloriosa morte del
tuo Figlio, vittima di espiazione per i nostri peccati, hai posto il fondamento
della riconciliazione e della pace, apri il nostro cuore alla conversione e fa
di noi i testimoni dell’umanità nuova, pacificata nel tuo amore”, nelle
esortazioni degli apostoli, è sembra abbinata al perdono dei peccati. Pietro,
invitando a convertirsi, in realtà richiama l’invito che percorre tutte le
Scritture: ritornate a Me, ritornate a godere la Mia promessa di vita piena, la
Mia alleanza con voi! L’espressione italiana ‘cambiate vita’ significa in
realtà: ritornate a Dio. Quel ritorno allude al fatto di fissare lo sguardo su
ciò che Dio ha compiuto, vale a dire al Cristo che doveva soffrire e il terzo
giorno risorgere dai morti. Come misteriosamente aveva preannunciato il profeta
Zaccaria: “Riverserò sopra la casa di
Davide e sopra gli abitanti di Gerusalemme uno spirito di grazia e di
consolazione: guarderanno a me, colui che hanno trafitto” (Zc 12,10). È
proprio Dio che si lascia trafiggere e la salvezza viene dal fatto di guardare
a lui trafitto. Non c’è altra strada per convertirsi, per credere. Non è
sdegnandosi con se stessi o sognando una giustizia superiore che il cuore
attinge al mistero di Dio, ma solo commuovendosi davanti ad un amore così
toccante che ti rende prezioso nonostante la tua indegnità. Mi piace ricordare
un antico detto talmudico: prima di creare il mondo, Dio ha creato il ritorno a
Lui, la teshuvah. Il senso del mondo
sta nell’amore preveniente di Dio, sempre, comunque.
È qui che si
innesta la questione dell’intelligenza delle Scritture. Ce lo richiama ancora
l’apostolo Pietro nel suo discorso alla folla dopo la guarigione miracolosa del
paralitico alla porta Bella del tempio. Il punto essenziale del suo discorso
non è costituito dal fatto di ricordare che il miracolo è avvenuto nel nome di
Gesù risorto, di cui lui e gli altri apostoli sono testimoni, ma nel fatto di
legare il pentimento e la conversione al riconoscimento dell’agire di Dio in
quell’Uomo che è stato rinnegato, condannato, messo a morte e ora glorificato.
Nel riconoscere che Gesù è stato condannato e messo a morte c’è tutta
l’ammissione di colpevolezza nei confronti di Dio di cui si è disprezzato
l’amore e perciò il cuore si addolora profondamente (si avverte compiuta la
profezia di Zaccaria: “Volgeranno lo
sguardo a colui che hanno trafitto”, Gv 19,37), ma per aprirsi al
riconoscimento che l’amore di Dio è davvero grande e poter dire, davanti al
‘crocifisso’: questi è davvero il re della gloria, il testimone dello splendore
dell’amore di Dio che salva e nella cui energia anche noi possiamo ora vivere.
Guardando con dolore e tenerezza a Colui che è stato trafitto possiamo
specchiarci e ritrovare la nostra verità: di uomini peccatori, che non hanno
voluto tener in conto l’alleanza di Dio, che hanno disprezzato il suo amore e
contemporaneamente di uomini redenti, che finalmente vedono l’amore di Dio
riversarsi su di loro e fornire loro nuove coordinate di esistenza. In funzione
di tale intima percezione, per provocarla e per convalidarla, la chiesa legge
le Scritture, le proclama in tutte le sue liturgie, le vive come guida alla
partecipazione della potenza della risurrezione.
Quando,
nella preghiera dopo la comunione, la chiesa fa pregare: “Guarda con bontà, o
Signore, il tuo popolo, che hai rinnovato con i sacramenti pasquali, e guidalo
alla gloria incorruttibile della risurrezione”, non intende fare professione di
fede nella risurrezione della carne, come la proclamiamo nel Credo, ma più
specificamente allude alla possibilità di vivere in compagnia di Gesù Risorto
(“Ecco, io sono con voi tutti i giorni,
fino alla fine del mondo”, Mt 28,20).
E tutte le
preghiere della liturgia di oggi (colletta, offerte, dopo comunione)
sottolineano la tensione all’eternità, tipica della risurrezione. È l’eterno
che aspira il temporale, è l’apertura all’eterno che lascia intravedere il
senso della nostra storia, letta nell’ottica della rivelazione delle Scritture,
con lo sguardo fisso al Cristo, nell’annuncio per il mondo che in lui la pace è
ormai godibile.
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Quinto ciclo
Anno liturgico B (2014-2015)
Tempo di Pasqua
IV
Domenica
(26 aprile 2015)
___________________________________________________
At 4,8-12; Sal 117; 1Gv 3,1-2; Gv 10,11-18
___________________________________________________
La confessione del Risorto come il Vivente, Colui sul
quale la morte non ha più potere, in questo periodo pasquale, comporta due
verità strettamente collegate: anzitutto la realtà che Gesù e il Padre siano
una cosa sola e poi che Gesù sia il Redentore, cioè Colui che introduce
l'umanità alla piena comunione con Dio. La figura del 'buon pastore', come
risalta dal brano evangelico odierno, prende tutto il suo spessore se si
collega a queste due verità.
Prima però di definirsi ‘il pastore buono’ (in greco è
usato l’aggettivo: bello), Gesù si presenta come colui che entra dalla porta
perché è conosciuto dal guardiano. Poco oltre Gesù dirà: “il Padre conosce
me e io conosco il Padre”. Tale conoscenza è definita in rapporto al loro
amore, totalmente condiviso, per le pecore. Quando Gesù dice che conosce il
Padre allude fondamentalmente all’unità del loro sentire e agire in rapporto ai
figli, che il Padre vuole nella piena comunione con Sé per partecipare loro la
gioia del suo amore. La conferma la possiamo dedurre dall’espressione di Gesù:
“Per il questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi
riprenderla di nuovo” (Gv 10,17).
È proprio ciò che viene suggerito con la seconda
immagine che Gesù si applica: lui è la porta (cfr Gv 10,7). È la porta che
introduce alla comunione della gioia dell’amore del Padre: “io sono venuto
perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza” (Gv 10,10). È
l’abbondanza messianica, quel ‘di più’ che solo il Messia poteva ottenerci e
tale che sopravanza ogni tipo di merito perché ciò che riempie il cuore
dell’uomo è solo questa sovrabbondanza che proviene da lui e non la giustizia
che proviene dalle nostre opere. Se il vangelo definisce questa porta come la
porta stretta è perché l’uomo con fatica abbandona la sua pretesa di giustizia
per far posto a tale sovrabbondanza.
Con la terza immagine: ‘io sono il buon pastore’ Gesù
allude al come ci ha gratificato della vita in abbondanza, dandoci cioè la sua.
Il testo evangelico, a dire la verità, è più preciso. Non dice semplicemente
che dà la vita per noi, ma che la pone, la mette a disposizione, la mette in
gioco totalmente, la vive per noi. L’allusione è che Gesù, che pone la sua vita
per noi, va colto nel mistero del Padre che gli ha comandato questo, nel
mistero dell’amore eterno di Dio per i suoi figli. Per questo la colletta può
pregare: O Dio, creatore e Padre, che fai risplendere la gloria del Signore
risorto quando nel suo nome è risanata l’infermità della condizione umana,
raduna gli uomini dispersi nell’unità di una sola famiglia, perché aderendo a
Cristo buon pastore gustino la gioia di essere tuoi figli”.
Dignità filiale, che Giovanni, nella sua prima lettera,
definisce in questi termini: “vedete quale grande amore ci ha dato il Padre
per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente … Carissimi, noi fin
d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato.
Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui,
perché lo vedremo così come egli è” (1Gv 3,1-2). È guardando a Gesù, morto
e risorto per noi, che tale verità emerge nei cuori e dà senso a tutta la
nostra storia, che è sempre storia sacra, una storia d’amore del nostro Dio con
noi. Ciò che il paradiso svelerà sarà semplicemente questo: sarà un’esplosione
di umanità allorquando tutto sarà visto percorso da questa abbondanza di amore,
e precisamente in tutto ciò in cui si è espressa la nostra vita. Non solo tutto
sarà consumato nell’amore ma che tutto è stato intriso di questo amore. Come
può questa esperienza non generare un inno di lode modulato in infiniti modi,
sempre rinnovato?
Quando Pietro dichiara: “In nessun altro c’è
salvezza; non vi è infatti, sotto il cielo, altro nome dato agli uomini, nel
quale è stabilito che noi siamo salvati” (At 4,12), allude alla dinamica di
amore del Padre che ha accolto e raccolto tutti i suoi figli nell’unico Figlio,
testimone del suo amore per noi. È una dichiarazione inclusiva, non esclusiva.
Non vuol dire che non ci si salva se non per mezzo di Gesù, ma che ogni ricerca
di salvezza, comunque sia vissuta dagli uomini, è mediata da Gesù, a lui si
riferisce, perché a lui guarda il Padre, perché in lui riposa tutta la sua
compiacenza.
Ora, la ragione di amore del Padre per il Figlio, è la
stessa ragione di amore che vale per i discepoli di Gesù. Gesù è amato dal
Padre perché pone la sua vita per noi, così noi siamo amati da Gesù perché
poniamo la nostra vita per i fratelli. Non è una ragione di merito, ma una
ragione fontale, di sorgente. Vale a dire, possiamo scoprire l’amore di Dio nel
fatto di porre la nostra vita per i fratelli e lo possiamo fare nell’energia di
Colui che ce l’ottiene con la sua morte e risurrezione. Per questo Giovanni
dice che Gesù è stato inviato e muore in croce “per riunire insieme i figli di
Dio che erano dispersi” (Gv 11,52). Se Gesù è il buon pastore, lo è per questo.
Di fronte ad ogni tipo di ingiustizia, di afflizione,
di oppressione, interiore e esteriore, potessimo dire con Gesù: "Per
questo il Padre mi ama: perché io offro la mia vita, per poi riprenderla di
nuovo. Nessuno me la toglie, ma la offro da me stesso"!
Significherebbe diventare collaboratori con Dio alla sua opera di salvezza,
quella di radunare i figli di Dio dispersi; significherebbe non permettere
che il nostro cuore ceda alla divisione con qualche fratello scavando fossati o
respingendolo lontano da noi, perché in tal caso daremmo più importanza
all'agire di un uomo che all'agire di Dio e ci sottrarremmo alla comunione con
Lui che non ha altro desiderio se non quello di attrarre alla sua comunione
tutti i suoi figli.
L’amore del Padre si rivela in Gesù perché Gesù lascia
che quell’amore, che in Lui riposa pieno, si espanda e conquisti tutti fino a
far vivere tutti di quello stesso amore. Quando dice che il buon pastore
conosce le sue pecore e le sue pecore conoscono lui allude al fatto che l’amore
per loro, frutto dell’amore del Padre che su di lui riposa, è la ragione stessa
della sua vita, la ragione che non permette a nessun’altra di avere voce nel
suo cuore. E le pecore possono conoscere lui perché conoscono questo suo amore,
che rivela loro la bontà di Dio per loro. Ma tale è la dinamica di ogni amore:
conosco se dò la vita; solo se metto a disposizione dell’altro la mia vita
potrò conoscerlo perché la conoscenza proviene e conduce all’amore. È il dono
del Risorto a coloro che credono in lui. È la speranza che la chiesa deve al
mondo per la sua fede nel Risorto che la raduna.
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Quinto ciclo
Anno liturgico B (2014-2015)
Tempo di Pasqua
V
Domenica
(3 maggio 2015)
___________________________________________________
At
9,26-31; Sal 21; 1Gv 3,18-24;
Gv 15,1-8
___________________________________________________
L’immagine della vite ha risonanze
profondissime nelle Scritture, soprattutto in rapporto alle premure di Dio per
il suo popolo. Si possono leggere i passi di Os 10,1, Is 5,1-7, Ger 2,21. In
particolare, però, la vite ricorre nelle parabole di Gesù: nella parabola degli
operai inviati alla vigna (Mt 20,1-16), nella parabola dei due figli invitati
ad andare a lavorare nella vigna (Mt 21,28-30) e, con accenti assolutamente
evocativi, nella parabola dei vignaioli assassini (Mt 21,33-42) dove l’amore di
Dio per il suo popolo appare proprio folle.
La vite, per il vino che se ne
ricava pestando gli acini e facendo fermentare il mosto, richiama il sacrificio
pasquale di Gesù; il vino, frutto della vite, richiama il sangue, il mistero
eucaristico, lo Spirito Santo, il regno di Dio.
Nell’orizzonte di questi
riferimenti, l’immagine della vite e dei tralci comporta un collegamento che
tiene insieme tutto il vangelo. Secondo la narrazione di Giovanni, la prima
domanda che gli apostoli fanno a Gesù è: “Rabbì,
dove dimori?” (Gv 1,38). Gesù li invita a venire da lui e a costatare di
persona e il vangelo annota: “quel giorno rimasero con lui” (Gv 1,39). Ma a
quel tempo, i discepoli potevano al massimo rimanere con Gesù, non rimanere in
Gesù. Tutto il racconto evangelico della sequela di Gesù da parte dei discepoli
non è che la descrizione del passaggio dal rimanere con lui al rimanere in lui.
Alla primitiva domanda dei discepoli Gesù in realtà risponde nell’Ultima Cena
allorquando rivela dove effettivamente lui dimora, cioè nell’amore del Padre
per i suoi figli. Lì lo devono cercare e lì devono rimanere. Non solo, ma Gesù
rivela ciò che sperimenteranno i discepoli con la sua morte e risurrezione: “ …
verrò di nuovo e vi prenderò con me,
perché dove sono io siate anche voi”. La conferma assoluta che lui si trova
nell’amore del Padre per noi avverrà con la sua morte e risurrezione e sarà su
questa conferma che i discepoli potranno ormai, non semplicemente stare con
Gesù, ma stare in Gesù.
I verbi ‘dimorare’, ‘rimanere’,
‘stare’, in greco sono espressi da un unico verbo, su cui si fonda
plasticamente l’immagine della vite e dei tralci, riassunta dalle parole di Gesù:
“Io sono la vite, voi i tralci. Chi
rimane in me e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far
nulla” (Gv 15,5). Rimanere in
Gesù, ecco l’unico verbo che attraversa tutto il vangelo dall’inizio alla fine.
La motivazione del rimanere in Gesù
riguarda il portare frutto. Ci possiamo allora domandare: cosa significa
portare frutto? La prima lettura, con la conversione e la testimonianza di
Saulo, ormai Paolo, nel movimento di diffusione del vangelo nel mondo, sembra
rispondere: nel diventare discepoli di Gesù. Ma se continuiamo a domandarci:
cosa significa in verità diventare discepoli di Gesù, allora ci accorgiamo che
il rimanere in Gesù esprime tutto un movimento incredibile. Si tratta di un
continuamente sperimentato movimento di adesione, di inabissamento, di
radicamento in Gesù, finché tutto di noi sia dentro la dinamica di rivelazione
che ha caratterizzato lui, vale a dire: tutto il suo essere e agire, tutta la
sua vita, non è che rivelazione dell’amore sconfinato del Padre per noi. In
quell’amore tutto confluisce in unità, perché su tutto e in tutti splenda il
suo amore salvatore. Ora, Gesù aveva dichiarato: “quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me” (Gv 12,32). E
quando i discepoli, a loro volta, nell’occasione del possibile martirio,
potranno dire: ‘quando saremo perseguitati attireremo tutti a Gesù’, potrà
esprimersi quel frutto che il Padre cerca, quel molto frutto di cui parla Gesù.
Verrà cioè moltiplicato nel mondo il frutto del suo amore. Tanto che l'amore al
prossimo da parte dei discepoli di Cristo non rivela in primo luogo la
generosità degli uomini, ma la loro fede sincera, l'attaccamento al loro
Signore, la condivisione di un'intimità di vita e di affetti, nello Spirito,
capace di vivere un'umanità trasfigurata. Proprio come abbiamo chiesto nella
colletta: “ ...perché, amandoci gli uni gli altri di sincero amore, diventiamo
primizie di umanità nuova e portiamo frutti di santità e di pace”. La santità
si riferisce al fatto di “avere lo Spirito del Signore e la sua santa
operazione”, come dice s. Francesco d'Assisi e la pace riguarda la ritrovata
comunione con Dio, in Cristo, che si espande e dilaga su tutto, senza più
avanzare rivendicazioni di sorta che ne limiterebbero lo splendore e la
portata. Ma come poter sognare di vivere questa realtà se non rimanendo in
Cristo, sempre, comunque, a tutti i costi; se non operando perché le sue parole
rimangano in noi, sempre, comunque, a tutti i costi?
In effetti, come segnale indicatore
di questo scenario vale l’affermazione di Gesù a proposito della preghiera: “Se rimanete in me e le mie parole rimangono
in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto” (Gv 15,7). Al discepolo
viene promesso quello che Gesù dice di se stesso: “Io sapevo che sempre mi dai ascolto …” (Gv 11,42), allorquando Gesù
si accinge a far risorgere l’amico Lazzaro. Quel ‘vi sarà fatto’ allude proprio
alla realtà che nulla e nessuno potrà in noi oscurare e sopprimere quel
dinamismo di rivelazione dell’amore del Padre per noi, in qualsiasi
circostanza. Non che non ci insidieranno i nostri peccati e le nostre
fragilità, ma ritorneremo sempre allo splendore dell’amore suo, che non verrà
mai meno.
Posso ancora aggiungere un aspetto
rispetto al portar frutto che riguarda anche l’intelligenza delle Scritture, colte
nella loro capacità di rivelare al nostro cuore il mistero di Dio nella sua
volontà di salvezza per l’uomo. Il segreto delle Scritture è il segreto di Dio,
che ha sempre a che fare con la vocazione dell’uomo alla gioia del suo Dio. E
il frutto per l’uomo sta proprio nel vivere secondo quel segreto, nella potenza
che quel segreto comunica. Non si tratta tanto di venire a conoscenza di
qualche dato di verità, ma di venir sopraffatti dalla rivelazione di un segreto
che ti abilita a un’esperienza, capace per sua stessa natura, data la sua
radice dall’alto, di inglobare tutti.
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Quinto ciclo
Anno liturgico B (2014-2015)
Tempo di Pasqua
VI
Domenica
(10 maggio 2015)
___________________________________________________
At
10, 25-27. 34-35. 44-48; Sal 97; 1Gv 4, 7-10;
Gv 15, 9-17
___________________________________________________
Continuando nella meditazione sul
mistero della nostra vita in Cristo, al paragone della vite e dei tralci Gesù
aggiunge una nota personale : "Come
il Padre ha amato me, anche io ho amato voi... come io ho osservato i
comandamenti del Padre mio … questo è il mio comandamento: che vi amiate gli
uni gli altri, come io vi ho amati".
A dire il vero, le frasi di Gesù
suonano piuttosto strane. Non ha molto senso infatti dire che uno è amico se fa
ciò che gli comanda l’altro oppure unire l’amare al fatto di essere comandati.
In questo intensissimo brano, dagli accenti estremamente confidenziali, si
aprono continuamente nuovi livelli di comprensione a seconda di come le varie
espressioni sono tenute insieme. La complessità è intenzionale perché la
densità di ciò che viene rivelato è tale da doverla accostare da più punti e
l’ascoltatore o il lettore è condotto, per accostamenti successivi, a entrare
sempre più nel profondo.
Ho osservato una particolarità che a
me sembra oltremodo significativa. Gesù parla di amore, gioia e comandamento,
ma nei versetti 9,10 e 11, si legge una specificazione singolare. “Rimanete nel
mio amore”, in greco: nell’amore quello mio; “perché la mia gioia sia in voi”,
la gioia quella mia; “questo è il mio comandamento”, il comandamento quello
mio. È come se il testo volesse insistere sulla natura, sulla qualità di
quell’amore, di quella gioia e di quel comandamento. Se Gesù intesse il suo
discorso su tre come, è perché allude
a ciò che lo caratterizza in proprio. Evidentemente il come non ha valore di paragone, quasi Gesù volesse additarci lui
come esempio in modo da raggiungere l’uguaglianza di intensità con lui
nell’amore. Sarebbe oltremodo presuntuoso per noi uomini. Non esprime
uguaglianza, ma ragion d’essere, identità di movimento, natura del movimento.
Gesù riferisce tutto al Padre, come se dicesse: tutta la compiacenza che il
Padre ha posto su di me (si pensi al battesimo e alla trasfigurazione), io l’ho
posta su di voi. Voi, in me, siete chiamati a entrare sotto questa compiacenza
e a goderne i benefici. Tale compiacenza dura dall’eternità e lungo tutta la
storia.
Lo proclamiamo con il salmo 97/98,
salmo che fa parte dei cinque salmi con cui gli ebrei ricevono liturgicamente
il Sabato (salmi 95-99), con l’espressione: “Il Signore ha fatto conoscere la sua salvezza”, ragion per cui si è
invitati a cantare in modo nuovo: “cantate
al Signore un canto nuovo”. Se il cuore si apre al mistero del Figlio,
inviato a mostrare la grandezza dell’amore del Padre e a riunire i figli di Dio
dispersi, allora non può non sentire compiersi la promessa di Gesù: “Vi ho detto queste cose perché la mia gioia
sia in voi e la vostra gioia sia piena”, gioia che qualche versetto più avanti
verrà definita: “Così anche voi, ora, siete nel dolore; ma vi vedrò di nuovo e
il vostro cuore si rallegrerà e nessuno potrà togliervi la vostra gioia”
(Gv 16,22).
La gioia è collegata all’esperienza
dell’amore, amore che lascia sgorgare fluente la vita. È caratteristico il
legame dell'amore con la vita. L’amore rende la vita degna di essere vissuta
perché l'amore dà vita, porta vita. Ma perché questo sia effettivo e duraturo,
deve valere anche l'aggiunta: l'amore fa dare la propria vita, come è stato per
Gesù. "Nessuno ha un amore più
grande di questo: dare la propria vita per i propri amici". Il che non
comporta solo il morire per l'altro, ma il mettere a disposizione la propria
vita per l'altro di modo che la propria vita diventi per l'altro alimento,
calore, rifugio, riposo, senza alcun limite. Mi sembra risieda proprio in
questo particolare aspetto la promessa di Dio all'uomo: "se uno mi ama, osserverà la mia parola e il
Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e faremo dimora presso di lui"
(Gv 14,23), ripreso dal canto al vangelo. Come a dire: il venire di Dio ed il
suo dimorare nel cuore dell'uomo che osserva la parola di Gesù comporta il
renderlo partecipe della sua stessa vita, comporta il metterlo a parte dei suoi
segreti e della sua sapienza di vita. E questo Gesù chiama: "perché la mia gioia sia in voi e la vostra
gioia sia piena". La gioia è il frutto più autentico non semplicemente
dell'amore, ma dell'amore che si è trasformato in vita piena, donata,
consegnata. I passaggi sarebbero così compresi: Dio dà il suo Figlio per amore
dell'uomo, ma Dio ama tutti coloro che si trovano nel Figlio, cioè coloro che,
guidati dal suo stesso Spirito, perdonati e pacificati, si dispongono a far
splendere l’amore del Signore comunque. Per quanto dobbiamo aggiungere che
l'amore e la gioia sono gli ultimi due passaggi di una serie di quattro, come
lucidamente nota Isacco Siro: "A misura della tua umiltà, ti sarà data la
capacità di sopportare le tue difficoltà; a misura della tua capacità di sopportare,
si alleggerisce il peso della tua anima ed essa è consolata nelle sue
afflizioni; a misura della sua consolazione, si accresce il tuo amore per Dio;
e a misura del tuo amore, si accresce la tua gioia nello Spirito". E il
movimento continua: a misura della tua gioia si accresce l’umiltà, ecc. (…)
Sono delineati come tre livelli
concentrici di realtà: tra il Padre e Gesù, tra Gesù e noi, tra di noi. Il
comandamento dell’amore vicendevole pesca nell’intimità di amore del Padre per
il Figlio e del Figlio per noi. Fa da perno la persona del Figlio, inviato dal
Padre, che si dà a noi nel suo amore salvatore. I comandamenti del Padre sono
la salvezza dell’uomo, veicolano la partecipazione alla sua compiacenza in
funzione di una comunione nell’amore e questo è il senso della nostra storia.
Chi non coglie questa dimensione troverà senza senso o troppo dura la vita
perché non riposa in un’intimità (è la sfumatura di significato del termine
‘rimanere’). La dinamica dell’amore è tale che o si estende a tutti o si perde,
nel senso che non è possibile limitare a qualcuno l’amore e negarlo ad altri.
Non sarebbe più un amore come quello di Gesù. E l’estensione a tutti ha una
concretezza che ne qualifica la verità: “Questo
è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati”.
L’amore a tutti comporta il trascinare tutti dentro quell’amore vicendevole che
è tipico dell’esperienza di comunione con Gesù, rivelatore dell’amore del
Padre. Tanto che Gesù può riassumere i comandamenti in uno solo: l’amore vicendevole,
che deriva dall’intimità di vita con il proprio Dio Salvatore. Se alla fine non
si parla più di comandamenti, ma di un solo comandamento, vuol dire che quel
comandamento non solo riassume tutti gli altri, ma di tutti mostra lo scopo
unico, il sigillo di autenticità e di vigore. L’amore vicendevole è
direttamente dipendente dall’esperienza dell’amore salvatore del Signore. Non
si accede all’amore per entusiasmo, ma per intima compassione, goduta e condivisa.
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Quinto ciclo
Anno liturgico B (2014-2015)
Tempo di Pasqua
Ascensione
(17 maggio 2015)
_________________________________________________
At
1,1-11; Sal 46; Ef 4,1-13;
Mc 16,15-20
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La tradizione comune della Chiesa ha
sempre collegato l’ascensione di Gesù con la visione della nostra futura
assunzione nella gloria, come proclama la colletta: “Esulti di santa gioia la
tua Chiesa, o Padre, per il mistero che celebra in questa liturgia di lode,
poiché nel tuo Figlio asceso al cielo la nostra umanità è innalzata accanto a
te, e noi, membra del suo corpo, viviamo nella speranza di raggiungere Cristo,
nostro capo, nella gloria”. Afferma Leone Magno: “l`Ascensione di Cristo
è quindi la nostra stessa elevazione e là dove ci ha preceduti la
gloria del capo, è chiamata altresì la speranza del corpo”.
La liturgia di oggi, come salmo
responsoriale, canta il salmo 46, salmo che profetizza l’ascensione di Gesù. Ma
quando si vuol descrivere l’evento nella sua drammatizzazione liturgica si fa
uso del salmo 23 dove, incalzanti, si susseguono le grida dei custodi delle
porte celesti: “Chi è questo re della
gloria? … Alzate, o porte, la vostra fronte, alzatevi, soglie antichi ed entri
il re della gloria”. Gli angeli si chiedono – è Gregorio Nazianzeno a
spiegare -: Egli non appartiene alla carne e al sangue: come mai le sue vesti
sono rosse, simili a quelle di uno che pigia un tino traboccante? Allora tu
mostrerai loro la veste del suo corpo, abbellita dagli ornamenti della passione
e della divinità, che non ha mai brillato di tanto amore e di tanta bellezza.
E Ambrogio commenta: “Angeli e
arcangeli lo precedevano, ammirando il bottino fatto sulla morte. Sapevano che
niente di corporeo può accedere a Dio e tuttavia vedevano il trofeo della croce
sulla sua spalla: era come se le porte del cielo, che l’avevano visto uscire,
non fossero più abbastanza grandi per riaccoglierlo. Non erano mai state a
misura della sua grandezza, ma per il suo ingresso di vincitore occorreva una
via più trionfale: davvero non aveva perso nulla ad annientarsi!”
Ecco: il senso dell’ascensione sta
tutto in questo riportare l’umanità nella gloria di Dio. È la nostra storia che
è assunta in Dio; Dio parla alla nostra storia e la nostra storia parla di Dio.
Sarà direttamente a partire da questa percezione che gli apostoli, come termina
il vangelo di Marco, “Allora essi
partirono e predicarono dappertutto”. A tutti è dovuta la storia dell’amore
del nostro Dio, perché tutti sono stati creati a partire da quell’amore e tutti
sono chiamati a godere di quell’amore.
Nella presentazione dell’evento
secondo la narrazione degli Atti degli apostoli, è caratteristico che i
discepoli, ad arco terreno di vita di Gesù ormai concluso, chiedano ancora: “Signore, è questo il tempo nel quale
ricostituirai il regno per Israele?”. E si sentono rispondere: “Non spetta a voi conoscere … ma riceverete
la forza dello Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni …”.
Il tempo della nostra vita, il tempo della Chiesa, non è il tempo per stare a
vedere gli esiti promessi, non è il tempo per spiare come si realizzano le
promesse; è il tempo della testimonianza, vale a dire è il tempo in cui far
vedere la grandezza dell’amore di Dio, manifestato in Gesù, che tutti riguarda.
Non solo nel senso che riguarda tutti singolarmente, ma che riguarda tutti nel
modo di stare insieme, nel modo di vivere quella comunione d’amore che renda
presente e percepibile la grandezza dell’amore di Dio.
Per questo, s. Paolo può dichiarare:
“Ma cosa significa che ascese, se non che
prima era disceso quaggiù sulla terra? Colui che discese è lo stesso che anche
ascese al di sopra di tutti i cieli, per essere pienezza di tutte le cose”.
L’affermazione però non ha un sapore di un dato di fatto semplicemente, ma
costituisce l’indicazione del movimento di rivelazione di Gesù, proprio come
commentava s. Ambrogio: “ … davvero non aveva perso nulla ad annientarsi”.
Scendere comporta il non preferire nulla all’amore, il non vincolarsi a nulla
per non perdere la grazia dell’amore e gustare la comunione con Dio che ci
vuole tutti alla sua mensa. Solo chi scende può ascendere.
In questa ‘discesa’ va collocato il
contesto della missione alle genti con l'assicurazione
della presenza costante del Signore. Quando Gesù, nell'ultima cena, aveva
ricordato il suo ritorno al Padre, aveva causato negli apostoli una grande
tristezza. Ora che gli apostoli lo vedono sparire in cielo senza poterlo più
rivedere provano una grande gioia. Evidentemente il mistero vissuto dagli
apostoli era d’altra natura rispetto a quello che immaginiamo. I discepoli
hanno visto il fatto materiale dell’ascendere di Gesù al cielo (il testo usa il
verbo greco βλέπω, vedere)
ma hanno anche intravisto la portata mistica del fenomeno (il testo usa il
verbo θεάομαι, contemplare). Ciò significa che lo sparire di Gesù dalla loro vista
permetteva di coglierlo presente nei loro cuori. Nella percezione degli
apostoli l’ascensione è colta come un dono di presenza, come
un’interiorizzazione di rapporto, che non solo non perde nulla della sua realtà
con la sottrazione della fisicità di Gesù, ma acquista profondità e intensità
insospettate.
Nel racconto di Marco ciò che
colpisce è una specie di forza potente che muove tutto: il cuore degli apostoli
come l’insieme del mondo e lo stesso desiderio di Dio per l’uomo. In quel
correre alla predicazione non va visto solo lo zelo degli apostoli, ma anche
l’attesa degli uomini e il desiderio di Dio. Così la presenza potente di Gesù
accanto ai suoi non va vista nella capacità di fare miracoli, come farebbe
supporre l’annotazione dell’evangelista nel finale del suo vangelo; va vista
piuttosto in riferimento alla predicazione,
vale a dire alla capacità che ha di riempire il cuore, che parla a tutti della
sua presenza viva, senza che il mondo lo possa soffocare. La molla segreta di
tale capacità è lo stesso desiderio
di salvezza che Dio nutre nei riguardi degli uomini e che si comunica ai
discepoli per raggiungere tutto il mondo.
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Quinto ciclo
Anno liturgico B (2014-2015)
Tempo di Pasqua
Pentecoste
(24 maggio 2015)
___________________________________________________
At
2,1-11; Sal 103; Gal 5,16-25;
Gv 15,26.27; 16,12-15
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O fuoco la cui venuta è parola, il
cui silenzio è luce! Fuoco che fissi i cuori nell’azione di grazie” canta s.
Efrem e la liturgia di oggi, con il canto al vangelo, proclama: “Vieni, santo
Spirito, riempi i cuori dei tuoi fedeli e accendi in essi il fuoco del tuo
amore”.
Con la festa di Pentecoste si chiude
il tempo pasquale. Il mistero pasquale si celebra nella sua interezza proprio
con l'invio dello Spirito Santo, il quale ci inserisce e ci fa vivere nel
Signore Gesù Cristo, morto e risorto per noi.
Gesù, durante la festa delle
Capanne, annunciatrice delle benedizioni messianiche, aveva fatto una promessa:
“Nell’ultimo giorno, il grande giorno
della festa, Gesù, ritto in piedi, gridò: «Se qualcuno ha sete, venga a me, e
beva chi crede in me. Come dice la Scrittura: Dal suo grembo sgorgheranno fiumi
di acqua viva». Questo egli disse dello Spirito che avrebbero ricevuto i
credenti in lui: infatti non vi era ancora lo Spirito, perché Gesù non era
ancora stato glorificato” (Gv 7,37-39). Aveva promesso di inviarci il suo
Spirito come fonte zampillante di vita eterna da dentro il nostro cuore.
La promessa si realizza nel giorno
di Pentecoste con la discesa dello Spirito Santo descritta con la doppia
immagine delle lingue e del fuoco: “Apparvero
loro lingue come di fuoco, che si dividevano, e si posarono su ciascuno di
loro, e tutti furono colmati di Spirito Santo” (At 2,3-4). E Gesù aveva
anticipato: “Quando verrà lui, lo Spirito
della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma
dirà tutto ciò che avrà udito” (Gv 16,13) e “Lo Spirito vi insegnerà ogni cosa; vi ricorderà tutto ciò che io vi ho
detto” (Gv 14,26).
L’azione dello Spirito è un’azione
di memoria. Non però semplicemente di far venire alla mente, di riportare alla
mente. La memoria è collegata al fuoco, perché la verità che costituisce la
natura dello Spirito è la verità dello splendore dell’amore del Padre e di Gesù
per noi. E se Gesù dice che lo Spirito ci guiderà a tutta la verità (nel testo
greco, propriamente, è detto che ci guida nella verità, stato in luogo e non
alla verità, moto a luogo) vuol dire che la guida dello Spirito non è tesa a
farci raggiungere la verità, ma ad aprire ogni evento della vita alla
manifestazione della verità. In altre parole, in gioco è la possibilità di
vivere la nostra vita, dentro tutti gli eventi che la caratterizzano, esteriori
e interiori, nella logica dell’esperienza dell’amore di Dio per noi, che
nell’umanità di Gesù ha la sua manifestazione più totale. Ogni evento può
essere vissuto nell’esperienza dell’amore di Dio che ci trascina nella sua
dinamica di comunione con Lui e tra di noi. La guida dello Spirito è tesa
proprio a far sì che nessun evento ci impedisca l’esperienza di questo amore; a
far sì che ogni evento ci richiami a vivere la potenza di quell’amore, che
nulla può mortificare.
E quando si sottolinea che lo
Spirito dirà tutto ciò che ha udito, non si fa riferimento alle semplici parole
di Gesù che noi troviamo nei vangeli, ma al colloquio eterno di Dio in se
stesso a proposito della creazione e della salvezza dell’uomo, scopo di tutta
la creazione. Quel colloquio riguarda il destino di comunione dell’uomo nella
gioia dell’amore con il suo Dio, destino che si gioca sull’immolazione
dell’Agnello prima della fondazione del mondo (Ap 13,8). Lo Spirito ha udito
tutto quello che il Padre e il Figlio si dicono dall’eternità nella
condivisione del loro amore folle per l’uomo. Quella memoria incendierà nel nostro cuore, del contenuto di quella memoria incendierà il nostro cuore. Il
fuoco esprime appunto la cifra di quel colloquio, la condivisione di un segreto
capace di far ardere il cuore. Significa poter conoscere il mistero del Signore
Gesù in tutta la potenza di rivelazione dell’amore di Dio per l’uomo, nella
condivisione del suo segreto.
Oltre al fuoco, l’immagine
caratteristica della Pentecoste è quella delle lingue. Il miracolo di
pentecoste possiamo esprimerlo così: i vari idiomi si unificano in un’unica
lingua, la diversità si apre alla comunione e tutti comprendono la stessa cosa.
Ciò che accomuna, comunque, è solo l’opera di Dio riconosciuto nel suo amore
per gli uomini. Tutti mantengono la proprietà dei rispettivi linguaggi, ma
tutti esprimono l’identica cosa: i cuori parlano oramai un’unica lingua, a differenza
dell’esperimento della torre di Babele, quando gli uomini parlavano l’unica
lingua del dominatore di turno in ordine al sogno di grandezza di qualche
potente, ma i cuori erano schiavizzati, zittiti nella loro lingua. É il
miracolo operato nei cuori dallo Spirito quando li convince a muoversi nella
carità, aprendo la diversità alla comunione e facendo esperienza che così viene
proclamato l’amore di Dio che riempie i cuori. Riconoscere, assecondare,
favorire tale dinamica, significa aver ricevuto e agire nella potenza dello
Spirito Santo. E lo Spirito Santo non può che condurre alla conoscenza del
mistero del Signore Gesù che dell’amore di Dio per gli uomini è il testimone
per eccellenza.
L’unità dell’opera di Dio si
manifesta in quei frutti di cui Paolo attribuisce l’azione allo Spirito: “Il frutto dello Spirito, invece, è amore,
gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé;
contro queste cose non c’è Legge” (Gal 5,22). Quei frutti si possono
interpretare così: i primi tre rivelano la partecipazione all’umanità di Gesù
perché di essi Gesù dice che sono suoi: ‘rimanete nel mio amore, vi do la mia
gioia, vi do la mia pace’; gli altri tre rivelano la radice del cuore dove
pescano i sentimenti: larghezza, senso e capacità di bene; gli ultimi tre
rivelano la modalità con cui tenere aperto il proprio vissuto rispetto alla
grazia dell’amore: fede, mitezza e vigilanza. Possiamo però domandarci: perché
quei frutti parlano dello Spirito, se lo Spirito è dato in ordine alla missione
nel mondo? Lo Spirito investe l’universo irradiando dal centro delle persone;
opera nel mondo a partire dalla trasfigurazione delle persone. I frutti
alludono alla realizzazione della vocazione all’umanità che scaturisce dalla
comunione con Dio, di cui Gesù ci fa partecipi nel suo Spirito e che si
riversa, in solidarietà con i suoi sentimenti, su tutti gli uomini, destinatari
come noi del suo amore misericordioso. La funzione perciò dello Spirito è
quella di farci ritrovare in Gesù, di renderci appartenenti a Gesù (“Io sono
la vite, voi i tralci” ... “rimanete
in me”) in quella umanità ormai aperta alla comunione con Dio, solidale con
lui e con gli uomini. Appena il cuore viene liberato dalle sue illusioni di
potenza o presunzioni di potere, torna a godere della sua umanità compiendone
gli aneliti e ritrovandosi solidale con tutti, in Gesù. E questo fa vivere ‘un
cuore solo e un’anima sola’ con i nostri fratelli, proprio come invochiamo
nella liturgia eucaristica: “dona la pienezza dello Spirito Santo perché
diventiamo in Cristo un solo corpo e un solo spirito” (Canone III).
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Quinto ciclo
Anno liturgico B (2014-2015)
Solennità e feste
Ss. Trinità
(31 maggio 2015)
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Dt
4,32-34.39-40; Sal 32; Rm 8,14-17;
Mt 28,16-20
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La liturgia
oggi celebra la confessione della fede in Dio: Padre, Figlio e Spirito Santo.
Ora, la confessione della fede non esprime semplicemente la convinzione dei
credenti in certi dati di verità, ma più propriamente esprime l’esperienza che
ha permesso la formulazione di quei dati. Il principio della proclamazione del
Credo nella liturgia, come di tutte le formule di confessione della fede, si
radica nella grande esperienza religiosa del popolo di Israele: Dio non è un
oggetto di conoscenza, ma un Soggetto di relazione. Non si arriva a Dio per via
speculativa, ma dentro una storia di salvezza, accogliendo l’iniziativa di Dio.
Dire “io credo” significa prima di tutto dire: benedico colui che ha fatto
questo e questo per me, accetto di rispondere all’alleanza che ha voluto
offrirmi, sono suo servo, erede delle sue promesse e fruitore del suo regno. La
proclamazione delle Scritture come la celebrazione liturgica sono percepite
come memoriale dell’iniziativa di Dio
per l’uomo, il quale è chiamato a riconoscere l’amore di Dio per lui nella sua
storia che diventa sacra, storia di salvezza.
L’antifona
di ingresso della liturgia di oggi lo esprime molto bene: “Sia benedetto Dio Padre,
e l’unigenito Figlio di Dio, e lo Spirito Santo: perché grande è il suo amore
per noi”. È la stessa cosa che proclamano i beati in paradiso, con il segno del
tau in fronte: “La salvezza appartiene al
nostro Dio seduto sul trono e all’Agnello” (Apoc 7,10). La proclamazione, a
livello sonoro, esprime quello che il tau significa a livello visivo: Dio è
santo, a Lui la salvezza! Il sigillo e le parole rivelano la comprensione di
Dio da parte degli uomini secondo la definizione giovannea: Dio è amore (1Gv 4,8).
Come a dire: ora sappiamo per esperienza che il Dio che conosciamo è un Dio
pieno di amore per noi! Ora ammiriamo la sua gloria nel vedere che Lui è tutto
in tutti.
E Dante può
cantare alla fine del suo poema, ormai abilitato alla visione del suo Dio:
Nel suo
profondo vidi che s'interna, / legato con amore in un volume, / ciò che per
l'universo si squaderna: /// sustanze e
accidenti e lor costume / quasi conflati insieme, per tal modo / che ciò ch'i'
dico è un semplice lume. /// La forma
universal di questo nodo / credo ch'i' vidi, perché più di largo,/ dicendo
questo, mi sento ch'i' godo.
E negli
ultimi versi del canto XXXIII del Paradiso esclama:
veder voleva
come si convenne / l'imago al cerchio e come vi s'indova; /// ma non eran da
ciò le proprie penne: /se non che la mia mente fu percossa / da un fulgore in
che sua voglia venne. /// A l'alta fantasia qui mancò possa; / ma già volgeva
il mio disio e 'l velle, / sì come rota ch'igualmente è mossa, /// l'amor che
move il sole e l'altre stelle.
Non si può
spiegare, ma si può godere. Non si può comprendere, ma si può restare
pacificati e riempiti nel volere e nel desiderare, pienamente, in modo che
l’esperienza dell’amore di Dio sia la causa efficiente prima del nostro agire e
del nostro sentire.
Quello che
san Paolo proclama nella sua lettera ai Romani: “Tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, questi sono figli
di Dio” (Rm 8,14)! Da comprendersi: “noi sappiamo che tutto concorre al
bene, per quelli che amano Dio …. Io sono persuaso che né morte né vita … potrà
mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore” (Rm
8,28.38).
Gesù aveva
promesso che lo Spirito che avrebbe mandato ci avrebbe guidati a tutta la
verità (cfr Gv 16,13). Il che significa: ci farà conoscere l’amore del Padre,
che in Gesù ha il suo Testimone assoluto, nel quale ci radica e ci fa vivere. E
se il vangelo di Matteo finisce con la promessa: “Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”
(Mt 28,20) noi possiamo intendere: con l’invio dello Spirito Santo, siamo
diventati un solo spirito con il Signore Gesù da vivere la nostra umanità nello
splendore della sua vocazione, vale a dire di essere chiamata alla mensa
dell’amore di Dio insieme a tutti i fratelli. Perché Gesù, che è con noi, ci
innesta nel suo movimento di rivelazione al mondo dell’amore di Dio, riunendo
tutti alla stessa mensa, perché tutti chiamati allo stesso destino.
E allora,
rifacendomi ancora ai versi del poeta, avverrà anche per noi quello che è
avvenuto per lui nella sua ascesa verso Dio:
Al Padre, al
Figlio, a lo Spirito Santo / cominciò, ‘gloria!’, tutto ‘l paradiso, / sì che
m’inebriava il dolce canto.
Ciò ch’io
vedeva mi sembiava un riso / de l’universo; per che mia ebbrezza / intrava per
l’udire e per lo viso (Par
XXVII).
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Quinto ciclo
Anno liturgico B (2014-2015)
Solennità e feste
Ss. Corpo e Sangue di Cristo
(7 giugno 2015)
___________________________________________________
Es
24, 3-8; Sal 115; Eb 9, 11-15;
Mc 14, 12-16. 22-26
___________________________________________________
Furono le
visioni di Giuliana di Cornillon, monaca agostiniana di Liegi, ad avere un
influsso decisivo nell’introduzione di questa festività, che per la prima volta
si celebrò nella diocesi di Liegi nel 1247. Urbano IV, già arcidiacono di Liegi
e confessore di Giuliana, la prescrisse per tutta la Chiesa nel 1264.
Parafrasando
il Padre Nostro, s. Francesco così commenta l'invocazione 'dacci oggi il nostro
pane quotidiano': “Il nostro pane quotidiano, il tuo Figlio diletto, il Signore
nostro Gesù Cristo, dà a noi oggi: in memoria, comprensione e reverenza
dell'amore che egli ebbe per noi e di tutto quello che per noi disse, fece e
patì” (FF 271). E nella sua prima ammonizione, tutta dedicata al mistero del
Corpo del Signore, scrive stupendamente: "Per cui lo Spirito del Signore,
che abita nei suoi fedeli, è lui che riceve il santissimo corpo e il sangue del
Signore. ... Ecco, ogni giorno egli si umilia, come quando dalla sede regale
discese nel grembo della Vergine; ogni giorno egli stesso viene a noi in
apparenza umile; ogni giorno discende dal seno del Padre sull'altare nelle mani
del sacerdote. E come ai santi apostoli si mostrò nella vera carne, così anche
ora si mostra a noi nel pane consacrato. E come essi con gli occhi del loro
corpo vedevano soltanto la carne di lui, ma, contemplandolo con gli occhi dello
spirito, credevano che egli era lo stesso Dio, così anche noi, vedendo pane e
vino con gli occhi del corpo, dobbiamo vedere e credere fermamente che questo è
il suo santissimo corpo e sangue vivo e vero. E in tale maniera il Signore è
sempre presente con i suoi fedeli ..." (FF 143-145).
Ignazio di
Antiochia, scrivendo ai Romani poco prima di essere condotto al supplizio,
diceva: "Voglio il pane di Dio che è la carne di Gesù Cristo, della stirpe
di David e come bevanda voglio il suo sangue che è l'amore incorruttibile"
(Lett. ai Romani, VII,3).
È il fervore
dei santi davanti ai misteri di Dio. Le celebrazioni eucaristiche che facciamo
ci trovano in tale fervore? Muovono il nostro desiderio?
Il mistero
dell’Eucaristia è celebrato coralmente dagli inni di s. Tommaso d’Aquino (Pange lingua, Lauda Sion) e soprattutto dai tre prefazi, ai quali mi rifaccio per
suggerire qualche porta di accesso allo splendore di questa festa.
Il primo si
incentra sul memoriale del sacrificio: viene celebrato il mistero d’amore di
Dio per l’uomo, che nel sacramento continuamente si ripresenta perché ognuno vi
possa essere immesso e in esso rimanere.
Il secondo
celebra l’eucaristia come vincolo di unità e perfezione: “in questo grande
mistero tu nutri e santifichi i tuoi fedeli, perché una sola fede illumini e
una sola carità riunisca l’umanità diffusa su tutta la terra. E noi ci
accostiamo a questo sacro convito, perché l’effusione del tuo Spirito ci
trasformi a immagine della tua gloria”. È il mistero della santità come mistero
di fraternità realizzata, a immagine della Trinità. La vita eterna che il
sacramento ci procura è la vita nello Spirito che ci fa vivere un cuor solo e
un’anima sola, nella lode di Dio; un assaggio di paradiso.
Il terzo
celebra l’eucaristia come pegno di risurrezione: “nell’eucaristia, testamento
del suo amore, egli si fa cibo e bevanda spirituale per il nostro viaggio verso
la Pasqua eterna. Con questo pegno della risurrezione finale partecipiamo nella
speranza alla mensa gloriosa del tuo regno”. È la celebrazione del mistero del
Regno. Il principio di fondo, illustrato dai Padri nella spiegazione della
preghiera del Padre nostro, è semplice: su quello che sarà e che non verrà mai
meno va orientata la nostra esistenza. Accedere alla mensa del Corpo e Sangue
di Cristo vuol dunque dire imparare a percepire ciò che soddisfa il cuore
dell’uomo e a vivere del Dono di Dio, fino a che la verità di questo appaia
finalmente al nostro cuore in tutto il suo splendore.
Tre sono i
verbi significativi che ricorrono nei prefazi: “… a te per primo si offrì
vittima di salvezza”, “in questo grande mistero tu nutri e santifichi”. “Si
offrì” vuol dire ‘non si tirò indietro’, ‘non preferì nulla all’amore che lo
consumava dentro’, ‘svelò tutta la sua passione d’amore per il Padre e per gli
uomini’. In quell’offrirsi non è accentuato tanto la natura riparatrice del suo
sacrificio quanto lo splendore dell’amore del Padre che tanto ha amato gli uomini
da dare quel suo Figlio unigenito, su cui era posto tutto il suo compiacimento.
Il nutrire (il suo Corpo si fa pane di vita, il suo Sangue bevanda di salvezza)
allude al fatto che comunica la forza del suo amore che risana e vivifica,
rendendoci capaci di percorrere la via per il Regno. Il santificare (è lo
Spirito Santo che in noi assume il Corpo e il Sangue di Cristo, rendendoci un
tutt’uno con quel Corpo – si veda la prima ammonizione di s. Francesco di
Assisi) allude alla potenza di trasfigurazione dello Spirito che ci fa vivere
in Cristo e di Cristo fino a che tutto di noi parli di Lui. La cosa
straordinaria è che la tensione del santificare non mira che al mistero della
fraternità, l’unico segno inequivocabile della presenza di Dio, dello splendore
della sua gloria. Quando preghiamo che ci trasformi a immagine della sua
gloria, in effetti, chiediamo di poter essere immessi nel mistero d’amore della
Trinità da cui deriva la fraternità tra gli uomini. Il segno più eloquente di
quell’amore e dello spazio nuovo di fraternità che ne deriva per gli uomini è
la dicitura ‘re della gloria’ posta sul capo del Crocifisso.
Se ci
domandiamo qual è la virtù specifica dell'Eucarestia, a cosa tende, non
possiamo non rispondere con s. Agostino: "La virtù propria di questo
nutrimento è quello di produrre l'unità, affinché, ridotti ad essere il corpo
di Cristo, divenuti sue membra, siamo ciò che riceviamo" (Disc. 272).
L'amen che rispondiamo al 'corpo di Cristo' proferito dal sacerdote al momento
della comunione eucaristica ha proprio questo significato: sì, riconosco di far
parte di quel Corpo e accetto di vivere in modo da non ferire mai l'unità di
quel corpo. È il mistero della comunione con Dio e tra gli uomini diventato lo
scopo supremo dell'agire del cuore. Come dice l'orazione sulle offerte:
"Concedi benigno alla tua Chiesa, o Padre, i doni dell'unità e della pace,
misticamente significati nelle offerte che ti presentiamo".
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Quinto ciclo
Anno liturgico B (2014-2015)
Solennità e feste
Sacro Cuore di Gesù
(12 giugno 2015)
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Os
11,1.3-4.8c-9; Is 12,2-6; Ef 3,8-12.14-19; Gv 19,31-37
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Il simbolo
più eloquente dell’amore di Dio per l’uomo, almeno nella liturgia latina, è il
‘sacratissimo cuore di Gesù’ che la lancia del soldato apre sul mondo,
spalancando sull’universo il segreto di Dio. L’antifona d’ingresso della festa
del S. Cuore canta: “Di generazione in generazione durano i pensieri del suo
cuore, per salvare dalla morte i suoi figli e nutrirli in tempo di fame”, eco
del salmo 32 là dove proclama: “Il
Signore annulla i disegni delle nazioni, rende vani i progetti dei popoli. Ma
il piano del Signore sussiste per sempre, i pensieri del suo cuore per tutte le
generazioni”. Il piano del Signore è la sua determinazione all’amore per
l’uomo, una determinazione che non si lascia vincere da nessuna diffidenza e
cattiveria. Dio resta solidale con l’uomo comunque. Il Cuore di Gesù svela
questo piano e lo rende noto a tutti, a chiunque, per sempre.
Lo ripete s.
Paolo nella sua lettera agli Efesini quando descrive l’annuncio evangelico del
mistero nascosto da secoli in Dio e ora rivelato al mondo dicendo: “…secondo il progetto eterno che egli ha
attuato in Cristo Gesù nostro Signore …”. Con lo straordinario invito
finale: “Che il Cristo abiti per mezzo
della fede nei vostri cuori, e così, radicati e fondati nella carità, siate in
grado di comprendere con tutti i santi quale sia l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza
e la profondità, e di conoscere l’amore di Cristo che supera ogni conoscenza
…” (Ef 3,11.17-19).
Esperienza
certamente fascinosa ma per nulla scontata. Se interrogo il mio cuore, nella
sua fatica del vivere, non posso non domandarmi: ma perché resto così
insensibile davanti al suo cuore spalancato?
Perché non mi faccio toccare? I comandamenti del Signore, rispetto alla
sapienza del mondo che pervade la nostra carne, non hanno spesso quella
risonanza per la quale non ci sentiamo attirati, ma come impauriti,
respinti? Eppure, come dice
misteriosamente il profeta Zaccaria: “Riverserò
sopra la casa di Davide e sopra gli abitanti di Gerusalemme uno spirito di
grazia e di consolazione: guarderanno a me, colui che hanno trafitto” (Zc
12,10). Profezia, che il vangelo di Giovanni interpreta come figura della morte
in croce di Gesù (cfr Gv 19,37). È proprio Dio che si lascia trafiggere e la
salvezza viene dal fatto di guardare a lui trafitto con altri occhi. Non c’è
altra strada per convertirsi, per credere. Non è sdegnandosi con se stessi o
sognando una giustizia superiore che il cuore attinge al mistero di Dio, ma
solo commuovendosi davanti ad un amore così toccante che ti rende prezioso
nonostante la tua indegnità.
Acquistano
una risonanza insospettata le parole di Giovanni nella sua prima lettera se le
riferiamo direttamente al Cuore di Gesù: “… davanti
a lui rassicureremo il nostro cuore, qualunque cosa esso ci rimproveri. Dio è
più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa” (1Gv 3,19-20). È Dio a
sovrastare il nostro peccato con la sua bontà. Il riconoscimento del peccato
richiama in primo luogo la bontà di Dio, non la nostra condanna. La bontà crea
sempre uno spazio nuovo al cuore dell'altro permettendogli di entrare
nuovamente nella vita, apre un tempo nuovo senza bloccare il cuore al passato.
Il Suo amore è più grande del nostro peccato. E proprio questa esperienza è la
garanzia più solida della nostra speranza che ci apre alla comunione con Dio e
con i fratelli, pacificando noi stessi.
Giovanni è
testimone oculare: “uno dei soldati con
una lancia gli colpì il fianco, e subito ne uscì sangue e acqua” (Gv
19,34). Evidentemente, non allude solo
al fatto visto, ma al significato che ne ha dedotto, significato che
corrisponde a quanto aveva scritto all’inizio del suo vangelo: “ e noi abbiamo contemplato la sua gloria,
gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre, pieno di grazia e di
verità … Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel
seno del Padre, è lui che lo ha rivelato” (Gv 1,14.18). Il cuore squarciato
illustra quella gloria e il fatto
viene narrato perché anche chi legge possa ritrovarsi nella stessa esperienza
del discepolo prediletto. Non si tratta di una informazione di cronaca, ma
dello svelamento di un segreto capace di rinnovare tutta la vita. Quella gloria
appare a chi guarderà verso quel trafitto
sentendosi trafitto dalla intensità del suo amore e dal dolore di non averlo
compreso prima. Vedremo allora, come dice il profeta Osea, l’opera di Dio per
noi: “A Efraim io insegnavo a camminare
tenendolo per mano, ma essi non compresero che avevo cura di loro” (Os
11,3). Così prega la colletta: “Padre di infinita bontà e tenerezza… donaci di
attingere dal Cuore di Cristo trafitto sulla croce la sublime conoscenza del
tuo amore …”.
Mi piace
riportare un aneddoto delle fonti francescane. Vi si narra di un sogno
rivelatore di due eretici, poi convertiti. Avevano visto il Signore Gesù
chinarsi sul petto di Giovanni e questi a sua volta su quello di Gesù. Ad un
certo punto, Gesù aprì con le sue stesse mani la ferita del costato e vi
apparve perfettamente visibile san Francesco, all’interno del petto di nostro
Signore; poi Gesù chiuse la sua ferita e vi rinchiuse san Francesco (FF 2547).
Ma di Francesco si dice che avesse costantemente davanti agli occhi il suo
dolce Gesù, crocifisso: “I frati che vissero con lui, inoltre sanno molto bene
come ogni giorno, anzi ogni momento affiorasse sulle sue labbra il ricordo di
Cristo; con quanta soavità e dolcezza gli parlava, con quale tenero amore
discorreva con Lui. Era davvero molto occupato con Gesù. Gesù portava sempre
nel cuore, Gesù sulle labbra, Gesù nelle orecchie, Gesù negli occhi, Gesù nelle
mani, Gesù in tutte le altre membra (FF 522).
L’invito
alla fede da parte di Giovanni evangelista nel riportare l’episodio della
lancia che squarcia il costato di Cristo allude all’esperienza di visione dell’amore di Dio per noi che
proietta la vita in spazi assolutamente nuovi, fino ad allora impensabili. Non
è che l’uomo abbia motivi così evidenti per amare Dio; ma se sosta in preghiera
quei motivi incominciano ad apparire al cuore e tutti alla fine si riducono
all’esperienza del venir come rinchiusi
nel fianco aperto di Cristo, spalancato sul mondo, resi ormai suoi compagni di
testimonianza dello splendore dell’amore di Dio per l’uomo.
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Quinto ciclo
Anno liturgico B (2014-2015)
Tempo Ordinario
XI
Domenica
(14 giugno 2015)
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Ez
17,22-24; Sal 91; 2 Cor 5,6-10;
Mc 4, 26-34
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Se paragoniamo il testo di Ezechiele
con le parabole di Gesù ci accorgiamo del cambiamento di prospettiva con cui
considerare il regno di Dio. Il profeta concepisce una restaurazione gloriosa
in continuità con il passato (vedi la talea dall’antico cedro), mentre Gesù
parla di un seme nuovo. Il regno di Dio non prolunga il passato né sposa la sua
grandezza agli occhi del mondo. La talea del testo profetico è presa da un
cedro, albero molto grande e piantata su un alto monte, mentre per Gesù il
regno di Dio nasce da un seme piccolissimo e piantato sulla terra, nel mondo
intero. La talea del cedro diventerà un albero magnifico (il cedro era
considerato il re degli alberi), mentre per Gesù il regno di Dio sarà un albero
molto modesto.
Se le descrizioni profetiche hanno
dato vita ad attese messianiche trionfali, con le sue parabole Gesù smonta
queste vane speranze: il regno di Dio avrà origini insignificanti e anche nel
suo prodigioso sviluppo mancherà di splendore mondano. Ecco quanto risultava
indigesto agli ascoltatori di Gesù e quanto risulta indigesto anche a noi, per
le attese fasulle di una gloria di imperio di Dio che saranno sempre disattese.
Il racconto delle due parabole è la
ripresa dell’invito iniziale del vangelo di Marco: “Credete al vangelo” (Mc 1,15), che, per essere percepito nella sua
reale novità, potremmo tradurre: ‘abbiate fede in questa buona notizia’, ‘date
fiducia a questa buona notizia’. In una duplice direzione, come sottolineano le
due parabole del seme gettato nella terra e del granello di senape: ciascun
cuore è invitato ad accogliere il seme della parola di Gesù, che, crescendo,
costruisce una nuova fraternità dallo spirito evangelico; questa nuova comunità
agisce nel mondo crescendo e attirando al Signore Gesù gli uomini di ogni dove,
sempre custodendo la modestia dell’opera di Dio che non si impone, ma che
affascina e attira.
Le parabole in effetti sono
costruite sul contrasto tra il seme e il frutto, tra il seme piccolissimo e la
pianta grande. Sottolineano la potenza
del seme e l'esito certo finale. La parabola del seme non insiste tanto sulla
sua piccolezza, ma sulla potenza che possiede nonostante la sua piccolezza. Il
paragone del seme vale anche per la fede: “se
aveste fede quanto un granellino di senapa ...” (Lc 17,6). Non da
intendere: basta che abbiate almeno un pochino di fede. Piuttosto: aveste fede
autentica, grande come un minutissimo seme di senape. I semi di senapa sono
così minuti che se si mettono sul palmo della mano e si capovolge la mano come
per rovesciarli per terra, nemmeno cadono giù. Era proverbiale l’immagine della
piccolezza del seme di senapa. Il paragone è basato sulla potenza che il seme
racchiude. E quando questa potenza si dispiega cresce a dismisura e diventa un
albero e tutti gli uccelli del cielo (intesi dalla tradizione: i popoli pagani,
i pensieri malvagi, tutti i pensieri dell’uomo) vengono a nidificare sui suoi
rami, cioè sono attratti e lì trovano riposo. Tale potenza appartiene al seme,
non a noi: questo è il motivo profondo della fiducia del cuore rispetto al peso
della vita, al peso dei malvagi nella vita. Non importa se abbiamo una fede
grande o piccola, basta che sia genuina e questa ha la potenza di fare
miracoli, cioè di trasformare tutto il nostro cuore fino a che ogni desiderio e
pensiero che vi si trova si riunisca e trovi riposo e compimento nel Signore
Gesù.
L’allusione si deduce dai termini
che il vangelo di Marco usa, inusuali per una semplice descrizione. Ad esempio,
non usa il verbo ‘nidificare’ ma ‘accamparsi’; per dire che il frutto matura
dice: il frutto si consegna (allusione alla consegna di Gesù agli uomini, alla
consegna dei discepoli a Gesù!); per la mietitura che è arrivata usa
l’espressione di Gioele 4,13 in cui si parla del raccolto che è presente, vale
a dire che il messaggio di Gesù è destinato a tutti i popoli e tutti lo
riconosceranno. Così la piccolezza del seme non è solo allusiva dell’inizio
insignificante, ma dell’irrilevanza sociale della comunità dei credenti.
Come viene cantato al vangelo: “Il
seme è la parola di Dio, il seminatore è Cristo: chiunque trova lui, ha la vita
eterna”, la parola del Signore ha così potenza che basta accoglierne una in
verità da essere capace di riunificare tutto di noi attorno, su e dentro di
essa. Così, davanti al dramma del male che ci accompagna, resta la fiducia
ancora più grande della potenza della parola di Dio, di quel Verbo, fatto uomo,
accolto in cuore e capace di portare tutto a Lui e in Lui, come s. Paolo nella
sua lettera ai Corinzi proclama: “sempre
pieni di fiducia … siamo pieni di fiducia”.
L’aspetto singolare dell’immagine
della pianta che cresce fino a permettere agli uccelli di nidificare è il
capovolgimento di prospettiva rispetto al suo uso profetico tradizionale. Se,
nel brano di Ezechiele, l’immagine indicava l’umiliazione dei due potenti regni
antagonisti del Medio Oriente antico, Egitto e Assiria, nell’intelligenza
evangelica l’immagine perde tutto il sapore di potenza mondana e si applica al
regno di Dio che cresce a tal punto da attirare tutte le nazioni. L’inizio è
insignificante, la modalità di crescita nascosta, ma l’esito fecondo.
Aggiungo ancora che Luca,
all’immagine del seme, unisce quella del lievito, per mostrare come l’evidenza
del Regno non riguardi una cosa o l’altra. Del regno non si può dire: eccolo qui, eccolo là. Riguarda l’insieme
del mondo, della vita, dei rapporti, dell’agire e del sentire, dell’essere e
del fare. Girolamo spiega come il lievito sia la conoscenza del mistero del
Figlio di Dio fatto uomo per noi, la gioia della scoperta del Figlio di Dio
come tesoro e perla preziosa tanto da investire tutte le proprie energie in
quel cammino di scoperta e da cedere ogni altro bene in vista di ottenere e di
condividere con tutti quel tesoro. Quel Verbo, seminato nella terra del nostro
cuore, cresce e attira tutto a sé.
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Quinto ciclo
Anno liturgico B (2014-2015)
Tempo Ordinario
XII
Domenica
(21 giugno 2015)
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Gb
38,1.8-11; Sal 106; 2 Cor 5,14-17; Mc 4,35-41
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La liturgia collega l’immagine di
Gesù che comanda al vento e al mare con quella di Dio che parla a Giobbe in
mezzo all’uragano. Non viene sottolineata semplicemente la potenza di Dio:
sarebbe banale l’esibizione di potenza da parte di Dio che domina il mare, pur
così terribile. Se Dio parla di mezzo al turbine a Giobbe (siamo alla fine del
libro, quando Dio ormai ha conquistato Giobbe all’incontro con lui e lo elogia
davanti ai suoi amici perché ha pensato più rettamente di loro) è per
introdurlo al mistero di un incontro che apre al senso del vivere. La vita è
assai più misteriosa di quanto siamo portati ad ammettere. Così Gesù, che si è
messo a dormire sulla barca nel lago in burrasca, non è destato dai discepoli
per lasciarli a bocca aperta davanti al suo potere sul mare.
L’antifona di ingresso ci fornisce
la finestra di luce appropriata: “Salva il tuo popolo e benedici la tua
eredità, e sii la sua guida per sempre”. Si tratta del v. 9 del salmo 27/28, la
cui versione recente, più in linea con il testo ebraico e greco, suona: “Salva
il tuo popolo e benedici la tua eredità, sii loro pastore e sostegno per
sempre”. Questa invocazione risuona alla fine della liturgia eucaristica
celebrata secondo il rito bizantino, dopo che i fedeli hanno ricevuto la
comunione e il sacerdote invoca sui fedeli la benedizione di Dio: “O Signore,
tu che benedici coloro che ti benedicono e santifichi quelli che hanno fiducia
in te, salva il tuo popolo e benedici la tua eredità. Custodisci tutta quanta
la tua Chiesa, santifica coloro che amano il decoro della tua casa…”.
L’intervento di Gesù per calmare il mare allude proprio al suo essere Pastore
(vedi Gv 10) che non solo raduna e custodisce le sue pecore, ma dà anche la sua
vita per loro.
Il passo della tempesta sedata
comporta più livelli di lettura. Si inserisce anzitutto nella storia dei
discepoli. Questi hanno accettato di stare con il loro Maestro, lo stanno
imparando a conoscere e Gesù si premura di introdurli poco a poco nel suo
mistero. Nella stessa giornata, i cui eventi coprono il racconto dei capitoli 4
e 5 di Marco, sono riunite sia la proclamazione delle parabole sul regno che la
realizzazione di alcuni miracoli. Quella parola di Gesù che illustrava la
realtà del regno di Dio nelle parabole e nelle spiegazioni private ai suoi
discepoli era la medesima che aveva il potere di calmare la tempesta, guarire
l’indemoniato e l’emorroissa, risuscitare la figlia di Giairo. Di fronte a
quelle parole e a quella parola potente, i discepoli non possono non
domandarsi, profondamente toccati nel loro intimo: davanti a chi ci troviamo?
Chi è dunque costui? È il primo significato del brano. Il canto al vangelo ci
introduce alla condivisione dei sentimenti dei discepoli riportando
l’esclamazione della gente di fronte al miracolo di Gesù che risuscita il
figlio della vedova di Nain: “Un grande profeta è sorto tra noi, e Dio ha
visitato il suo popolo” (cf. Lc 7,16) e prelude allo stupore dei commensali di
fronte al comportamento di Gesù che rimanda la peccatrice perdonata nei suoi
peccati: “Chi è costui che perdona anche i peccati?” (cf. Lc 7,49).
Ma il brano si inserisce anche nella
storia di Gesù. Lui dorme sulla barca in mezzo alla tempesta e viene svegliato
dai discepoli spaventati. L’annotazione non ha semplicemente il sapore di
cronaca vissuta, ma di accesso a un mistero più profondo. Il mare in tempesta
assume il valore simbolico delle potenze del male che Dio domina. In effetti, i
verbi usati da Marco nel descrivere la scena non si addicono tanto ad un’azione
di potenza sul mare, ma si riferiscono all’azione di un esorcismo: ‘minacciò’,
‘taci’, verbi che si ritrovano in altre esperienze di esorcismo narrate nei
vangeli. L’allusione alla lotta contro il male è evidente. E quando Dio svelerà
tutta la sua potenza contro il male? Quando si addormenterà sulla croce e
attraverso quel sonno sconvolgerà il regno degli inferi. La morte in croce di
Gesù viene spesso percepita come un sonno perché poi si sveglia, perché poi
risuscita e su di lui la morte non avrà più alcun potere e il male è vinto.
C’è pure un’allusione alla storia
dei credenti, che si sentiranno molte volte oggetto del rimprovero, amorevole,
del Signore: “Perché avete paura? Non
avete ancora fede?”. Potremmo rendere: perché avete così paura del male?
Oppure: forse che non vi fidate di me? Temete che vi inganni? Gesù è amorevole
nel fare il rimprovero perché sa che il cuore dell’uomo, per quanto desideri la
vita, ha paura di viverla temendo l’inganno e che occorre un lungo tragitto per
collocarsi stabilmente nella fiducia. É la nostra storia.
Di fronte alla scena evangelica,
possiamo anche farci un’ulteriore domanda: perché i discepoli hanno avuto
paura? Detto in altre parole: quando il male comincia a ghermirci? Sappiamo che
il male serpeggia dentro di noi e non è un problema, sappiamo che ci lambisce;
ma quando comincia ad avere la meglio su di noi? Un particolare del racconto ci
può illuminare. I discepoli hanno dimenticato che quella traversata l’aveva
ordinata Gesù. È Gesù che ordina: “Passiamo
all’altra riva”. Nel passo parallelo di Matteo è tanto evidente che si
dice: “Salito sulla barca, i suoi
discepoli lo seguirono” (Mt 8,23). Tutto ciò che quella traversata comporta
sta dentro il comando di Gesù. Se i discepoli non avessero completamente
dimenticato che era stato Gesù a chiedere loro di iniziare la traversata,
probabilmente non si sarebbero lasciati sorprendere dalla paura, che li ha
fatti sentire soli, in balia delle onde. La fede è appunto percezione di
compagnia, una compagnia di alleanza. Non che l’uomo non provi più paura di
fronte al male, ma se la vive in compagnia del proprio Signore è tutt’altra
cosa. Così è la nostra vita, una traversata tra i marosi, all’interno e
all’esterno. Vivere la vita dentro un’obbedienza a un’alleanza che
sperimentiamo a nostro favore significa allora non permettere al male di
ghermirci, significa non essere in balia degli inevitabili marosi. Sarebbe il
senso della scena nella sua valenza ecclesiale: la barca è la chiesa che
attraversa il mare di questo mondo in subbuglio; sebbene Gesù dorma, è sulla
barca e la fede lo risveglia e le onde non l’affondano.
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Quinto ciclo
Anno liturgico B (2014-2015)
Tempo Ordinario
XIII
Domenica
(28 giugno 2015)
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Sap
1,13-15; 2,23-24; Sal 29; 2 Cor 8,7.9.13-15; Mc 5,21-43
___________________________________________________
La narrazione dei due miracoli, la
riconsegna alla vita della bambina morta e la guarigione dell’emorroissa,
illustra la potenza della parola di Gesù che poco a poco svela il mistero della
sua persona.
Possiamo entrare nel brano
evangelico attraverso il canto del vangelo: “Il salvatore nostro Gesù Cristo ha vinto la morte e ha fatto risplendere
la vita per mezzo del Vangelo” (cfr. 2Tm 1,10) e la conclusione della prima
lettura tratta dal libro della Sapienza: “Ma
per l’invidia del diavolo la morte è entrata nel mondo e ne fanno esperienza
coloro che le appartengono” (Sap 2,24). Una prima osservazione sulla
traduzione. Paolo, alla fine della sua vita, nell’imminenza del martirio,
sintetizza il senso del vangelo nello splendore della vita che il Signore Gesù
ha fatto scaturire per l’uomo riscattandolo dalla morte. A dire il vero, il
testo greco non riporta ‘ha vinto’, ma, in contrapposizione al ‘fece
risplendere’, dice con più precisione ‘ha reso inefficace la morte’, vale a
dire ha svigorito la morte di tutto il suo potere, potendola ormai patire senza
subirne la condanna. Ha lo stesso valore dell’espressione che viene riportata
nel vangelo di Giovanni: satana gli viene contro con tutto il suo potere ma non
trovando nulla di suo in lui non lo può distogliere dal suo compito di mostrare
quanto è grande l’amore di Dio per gli uomini e quanto lui ama il Padre (cf. Gv
14,30-31). É vinta definitivamente l’invidia del diavolo e il cuore dell’uomo
può tornare a splendere dell’amore di Dio che conferisce la vita.
La conclusione del brano della
Sapienza andrebbe così inteso: “Ma per l’invidia del diavolo la morte è entrata
nel mondo e quelli della sua parte la sperimentano”. E il versetto precedente:
“Dio ha creato l’uomo con incorruttibilità, lo ha creato a immagine della
propria eternità”, intendendo: l’eternità è la perfetta felicità perché senza possibilità
di corruzione. Così, quelli che sono tratti dalla parte del diavolo
sperimentano la morte. E qui morte non allude alla morte biologica, ma alla
morte spirituale, alla mortificazione del cuore che non conosce più l’amore e
subisce la mortificazione dell’essere.
Si tratta della conclusione del
ragionamento degli empi, introdotto con le parole: “Dicono fra loro sragionando” e definito: “Hanno pensato così, ma si sono
sbagliati; la loro malizia li ha accecati. Non conoscono i misteriosi segreti
di Dio ...” (Sap 2,1.21-22). Ora, quel ragionamento è ripreso nel vangelo
di Matteo alla crocifissione di Gesù quando i capi: “... facendosi beffe di lui dicevano: ‘Ha salvato gli altri e non può
salvare se stesso! È il re d’Israele; scenda ora dalla croce e crederemo in
lui. Ha confidato in Dio, lo liberi lui, ora, se gli vuol bene” (Mt
27,42-43). I segreti di Dio riguardano proprio quel Figlio, venuto perché gli
uomini abbiano la vita e la vita in abbondanza.
Così, i miracoli, narrati nel brano
di oggi con tale intensità da assumere valenze simboliche precise, alludono
alla potenza salvatrice del Figlio, testimone dell’amore di Dio per l’uomo,
amore che farà risplendere proprio nel suo essere innalzato sulla croce, quando
il potere della morte sarà esautorato. I miracoli sono l’occasione di
rivelazione del Figlio di Dio, rivelazione che necessita, per esplicitare la
sua potenza nel cuore dell’uomo, della fede.
Di due personaggi è mostrata la
fede: un capo della sinagoga, Giairo e una donna, l’emorroissa. Alcuni
particolari sono assolutamente significativi. Gesù è già stato scomunicato
dalla sinagoga (cfr. Mc 3,6 e 3,22) e uno dei capi insiste, prostrandosi ai
piedi di Gesù, perché venga a guarire sua figlia agli estremi e che muore prima
che possano arrivare a casa. Ma Giairo continua a credere, anche quando tutti
ormai lo dissuadono. Il brano suggerisce almeno due cose. La prima: quando Gesù
è supplicato con fede, interviene. Il testo annota: “Andò con lui”. Gesù
accompagna chi ha fede in lui nel tempo e lungo la strada per ottenere la
grazia, che avviene in condizioni insperate o disperate. Gesù salva e fa
vivere: questo significa fare il bene, come aveva espressamente dichiarato in
sinagoga davanti all’uomo della mano inaridita (cfr. Mc 3,1-6). La seconda: il
contrario della fede non è la non fede, ma la derisione, come il testo annota
rispetto alla gente che piangeva e urlava forte: “E lo deridevano” (Mc 5,40).
Stessa derisione che avviene sotto la croce! È la derisione che ci chiude nelle
nostre impossibilità di avere la vita!
L’emorroissa, la donna che per la
sua malattia era dichiarata immonda (cf. Lev 15,25-27), nella calca generale, è
l’unica a toccare Gesù. Gesù se ne accorge perché chi lo tocca nella fede
permette alla sua potenza salvatrice di operare. Così lui, che è il Santo,
santifica; lui, che è il Salvatore, salva; lui, che è il Potente, soccorre e
guarisce. Chi non ha vivo il senso della propria immondezza, della propria
miseria, non ha fede sufficiente per ottenere salvezza. Il particolare del mantello
(o della frangia, come nel passo parallelo di Matteo) ha fatto pensare al
vestito del Verbo che sono le parole della Scrittura. Ci si può accalcare
attorno alla Scrittura, ma non succede nulla, come non successe nulla alla
folla dei discepoli che pressava il Maestro lungo la strada. Se però ci si
accosta anche a una sola parola con fede, allora ne scaturisce la potenza che
racchiudeva e l’anima è guarita. E la parola come il suo corpo sono lì
(pensiamo alla celebrazione eucaristica) proprio nell’attesa di lasciar uscire
la potenza che racchiudono e rivelare l’amore per cui è stata proferita ed è
stata inviata. Gesù resta nell’attesa di dirci: la tua fede ti ha salvato, va’
in pace e sii guarito dal tuo male!
La tua fede: è la fiducia nel Messia
salvatore, in colui che ci può accogliere e guarire e far vivere dell’amore del
Padre, rendendo splendore alla nostra umanità.
Va’ in pace: dopo l’incontro con il
Salvatore nulla è più come prima, come tanti episodi dei vangeli dimostrano,
perché il cuore ha potuto gustare qualcosa che frantuma le nostre pretese e
rivendicazioni disponendoci a vivere riconciliati.
Sii guarita: si torna a vivere nella
luce della santità di Dio, che è amore per noi, diventato radice e forza dei
nostri comportamenti e del nostro orizzonte interiore.
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Quinto ciclo
Anno liturgico B (2014-2015)
Tempo Ordinario
XIV
Domenica
(5 luglio 2015)
___________________________________________________
Ez
2,2-5; Sal 122; 2Cor 12,7-10;
Mc 6,1-6
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La liturgia di oggi mette in risalto
il contrasto tra la fantasia d’amore di Dio per il suo popolo e la resistenza
del popolo ad accogliere l’amore del suo Dio. Difficile spiegare la cosa, ma è
un’evidenza della storia, un’evidenza della nostra storia.
La prima lettura sottolinea la
tenacia di Dio verso il suo popolo: manda un suo profeta a ricordare al suo
popolo la sua promessa di bene, sebbene sappia già in partenza che il popolo
non ascolterà quel profeta. E allora avverte il profeta: tu non temere,
annuncia loro quello che ti dirò, così sapranno almeno che un profeta è in
mezzo a loro. Tradotto con altre parole, ecco quello che potranno capire: la
storia di Dio con il suo popolo continua, continua sempre, Dio non si stanca
mai di inseguire, di venire a cercare. E il salmo responsoriale traduce in
supplica quello che il popolo potrà capire, anche se confusamente: “A te alzo i
miei occhi … finché abbia pietà di noi”.
Il brano evangelico, in modo ancora
più drammatico, illustra la stessa cosa. Gesù viene a Nazareth, il luogo che
l’ha visto crescere e non è accolto, viene rifiutato. Se mettiamo a confronto i
tre vangeli sinottici l’evento ci appare in tutta la sua drammaticità. Marco
narra l’episodio dopo il racconto dei miracoli di Gesù ed è l’unico ad apporre
una certa firma all’evento: “E si
meravigliava della loro incredulità”. Luca è l’unico a spiegare la
diffidenza dei suoi concittadini: sembra suggerire che non abbiano accolto di
buon grado il ricordo della preferenza dei pagani da parte di Dio (la vedova di
Zarepta di Sidone al tempo del profeta Elia e Naaman il siro ai tempi di
Eliseo) e così contrastano la predicazione di Gesù gelosi dei doni di Dio. Per
Luca, che pone l’evento all’inizio dell’attività di Gesù, l’esito negativo della
prima predicazione di Gesù a Nazaret è la prefigurazione del rifiuto finale di
Gesù e della sua morte in croce. Matteo invece sembra suggerire altro perché il
passo di oggi fa da contrappunto alla scelta di Gesù, con la proclamazione
delle parabole del regno, di chiamare sua madre e suoi fratelli i suoi
discepoli, ai quali “è dato conoscere i
misteri del regno dei cieli” (Mt 13,11). Alla fine però gli ascoltatori non
comprendono e Matteo li definisce come coloro che non vogliono essere familiari di Dio, esattamente come i
concittadini di Gesù che lo rifiutano.
L’episodio della predicazione di
Gesù a Nazaret illustra bene la premura di Dio. La scena è racchiusa da due
identici sentimenti di valore diametralmente opposto. Si apre con la
meraviglia, sospettosa, diffidente, che si tramuta poi in ostilità da parte
degli ascoltatori presenti nella sinagoga e si chiude con la meraviglia,
dispiaciuta, di Gesù che si vede costretto a fuggire: “E si meravigliava della loro incredulità”. Una meraviglia, quella
di Gesù, però, che non si tramuta in ostilità con la sua fuga, bensì in tenacia
e immaginazione per creare nuove occasioni, fino alla fine, come il resto del
racconto evangelico proverà, perché i cuori finalmente si aprano all’amore del
Padre testimoniato da lui e dalla sua attività ovunque.
Noi non ci accorgiamo che spesso la
nostra incredulità nasconde una cattiva idea di Dio. A dire il vero non si
tratta realmente di una mancanza di fede, ma di diffidenza, di riserva
mentale. Come per i concittadini di Gesù
descritti da Luca 4,16-31: gli ascoltatori della sinagoga si sentono offesi
quando Gesù ricorda loro che Dio non ha disdegnato i pagani come se questa
preferenza comportasse un’accusa ai suoi figli. Così è per noi: è vero che ci
accorgiamo che Gesù insegna cose belle, cose degne della massima stima, ma
essere disposti ad accoglierlo e seguirlo nella sua rivelazione di Dio e nel
suo servizio agli uomini non ci è agevole.
La liturgia ci invita allora a
cogliere il nodo essenziale della vita: la salvezza è data dalla potenza di Dio
ma ha bisogno di essere accolta con fede, senza riserve mentali. Il problema
più o meno può essere posto così: perché la grazia non compie tutto ciò che
promette? Pensiamo al perdono che domandiamo a Dio per i nostri peccati. Perché,
pur chiedendolo sinceramente e ottenendolo, non agisce in profondità da
trasformarci completamente? Forse che Dio vincola il suo perdono? Non sarebbe
morto per noi! Pensiamo alla richiesta di una virtù: “Signore, fammi umile”.
Perché dopo la richiesta restiamo ancora in preda all'orgoglio e all'egoismo?
Forse che Dio è geloso dei suoi doni? Non ci avrebbe dato il suo Figlio! Ecco
dunque la meraviglia di Gesù: la nostra incredulità.
Dio non si stanca però della nostra
incredulità perché sa che il nostro cuore ha bisogno di tempo per cedere, per
arrendersi, per sciogliere le sue paure, le sue resistenze, le sue ambiguità.
L'importante è non lasciare mai il Signore, lasciarsi sempre riaccostare da lui
tanto che, come dice la colletta: “sappiamo riconoscere la tua gloria
nell’umiliazione del tuo Figlio e nella nostra infermità umana sperimentiamo la
potenza della sua risurrezione”. Il movimento suggerito dalla preghiera è
appunto quello di imparare a vedere la gloria, cioè lo splendore dell’amore del
Padre per gli uomini, proprio nell’umiliazione del Figlio che si consegna agli
uomini perché sappiano quanto lui ama il Padre e quanto è grande il suo amore
per noi. Il che significa riconoscersi dentro una provvidenza di bene per noi,
stando solidale con i sentimenti di Dio, in favore dei fratelli. Così facendo,
potremo sperimentare la potenza della vita che viene da Dio accogliendo in pace
le infermità e le afflizioni della nostra storia perché non ci allontanano
dalla comunione con Colui che il nostro cuore cerca e di cui potente è la
salvezza.
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Quinto ciclo
Anno liturgico B (2014-2015)
Tempo Ordinario
XV
Domenica
(12 luglio 2015)
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Am
7,12-15; Sal 84; Ef 1,3-14; Mc 6,7-13
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La
bellissima colletta: "Donaci, o Padre, di non avere nulla di più caro del
tuo Figlio, che rivela al mondo il mistero del tuo amore e la vera dignità
dell'uomo; colmaci del tuo Spirito, perché lo annunziamo ai fratelli con la
fede e con le opere", mostra la radice da dove l’annuncio apostolico
prende linfa e vigore. Chi annuncia, mandato dal Signore, ha già sperimentato
quel ‘non avere nulla di più caro del Figlio’, lo stesso che invia e l’unico
che può colmare i cuori nei loro aneliti e nelle loro angosce.
Il canto al
vangelo: “il Padre del Signore nostro Gesù Cristo illumini gli occhi del nostro
cuore per farci comprendere a quale speranza ci ha chiamati” (cfr. Ef 1,17-18),
mostra come l’annuncio apostolico alimenti la speranza iscritta nei cuori,
sebbene spesso sepolta e perduta.
La prima
cosa di cui Gesù dota i suoi discepoli nel loro ministero di annuncio è: “dava loro potere sugli spiriti impuri”.
Come si vince o si scaccia il male che sempre insidia, ferisce, opprime la
vita? Nel vangelo di Giovanni, quando Gesù parla della vite e dei tralci per
illustrare l’invito a rimanere in lui, si trova questa espressione: “voi siete già puri, a causa della parola che
vi ho annunciato” (Gv 15,3). È l’accoglienza del Signore che rende puri,
cioè inattaccabili dal male; è la fede in lui che ci associa alla sua vittoria
sul male. L’aspetto straordinario di questa verità risalta nella lavanda dei
piedi all’ultima cena: Gesù si mette a lavare i piedi ai discepoli per renderli
partecipi del suo segreto ed è l’accoglienza di questo segreto che li
stabilisce nella purità (cfr. Gv 13). Il suo segreto è di mostrare la grandezza
dell’amore del Padre nel suo farsi servo, nel suo farsi schiavo, in totale
solidarietà con l’amore del Padre per noi e solidale con la nostra umanità che
lui ha amorevolmente rivestito. Quando Gesù invia i discepoli con il potere
sugli spiriti impuri, li introduce nel segreto della sua persona e della sua
missione, sebbene i discepoli ancora non possono sapere tutta la sconvolgente
profondità di quel segreto e il coinvolgimento delle loro persone.
Nella tenuta
dell’apostolo, secondo la descrizione di Marco, si può ravvisare l’allusione
alla tenuta da viaggio del popolo all’uscita dall’Egitto raccontata in Es
12,11. Gli apostoli guidano il nuovo esodo con l’annuncio del Regno di Dio che
in Gesù si manifesta. Ogni annuncio nella Chiesa ha così un sapore pasquale:
comporta l’esodo dall’Egitto e l’accoglienza del regno di Dio, dentro
l’esperienza della manifestazione della potenza di salvezza di Dio. Il gesto
dello scuotere la polvere dai piedi, quando non dovessero accogliere
l’annuncio, - gesto che era comune al pio israelita quando saliva in
pellegrinaggio a Gerusalemme proveniente da territori pagani e non voleva contaminare
il sacro suolo d’Israele -, assume anche questo significato: la pace che non
avete raccolto voi, non ha lasciato noi; avete la possibilità di rifiutarla, ma
non avete il potere di fermarla perché sarà rivolta ad altri; e se resta a noi,
se è condivisa da altri, è perché prima o poi la possiate desiderare anche voi;
non temete, sarà sempre vostra eredità. La forza dell’annuncio evangelico sta
in questo potere della pace di Dio che raggiunge tutti. La responsabilità dei
discepoli sta appunto nel far vedere la loro vita confermata da quella pace
perché possa apparire davvero desiderabile.
Quella pace
ha un volto misterioso, invisibile, che riluce, ma nel nostro cuore, ed è il
volto del Signore Gesù. Ma ha anche un volto visibile, costatabile, amabile,
che è quello della fraternità condivisa. Che cosa possono insegnare gli
apostoli agli uomini se semplicemente ripetono le parole del Signore? Le
ripeteranno, sì, ma con potenza, con la potenza di coloro che possono mostrare
come siano diventate efficaci per il loro cuore. E l'efficacia appare dalla
fraternità condivisa. Ecco perché sono mandati ad annunciare la Buona Novella
non da soli, ma a due a due. É la stessa rivelazione del Padre Nostro,
allorquando la fraternità vissuta ('venga il tuo regno', venga cioè lo Spirito
del Signore a renderci un corpo solo e un'anima sola, così come preghiamo anche
nel canone eucaristico) rivela a tutti il volto di Dio come Padre, rivela il
suo amore per gli uomini. E come ottenere questo senza la preghiera:
"Donaci, o Padre, di non avere nulla di più caro del tuo Figlio", lui
che ha rivelato in tutto il suo splendore l'amore di Dio per gli uomini e la
grandezza della vocazione dell'uomo? Credo sia assai significativo che la
chiesa vincoli l’intelligenza della verità al fatto di percepirla capace di
interferire con le radici del nostro cuore (‘donaci di non avere nulla di più
caro’), dentro cioè la possibilità di un’esperienza che renda la verità amabile
e rigenerante.
Nel salmo
responsoriale si canta: “Misericordia e
verità si incontreranno, giustizia e pace si baceranno”. L’amore di
misericordia di Dio per l’uomo tocca chi è disposto a non vivere
nell’illusione, a vedere il suo peccato, a riconoscersi debitore di verità
presso Dio, così che la santità di Dio, lo splendore del suo amore per noi, si
risolva in desiderio di pace con tutti, in solidarietà con l’umanità di tutti.
Siamo chiamati proprio a essere annunciatori di quella pace che guarisce e
ristora, da viverla come il tesoro più prezioso del cuore e la rivelazione della
bellezza del volto di Dio, in Gesù. Per questo il salmo, dopo avere supplicato:
“Mostraci, Signore, la tua misericordia”,
aggiunge: “Ascolterò che cosa dirà in me
il Signore Dio” (antica versione greca e latina), vale a dire: nella
misericordia posso ascoltare la parola d’amore che spingerà il mio cuore a
vivere nella misericordia perché l’amore sia condiviso.
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Quinto ciclo
Anno liturgico B (2014-2015)
Tempo Ordinario
XVI
Domenica
(19 luglio 2015)
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Ger
23,1-6; Sal 22; Ef 2,13-18; Mc 6,30-34
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L’immagine
che fa da sfondo a tutta la liturgia di oggi è quella del pastore. Nel brano di
Geremia Dio rimprovera i cattivi pastori perché non hanno cura delle sue pecore
e promette che lui stesso si incaricherà di pascere le sue pecore. Il salmo
responsoriale riprende quella promessa di Dio e la mostra compiuta nell’anima:
“Il Signore è il mio pastore: non manco
di nulla”. Il brano di vangelo, a sua volta, mostra in Gesù colui che
adempie quel desiderio di Dio tanto che diventa lui stesso il ‘buon pastore’.
Il vangelo
annota che Gesù davanti alla moltitudine ‘ebbe
compassione di loro, perché erano come pecore che non hanno pastore’. Il
brano fa parte del racconto della missione degli apostoli, racconto che era
iniziato proprio con l’annotazione che Gesù ‘sentì compassione’ (cfr. Mt 9,36) e si chiude con l’annuncio
eucaristico, simboleggiato dal miracolo della moltiplicazione dei pani,
introdotto con la commozione di Gesù davanti alle folle. La compassione di Gesù
per l’umanità è alla radice della sua missione sia come rivelatore del Padre
che come salvatore. In essa prendono senso e valore tutti i suoi gesti e le sue
parole, come anche tutte le parole e le opere di Dio lungo la storia sacra.
Per il
nostro cuore è estremamente importante riuscire a percepire almeno gli echi di
quella compassione. E se Gesù prova compassione è perché sa che può dire: “Venite a me, voi tutti che siete stanchi e
oppressi, e io vi darò ristoro” (Mt 11,28). E ancora perché sa che il cuore
dell'uomo cerca il ristoro e se non lo trova è perché si illude di trovarlo
fuori di Lui. Così quando, mosso dalla sua compassione, Gesù invita i discepoli
a pregare perché il Padre mandi operai nella sua messe, fa pregare non solo
perché mandi tanti operai, ma soprattutto perché ne mandi di quelli che si
muoveranno spinti dalla stessa sua compassione. Gli operai che lavorassero in
questa messe immensa, senza essere il riflesso di questo amore e di questa
compassione, non favorirebbero il ristoro del cuore degli uomini. Ma come
diventare il riflesso dell’amore e della compassione di Dio per gli uomini
senza la preghiera? Per questo Gesù fa pregare, trattiene in disparte gli
apostoli, li tiene in sua compagnia.
Un
particolare del brano apre orizzonti insospettati. Quando Gesù invita in
disparte gli apostoli, lo fa perché si riposino un poco. L’accenno al riposarsi
è misterioso. Si tratta dello stesso termine che ricorre nell’affermazione di
Gesù: “Venite a me … e io vi darò
ristoro... e troverete ristoro”. Quel ‘ristoro/riposo’ corrisponde al
movimento della sua compassione che viene incontro all’uomo perché l’uomo,
agitato, tormentato, sfinito, finalmente si riposi. Ma esso pesca nel riposo di
Dio il settimo giorno della creazione, riposo che viene ripreso dal salmo
responsoriale. Gli antichi rabbini hanno pensato che vi fu un atto di creazione
anche il settimo giorno: “Che cosa è stato creato il settimo giorno? La ‘menuchà’, la tranquillità, la serenità,
la pace e il riposo” (Cfr. Gen Rabbà, 10, 9). È lo stato in cui non vi è
contesa né lotta, né paura né diffidenza; è felicità, pace e armonia; vita nel
mondo futuro, vita eterna. Quando nel salmo si proclama: “Il Signore è il mio pastore, non manco di nulla; su pascoli erbosi mi
fa riposare, ad acque tranquille mi conduce” (Sal 23,1-2) si allude proprio
alle acque di ‘menuchoth’. Stessa
allusione che troviamo nelle parole del Signore Gesù quando dice ai suoi
discepoli: “Venite a me, voi tutti che
siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di
voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per
la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero” (Mt
11,28-31). Vi darò ristoro = vi farò riposare; sarò la vostra felicità, pace,
riposo. L’umiltà/mitezza che lo definisce costituisce la cifra della luce della
santità di Dio che si riversa sul mondo e che abilita a quello sguardo capace
di cogliere il mondo nel suo insieme.
È singolare
che Gesù inviti i discepoli a starsene in disparte, a cercare un luogo
solitario per riposare e che contemporaneamente si trovino davanti una folla
numerosa della quale Gesù ha compassione. Quando i discepoli annunceranno il
regno di Dio non faranno che far arrivare ai cuori l'eco di quella
'compassione', di quella 'profonda commozione' di Gesù, buon pastore, mandato a
riunire i figli di Dio dispersi. L'annuncio che non provenga dalla
condivisione, dalla solidarietà con quella 'compassione' sarà piatto e
ripetitivo e non toccherà i cuori. D'altra parte, se i discepoli non
impareranno a starsene in disparte con il loro Signore, non sentiranno la
profondità di quella 'compassione' e non potranno annunciare 'con potenza' il
regno di Dio. La vivacità, la vitalità, nel senso che porta vita, della parola
di Dio trova qui le sue radici. D’altronde è la stessa dinamica dei doni di
Dio, della stessa elezione del popolo, dei discepoli, dei ministri nella
chiesa. Essere scelti dal Signore non è in funzione di un privilegio, ma di una
intimità per farsi eco presso tutti di quella 'compassione' che tutti
raggiunge, perché non si dà pace finché uno solo resti escluso.
Inviando gli
apostoli in missione, Gesù li aveva forniti delle stesse sue prerogative:
‘scacciare i demoni, guarire ogni malattia e infermità’. Nessuno può proclamare
la verità della vita a titolo proprio, come nessuno può procurare ristoro al
cuore degli uomini a titolo proprio. La verità e il ristoro che essa procura
procedono dall'alto, esprimono la compassione di Dio che raggiunge il cuore
degli uomini, in Cristo. E se il discepolo non lascia intravedere chiaramente
tale rimando, non è un 'chiamato', un 'inviato', lavora per la sua gloria e non
potrà sanare nessuno. Così avverrà quando dirà agli apostoli di dare da
mangiare a una folla sterminata, tema della liturgia di domenica prossima.
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Quinto ciclo
Anno liturgico B (2014-2015)
Tempo Ordinario
XVII
Domenica
(26 luglio 2015)
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2
Re4,42-44; Sal 144; Ef 4,1-6; Gv 6,1-15
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Per il brano
della moltiplicazione dei pani la liturgia preferisce seguire il racconto di
Giovanni invece che quello di Marco letto nel ciclo B. Il testo di Giovanni non
solo narra il miracolo, ma ne svela il suo contenuto simbolico e lo commenta
con un lungo discorso di Gesù, discorso che la liturgia riprenderà per esteso
nelle domeniche successive.
La colletta
ci colloca immediatamente nella comprensione eucaristica del brano: “O Padre,
che nella Pasqua domenicale ci chiami a condividere il pane vivo disceso dal
cielo, aiutaci a spezzare nella carità di Cristo anche il pane terreno, perché
sia saziata ogni fame del corpo e dello spirito”.
La
rivelazione di Gesù che l’evangelista vuole presentare è ottenuta sovrapponendo
il racconto del miracolo con la trama della storia di Israele e la celebrazione
liturgica dell’eucaristia della chiesa. La moltiplicazione dei pani per sfamare
la gente (cfr. 2Re 4,42-44) è un gesto messianico e la folla sente giusto,
anche se poi interpreterà male. Molti particolari, soprattutto nel testo di Mc
6,30-44, proiettano una luce speciale. Siamo nel deserto, prossimi alla festa
della Pasqua, in un luogo con tanta erba, in occasione di un pasto, con una
disposizione particolare dei partecipanti (a gruppi di cento e cinquanta). Sono
tutte allusioni all’organizzazione del popolo nel deserto secondo i racconti
del Pentateuco, specialmente in occasione della conclusione dell’Alleanza tra Dio
e il suo popolo. È lui, Gesù, come ribadirà nel suo discorso, il vero Pane
disceso dal cielo che nutre e dà la vita, che ristora e dà riposo, nel quale
celebrare la definitiva Alleanza tra Dio e il suo popolo. Gli accenni al
raccogliere gli avanzi valgono a sottolineare la sovrabbondanza di grazia di
questa alleanza, data a tutti, oltre la quale non c’è nulla di significativo
che possa colmare i desideri degli uomini. I verbi usati per descrivere il
miracolo (prese, benedisse, spezzò e diede) sono i verbi caratteristici della
celebrazione eucaristica.
Il brano è
percorso da dinamiche sotterranee che danno al messaggio tutta la sua
consistenza specifica. Anzitutto, a dispetto della grandiosità dell’evento,
l’azione di Gesù è presentata sotto la cifra del fallimento, come sottolineerà
la finale del brano. Gesù dovrà cambiare strategia: le folle non possono
comprendere il suo messaggio. Rivolgerà allora le sue cure ai discepoli più
stretti, accompagnandoli ad entrare nel mistero della sua persona e dell’opera
di Dio. Gesù aveva operato il miracolo come segno perché i cuori si potessero
aprire a cogliere il Dono di Dio, che era lui. La gente però reagisce
interessata, vede soltanto ciò che si aspetta e pensa di veder realizzati i
propri sogni di liberazione politica. E Gesù deve sottrarsi. Gesù aveva
annunciato parole di vita, ma la conclusione in bocca alla folla sarà: “Questa parola è dura! Chi può ascoltarla?”
(Gv 6,60). Solo Pietro, che pur avverte il malessere, si rafforza ancor più
nella sua fede e proclama: “Signore, da
chi andremo? Tu hai parole di vita eterna e noi abbiamo creduto e conosciuto
che tu sei il Santo di Dio” (Gv 6,68-69). Ancora non comprende, ma alla
fede del suo cuore il mistero sarà rivelato e diverrà, con i suoi compagni,
annunciatore a tutti del segreto di Dio: Dio ha tanto amato il mondo da mandare
il suo Figlio Unigenito … E rammentando un altro passo del vangelo, potremmo
dire che effettivamente troviamo se cerchiamo ma non troveremo quello che
cerchiamo. Se la grazia è grazia, vuol dire che non è semplicemente in funzione
dei nostri desideri, sebbene sia proprio la grazia a colmare davvero i nostri
desideri.
Caratteristica
la modalità con cui Gesù opera il miracolo: Gesù non crea i pani, li moltiplica
solo. Un’altra volta si era trovato alle prese con la fame e si era sentito
provocare: “Se tu sei Figlio di Dio, dì
che queste pietre diventino pane” (Mt 4,3). Ora non è più lui ad avere
fame, è la gente, ma la posta in gioco non cambia. Ecco un’altra dinamica
sotterranea: Dio agisce in condivisione profonda con l’umanità degli uomini.
Non agisce da prestigiatore o da illusionista, non vuole catturare o soggiogare
nessuno: il miracolo è in funzione del suo mistero, capace di parlare al cuore
dell’uomo, di suscitare la sua libertà e la sua condivisione, in termini umani.
Dio moltiplica quel poco di noi che possiamo presentare, senza sostituirsi a
noi, senza comprarci. E volere che crei in noi la grazia, quando rifiutiamo di
affidargli quel poco che siamo, sarebbe come condannarci alla delusione sicura.
Nello stesso contesto si situa la collaborazione degli uomini all’opera di Dio.
Gesù non ha solo bisogno dei cinque pani e due pesci del ragazzo, ma anche
della collaborazione dei discepoli che distribuiscono il cibo moltiplicato, che
raccolgono gli avanzi, che collaborano alla gioia di Dio e degli uomini. È il
mistero della Chiesa, il segreto della potenza evangelica dell’amore fraterno.
Anche questo è un aspetto dell’agire di Dio in condivisione dell’umanità degli
uomini.
Nella stessa
azione di Gesù si evidenzia anche un’altra dinamica, quella che corre tra
l’offerta della parola e l’offerta di cibo. Gesù si era sentito commosso
davanti a tutta quella gente, aveva cercato di insegnare loro tante cose, aveva
rivolto loro una parola vera, di consolazione, di ristoro, di salvezza. Come
avrebbe potuto non preoccuparsi della loro fatica, della loro fame? Annunciare
così una parola vera a qualcuno significa nello stesso tempo farsi carico dei
suoi bisogni, significa condividere quello che si ha e creare spazi di
condivisione sempre più allargati. Senza questo risvolto, cadrebbe anche la
verità del nostro parlare perché sarà mai possibile annunciare il vangelo a
qualcuno, se questo qualcuno non ci diventa caro? E una persona ci può essere
cara se non ci facciamo carico dei suoi bisogni? Tutt’altra questione è poi
considerare l’esito di questo farsi carico. Gesù sapeva dell’insuccesso a cui
andava incontro, ma non si sottrae al miracolo della moltiplicazione dei pani,
come non si era sottratto all’annunzio della parola. Quello che fa da
fondamento al suo agire, come anche all’agire poi dei suoi discepoli quando
sarà loro rivelato il segreto di Dio, ce lo descrive il testo della lettera
agli Efesini proclamando l’opera dell’amore di Dio che si esprime nel mistero
della fraternità : “un solo Dio Padre di
tutti, che è al di sopra di tutti, opera per mezzo di tutti ed è presente in
tutti” (Ef 4,6). L’uomo evangelico persegue quell’unico mistero, affigge i
suoi sguardi su quell’unico punto, ragione del vivere la sua chiamata alla fede
nel Figlio di Dio, dato per noi, per cui “con
ogni umiltà, dolcezza e magnanimità”, sostiene (= ha pazienza con) sé e
tutti, contemporaneamente, perché quel mistero sia finalmente rivelato ai
cuori.
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Quinto ciclo
Anno liturgico B (2014-2015)
Tempo Ordinario
XVIII Domenica
(12 luglio 2015)
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Es
16,2-4.12-15; Sal 77; Ef 4,17.20-24; Gv 6,24-35
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Questa
domenica e le successive viene letto ciò che segue al racconto della
moltiplicazione dei pani. Gesù, a più riprese, in un colloquio serrato ed
esigente con la folla che aveva assistito al miracolo, tenta di dar conto del
mistero della sua persona. È tipico di Giovanni formulare la verità su Gesù
attraverso un dialogo che collega la storia dell’alleanza di Dio con Israele
con gli aneliti e i sogni dei cuori. Il colloquio al pozzo di Giacobbe con la
donna samaritana l’aveva già mostrato.
Al centro
del brano di oggi sta una grande questione: come decifrare i segni di Dio.
Tutti avevano visto il miracolo, si erano entusiasmati di quel profeta
straordinario e taumaturgo, ma alla fine tutti l’abbandonano. Perché? Perché
non sono riusciti a vedere? Che cosa è mancato loro?
La colletta
sembra rispondervi: “O Dio … risveglia in noi il desiderio della tua parola,
perché possiamo saziare la fame di verità che hai posto nel nostro cuore”. Sì,
è molto facile dimenticare, come dice il salmo responsoriale “Dimenticarono le sue opere, le meraviglie
che aveva loro mostrato … non ebbero fede in Dio e non confidarono nella sua
salvezza” (Sal 77/78, 11.22). Dimenticarono proprio quello che lo stesso
salmo proclama: “Ciò che abbiamo udito e
conosciuto e i nostri padri ci hanno raccontato non lo terremo nascosto ai
nostri figli …” (v. 3). In sostanza il salmo vuol definire l’esperienza di
Israele nel deserto così: hanno visto, sì, certi fatti straordinari (la manna),
ma l’oggetto del loro racconto è altro; loro vogliono raccontare le meraviglie
del Signore. Dicono la storia, ma raccontano Dio. Non si sono solo sfamati
mangiando la manna, ne hanno colto il valore di segno: Dio li guidava, adempiva
le sue promesse, restava fedele al suo amore per loro. Così per noi: dal fatto
si passa ad una storia, ad una relazione che mi ha costituito in essere e dà
senso alle mie fatiche e ai miei drammi, che fa la mia storia.
Con questo
riferimento, ogni dettaglio della narrazione evangelica ha una densità
insospettata. All’inizio vediamo una folla smarrita: non trova più Gesù, che si
è ritirato in solitudine sul monte. La ragione è da ricercarsi nel fatto che i
discepoli avevano abbandonato il maestro e se ne erano andati senza di lui. La
gente non sa più dove trovare il Signore quando la sua comunità l’abbandona.
Ritorna allora a Cafarnao, da dove era partita. Cercano Gesù perché sentono che
quel profeta ha qualche cosa da dire da parte di Dio, dentro la storia di
alleanza con Dio che tutti condividono. Gesù li rincalza nelle loro domande per
portarli a vedere il dono di Dio che sta avvenendo e di cui essi non si
avvedono. Sembra che continuamente si aprano porte per poi richiudersi di
nuovo. Sono indicati tutta una serie di passaggi.
Primo
passaggio. Gesù sposta l’attenzione dal cibo come alimento di vita alla vita
che il cuore desidera. Dichiara subito che quella vita la darà lui, sul quale
il Padre ha posto il suo sigillo. Ma il sigillo è lo Spirito Santo che su di
lui riposa in pienezza e che lo rende capace di dare la sua vita perché si
manifesti quanto è grande l’amore di Dio per gli uomini e perché gli uomini
tornino capaci a loro volta di dare la vita nella stessa sua dinamica di amore.
Secondo
passaggio. Dalle opere all’unica opera. La gente capisce che Gesù si
attribuisce un compito che viene da Dio e chiede di venire istruita su ciò che
è gradito a Dio. La singolarità della risposta di Gesù sta nel fatto che Gesù
non indica alcuna nuova legge o comandamento da attuare. Come a dire: il cuore
non troverà il compimento dei suoi desideri nelle opere. Un’opera sola ricerca
Dio: credere in Colui che egli ha mandato. Ma credere a Dio significa
accogliere il suo amore per l’uomo, manifestato nel Figlio, al punto da non
poter vivere che di quell’amore, che dentro quell’amore, che dà senso a tutte
le opere che si possono intraprendere. Non sono però le opere a precedere, ma
l’amore di cui queste si nutrono. E senza questa esperienza le opere non
porteranno gioia e non si risolveranno in conoscenza amorosa di Dio.
Terzo
passaggio. Dio aveva dato la manna al popolo confermandosi così il loro Dio,
secondo il racconto dell’Esodo, ripreso anche dalla prima lettura. E Gesù cosa
dà?, questo chiede la gente. La risposta di Gesù introduce al suo mistero, che
è il mistero dell’amore di Dio per il mondo. Ogni dettaglio acquista qui una
risonanza particolarissima: gli aggettivi, i verbi, le espressioni. Gesù
sottolinea il dono attuale di Dio: “è il
Padre mio che vi dà il pane dal cielo, quello vero”; “il pane di Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo”,
cioè la sua, quella piena di Spirito Santo, di cui fa dono facendo dono di se
stesso. Accogliere il Figlio come l’Inviato significa accogliere la storia
dell’amore di Dio per l’uomo; significa radicare in quell’amore
l’intelligibilità della nostra vita e avere la vita, quella che dura per la
vita eterna, cioè quella che, custodita dalla potenza dell’amore di Dio per
noi, risulta insopprimibile e inattaccabile.
Quarto
passaggio. Come non volere questo pane? Ma il pane non è più qualcosa, non si
riferisce più a un prodigio: riguarda la sua persona, riguarda il prodigio
dell’amore di Dio che nel Figlio fa grazia di sé agli uomini perché gli uomini
possano, nel Figlio, fare grazia di loro a tutti e così far splendere la
signoria di Dio nel mondo, ormai trasfigurato nello Spirito. A questo punto si
intravede tutta la rischiosità e la radicalità del passaggio: dare fiducia al
Signore, all’amore del Signore, consegnandosi a quel Figlio che promette
libertà, verità e vita. Qui i cuori comprendono di essere sull’orlo dell’abisso:
o ti trattieni nelle tue sicurezze di un tempo o ti abbandoni ad una fiducia
che senti nascere ma di cui non sei per nulla padrone.
Difatti
l’esito non è scontato. Alcuni rinunciano, alcuni accettano; di quelli che
rinunciano, alcuni accetteranno poi; di quelli che accettano, alcuni lasceranno
dopo. Resta comunque sempre l’offerta del Signore che non si stanca dei suoi
figli e di cui ricerca sempre l’adesione del cuore. Nel racconto di Giovanni,
la folla rivela molto bene i desideri che portiamo in cuore, senza però alla
fine trovare soddisfazione perché incagliata nel suo passato piuttosto che
affascinata per il futuro di Dio: l’urgenza etica per una qualità di vita
accettabile, l’apertura al mistero di Dio che si manifesta, la fame del pane
della vita. Gesù però si darà premura di illustrare sempre più precisamente il
senso del mistero della sua persona come risposta a quei desideri.
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Quinto ciclo
Anno liturgico B (2014-2015)
Tempo Ordinario
XIX
Domenica
(9 agosto 2015)
___________________________________________________
1
Re 19,4-8; Sal 33; Ef 4,30-5,2; Gv 6,41-51
___________________________________________________
Tutto il
lungo discorso eucaristico di Gesù narrato nel cap. 6 di Giovanni può essere
letto come l’illustrazione della difficoltà per l’uomo di cogliere e accogliere
i segreti di Dio. Davanti alla difficoltà di riconoscere la sua provenienza
divina, Gesù esorta: “non mormorate tra
voi”. Mormorare vuol dire prendere le distanze, vuol dire uscire dalla
fiducia, uscire da una storia con. Ma appena si esce da una storia con, tutto
si fa incomprensibile e soprattutto si resta nell’impossibilità di soddisfare i
desideri del cuore, si resta cioè sulla nostra fame.
E aggiunge:
“Nessuno può venire a me, se non lo
attira il Padre che mi ha mandato”. S. Agostino, commentando questi
versetti, ha un’intuizione geniale. Osserva che se siamo attirati dal Padre,
questo non vuol dire che siamo attirati per forza: “Che significa essere
attratti dal piacere? Metti il tuo
piacere nel Signore, ed egli soddisferà i desideri del tuo cuore (Sal
36,4). Che se il poeta ha potuto dire: ‘Ciascuno è attratto dal suo piacere’ [“trahit sua quemque voluptas”, Virgilio,
Egloghe 2], non dalla necessità ma dal piacere, non dalla costrizione ma dal
diletto; a maggior ragione possiamo dire che si sente attratto da Cristo l’uomo
che trova il suo diletto nella verità, nella beatitudine, nella giustizia,
nella vita eterna, in tutto ciò, insomma, che è Cristo. Se i sensi del corpo
hanno i loro piaceri, perché l’anima non dovrebbe averli? Se l’anima non avesse
i suoi piaceri, il salmista non direbbe: ‘I
figli degli uomini si rifugiano all’ombra delle tue ali; s’inebriano per
l’abbondanza della tua casa, bevono al torrente delle tue delizie; poiché
presso di te è la fonte della vita e nella tua luce noi vediamo la luce’
(Sal 35,8-10)” [Commento al vangelo di Giovanni, 26,4].
Ma solo un
cuore che ama sa cosa significa questo. Solo un cuore che ha conosciuto l’amore
sa di cosa si parla qui. È come se dicessimo a Dio: fa, Signore, che io trovi
in te la mia felicità e tu mi darai i desideri del mio cuore (cfr Sal
36,4). Il salmo non dice che Dio
soddisferà i desideri del nostro cuore, ma che farà nascere i desideri del
nostro cuore, il nostro cuore vorrà ciò che forma la sua felicità. In questo
verremo ammaestrati da Dio, perché saremo attirati là dove il piacere del
nostro cuore ci spinge. Gesù poi cita il profeta Geremia: “tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande, dice il Signore;
poiché io perdonerò la loro iniquità e non mi ricorderò più del loro peccato”
(Ger 31,33-34), eco di Isaia 54,13: “Tutti
i tuoi figli saranno discepoli del Signore”. Ora, proprio nel Cristo siamo
accolti nel perdono di Dio che ci consente di vederlo, di scoprirlo cioè nella
sua verità di amore per noi. Quando Gesù proclama che lui è il pane di vita,
dice essenzialmente che lui ci comunica quell’amore di Dio che è radice di vita
e che ci permette di conoscere personalmente Dio accogliendoci senza riserve
nel suo perdono. Proprio questo è ciò che la folla desiderava nel profondo del
suo cuore, ma alla fine si trova impossibilitata ad accettare perché non si
riconosce adatta al mistero di Dio, per cui scade nella mormorazione.
Come sempre
nel vangelo di Giovanni, ma in particolare in questo dialogo, le espressioni
hanno un valore intensivo. Tutto può suonare in una certa ovvietà, materiale o
religiosa, eppure tutto può avere sfumature insospettate. I verbi usati:
discendere, mangiare, vedere, credere, imparare, hanno tutti risonanze,
scritturistiche e interiori, impensabili. Gesù cerca di illustrare il mistero
che costituisce la sua persona come il segreto di Dio svelato agli uomini che,
pur immensamente desiderabile, non è facilmente ricevibile. Perché? La reazione
della gente al fatto che Gesù si presenti come il pane della vita è
rivelatrice. Di per sé la gente non rifiuta l’equiparazione di Gesù al pane di
vita; rifiuta l’affermazione che lui discenda dal cielo. Loro ne conoscono la
sua origine: conoscono la famiglia, la provenienza (cfr Mt 13,55; Mc 6,3; Lc
4,22; Gv 7,15). Come può dire di venire dal cielo? Forse c’è l’allusione alla
credenza che del Messia non si potesse sapere l’origine oppure, velatamente,
potrebbe esserci un’allusione alla nascita verginale di Gesù. Il fatto comunque
è che la rivelazione definitiva di Dio è ormai l’umanità di Gesù, tanto che
mangiare la carne del Figlio dell’uomo significa assimilare il Figlio di Dio
fino a vivere di lui. Non è possibile che l’uomo non desideri la presenza del
Signore e il suo amore e proprio quando gli viene rivelato che quel desiderio
può essere soddisfatto fa resistenza. Perché i cuori non riescono a vedere?
Forse la
risposta va cercata proprio in quel movimento di discesa che caratterizza l’agire di Dio. Il ‘discendere dal cielo’
non indica semplicemente la provenienza di Gesù; indica piuttosto il movimento
dell’abbassarsi di Dio per comunicare il suo amore e far vivere. Gli uomini non
amano abbassarsi, benché vogliano la vita e desiderino l’amore e quindi pensano
sempre in termini di grandezza mondana, dove il potente prevale sul debole,
dove l’alto la spunta sul basso, dove l’affermazione di sé presuppone
l’innalzamento. Gesù, quando parla di innalzamento, allude sempre al suo essere
innalzato sulla croce, là dove risplende l’amore di Dio per l’uomo.
Tanto, che
san Paolo riassume il senso della rivelazione di Gesù nell’espressione ‘Dio fa
grazia di sé a noi in Cristo’, resa in italiano con “perdonandovi a vicenda come Dio ha perdonato a voi in Cristo. Fatevi
dunque imitatori di Dio …”. Perché mangiare il pane disceso dal cielo,
questo significa! Come lui ha fatto dono di sé agli uomini in Cristo, così noi
siamo chiamati a fare dono di noi agli altri in Cristo. Ora, tutta la
difficoltà per l’uomo deriva proprio dal fatto che invece di accogliere la
grazia ne cerca una a sua misura. Ma non esiste altra grazia se non quella, da
parte di Dio, del suo ‘far grazia di Sé’
a noi, in benevolenza e misericordia, nel Cristo. Qui è racchiusa tutta l’abbondanza
di vita che una rivelazione siffatta promette. Se il segreto di Dio è racchiuso
in quella rivelazione, pure il nostro cuore trova in quel segreto le radici dei
suoi sogni per sé e per il mondo. Aprire il cuore al credere significa
approdare alla percezione di quella grazia, grazia che apre alla bellezza di un
amore gustato e condiviso, nell’accondiscendere a quel movimento di
abbassamento perché risplenda in questo mondo l’amore di Dio. La fede è proprio
a servizio dello splendore di quell’amore che ‘discende dall’alto’ e di cui il
pane eucaristico è simbolo perfetto.
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Quinto ciclo
Anno liturgico B (2014-2015)
Solennità
Assunzione della Beata Vergine Maria
(15 agosto 2015)
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Ap
11,19a; 12,1-6a.10ab; Sal 44; 1 Cor 15,20-27a; Lc 1, 39-56
_________________________________________________
La glorificazione della Madre di Dio
è la conseguenza più diretta dell’abbassamento volontario del Figlio: il Figlio
di Dio si è fatto uomo nel seno della Vergine Maria ed è diventato ‘Figlio
dell’uomo’, capace di morire, mentre Maria, Madre di Dio, riceve la gloria che
appartiene a Dio ed è la prima creatura umana a partecipare alla deificazione
finale delle creature. Dio si è fatto uomo, dicono i Padri, perché l’uomo
potesse diventare dio: in Maria l’assunto si realizza in pienezza, si fa
assolutamente concreto. Partecipa alla gloria del secolo futuro in tutta
pienezza, immagine di quello che tutti siamo chiamati a diventare.
Tutta la liturgia di oggi parla di
compimento. Il brano dell’Apocalisse, con il suono della settima tromba che
segnala il compimento del mistero di Dio, mette in scena l’apertura del tempio
di Dio e la discesa dell’arca dell’alleanza con la Donna che deve partorire il
Messia, tutti segni interpretati dalla voce celeste: “Ora si è compiuta la salvezza, la forza e il regno del nostro Dio e la
potenza del suo Cristo”. Paolo ricorda che l’ultimo nemico ad essere
annientato sarà la morte. Il prefazio, nella celebrazione della Madre di Dio
assunta in cielo, parla del ‘compimento del mistero di salvezza’. Tutto visto
contemplando la gloria di questa ‘figlia di Sion’, la cui suprema intercessione
per noi, come Regina del cielo, si risolve nel chiedere a Dio per noi ciò che
ha costituito l’anelito supremo della sua anima, come prega la Chiesa con
l’orazione sui doni: “ .. per sua intercessione i nostri cuori, ardenti del tuo
amore, aspirino continuamente a te”.
Da dove deriva alla Vergine tutta la
sua gloria? L’elogio alla madre da parte della donna che ascoltava affascinata Gesù:
“Beato il grembo che ti ha portato e il
seno che ti ha allattato [letteralmente: i seni che hai succhiato]!” è
trasformato da Gesù nell’elogio ai discepoli: “Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano!”
(Lc 11,27-28). Gesù definisce esattamente in che cosa consiste la beatitudine
di sua madre. Come i Padri sottolineano spesso: prima di essere madre
fisicamente di Gesù, Maria lo è spiritualmente, perché il suo cuore ascolta e
osserva la Parola, l'ha sempre ascoltata e osservata. Ascoltare e osservare la
parola di Dio comporta sempre il fatto di generare il Verbo di Dio, di vivere
della felicità di Dio di farsi uno di noi perché noi si possa essere tutti di
Dio; significa dare spazio e voce a quell’anelito che Gesù ha detto essere il
suo ‘tormento’, il tormento della sua umanità, che è anche la nostra: “Sono venuto a gettare fuoco sulla terra, e
quanto vorrei che fosse già acceso” (Lc 12,49).
D’altra parte, se colleghiamo
l’espressione di Gesù a quella pronunciata da Elisabetta nel saluto alla
Vergine: “Beata colei che ha creduto
nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto” [altra possibile
traduzione: ‘beata colei che ha creduto
che ci sarà compimento rispetto a ciò che le è stato detto dal Signore’],
ci viene svelato un altro aspetto fondamentale. Ascoltare e osservare la Parola
non è semplicemente un mettere in pratica quello che Dio dice. È assai di più.
Significa permettere alla promessa di Dio racchiusa nella sua parola di
compiersi, di rivelarsi finalmente al cuore e al mondo. Significa acconsentire
al desiderio di Dio di compiersi, significa fare in modo che il desiderio che
Dio ha di incontrare l'uomo finalmente trovi compimento. Ora, da dove deriva la
vita all'uomo se non da un incontro d'amore? Sia in senso fisico, un figlio,
sia nel senso di procurare vitalità, gioia di vivere, visione di speranza,
forza ed energia. Più questo consenso da parte dell'uomo è totale, più la vita
che deriva da Dio è fluente e incontenibile. Vince la morte. Per sempre.
In quel “ha creduto” è indicata
tutta la disponibilità della Vergine all’azione di Dio (“Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola”,
Lc 1,38) dove il proprio essere è vissuto come risposta al desiderio di Dio,
come spazio di compimento all’agire di Dio. Nell’“adempimento” è adombrata la generazione del Verbo che in lei prende
forma. Accogliere il Verbo nella propria umanità significa ritrovarsi nel
mistero di Dio Trinità, che è amore comunicato; significa far risplendere
l’amore di Dio nel mondo e compiere la propria umanità permettendole di far
trasparire la divina Presenza. La grazia di questa 'maternità' spirituale è
estesa a tutti i credenti: tutti possono ereditare la beatitudine che deriva
dall'ascoltare e osservare la Parola. Nella dinamica dell’obbedienza della
fede, l’ascolto della Parola equivale alla fin fine ad accogliere e generare in
noi il Verbo, di cui risplendono tutte le parole della Scrittura.
Ora,
la vera meraviglia di Dio per gli uomini è proprio il dono del Figlio, che di
quell’umanità che ci costituisce svela i confini e le sorgenti divine. Chi, più
della Vergine, ha goduto tutta la potenza di splendore di questo dono per
l’umanità? Così l’intercessione della Vergine va nella direzione
dell’invocazione della preghiera del Padre nostro: ‘sia fatta la tua volontà
come in cielo così in terra’. Interpretando: ‘si sveli il tuo amore finché la
terra diventi tutta cielo’. Nulla rimanga inaccessibile all’amore di Dio che si
dispiega potente. Lei, la serva del Signore, terra come noi, ma totalmente
disponibile all’agire di Dio, è diventata tutta cielo. Intercede perché anche
la nostra umanità, in ciascuno e in tutti, si allarghi agli spazi e alle
profondità della sua stessa umanità, nella comunione con il suo Dio.
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Quinto ciclo
Anno liturgico B (2014-2015)
Tempo Ordinario
XX
Domenica
(16 agosto 2015)
___________________________________________________
Pr
9,1-6; Sal 33; Ef 5,15-20; Gv 6,51-58
___________________________________________________
Oggi la
liturgia ci richiama una grande questione: come ottenere l’intelligenza della
vita. Appare desiderabile, chi non la vuole? Non è segreta, non è
inaccessibile, non è complicata, non richiede studi particolari. Eppure, non è
proprio a portata di mano. E nonostante tutto, il cuore la gradirebbe sempre.
S. Paolo,
nella sua lettera agli Efesini, ne mostra le condizioni indicandocela nel fatto
di diventare intelligenti della volontà di Bene di Dio. In sostanza ci dice che
per essere intelligenti, occorre essere spirituali, per essere spirituali
occorre essere oranti, per essere oranti occorre diventare capaci di rendere
grazie, per avere questa capacità occorre essere sottomessi: “…siate ricolmi dello Spirito, intrattenendovi
fra voi con salmi, inni, canti spirituali, cantando e inneggiando al Signore
con il vostro cuore, rendendo continuamente grazie per ogni cosa a Dio Padre,
nel nome del Signore nostro Gesù Cristo. Nel timore di Cristo, siate sottomessi
gli uni agli altri” (Ef 5,18-21). Purtroppo le edizioni moderne della Bibbia
suddividono la frase, che in greco è unica e suona così: "...rendendo
continuamente grazie per ogni cosa a Dio Padre, nel nome del Signore nostro
Gesù Cristo, sottomettendosi gli uni agli altri nel timore di Cristo". Il
dono dello Spirito è il contenuto della preghiera nel senso di imparare a
percepire la volontà di Bene di Dio per noi; il rendere grazie esprime
l’esperienza della percezione di quel Bene per noi e lo stare sottomessi indica
il radicamento di quel Bene nel cuore da risultare il tesoro più prezioso. Ma
tra il rendere grazie e lo stare sottomessi c'è tutto il tragitto del cammino
da fare. Se si rende grazie senza stare sottomessi si è boriosi; se si è
sottomessi senza rendere grazie si è servili. Invece, il segno che un cuore
adora sinceramente il suo Dio è proprio il fatto di rendere continuamente (=
sempre, in ogni circostanza, comunque) grazie e di stare sottomessi (ai propri
fratelli, ma anche alla vita in generale) portando pazienza con il tempo, le
cose, le circostanze, il nostro cuore e i nostri difetti.
Dalla
prospettiva di questa ‘intelligenza di Dio’, le parole di Gesù suonano con
tutt’altro accento. A conclusione del suo discorso, Gesù riassume in tre
passaggi la rivelazione della volontà di Bene di Dio per l’uomo che in Lui si
compie: avere la vita, dimorare in lui, vivere per lui. Tutte realtà che
solamente coloro che accettano di mangiare la carne del Figlio dell’uomo
possono ereditare. Espressione più forte Gesù non poteva usare: ‘chi mangia
[masticare, rompere con i denti] la mia carne…’. Come accoglierla se non a
partire dal dono dello Spirito che di quel mistero
ci rende intelligenti?
In effetti,
se coloro che ascoltavano Gesù non avevano accettato l’idea di Gesù ‘pane vivo
che discende dal cielo’, come avrebbero potuto accettare l’idea di Gesù che si
fa pane da mangiare, di un Gesù che intende dar da mangiare il suo stesso
corpo? È evidentemente necessario un forte supplemento di intelligenza! Il
discorso di Gesù è impostato su due verbi: mangiare e dimorare. Il mangiare è
in funzione del dimorare. Lo stesso modo di parlare Gesù lo userà nell’Ultima
Cena insistendo però assai di più allora sul dimorare per mostrarne le
conseguenze: “Se uno mi ama, osserverà la
mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora
presso di lui”; “Rimanete in me e io
in voi. Come il tralcio non può far frutto da se stesso se non rimane nella
vite, così anche voi se non rimanete in me”; “Come il Padre ha amato me, così anch’io ho amato voi. Rimanete nel mio
amore. Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho
osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore. Questo vi ho
detto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena” (Gv
14-16). Come rimanere in Gesù senza assumere Gesù? E dove più concretamente,
più realmente, più intimamente assumiamo Gesù se non nell’Eucaristia? E’
appunto questo il mistero che vuole illustrare Gesù: se non assumete me, non
potrete essere in me e se non sarete trovati in me, non potrete riuscire graditi
a Dio.
Come una
parola ascoltata resta nel nostro cuore, così chi mangia il Corpo del Signore
dimora in Lui. Sarà la logica della similitudine della vite (cfr Gv 15): lui
dimora in me e io in lui, fino a poter dire con s. Paolo: “non vivo più io, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20). Quando mangiamo
il pane eucaristico, in realtà non siamo noi a mangiare il Corpo di Gesù, ma è
Lui ad assimilarci al suo Corpo, ad assumerci in Sé. Come fa dire a Gesù una
bella preghiera di Lorenzo Scupoli (1530-1610): “Io voglio da te, che niente
voglia, niente intenda, niente veda fuori di me e della mia volontà, acciocché
io in te tutto voglia, pensi, intenda e veda in modo che il tuo niente assorto
nell’abisso della mia infinità, in quella si converta, così tu sarai in me pienamente
felice e beata, e io in te tutto contento”. È la consumazione di quella ‘vita
in Cristo’ in cui consiste lo scopo della comunione eucaristica e a cui tende
ogni sforzo ascetico e l’anelito di ogni preghiera.
Dimorare
allude alla dinamica di un amore che diventa radice di vita, che si fa vita di
amore partecipando alla stessa potenza di amore che qualifica la vita del
Figlio dell’uomo, splendore dell’amore di Dio per il mondo. La preghiera dopo
la comunione della messa di oggi lo ricorda molto bene: “O Dio, che in questo
sacramento ci hai fatti partecipi della vita del Cristo, trasformaci a immagine
del tuo Figlio, perché diventiamo coeredi della sua gloria nel cielo”.
Diventare partecipi della vita del Cristo significa somigliargli, rivestirsi
dei suoi sentimenti, vivere della sua stessa umanità sulla quale risplende,
imperitura, la gloria dell’amore di Dio per gli uomini. Significa incarnare la
Presenza di Dio in mezzo al suo popolo. Perché, per la nostra stoltezza, non
ritenerci ‘degni’ dell’offerta di Dio, del suo mistero? E così, se l’uomo vuole
la vita e dimora nella vita, non può non viverla che in forza e per estendere a
tutti quell’amore che gli si è rivelato in quel Gesù, che ha accolto nel suo
cuore come la parola definitiva di Dio per l’uomo, sigillo di Bene e di Verità,
principio di vita vera che riempie il suo desiderio.
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Quinto ciclo
Anno liturgico B (2014-2015)
Tempo Ordinario
XXI
Domenica
(23 agosto 2015)
___________________________________________________
Gs 24,1-2a.15-17.18b;
Sal 33; Ef 5,21-32; Gv 6,60-69
___________________________________________________
Gesù termina il suo discorso nella
sinagoga di Cafarnao. L’esito è drammatico; molti lo abbandonano: "Questa parola è dura! Chi può ascoltarla?".
Le attese riposte in quel Maestro sono andate deluse.
Ecco il problema: l’uomo può
scandalizzarsi di Dio; facilmente l’uomo si scandalizza di Dio. Non è facile
spiegare perché avviene, ma avviene facilmente. Forse la ragione la svela la
prima lettura tratta dal libro di Giosuè. Il popolo d’Israele era ormai
penetrato nella Terra promessa, dopo la liberazione dalla schiavitù dell’Egitto
e la tortuosa peregrinazione nel deserto. Nessuno di coloro che in età adulta
avevano lasciato l’Egitto, nemmeno Mosè, e con la sola eccezione di Giosuè, era
entrato nella Terra promessa. Si tratta ora di impostare la vita nella nuova
condizione di libertà. Chi si vuole servire? Nel linguaggio della Scrittura
‘servire Dio’ allude a un rapporto gioioso e liberatorio che esalta le energie
dell’anima sottraendola alle schiavitù quotidiane e all’oppressione del male.
Quale Dio servire? È la scelta che si presenta al cuore dell’uomo, sebbene
spesso la scelta risulti come obbligata dall’inerzia stessa della vita: prendi
quello che risulta più comodo o più facile o più conveniente o più interessato.
Ma il ‘servizio’ funziona in ragione della continuamente reiterata libertà di
scelta per la verità. Ma per quale verità si è disposti ad impegnarsi?
Lo esprime bene il popolo: “Perciò anche noi serviremo il Signore,
perché Egli è il nostro Dio”. ‘Nostro’ non tanto perché lo scegliamo noi,
ma perché Lui ha mostrato il suo favore a noi, perché Lui ha fatto questo e
questo per noi. In quel ‘anche noi’ non c’è solo il riconoscimento della fede
dei padri; c'è soprattutto il riconoscimento dell’agire di Dio per i nostri
padri, per noi. Di fronte a Gesù, questo appunto risalta: lui mostra il Dio che
si appressa a noi. Come in lui Dio serve noi, così noi con lui serviamo Dio,
vale a dire lo riconosciamo nel suo amore per noi. E il salmo responsoriale
proclama: ‘il Signore è vicino a chi lo serve’, cioè il Signore è riconosciuto
vicino da chi lo accoglie nella sua fatica del vivere, senza scandalizzarsi.
Perché l'amore di Dio si mostra nell'umanità di Gesù sotto le categorie della
debolezza e della stoltezza al giudizio del mondo, che è lo stesso giudizio
della carne, quella che Gesù dice non servire a nulla per trovare e avere la
vita.
Due particolari fanno riflettere. Di
fronte all’incomprensione dei suoi discepoli Gesù non riduce il Dono di Dio,
non banalizza il suo mistero. Svela i vari aspetti del suo mistero, ma il
mistero resta. Questo significa che la rivelazione di Dio non comporta una
semplificazione del suo mistero, ma più semplicemente la sua maggiore prossimità.
La tensione del cuore non va puntata sul contenuto del mistero, ma sul
dinamismo che lo caratterizza: ‘Dio ha tanto amato gli uomini da dare il suo
Figlio unigenito…”. Da cogliere è questa ‘intenzione’ di Dio, che va diritta al
cuore. Quando la moltitudine lo abbandona e Gesù si rivolge agli apostoli: “Volete andarvene anche voi?”, Pietro
risponde: “Signore, da chi andremo? Tu
hai parole di vita eterna e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il
Santo di Dio”. Pietro non si esprime in merito al discorso che Gesù ha
fatto, ostico anche per lui, ma si esprime in merito al senso della Sua persona
per il suo cuore perché intuisce che lì può trovare la vita.
Ma c’è un secondo particolare,
ancora più misterioso. Il brano finisce con l’allusione al tradimento di Giuda,
nonostante che la scelta di Giuda fosse stata fatta dallo stesso Gesù. Ecco la
questione: se è Dio ad attirare gli uomini, allora in che cosa gli uomini sono
responsabili del suo rifiuto? È Dio a scegliere, ma la sua scelta non comporta
automatismi, perché fidarsi di Dio significa fidarsi dello spazio di libertà in
cui ci pone. Lo spazio di libertà è in funzione della possibilità
dell’incontro, gioia di Dio e dell’uomo insieme. Così la fede esprime l’umano
nella sua radicalità quando, per compiersi, si scopre fondato e attratto da un
oltre che lo sorpassa, benché gli appartenga.
La scelta di Dio non comporta perciò
l’esito scontato. È il dramma che segna tanto Dio (che resta solo, se
abbandonato da noi) come pure noi, che restiamo soli senza di Lui, incapaci
come siamo a realizzare la nostra stessa vocazione umana. L’amore di Dio però
non viene meno tanto che quei discepoli, che ora abbandonano Gesù perché il suo
discorso è troppo duro, saranno gli stessi che, guardando a Colui che hanno
trafitto, potranno ricredersi e convertirsi e finalmente avere la vita, cosa
sempre possibile per tutti noi. Perché l’uomo non si condanni alla solitudine,
restando in balia delle sue ossessioni, è invitato a vivere nell’alleanza
offertaci da Dio, in Cristo, e non a condizionare l’alleanza ai suoi scopi, che
comportano il rifiuto di quelli di Dio. Ma negli scopi di Dio sta appunto
l’offerta di vita eterna, che non può provenire da noi stessi. È lo stesso
spazio del dramma che si trasforma nello spazio di una vita piena, intrisa di
gioia inattaccabile, allorché Dio e l’uomo si incontrano, esperienza sempre
misteriosa e imprevedibile.
§*§*§*§*§*§*§*§*§*§
Quinto ciclo
Anno liturgico B (2014-2015)
Tempo Ordinario
XXII
Domenica
(30 agosto 2015)
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Dt 4,1-2.6-8;
Sal 14; Gc 1,17-18.21b-22.27; Mc 7,1-8.14-15.21-23
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Se ‘i puri
di cuore vedranno Dio’ (cfr Mt 5,8) o, come dice il salmo responsoriale:
"Chi teme il Signore abiterà nella sua tenda", perché stupirci di non
sentirci a nostro agio nella sua casa, di non riuscire mai ad esserci per
davvero o di non risiedervi stabilmente? Se Dio guarda il cuore, perché noi
invece ci perdiamo nell’illusione dei nostri meriti o delle nostre
rivendicazioni, palesi o segrete?
Potremmo
considerare da questo punto di vista le letture di oggi. Tutte richiamano il
valore fondante della parola di Dio, del suo comandamento, per la vita
dell’uomo. Nel libro del Deuteronomio Mosè avverte: “Ora, Israele, ascolta le leggi e le norme che io vi insegno, affinché
le mettiate in pratica, perché viviate ed entriate in possesso della terra che
il Signore, Dio dei vostri padri, sta per darvi. Non aggiungerete nulla a ciò
che io vi comando e non ne toglierete nulla; ma osserverete i comandi del
Signore, vostro Dio, che io vi prescrivo”. Come Gesù fa ben risaltare nel
brano evangelico di oggi, il guaio proviene dal fatto che la nostra pratica
proviene spesso, non dal comandamento di Dio, ma da tradizioni, atteggiamenti,
pensieri, obblighi, esclusivamente umani. Così, la promessa di trovare la vita
ed entrare in possesso della terra del cuore, cioè gustare il mistero del regno
dei cieli svelato dal Signore Gesù Cristo, non si compie mai. Quella promessa è
abbinata solo alla pratica del comandamento di Dio, non ad altro. Ora, il
comandamento di Dio tocca sempre il cuore, mentre la tradizione umana, spesso,
non ha nulla a che vedere con il cuore. Tutto il discorso di Gesù verte appunto
sulla contrapposizione: comandamento di Dio/tradizione umana (“Trascurando il
comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini”) e, di
conseguenza, sulla purità o meno del cuore.
Ben a
proposito, rispetto al comandamento di Dio, la Scrittura dice: non aggiungere
né togliere. Se è abbastanza facile capire quando ci rifiutiamo di compiere un
comandamento, non lo è quando in qualche modo ci imponiamo un comandamento,
quando cioè crediamo di fare qualcosa di bene, ma non secondo Dio. La
tradizione midrashica ebraica incastona in questo contesto l’occasione del
peccato di Adamo ed Eva. Se si leggono attentamente i primi capitoli della
Genesi si noterà l’aggiunta di Eva al comandamento di Dio. Dio dice: “…dell’albero della conoscenza del bene e del
male non devi mangiare, perché, nel
giorno in cui tu ne mangerai, certamente dovrai morire”. Ma Eva al serpente
risponde: “…del frutto dell’albero che
sta in mezzo al giardino Dio ha detto: Non dovete mangiarne e non lo dovete toccare, altrimenti
morirete”. Eva aveva provato a toccare il frutto proibito, ma non era
successo niente. Quindi conclude: allora Dio non ha detto il vero, ha ragione
il serpente. Allora posso mangiare per avere la conoscenza…! E incontra la
morte.
L’aspetto
misterioso del comandamento di Dio deriva dal fatto che la parola di Dio cela
la rivelazione del Suo volto al nostro cuore abilitandolo a vivere in pienezza
la sua vocazione all’umanità. Per questo la logica dell’intelligenza della
parola di Dio capovolge la logica normale della comprensione. Davanti alla
parola di Dio siamo invitati subito a metterla in pratica al fine di
comprenderla, al fine cioè di cogliere la rivelazione di Dio che si svela al
cuore. La comprensione viene dalla pratica; io accetto di mettere in pratica
per capire e non, come solitamente ci riduciamo a fare, cerco di capire per
mettere in pratica. Il primo moto è affettivo, non intellettivo, nel senso che
prima devo poter cogliere l’intenzione segreta di Dio che a me si rivolge
fidandomi del suo amore. È per questo che, continuando la lettura del brano del
Deuteronomio, al v. 9, si proclama: “Ma
bada a te e guardati bene dal dimenticare le cose [parole] che i tuoi occhi
hanno visto, non ti sfuggano dal cuore per tutto il tempo della tua vita”.
L’accento
cade sulla sincerità del cuore, che si trova dentro una storia d’amore che lo
precede e l’accompagna e a cui risponde, e non sulla sua generosità. Cosa
significa ‘vedere’ le parole? Significa aver accolto la parola per metterla in
pratica e avanzare in quella realizzazione di umanità che fa risplendere la
prossimità di Dio.
La liturgia
ha ben collocato, a commento del brano del Deuteronomio, il salmo 14, il quale
riassume la sincerità del cuore davanti a Dio nell’agire con giustizia e nel
parlare lealmente, cioè nel non danneggiare il prossimo, noi stessi compresi,
né coi fatti né con la lingua (quello che i nostri Padri chiamavano: non ferire
mai la coscienza del prossimo, né coi fatti né con le parole). Questo vale
assai di più di qualsiasi pratica umana, pur grandiosa, perché in questo
risplende la vicinanza di Dio.
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Quinto ciclo
Anno liturgico B (2014-2015)
Tempo Ordinario
XXIII Domenica
(6 settembre 2015)
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Is 35,4-7a; Sal 145;
Gc 2,1-5; Mc 7,31-37
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Potremmo
domandarci se sia significativo il fatto che la guarigione del sordomuto
avvenga in territorio pagano. Non possiamo dimenticare che la confessione di
fede in Gesù, Figlio di Dio, alla fine del vangelo di Marco, è pronunciata da
un pagano, il centurione ai piedi della croce: “…avendolo visto spirare in quel modo, disse: Davvero quest’uomo era
Figlio di Dio!” (Mc 15,39).
I gesti e le
parole di Gesù hanno un’alta valenza simbolica perché toccare gli orecchi e la
lingua sono diventati gesti battesimali che ancora oggi sono ripetuti nel rito
del battesimo. Parto proprio da qui per suggerire una porta di accesso al brano
evangelico. Alla fine del rito del battesimo di un bambino, dopo che il
battezzando è stato unto col sacro crisma, ha ricevuto la veste bianca e il
cero acceso, il ministro compie il rito dell’effeta (dal brano evangelico
odierno: effatà, àpriti) dicendo: “Il Signore Gesù che fece udire i sordi e parlare
i muti, ti conceda di ascoltare presto la sua parola e di professare la tua
fede, a lode e gloria di Dio Padre”. E invita tutti a proclamare la preghiera
del Padre nostro. Anticamente, anche quando i battezzandi erano adulti, la
Chiesa si riferisce loro come a bambini piccoli che imparano a parlare. E quale
parola si suggerisce loro di dire? “Padre nostro” e non: padre mio, rinunciando
così ad ogni dipendenza nei confronti di qualsiasi altro padre terreno e
carnale, cioè al diavolo. Proprio in questa rinuncia a una paternità terrena e
carnale e nel riconoscimento di avere ormai un unico Padre celeste, si aprono
gli orecchi per ascoltare la Parola di vita e si apre la bocca per proclamare
la lode di Dio. Ecco delineato il passaggio dal paganesimo alla fede: ascoltare
e proclamare parole vere, lodando l’unico Dio e Padre, in Gesù.
Tale
passaggio, che avviene in verità con il battesimo, va poi vissuto concretamente
nel cammino della vita finché la verità dell’essere figli di Dio possa
splendere in tutta la sua concretezza. Nel cammino della vita il passaggio si
rinnova con il pentimento rispetto ai peccati che ancora ci mantengono
nell’orbita del padre terreno e carnale rinnegando quello celeste.
L’espressione di Sal 51,16-17 è illuminante: “Liberami dal sangue, o Dio, mia salvezza: la mia lingua esalterà la tua
giustizia. Signore, apri le mie labbra e la mia bocca proclami la tua lode”.
Davide è consapevole che, con il suo assassinio, è meritevole di morte. Ha
pregato che il suo peccato gli venisse perdonato e nella gioia del perdono
ritrovato promette di far conoscere la misericordia del Signore a tutti,
testimoniandola davanti a tutti e chiede che il suo parlare costituisca appunto
non solo una lode sua al suo Dio, ma che susciti la stessa lode a Dio in coloro
che l’ascoltano e tutti conoscano la misericordia del Signore.
È per questo
che la chiesa fa iniziare le preghiere del fedele ogni mattino con le parole
del salmo: “Signore, apri le mie labbra. E la mia bocca proclami la tua lode”,
consapevole che se tutte le altre parole, che si pronunceranno nella giornata,
non pescano la loro verità e il loro vigore nella lode del Signore, feriranno.
E nelle preghiere quaresimali, ad es. quella di s. Efrem, domandiamo di venir
liberati dalla parola vana, dalla parola vuota. La preghiera del giusto è
descritta: “Benedirò il Signore in ogni tempo. Sulla mia bocca sempre la tua
lode”.
Due
particolari del brano evangelico risultano significativi. La lode finale in
bocca alla gente che aveva visto il miracolo suona: “Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti”.
Quando, alla fine della creazione secondo il racconto della Genesi, Dio
contempla ciò che ha fatto, viene sottolineato: “Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona” (Gen
1,31). L’espressione della gente rivela che siamo in presenza ormai della nuova
creazione, quella dei tempi messianici, quando Dio rinnova ogni cosa ridando a
ciascuna cosa il suo splendore eterno perché tutto torni a proclamare la gloria
del suo amore.
Il secondo
particolare è dato dalla particolare espressione con cui viene designato il
sordomuto: un sordo che parlava confusamente. E quando viene guarito si dice
che parlava correttamente, distintamente. Ora la confusione del linguaggio è la
conseguenza della stoltezza degli uomini che vogliono competere con Dio per il
dominio della terra, come ben si vede nell’episodio della torre di Babele.
Rinunciando alla gloria di Dio gli uomini si troveranno estranei tra di loro
tanto da non capirsi più. La guarigione
avviene il giorno di Pentecoste quando la comprensione è data nonostante la
diversità delle lingue e la comprensione si baserà proprio sul fatto che tutti
riconosceranno le meraviglie di Dio, ciascuno nella sua lingua. Una volta che
gli orecchi possono ascoltare la Parola, la lingua sarà libera di glorificare
Dio perché in quella parola, sanante, è riconosciuta la Presenza del Signore,
presenza che non ci sarà mai più tolta e che unifica tutti.
Il salmo 45
che viene proclamato oggi può essere letto come la descrizione dell’umanità che
attende la salvezza, il compimento cioè della promessa di vita, di bene, di
felicità, inscritta nel suo intimo e la cui nostalgia è acuita dalle ferite e
dalle oppressioni del peccato simboleggiato dalle varie malattie elencate. E la salvezza riguarda tutti, perché in Gesù,
che ha tolto il muro di separazione (cf Ef 2,13-18), non c’è più giudeo e
pagano, trovando tutti la stessa consolazione e la stessa lode nello stesso
amore di Dio.
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Quinto ciclo
Anno liturgico B (2014-2015)
Tempo Ordinario
XXIV
Domenica
(13 settembre 2015)
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Is 50,5-9a; Sal 114; Gc 2,14-18; Mc 8,27-35
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Con il brano
di vangelo proclamato oggi siamo al centro della narrazione di Marco. Gesù
incomincia a rivelare direttamente la sua passione, a cui seguirà subito dopo
l’episodio della trasfigurazione. La liturgia indica come un percorso per
arrivare a cogliere la realtà del mistero della persona di Gesù. Gesù aveva
operato segni straordinari e il suo dire, il suo raccontare in parabole, aveva
catturato il cuore di tanti. Era giunto il momento di traghettare i discepoli
ad una comprensione più profonda e veritiera della sua persona.
La domanda a
proposito della sua identità sottende la stessa problematica di Giovanni
Battista: è lui o dobbiamo aspettare un altro? “La gente, chi dice che io sia?”; “Ma voi, chi dite che io sia?”. La gente pensa che lui sia stato
mandato a preparare la via al Messia, mentre Pietro confessa invece che proprio
lui è il Messia. Gesù prende così sul
serio la risposta di Pietro che apertamente svela il suo futuro di passione,
annunciato dal terzo canto del Servo del Signore secondo il testo di Isaia
della prima lettura.
Marco per
tre volte riporta l’annuncio della passione di Gesù: 8,31/9,31/10,33. Tutte e
tre le volte Gesù si trova per strada (qui per Cesarea, la seconda volta per
Cafarnao e la terza per Gerusalemme) e sempre l’annuncio è accompagnato da una
sua istruzione ai discepoli, tanto che l’annuncio va colto proprio a partire
dalla rivelazione che comporta quell’istruzione.
Da notare
subito: il testo sottolinea che Gesù insegnava
che doveva soffrire molto. I due
termini indicano che l’uomo non avrebbe mai potuto arrivare al mistero della
persona di Gesù dal basso; vi si giunge per rivelazione, dall’alto. Non solo,
ma che “dall’alto” corrisponde allo “star dietro” a Gesù. Pietro, che rifiuta
quella rivelazione, in effetti non può comprendere perché, invece di star
dietro a Gesù, vuole mettersi davanti, come a far da suggeritore al suo Maestro
e si prende il rimprovero: “Va’ dietro a
me, Satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini”. In
quel rimprovero però c’è tutta la pedagogia di Dio con l’uomo e Pietro ne farà
tesoro. Gesù riprende la testimonianza di Es 33,20-23, là dove Dio dice a Mosè
che potrà vederlo solo di spalle. Il che significa: solo accettando di
camminare per dove Dio indica lo si potrà vedere in verità. E ancora: solo
disponendoci a praticare la sua parola si può scoprire la verità della promessa
di vita che la sua parola comporta. Solo camminando dietro il Maestro si potrà
vederlo in verità fino alla visione della croce, là dove risplende l’amore di
Dio per gli uomini, convincendo i cuori che solo da quell’amore scaturisce la
vita per l’uomo e che solo in quell’amore la dignità della vita si fa godibile.
La verità che vale per il Maestro non è diversa da quella che vale per il
discepolo.
Quando Gesù
invita i discepoli a rinnegare se stessi, prendere la croce e seguirlo, non fa
che estendere a tutti il rimprovero rivolto a Pietro. Potremmo intendere le
cose così. Pietro, nel rimproverare Gesù, aveva probabilmente temuto per sé. Se
Gesù, il Messia, avesse dovuto subire tutti quei tormenti, certamente sarebbe
svanito il prestigio dell’essere ‘compagno’ del Messia. E allora che ne sarebbe
stato di lui? Il ‘rinnegare se stessi’ vale in rapporto al mistero di Dio che
in Gesù si fa prossimo agli uomini per la potenza del suo amore tanto da far
scaturire la vita proprio là dove gli uomini mai la cercherebbero. Se gli
uomini pensano in prospettiva mondana come potranno vedere i segreti di Dio? La
rinuncia a ogni prospettiva mondana è la condizione per accogliere il mistero
di Gesù che sulla croce rivela lo splendore dell’amore, motivo di ogni rinuncia
a qualsiasi cosa che non sia collegabile o derivante da quell’amore. D’altronde
qui risiede tutta la dignità della vita. Ma, per quanto desiderabile, come
resta velata ai nostri occhi! Siamo sempre nella condizione di dover essere istruiti dall’alto per afferrare la
verità dell’umanità di Gesù consegnata agli uomini e scoprire vero per noi e
per tutti lo splendore dell’amore. Così il portare la croce non si riferisce
primariamente alla fatica del vivere, ma alla condizione perché la fatica del
vivere risulti fruttuosa: la rinuncia a ogni prospettiva mondana ci apre alla
rivelazione dell’amore di Dio nella nostra vita, amore che possiamo cogliere in
tutto il suo splendore proprio nella croce di Gesù. Seguire Gesù significa
essere partecipi di questa rivelazione fino a viverla nel concreto della
propria vita per dare spazio alla stessa dinamica di amore.
Come
sottolinea la bellissima preghiera dopo la comunione: ‘La potenza di questo
sacramento, o Padre, ci pervada corpo e anima, perché non prevalga in noi il
nostro sentimento, ma l’azione del tuo santo Spirito’. Nella consapevolezza che
l’azione dello Spirito induce a vivere in pienezza quella vocazione all’umanità
che resta inscritta nei nostri cuori. E sarà proprio la potenza della visione
del Signore trafitto che diventerà fonte di vita perché apre alla conoscenza
dell’amore.
È per quella
visione e dentro quella potenza che san Paolo, nella sua lettera ai Galati,
ripresa dal canto al vangelo, proclama: “Quanto
a me non ci sia altro vanto che nella croce del Signore, per mezzo della quale
il mondo per me è stato crocifisso, come io per il mondo” (Gal 6,14). Come
a dire: rispetto a quell’amore, rivelato dall’alto e colto nel seguire il
Signore Gesù, di cui ho avuto la visione nel guardarlo trafitto in croce, non
c’è nulla nel mondo che meriti la preferenza e non c’è nulla in me che può
trovare adeguato compimento a partire dal mondo. La preghiera della chiesa
tende a rendere vivace per il nostro cuore tale verità.
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Quinto ciclo
Anno liturgico B (2014-2015)
Tempo Ordinario
XXV
Domenica
(20 settembre 2015)
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Sap
2,12.17-20; Sal 53, Gc 3,16-4,3,
Mc 9,30-37
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Il brano
evangelico concatena tre contesti: il secondo annuncio della passione, la
discussione tra i discepoli su chi sia il più grande, l’esortazione di Gesù di
accogliere i bambini. Partiamo dalla discussione dei discepoli. In effetti, non
si tratta semplicemente di un parlarsi, ma della contesa della discussione,
come esprime il verbo che usa Gesù quando fa loro la domanda: “Di che cosa stavate discutendo per la
strada? .... Per la via infatti avevano discusso tra loro chi fosse il più
grande”.
La liturgia
ci introduce nei sentimenti di Gesù e dei discepoli con la lettura del libro
della Sapienza. Il brano non va letto solo come un annuncio profetico della
passione di Gesù, ma per la prospettiva nella quale la profezia dona la sua
luce. Il brano riporta il discorso degli empi introducendolo con le parole:
“Dicono fra loro sragionando…” e concludendolo: “Non conoscono i segreti di
Dio”. Ecco, la rivelazione di Gesù consiste nell’essere messi a parte dei
segreti di Dio, che sono appunto i misteri del regno dei cieli. E l’annuncio della
passione rivela quanto i segreti di Dio siano lontani dalla mente degli uomini,
eppur così essenziali alla vita dei loro cuori.
La ricerca
della grandezza è tema sensibile per il cuore dell'uomo. Gesù non condanna i
discepoli; accetta che l’uomo desideri essere grande. La sfida è appunto: quale
grandezza cercare? Così al desiderio di grandezza dell’uomo segue l’indicazione
della sapienza dall’alto che indica la strada e la natura della grandezza
secondo Dio, come fa pregare la colletta: “ O Dio, Padre di tutti gli
uomini…donaci la sapienza dall’alto, perché accogliamo la parola del tuo Figlio
e comprendiamo che davanti a te il più grande è colui che serve”. La qualità
della grandezza gradita a Dio è nell’ordine della comunione, della gioia per
l’altro, della gioia condivisa con il Maestro: questo è il senso del servizio.
Quando Gesù
dice: “Se uno vuol essere il primo, sia
l’ultimo di tutti e il servo di tutti”, pone se stesso a modello della
grandezza. Di sé dice: “Eppure io sto in
mezzo a voi come colui che serve” (Lc 22,27). Dopo aver lavato i piedi agli
apostoli dice: “Se dunque io, il Signore
e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni
agli altri. Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io
ho fatto a voi. In verità, in verità io vi dico: un servo non è più grande del
suo padrone, né un inviato è più grande di chi lo ha mandato. Sapendo queste
cose, siete beati se le mettete in pratica” (Gv 13,13-17).
Voler essere
il servo di tutti significa allora voler essere trovato in Cristo. Voler essere
il primo significa voler essere ritrovato in colui che è il Primo e che si è
fatto servo di tutti. Qui si scopre la
grandezza che Dio gradisce. Lo dice l’annuncio della passione: quel Figlio, che
sarà esaltato, dovrà patire. Da intendere: non certo che il ‘soffrire’ abbia
qualche titolo di merito per ottenere grandezza, ma che è preferibile custodire
l’amore per l’altro comunque; non certo che occorra rassegnarsi al male, ma che
si accetti il fatto che il bene sia comunque preferibile e quindi si attraversi
il male senza perdere il bene.
E perché è
necessario percorrere questa via? L’esempio dei bambini ce lo illustra. Per
comprendere il riferimento ai bambini bisogna rifarsi al passo parallelo di Mt
18,1-5, dove Gesù, prima di invitare ad accogliere i bambini, fissa la
condizione interiore di conversione che permette di coglierne il mistero: “Perciò chiunque si farà piccolo come questo
bambino, costui è il più grande nel regno dei cieli”. Ma la traduzione ‘si
farà piccolo’ è fuorviante rispetto al contesto di rivelazione dell’annuncio
della passione. In effetti, il testo comporta il verbo ‘umiliare’ e la
traduzione sarebbe: ‘chi umilierà se stesso come un bambino’. Il significato è
più diretto rispetto all’annuncio della passione, perché Gesù è proprio colui
che ha umiliato se stesso, facendo risplendere, nella sua umiliazione, tutta la
potenza dell’amore di Dio per gli uomini e questo è motivo della sua grandezza.
Allora il riferimento al bambino può essere compreso sia nel senso della
confidenza verso il Padre sia nel senso della debolezza estrema patita e
diventata luogo di gloria. A tal punto, che Gesù si confonde con ogni
‘bambino’, cioè con ogni uomo nella sua debolezza, tanto che chi onora un uomo
nella sua debolezza onora lo stesso Signore Gesù e chi onora il Signore Gesù
onora il Padre. I segreti di Dio sono ravvisabili in questa ‘equazione’,
svelata nella sua bellezza dal Signore che per noi ha patito, è morto ed è
risuscitato.
Quando
accogliamo un uomo senza altra qualificazione se non quella della sua
‘umanità’, senza altro titolo di importanza o di merito o di demerito, allora
accogliamo Gesù. E lo possiamo fare perché già abbiamo imparato a godere
dell’intimità con il Padre, che in quella ‘umanità’ ha posto la sua compiacenza
e di cui abbiamo potuto fare esperienza credendo al Figlio dell’Uomo dato per
noi. Così diventare come bambini comporta l’esperienza di una umanità che non
ha bisogno di altri titoli di gloria, proprio come davanti ai bambini non si
guarda ad altro se non che sono bambini. Ma diventare come bambini significa
entrare nel Regno di Dio perché siamo messi in presenza del mistero stesso di
quel Figlio dell’Uomo che rivela l’amore di Dio per gli uomini. E sarà solo a
partire da quell’amore che potremo accogliere tutti come fratelli, destinati
allo stesso Regno.
Gesù parla
appunto della grandezza per il regno dei cieli, che è grandezza di rivelazione
dell’amore di Dio per gli uomini. Essere ultimo non significa essere dietro a
tutti gli altri, ma solo servo di tutti
perché l’amore di Dio risplenda e questo comporta che non ci sia cosa o persona
più significative per il nostro cuore da indurlo a preferirle contro l’amore di
Dio. Con il corollario evidente, anche se assolutamente mai scontato: non c’è
grandezza vera se non nel preferire tutti a noi stessi perché solo così l’amore
di Dio splende. E ciò significa che la nostra umanità vivrà della gloria del
Signore.
Se Giacomo,
nella sua lettera, parla di una sapienza che viene dall’alto, indicandola come
“pura, pacifica, mite, arrendevole, piena di misericordia e di buoni frutti,
senza parzialità, senza ipocrisia”, allude proprio a quella rivelazione che ha
conquistato il cuore e che lo muove con la potenza del suo dinamismo. E quando,
nella preghiera dopo la comunione, domandiamo che ‘la redenzione operata da
questi misteri trasformi tutta la nostra vita’, in realtà preghiamo perché il
nostro cuore si apra a quella rivelazione e ne sia conquistato.
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Quinto ciclo
Anno liturgico B (2014-2015)
Tempo Ordinario
XXVI
Domenica
(27 settembre 2015)
___________________________________________________
Nm
11,25-29; Sal 18; Gc 5,1-6;
Mc 9,38-43.45.47-48
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Il brano di
Marco, al di là del contenuto specifico delle parole di Gesù, sottolinea due
realtà: l’estrema preziosità della fede nel Signore Gesù e la tensione per il
Regno, segreto della vita. Ambedue le realtà sono suggerite dal canto al
vangelo: “La tua parola, Signore, è verità;
consacraci nella verità” (cf Gv 17,17). Come se, davanti alla proclamazione
del vangelo, pregassimo: fa’ che viviamo della verità delle tue parole,
aderendovi intimamente, in tutta evidenza per il nostro cuore. In questo brano,
Gesù proclama la verità sotto forma di promessa e sotto forma di minaccia. La
promessa è rivolta a chi non ha ancora aderito a lui e la minaccia a chi ha già
aderito, ma il contenuto della promessa e della minaccia è il medesimo: quanto
è preziosa per la nostra vita la conoscenza dei misteri del Regno!
Ma l’uomo
non sa vedere. Anche l’uomo zelante per Dio rischia di non saper vedere, come
Giosuè, il servitore di Mosè. L’episodio del dono dello Spirito ai settanta
anziani, tra i quali sono stati annoverati anche i due uomini rimasti
nell’accampamento, Eldad e Medad, non va visto solo a conferma
dell’atteggiamento di Gesù che non vuole venga impedita l’azione di Dio
dovunque si manifesti, a differenza dei discepoli che vorrebbero invece
limitarla al loro gruppo (“Chi non è
contro di noi è per noi”). Va visto in rapporto alla necessità
dell’effusione dello Spirito per accedere ai misteri del Regno. Mosè non può
essere geloso della visita di Dio perché se Dio visita è appunto per attrarre
tutti a Sé; così i discepoli non possono essere gelosi del dono dello Spirito
perché quel dono è dato proprio perché tutti entrino nei misteri di Dio. Così,
nel salmo responsoriale, la supplica è quella di essere liberati dai peccati
nascosti, soprattutto dal peccato di orgoglio che impedisce di vedere in modo
puro i doni di Dio: “Assolvimi dai
peccati nascosti. Anche dall’orgoglio salva il tuo servo perché su di me non
abbia potere…”.
In rapporto
a questa supplica, coloro che hanno responsabilità nella chiesa sono i primi
destinatari della minaccia di Gesù: “Chi
scandalizzerà uno solo di questi piccoli che credono in me...”. La fede in
lui è così preziosa che chi, con il suo comportamento altero o litigioso oppure
con la sua eccessiva severità verso i fratelli più deboli, la rende
impraticabile o impossibile a tenersi, sarà condannato. L’aggiunta del
paragone, che sarebbe meglio che fosse gettato in mare con appesa al collo una
macina da mulino, allude al tradimento di Giuda (cf Mt 26,24) per sottolineare
questa equazione: ricevere un discepolo di Cristo equivale a ricevere il
Cristo, ma scandalizzare un discepolo di Cristo equivale a tradire il Cristo.
Scandalo, in questo contesto, è riferito allo scoraggiamento che si istilla nei
deboli con un atteggiamento troppo severo di fronte alle loro mancanze.
Rispetto a
chi non ha ancora fede in lui Gesù dice: “Chiunque
infatti vi darà da bere un bicchiere d’acqua nel mio nome perché siete di
Cristo, in verità io vi dico che non perderà la sua ricompensa”. Gesù
ritiene fatta a sé ogni attenzione o cortesia rivolta ai suoi discepoli. E
potremmo dedurre per tutti in generale: anche un semplice bicchiere d’acqua è
degno di ricompensa, se offerto in rettitudine di cuore! L’aspetto misterioso
consiste appunto nel fatto che ogni minima cosa, fatta nel nome di Cristo, apre
sul mistero del regno dei cieli, che Gesù è venuto ad indicarci presente,
fruibile. Nel nome di Gesù ogni minima azione può aprirsi sul regno dei cieli e
ciò è accessibile a tutti perché a tutti Gesù rende vicino il Regno.
Rispetto
invece ai suoi discepoli Gesù dice: “Se
la tua mano ti scandalizza, tagliala … Se il tuo piede ti scandalizza, taglialo
… Se il tuo occhio ti scandalizza, cavalo: è meglio per te entrare nel regno di
Dio con un occhio solo, anziché con due occhi essere gettato nella Geenna …”.
Il senso delle sue parole potrebbe essere così interpretato: se l’uomo ha il
coraggio di agire seguendo i desideri più profondi del suo cuore,
nell’esperienza della fede, allora abbandonerà i desideri superficiali,
momentanei, che sono in contrasto con quelli. Posso portare un esempio. Vengo
offeso da un fratello. Il mio cuore mi convince di esigere scuse da lui per
ristabilire il mio diritto e se il fratello tarda o si rifiuta io resto nella
mia offesa, anche se, a volte, è solo il senso della mia importanza ad essere
ferito o la mia vanità o la mia presunzione. Vuoi ottenere il tuo diritto?
Rischi di perderti completamente. La tua importanza ti impedisce (=scandalizza)
di entrare nel regno dei cieli? Abbandonala, tagliala via e tu entrerai nel
regno. La difesa del tuo diritto ti fa entrare in guerra con il tuo fratello?
Lascialo, taglialo via e tu vedrai il regno dei cieli. Vuoi prevalere sul tuo
fratello? Taglia via quella volontà, stagli invece sottomesso: scoprirai la
grazia del Regno.
I misteri
del Regno sono i misteri della conoscenza del Signore Gesù, fuoco e sale della
vita. Non per nulla il capitolo 9 di Marco termina con queste parole
misteriose: “Ognuno infatti sarà salato
con il fuoco. Buona cosa è il sale ... Abbiate sale in voi stessi e siate in
pace gli uni con gli altri”. Potremmo interpretare: se vi lascerete
convincere a percepire i misteri del Regno come tesoro del vostro cuore (ecco
il fuoco) e rinuncerete sia a ogni
forma di ambizione e rivalità che di impoverimento di desideri e di tensione
spirituale (ecco il sale) , vivrete
custoditi e lieti, potrete godere la pace tra voi come sigillo dell’opera di
Dio in voi, come frutto del dono dello Spirito Santo e godimento
dell’esperienza della conoscenza del vostro Maestro che per voi è venuto, ha
patito, è morto ed è risuscitato.
Gli
atteggiamenti interiori che rivelano l’esperienza del Regno si riducono così a
due: gioire del bene (sia quello fatto da noi che da altri, in qualsiasi
condizione) e non ferire mai la coscienza del prossimo, specie dei deboli e dei
piccoli. Allora potremo cantare con il salmo responsoriale: “i precetti del
Signore fanno gioire il cuore”.
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Quinto ciclo
Anno liturgico B (2014-2015)
Tempo Ordinario
XXVII Domenica
(4 ottobre 2015)
___________________________________________________
Gn
2,18-24; Sal 127; Eb 2,9-11;
Mc 10,2-16
___________________________________________________
Per comprendere il brano evangelico
di oggi dobbiamo collocarlo nel contesto religioso del tempo. La domanda dei
farisei, domanda tranello, non verteva tanto sul carattere lecito del divorzio,
che anche la Legge consentiva (Dt 24,1: “Quando
un uomo ha preso una donna e ha vissuto con lei da marito, se poi avviene che
ella non trovi grazia ai suoi occhi, perché egli ha trovato in lei qualche cosa
di vergognoso, scriva per lei un libello di ripudio e glielo consegni in mano e
la mandi via dalla casa”), ma a quale condizione lo fosse. Nella
controversia tra le due scuole di Hillel e Shammai, ai tempi di Gesù prevaleva
la prima, più rigorista: il divorzio è lecito solo a una condizione, in caso
cioè di unione illegittima (che anche Mt 5,32 contempla) o di adulterio, mentre
più tardi prevalse la seconda, più lassista: il divorzio è lecito per qualsiasi
motivo. La legge sul divorzio proteggeva la donna dall’accusa di adulterio,
perché le permetteva un nuovo matrimonio.
Tutti sapevano che il ripudio era
una consuetudine pacificamente accettata e che Mosè aveva avallato con
un’indicazione precisa. I farisei sembrano intuire che l’insegnamento di Gesù
vada contro la Legge. Vogliono che lo dichiari apertamente per aver motivo così
di accusarlo.
La risposta di Gesù, se si colloca
nell’interpretazione più rigorista della legge mosaica, affronta la questione
in una prospettiva completamente diversa. Gesù, contrapponendo comandamento a
concessione, arriva al cuore del problema. In gioco non c’è l’interpretazione
restrittiva o estesa di una norma e neppure la norma stessa, ma il fondamento
su cui la norma prende valore. Il valore di riferimento non è la consuetudine,
per quanto avvalorata, sebbene in semplice concessione, dalla stessa Legge,
bensì l’agire di Dio che esprime il suo volere quanto all’uomo. E Gesù richiama
l’atto della creazione: “Dio li fece
maschio e femmina; per questo l'uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a
sua moglie e i due diventeranno una carne sola” (cf. Gen 1,27; 2,24).
Faccio notare che nel testo ebraico quel ‘si unirà’ non ha una marcata valenza
sessuale, valenza che si accentuerà nelle versioni e nei commenti successivi.
Quella benedizione di Dio non è mai
venuta meno, nonostante i peccati e le fragilità umane. E quella benedizione
costituisce l’asse di riferimento perenne del valore del matrimonio.
Gesù si riferisce al secondo
racconto della creazione dove l’uomo non è più considerato come coronamento del
cosmo, bensì suo principio. Quando, con l’antifona di ingresso, proclamiamo:
“Tutte le cose sono in tuo potere, Signore, e nessuno può resistere al tuo
volere”, alludiamo alla parola: “Non è
bene che l’uomo sia solo”. Tutte le cose sono date all’uomo, ma in nessuna
cosa l’uomo trova il suo compimento, la sua felicità, perché questo non è il
volere di Dio per lui. Da notare che Adamo godeva pienamente della pace con
Dio, non era ancora venuto il peccato a turbare l’armonia con Dio e con il
creato.
Dio è Uno, ma non è solo. In questo
mistero insondabile del Dio, uno nella natura e tre nelle Persone, rivelato da
Gesù, si fonda il volere di Dio per l’uomo. È come se Dio dicesse: non è
possibile che l’uomo non partecipi alla realtà più bella che mi costituisce,
l’amore. Non basta che l’uomo ami Me, suo Creatore, se non può amare anche chi
è della sua stessa natura; l’amore che Noi, Padre Figlio Spirito Santo, ci
costituisce, voglio che anche l’uomo lo possa vivere al pari di Noi. Ora la
donna, che non è tratta come Adamo e tutte le cose dalla polvere del suolo, ma
dallo stesso Adamo, è plasmata perché l’uomo potesse ‘essere come Dio’, amare
come Dio: realizzare la comunione in un’unica natura e tra persone diverse.
Lo sottolinea anche la liturgia con
il canto al vangelo: “Se ci amiamo gli
uni gli altri, Dio rimane in noi e l’amore di lui è perfetto in noi”. Come
a suggerire: l’amore, che ha le sue origini in Dio, rende uomini e donne di
pari dignità perché solo attraverso l’amore possiamo fare esperienza di Dio. E
quando un uomo e una donna sono consacrati nel loro amore, in gioco è proprio
la consumazione dell’amore di Dio che
si rivela in essi. Solo la tensione al Regno dei cieli, però, può motivare fino
in fondo la decisione di quell’amore.
In effetti, la posizione di Gesù è
vincolata all’accoglienza del Regno, al fatto di vederlo come colui che compie
il volere di Dio per l’uomo. Il brano è inserito in un contesto preciso, quello
della sua sequela, che si chiude con il suo ingresso a Gerusalemme. I suoi
discepoli sono come storditi, perché subito dopo Gesù proclama il valore del
celibato volontario per il regno dei cieli, l’inciampo delle ricchezze per il
sincero servizio del cuore e, per la terza volta, annuncia la sua prossima
passione.
Così, l’indissolubilità del
matrimonio diventa una esigenza del regime
messianico insieme a tutto il resto. Proprio in questo trova senso il
paragone dei bambini che leggiamo subito dopo: “a chi è come loro infatti appartiene il regno di Dio”. Vi è
l’allusione alle beatitudini: “Beati i
poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli ...”. I bambini, da
interpretare come ragazzi di 10-12 anni, prima del bar mitzvah, quando cioè
a pieno titolo entrano nella società degli adulti con il poter leggere
pubblicamente la Bibbia e contribuendo al numero legale per un’assemblea di
preghiera, sono l’immagine dei discepoli che non hanno titolo di importanza o
prestigio, che non si aspettano nulla, che non esercitano alcun potere, che
possono confidare solo in chi vuole loro bene. Di questi è il regno dei cieli,
di quanti cioè hanno posto in esso tutta la loro confidenza e in nient’altro,
non cercando quindi ricchezze o prestigio o finendo di servirsi di Dio invece
che essere suoi servi. L’insegnamento di Gesù è chiaro e i discepoli restano
pensierosi. Dovranno fare ancora tanta strada insieme al loro Maestro per
accogliere queste sue parole e viverne la potenza.
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Quinto ciclo
Anno liturgico B (2014-2015)
Tempo Ordinario
XXVIII Domenica
(11 ottobre 2015)
___________________________________________________
Sap
7,7-11; Sal 89; Eb 4,12-13;
Mc 10,17-30
___________________________________________________
Lo sbigottimento dei discepoli
davanti alle parole di Gesù è pure il nostro sbigottimento. Domandiamoci però
subito: la domanda del giovane ricco e la risposta di Gesù ricoprono lo stesso
ordine di preoccupazione interiore? Oppure, ancora: la domanda di sbigottimento
degli apostoli (“E chi può essere
salvato?”) ricopre lo stesso ordine di preoccupazione dell’intervento di
Pietro (“Ecco, noi abbiamo lasciato tutto
e ti abbiamo seguito”)?
Sembra che l’orizzonte della
richiesta del giovane ricco sia limitato. Non è soddisfatto delle sue ricchezze
e della sua vita, e per questo corre da Gesù, ma la vita eterna che mostra di
volere è assai diversa da quella che Gesù chiama l’entrare nel regno di Dio. È
come se non riuscisse a distinguere il comandamento dalla ispirazione che l’ha
dettato. Il dramma dei credenti viene proprio dal fatto che si può praticare il
bene e non arrivare mai a gustarne il frutto. La messa in guardia risuona
nell’affermazione di Gesù: “Perché mi
chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo”.
Ciò significa che si possono fare
atti buoni senza diventare buoni o, meglio, fare i comandamenti senza
partecipare alle segrete intenzioni per cui Dio ci ha dato quei comandamenti e
così non veniamo messi a parte del suo segreto e del desiderio del suo cuore,
non diventiamo mai intimi suoi. Lo spartiacque tra quei due livelli è
costituito da quel ‘vieni e seguimi’ nel senso che accettare di seguire il
Signore Gesù significa essere attirati dal Padre, significa porre il segreto
della propria vita nell’invio di quel Figlio che è stato dato per noi,
significa fidarsi di Colui che ci si fa incontro dalla parte di Dio per
ritrovare la propria umanità guarita e riscattata. Se accettiamo di seguire il
Signore è perché qualcosa di Lui ci ha affascinato, qualcosa ha parlato al
nostro cuore nel senso di percepire di trovare felicità e compimento in ciò che
ci chiama ad essere, in ciò che ci chiama a fare. Impariamo a riceverci dal
nostro futuro perché la chiamata del Signore cela una sua promessa che col
tempo si rivelerà. E noi acconsentiamo proprio a questa rivelazione che ci
viene dal futuro.
Di per sé la posizione del giovane
ricco e dei discepoli si equivale. In fondo, pensano ancora come il giovane
ricco. La differenza risiede nel fatto che i discepoli sono però capaci di
provare a credere a Gesù, capacità che permetterà al loro cuore, a tempo
debito, di condividere i segreti di Dio che in Gesù si manifestano, lasciandosi
conquistare totalmente. Pietro non pretende qualcosa se sottolinea cosa ci
guadagneranno dall’aver abbandonato tutto per seguire il loro Maestro. Dichiara
semplicemente che a loro non è ancora dato di godere il frutto della loro
rinuncia. E Gesù gli risponde con la promessa che ciò avverrà sicuramente e in
abbondanza, a patto che seguano il Maestro fino in fondo, fino a conoscere
nell’esperienza del loro cuore la prima beatitudine, ripresa dal canto al
vangelo: “Beati i poveri in spirito,
perché di esse è il regno dei cieli” (Mt 5,3).
È per questo motivo che Gesù,
desideroso di avere amici che condividono quei segreti, invita il giovane. Non
si tratta tanto di lasciare tutto, quanto di venire dietro a Gesù, l’Inviato
sul quale riposa tutta la compiacenza del Padre e nel quale anche gli uomini
possono gustare la benedizione di quella compiacenza. Il vendere i propri beni
allude al fatto che non sono quei beni ad assicurarci il Bene cercato dal
cuore. Non che sia necessario disfarsene (Gesù ha accettato con sé discepoli
senza aver imposto loro di lasciare i beni!), ma che è necessario rinunciare a
preferire i beni al Bene. Si potrebbe dire che il senso della nostra vita si
gioca non nel voler fare il bene, ma nel farlo per entrare nel segreto di Dio e
il segreto di Dio che ci rivela il suo amore per noi è proprio quel Figlio che
è stato dato per noi.
Ora, non è possibile all’uomo
entrare nel segreto di Dio. Solo Dio ce lo può ottenere, Lui che ha tanto amato
il mondo da dare il suo Figlio perché anche noi, in Lui, possiamo godere della
sua gioia. In questo senso si capisce bene la tristezza di Gesù davanti alla
tristezza del giovane ricco che se ne va disilluso: il giovane rifiuta
l’ingresso in una gioia che aveva intravisto e di cui si rassegna a non godere
più. La conseguenza sarà che i comandamenti eseguiti non saranno mai per lui
motivo di intimità e di gioia del cuore. E per questo non può ancora entrare
nel Regno, che gli è balenato davanti.
La prima lettura illustra come sia
da intendere questa impossibilità per l’uomo di ‘salvarsi’, cioè di entrare in
intimità con Dio e vivere in comunione con lui e con tutti i suoi figli. Se
Salomone prega per ottenere la sapienza vuol dire che la sapienza non è una
conquista umana. Il salmo responsoriale lo mostra chiaramente. Parla di
‘saziarsi di grazia’, di ‘manifestazione della gloria di Dio’, di ‘consistenza’
dell’agire dell’uomo. Grazia, gloria e consistenza, che esprimono la
rivelazione dell’amore di Dio per l’uomo, rivelazione che in Gesù si manifesta
in tutto il suo splendore. Accogliere Gesù significa accogliere la sapienza di
Dio che è splendore di amore per l’uomo. Tutto ciò che ha a che fare con quello
splendore nella vita degli uomini parla della sapienza che ha lambito il cuore
dell’uomo e lo rende splendente. A paragone con questa sapienza, le ricchezze e
ogni altro bene di cui godere nella vita non costituiscono nulla di davvero
significativo per il cuore. Salomone lo sa e prega ardentemente per partecipare
a quella sapienza.
E se l’antifona di ingresso
proclama, eco del salmo 129: “Se
consideri le nostre colpe, Signore, chi potrà resistere? Ma presso di te è il
perdono, o Dio di Israele”, vuol dire che l’uomo non può accedere alla
sapienza sulla base dei suoi meriti, non può conoscere la sapienza a partire
dal suo buon comportamento; vuol dire che si accede alla sapienza con il
riconoscere il bisogno del perdono, che non equivale semplicemente a
riconoscere la colpa, ma a riconoscerla davanti a Qualcuno che ci vuol far dono
di Sé.
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Quinto ciclo
Anno liturgico B (2014-2015)
Tempo Ordinario
XXIX
Domenica
(18
ottobre 2015)
___________________________________________________
Is
53,2a.3a.10-11; Sal 32; Eb 4.14-16; Mc 10,35-45
___________________________________________________
Gesù sta salendo a Gerusalemme con
tale decisione che i discepoli sono sgomenti e impauriti. Lui cammina davanti e
a un certo punto raccoglie gli apostoli e consegna loro il terzo annuncio della
sua passione, il più dettagliato: “Ecco,
noi saliamo a Gerusalemme e il Figlio dell’uomo sarà consegnato ai capi dei
sacerdoti e agli scribi; lo condanneranno a morte e lo consegneranno ai pagani,
lo derideranno, gli sputeranno addosso, lo flagelleranno e lo uccideranno, e
dopo tre giorni risorgerà” (Mc 10,33-34). Ha appena finito di rivelare il
suo drammatico destino, ed ecco che si fanno avanti Giacomo e Giovanni, i quali
chiedono di poter condividere la gloria del loro Maestro, pensandolo
evidentemente come un Messia vittorioso, in posizione di privilegio rispetto
agli altri compagni. Davanti alla loro richiesta Gesù non si ritrae e deve
riconoscere che i suoi due apostoli sono tutto d’un pezzo, intendono seguirlo
davvero fino in fondo. Non dimentichiamo che, insieme a Pietro, questi due
discepoli sono quelli che hanno ricevuto un nome nuovo da Gesù, a differenza di
tutti gli altri. Nell’elenco degli apostoli (cfr. Mc 3,16-19), Giacomo e
Giovanni vengono subito dopo Pietro e sono denominati ‘Boanerghes’, figli del
tuono. Insieme a Pietro, accompagnano Gesù nei momenti più significativi e
misteriosi e hanno sentito la voce dal cielo: “Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!” (Mc 9,7).
Giovanni Crisostomo, commentando la
richiesta dei due fratelli, osserva che la loro domanda era inopportuna: si
immaginano la gloria prima del patire e avanzano una pretesa sui compagni.
Ancora non sapevano che sarebbe stata l’umiliazione a produrre frutti
sorprendenti. L’unico modello di umanità compiuta è quello di Gesù e lui ha
scelto la via dell’abbassamento per manifestare l’amore. Ogni altra richiesta
di compimento di umanità non raggiungerà lo scopo. Così l’abbassamento del Figlio è lo spazio nel quale gli uomini sono
collocati per apprendere l’amore del loro Dio, mentre tutti gli eventi della
vita sono retti dalla Provvidenza di Dio che ci vuole partecipi del frutto che
quell’abbassamento ci ha procurato. Rivelazione, questa, che tutta la liturgia
di oggi si premura di sottolineare con la solenne dichiarazione di Gesù: “il Figlio dell’uomo è venuto per servire e
dare la propria vita in riscatto per molti”, proclamato dal canto al
vangelo.
In poche parole, Gesù rifiuta ogni
collegamento tra il desiderio di gloria e la sua sequela. Quel nesso è custodito
da Dio solo. Non che non esista, ma guai a volerlo perseguire, perché ne
scaturirebbe un fraintendimento colossale per i nostri cuori. La ragione
profonda credo risieda nel fatto che ad attirare a Gesù è il Padre: “Nessuno può venire a me, se non lo attira il
Padre che mi ha mandato” (Gv 6,44). Essere mossi dal Padre significa
condividere l’amore di benevolenza che in quel Figlio ci raggiunge e ci fa
riposare. Non si può desiderare altro. Volere altro significa uscire da quella
dinamica e fallire il compimento dei desideri del cuore. A questa assolutezza
Gesù richiama e rimanda.
Del resto si concatena bene a questa
anche l’altra risposta di Gesù all’irritazione dei discepoli contro i due figli
di Zebedeo: “…chi vuole diventare grande
tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo
di tutti. Anche il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma
per servire e dare la propria vita in riscatto per molti”. Perché voler
essere grandi comporta dover servire? Di nuovo si è rimandati al mistero del
Padre che attira al Figlio. Servire significa compiere quella ‘volontà di
benevolenza’ del Padre nei confronti degli uomini che in Gesù si realizza
perfettamente. Compiere la volontà di benevolenza significa far risplendere,
comunque, in qualsiasi condizione, quell’amore di Dio per gli uomini in cui si
radica la loro dignità e la loro libertà. Si tratta di realizzare una grandezza
che sa liberare la dignità degli uomini rivelando loro di essere non soltanto
oggetto di amore, ma soggetti di amore. Il servire procura questo riscatto:
libera la dignità degli uomini e fa risplendere la presenza del Signore. E se
non porta lì, allora vuol dire che il servire messo in atto sa troppo di questo
mondo, sul quale esercita il suo potere il diavolo. Se non porta lì, vuol dire
che il dinamismo del sacrificio di Gesù, dinamismo di amore sotto la duplice
forma di docilità filiale verso Dio e di solidarietà fraterna aperta a tutti,
non ci ha toccati. Ma se quel dinamismo non ci ha toccati, allora non siamo
discepoli di Gesù e la nostra sequela di lui è illusoria. Occorre lasciare ogni
tipo di potere e prestigio se si vuole condividere la grandezza dell’amore, che
in Gesù splende di tutta la sua bellezza in umanità.
Un’ultima annotazione. Nel brano di
Marco, rispetto alla grandezza vale il servizio vicendevole (nel testo: sarà vostro servitore), rispetto al
primato vale l’essere ultimi nel senso di essere schiavi di tutti (nel testo: sarà schiavo di tutti). Nell’ultima
cena, Gesù si muove non solo come servitore,
ma come schiavo e in questo rivela il
segreto di Dio per l’uomo. Se l’uomo potesse condividere quel segreto, si
troverebbe a muoversi come Gesù e vivrebbe la sua vita nella dinamica di
liberare la dignità degli uomini in modo che sia esaltato l’amore di Dio per
loro.
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Quinto ciclo
Anno liturgico B (2014-2015)
Tempo Ordinario
XXX
Domenica
(25 ottobre 2015)
___________________________________________________
Ger
31,7-9; Sal 125; Eb 5,1-6;
Mc 10,46-52
___________________________________________________
Il brano evangelico di oggi ha degli
accenti assolutamente speciali. I verbi, anzitutto. Tutti i verbi del brano
sono intensivi: Bartimeo, il cieco alle porte di Gerico, grida, non
semplicemente chiama; ripetutamente grida (tra l’altro, il grido del cieco è
diventato il paradigma dell’invocazione della preghiera di Gesù, della
preghiera del cuore!); getta via il mantello, non semplicemente se lo toglie;
balza in piedi, non semplicemente si alza; si rivolge a Gesù da dentro
un’emozione che aveva già lavorato il suo cuore, sebbene non avesse ancora mai
potuto vederlo in faccia e, appena lo vede, non può che mettersi a seguirlo.
Tutto il racconto assume una valenza simbolica precisa, che la liturgia fa
risaltare.
La prima lettura è tratta dal cap.
31 di Geremia, il capitolo che descrive il compiersi della promessa di Dio per
gli esuli a Babilonia, l’arrivo a Sion del Signore con il suo popolo,
realizzazione che allude a un’altra promessa, quella di una nuova alleanza, scritta
sui cuori, quando Israele corrisponderà con la stessa dedizione
all’attaccamento del Signore al suo popolo e tutto sarà riedificato nuovamente.
Straordinaria è la descrizione dei sentimenti di Dio: “Ti ho amato di amore eterno … il mio cuore si commuove e sento per lui
profonda tenerezza … tutti mi conosceranno … poiché io perdonerò la loro
iniquità e non ricorderò più il loro peccato”. Il salmo responsoriale
celebra l’esperienza del ritorno dall’esilio e la riconsegna del popolo al suo
destino di bene e di felicità, come il Signore aveva promesso.
A noi sfugge la dimensione
drammatica di queste promesse di Dio, come sfugge la tensione emotiva del cuore
del cieco che ha tanto atteso il suo momento. Geremia vede in sogno la
realizzazione del ritorno del popolo dall’esilio e legge il suo sogno come la
profezia del futuro. In realtà, attorno a lui, a Gerusalemme, tutto è
distrutto, la città svuotata, le sofferenze immani e la prostrazione abissale.
Ma Dio non può venir meno alle sue promesse e il profeta vede, spera, crede,
lotta per rianimare e consolare.
Così per Bartimeo, che troppo a
lungo ha dovuto soffrire, troppo a lungo ha dovuto aspettare, troppo a lungo
aveva sperato. Quando gli si presenta l’occasione, tutto scoppia, prorompe, e
lui perde ogni ritegno. E Gesù, che anche lui vive con impazienza ormai la
dinamica di rivelazione dell’amore di Dio per gli uomini da non vedere l’ora di
arrivare a Gerusalemme, riconosce il suo desiderio, lo risana e lo rende suo
compagno di viaggio, partecipe ‘vedente’ del suo segreto da parte di Dio.
I particolari che illustrano la
tensione interiore di Bartimeo sono due: il grido, ‘Figlio di Davide’ e il nome
con il quale si rivolge a Gesù: ‘Rabbunì’. Nei vangeli sinottici, se non vado
errato, soltanto nel caso del o dei ciechi di Gerico ci si rivolge a Gesù con
‘Figlio di Davide’ (in Matteo, anche la donna cananea usa quel titolo, lei,
pagana!). L’espressione è da collegare all’esclamazione che subito dopo,
entrando Gesù in Gerusalemme, la folla proclama festante. Allude al mistero di
Gesù che si sta svelando e che nessuno coglie. Bartimeo sembra presagirlo. Lo
conferma il titolo con il quale si rivolge a Gesù quando gli arriva davanti:
“Rabbunì”, evidentemente pronunciato con un tono accorato, a differenza delle
grida che gli avevano ottenuto l’attenzione dello stesso Gesù. Quella
espressione nasconde un mondo. Quel modo di riferirsi a Gesù fiorisce solo
sulle labbra di un’altra persona: Maria Maddalena. Quando, nel giardino, si
sente chiamare per nome da Gesù subito dopo la sua resurrezione (cfr. Gv
20,16), ella risponde: Rabbunì! Immaginiamo il trasporto, l’emozione con cui
viene pronunciato! Rivela la natura di un rapporto ricco di intimità,
assolutamente personale, riassume la sua storia, contiene tutto il suo cuore di
donna e di discepola. Per Bartimeo quell’appellativo cela tutto il desiderio
che aveva a lungo lavorato il suo cuore, esprime una tensione fortissima
dell’anima. E non solo in funzione della guarigione che invoca, ma in funzione
dell’orientamento di tutta la sua vita, come poi il brano testimonia annotando
che Bartimeo va dietro a Gesù. Quel suo ‘andar dietro’ a Gesù porta l’eco del
comando di Gesù: “Va’, la tua fede ti ha
salvato”. E dove Gesù lo porta? A Gerusalemme, perché subito dopo il
miracolo, il testo del vangelo prosegue descrivendo l’entrata trionfale di Gesù
in Gerusalemme, dove si compie la sua ora. La vista che gli ha ridato, nella
visione della fede che ormai abita il cuore, lo porta a vedere in Lui il Regno
che si compie, il Paradiso nel quale
tutti i discepoli di Cristo sono chiamati ad entrare. E così la figura di
questo cieco diventa l’immagine-simbolo della tensione dell’anima e della
scoperta di Colui che ormai ha rapito i nostri cuori.
Ora, questo è l’esito della
preghiera: tornare ad avere il cuore che vede svelarsi e compiersi nel concreto
della vita il segreto di Dio. In questa prospettiva va letta l’esultanza del
credente come ripete l’antifona d’ingresso di oggi, ripresa dal salmo 105: “Gioisca il cuore di chi cerca il Signore.
Cercate il Signore e la sua potenza, cercate sempre il suo volto”, perché
vi renda complici del suo segreto per l’uomo. Come la versione greca e latina
rendono: ‘cercate il Signore e siate fortificati’. Fortificati dalla comunanza
di vita con colui che dell’amore per noi ha fatto la ragione della sua umanità.
La preghiera è allora la condivisione della fretta che muove Gesù di veder
compiersi il segreto di Dio in favore degli uomini, fretta che trascina i
discepoli e muove il mondo. Soltanto l’invocazione gridata con tutto il cuore,
senza alcun ritegno, come è avvenuto per la donna Cananea (Mc 7, 26) e
Bartimeo: “Figlio di Davide, abbi pietà
di me” farà vedere la fretta che muove il Signore nel suo appressarsi
all’uomo aprendoci il suo segreto e sanando così il nostro cuore, tanto da
trascinarci nella sua stessa dinamica perché tutti ne siano lambiti e il mondo
risplenda della Sua presenza.
§*§*§*§*§*§*§*§*§*§
Quinto ciclo
Anno liturgico B (2014-2015)
Solennità e feste
Tutti i Santi
(1° novembre 2015)
___________________________________________________
Ap
7,2-4.9-14; Sal 23; 1 Gv 3,1-3;
Mt 5,1-12a
___________________________________________________
Le preghiere
e le letture di oggi mostrano in cosa consiste la gioia della santità: godere
dello splendore dell’amore di Dio per noi. E tutti gli sguardi si accentrano
sulla figura dell’Agnello glorioso e immolato ‘fin dalla fondazione del mondo’
(Ap 13,8). Il mondo è uscito dall’amore di Dio, di esso è intessuto e percorso,
di esso parla, ma quanta tenebra ne impedisce la visione!
Lo sguardo
della Chiesa non è però attirato come da un punto di fuga situato oltre la
storia, come si trattasse di riempirsi gli occhi con una visione consolatoria.
La sua visione parla di un’esperienza quotidiana; parla di realtà ultima ma
vicina, più reale delle cose di tutti i giorni. Parla al cuore degli aneliti
che lo assillano, delle radici che lo costituiscono, delle tensioni che lo
lavorano, dei desideri che l’abitano.
La
proclamazione dei santi, come viene descritta nella prima lettura, non si
riferisce ad un futuro dopo la storia, ma esprime la verità della nostra
storia, verità che non passerà e riempirà tutto del suo splendore. Quello
splendore costituisce già il senso della nostra storia, anche se spesso i
nostri occhi sono così velati da non accorgercene più. Sarebbe il senso
dell’urgenza della preghiera: renderci accorti di quella verità! Non abbiamo
altro modo di sconfinare nell’eterno se non quello di giocare la nostra vita
terrena, secondo tutto lo spessore di dignità che comporta. L’immagine chiave
di tale dignità è la realtà degli uomini come ‘figli di Dio’: “Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio,
ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si
sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è.
Chiunque ha questa speranza in lui, purifica se stesso, come egli è puro”.
Quello che siamo, siamo chiamati a diventarlo: è tutto il senso della vocazione
umana. La stessa Eucaristia non è che la celebrazione di questo mistero.
Ora, chi
sono i figli di Dio? Sono coloro che lo Spirito di Dio guida - risponde tutta
la tradizione della chiesa. E le beatitudini evangeliche sono le vie che lo
Spirito di Dio fa percorrere per essere trovati in quel Figlio, che è la
rivelazione dell’amore di Dio per gli uomini.
beati i poveri: beati coloro che non fanno consistere la loro ricchezza che nell'essere
figli di Dio, che non hanno nulla di più caro al mondo se non quel Figlio che
ha loro manifestato l'amore grande di Dio per l'umanità;
beati gli afflitti: beati coloro che non hanno lacrime più amare di quelle versate quando
dovessero allontanarsi dall'agire come figli di Dio e, pentiti, ritornano al
loro Signore, ritrovando la consolazione della solidarietà con Dio e con gli
uomini;
beati i miti: beati
coloro che con pazienza sopporteranno ogni prova per non venir meno al loro
essere ed agire come figli di Dio, fino a che la terra del loro cuore splenda
della presenza del loro Signore;
beati quelli che hanno fame e sete della giustizia: beati coloro il cui unico tormento è quello di
perseverare nella fedeltà all'essere figli di Dio, fin tanto che il volto di
Dio si manifesti al loro cuore e li consoli;
beati i misericordiosi: beati coloro che, avendo sperimentato quanto è
grande l'amore di Dio che li ha resi figli suoi, per sua sola misericordia,
saranno capaci di estendere a tutti la possibilità di tale esperienza aprendo
il loro cuore al perdono;
beati i puri di cuore: beati coloro che avranno sperimentato la luce
dell'amore di Dio in modo da collocare i loro cuori nella luce e poter vedere
tutto in questa luce;
beati gli operatori di pace: beati coloro che, come figli di Dio, vivono nella
dinamica dell'amore di Dio per gli uomini che vuole tutti riconciliati; beati
coloro che non hanno altro scopo se non di perseguire la pace con tutti
ottenutaci dal Figlio di Dio;
beati i perseguitati per causa della giustizia: è l'ottava beatitudine, quella che ingloba le altre
nel senso che di tutte rappresenta la condizione suprema: qualsiasi cosa abbiate
a soffrire, non vi turbi e non vi distolga dalla volontà di vivere da figli di
Dio, fiduciosi nella promessa del Signore, nella sua parola che è potente, cioè
capace di far vivere quello che promette.
Con l’invito
a purificarci: “Non rimproveriamo il mondo, non rimproveriamo la vita, di
velare per noi il volto di Dio. Troviamolo questo volto, ed esso velerà,
assorbirà ogni cosa” (Madeleine Delbrêl).
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Quinto ciclo
Anno liturgico B (2014-2015)
Tempo Ordinario
XXXII Domenica
(8 novembre 2015)
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1 Re
17,10-16; Sal 145; Eb 9,24-28; Mc 12,38-44
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Nella liturgia di oggi qualcosa di
strano risuona per il nostro modo di ragionare. Dio ordina al profeta Elia di
rifugiarsi a Sarepta, in territorio pagano, perché una vedova provvederà a lui,
ma quella donna non ha di che sfamarlo. Come vedova già viveva di elemosine e
ora che è tempo di carestia raccoglie solo briciole. Eppure proprio a lei il
profeta viene inviato per la sua sopravvivenza. Prima, nella sua solitudine, il
profeta riceveva cibo dai corvi, termine che alcuni commentatori rendono con
‘arabi’ intendendo che un israelita viene aiutato proprio da uno straniero.
Gesù, che si è messo in posizione di osservazione davanti al tesoro del tempio,
elogia una povera vedova per i due spiccioli che vi aveva buttato restando
senza più risorse lei per vivere.
Tutta la liturgia di oggi può essere
letta come il commento della Chiesa alla prima beatitudine cantata nel versetto
all’alleluia: “Beati i poveri in spirito,
perché di essi è il regno dei cieli” (Mt 5,3), secondo l’elogio che Gesù
tributa ad una povera vedova a sua insaputa. L’antifona alla comunione ne svela
la ragione la ragione profonda: “Il
Signore è il mio pastore, non manco di nulla ...”. Di questa certezza era
colmo il suo cuore, certezza che fa dire a Gesù: “In verità io vi dico: questa vedova, così povera, ha gettato nel tesoro
più di tutti gli altri. Tutti infatti hanno gettato parte del loro superfluo.
Lei invece, nella sua miseria, vi ha gettato tutto quello che aveva, tutto
quanto aveva per vivere”.
Gesù, elogiando la vedova, vuol
esaltare un tipo di legame, di attaccamento, di comportamento dei cuori tra Dio
e i suoi servi. La vedova, nel dare tutto quello che aveva per vivere, fa
affidamento alla promessa di Dio che, nella sua grandezza e generosità, non
lascerà mancare il necessario ai suoi servi. Quella donna, che vuole
ottemperare al comando di Dio di portare l’offerta al tempio, come era
richiesto a tutti gli ebrei, si fida del suo Dio, con tutto il suo cuore. E
come sempre, la promessa di Dio, per rivelarsi nella sua gratuità, non ha bisogno di sfruttare nulla che appartenga
all’uomo. Dio in effetti ha soltanto bisogno dello spazio di un cuore che si
faccia semplicemente e totalmente accogliente, anche quando le apparenze
sembrano giocare a sfavore.
Traducendo letteralmente si potrebbe
rendere: “i ricchi hanno preso sul loro superfluo, lei, vedova, ha preso sulla
sua indigenza tutto quello che aveva, che costituiva tutta la sua vita”.
Oppure, ancora più significativamente: “dalla
sua mancanza gettò tutto quanto aveva, tutta la sua vita”. Il nostro Dio è
un Signore strano: non chiede né poco né tanto né tutto; chiede quello che non
hai. Il gesto della vedova, che trae dalla sua mancanza quello che costituiva
la sua vita, assume una valenza spirituale paradigmatica. Basta pensare ai
comandamenti. Dio ci comanda: “siate miti … portatori di pace … misericordiosi
…”. Uno dà quello che ha, questa è la norma dell’agire tra gli uomini. Con Dio
non vale: uno deve dare quello che non ha per averlo anche lui. Così, io, che
non sono affatto mite, che non sono affatto in pace, sono richiesto di usare
mitezza, di portare pace. Ma come è possibile? Sulla promessa della fedeltà di
Dio al suo comandamento. Dare mitezza in nome di Dio a un fratello vuol dire
fidarsi totalmente della promessa che farà gustare anche al mio cuore quella
mitezza. Ed in questo gusto trovare finalmente la compagnia di colui che il mio
cuore ama. Perché se già non lo amassi, come farei a fidarmi? Per questo la
vedova è tanto elogiata da Gesù. Il fidarsi del suo Dio rivela il suo amore per
lui, per tutte le sue cose, vale a dire il tempio e il popolo per cui si portavano
le monete al tesoro. E in cambio tutta la sua vita resta assicurata, in modo
inspiegabile, sulla fedeltà di Dio.
Come annota Madeleine Delbrel
commentando la prima beatitudine: “Non pensate che la nostra gioia sia
trascorrere i giorni a vuotare le nostre mani, le nostre menti, i nostri cuori.
La nostra gioia è trascorrere i giorni a scavare nelle nostre mani, nelle
nostre menti, nei nostri cuori un posto per il Regno dei Cieli che passa.
Perché è straordinario saperlo così imminente, saper Dio così vicino. È
prodigioso sapere il suo amore tanto possibile in noi e su di noi. E non
aprirgli questa porta unica e semplice che è la povertà di spirito”.
Gregorio Magno, commentando la
prontezza dei pescatori a seguire la chiamata di Gesù, riflette sul fatto che a
dire il vero quegli uomini avevano ben poco da lasciare essendo poveri. Ma –
aggiunge – “ha molto lasciato chi non ha tenuto nulla per sé”. É il senso della
fede genuina. Non importa lasciare poco o tanto; l'importante è non conservare
nulla per sé, vale a dire fidarsi fino in fondo, lungo tutto il cammino, con
tutte le fatiche che comporta, in modo che la grazia dell'incontro possa
rivelare tutti i suoi frutti, nel tempo.
La vicenda del profeta Elia e della
vedova di Sarepta allude alla medesima realtà. Se la vedova si fida della
parola del profeta, il quale si era fidato della parola di Dio, non solo non
muore nella sua indigenza, ma con la sua indigenza, offerta, ricostituirà la
vita del profeta e la sua. Così, rispetto alla prima beatitudine, la vedova è
tra quei poveri nei quali prevale la
beatitudine promessa perché la fedeltà di Dio per lei è cosa saputa, vera,
tanto da scavare nella sua indigenza la gioia del vivere, proprio perché con il
suo Dio. Ma la beatitudine va letta non solo in rapporto al fatto che i poveri
in spirito toccheranno il regno dei cieli, ma anche in rapporto al fatto che,
se incontreremo questi poveri, il regno dei cieli sarà reso visibile a noi.
Così in effetti prega la chiesa dopo la comunione: “La forza dello Spirito
Santo, che ci hai comunicato in questi sacramenti, rimanga in noi e trasformi
tutta la nostra vita”. Come a dire: lo Spirito del Signore radichi i nostri
cuori nello stesso atteggiamento di fede della vedova che ha strappato a Gesù
quell’elogio pieno di ammirazione.
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Quinto ciclo
Anno liturgico B (2014-2015)
Tempo Ordinario
XXXIII Domenica
(15 novembre 2015)
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Dn 12,1-3; Sal 15; Eb 10,11-14.18; Mc 13, 24-32
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Il ciclo
dell’anno liturgico volge al termine e la chiesa contempla le cose ultime per
collocare nella loro vera luce le cose presenti. Il capitolo 13 di Marco
mescola in un’unica sequenza gli avvenimenti della morte-risurrezione di Gesù,
della distruzione di Gerusalemme, delle tragedie della storia umana, delle
prove e del martirio dei credenti, dei segni cosmici alla fine dei tempi, del
giudizio finale imminente. Con la predizione della rovina del tempio, avvenuta
per opera dei romani nell’anno 70 d.C., mentre i lavori di ricostruzione,
iniziati sotto Erode il Grande negli anni 20/19 a.C., si erano conclusi
nell’anno 64 d.C., Gesù mette in guardia i suoi discepoli: sappiate sfuggire
all’inganno, vegliate! Quell’avvertimento, Vegliate,
è l’ultima parola del cap. 13, quella che introduce il racconto della passione
di Gesù. Tutto è orientato alla manifestazione della gloria del Signore
crocifisso, non semplicemente nel suo aspetto giudicante alla fine dei tempi,
ma nel suo aspetto di rivelazione dell’amore del Padre per i suoi figli che
costituisce l’unico mistero significativo per il nostro cuore. Così prega la
colletta: “donaci il tuo Spirito, perché operosi nella carità attendiamo ogni
giorno la manifestazione gloriosa del tuo Figlio”. La stessa immagine
suggerisce il canto al vangelo: “Vegliate
in ogni momento pregando, perché abbiate la forza di comparire davanti al
Figlio dell’uomo” (Lc 21,36), da intendere: possiate essere degni di veder
manifestato in voi l’amore del Signore in modo tale da vivere la vostra vita
nel segno del suo splendore.
L’antifona
di ingresso, che riprende alcuni versetti del cap. 29 del profeta Geremia,
offre il contesto di intelligenza per le parole di Gesù: “Dice il Signore: «Io ho progetti di pace e non di sventura; voi mi
invocherete e io vi esaudirò, e vi farò tornare da tutti i luoghi dove vi ho
dispersi»”. È la testimonianza del profeta fatta recapitare per lettera
agli esiliati in Babilonia invitati ad accettare la prova nell’attesa
dell’intervento liberatore del Signore, senza cedere a false promesse di falsi
profeti per false e presunte liberazioni che non ci saranno. Se Gesù è venuto
per mostrare la grandezza dell’amore del Padre e per riunire i figli di Dio
dispersi, proprio in questo possiamo vedere i progetti di pace di Dio
realizzarsi. L’insistenza sulle prove, sui dolori, sulle tribolazioni, sul
martirio, che il linguaggio apocalittico esalta con immagini penetranti, non fa
che acuire la vista sull’unicum
necessario, mantenere cioè il cuore in quell’amore che da lui discende e che a
lui riporta perché tutti possa conquistare, finalmente. Al di fuori di lui,
progetto di pace di Dio per l’uomo, quell’amore non si attinge e la tragedia
della storia resta solo tragedia, la dispersione resta solo un sogno irrimediabilmente
infranto che acuisce la rabbia e la separazione tra gli uomini e appressa
semplicemente la fine senza far
raggiungere il fine. Per questo,
quando la prova incombe, la tentazione assale, lo sconvolgimento irrompe,
l’avvertimento che risuona è sempre il medesimo: badate bene, state attenti,
vegliate! Non ingannate il vostro cuore, non lasciatevi ingannare!
Perché “chi avrà perseverato fino alla fine sarà
salvato” (Mc 13,13). La consolazione scaturisce dalla lucidità della
coscienza che Lui “è vicino, è alle porte” per indicarci “il sentiero della vita, gioia piena alla tua presenza” (Sal 15,11).
Nel bene e nel male che accade, Lui è vicino, possiamo attenderne la
manifestazione al nostro cuore, certi che il futuro si decide sulla fedeltà
alla sua parola, certi che il male verrà riscattato. Come diceva Gesù a
proposito della malattia di Lazzaro: “questa malattia non porterà alla morte,
ma è per la gloria di Dio” (Gv 11,4).
Proprio
perché crediamo che l’esito finale sarà la manifestazione gloriosa del regno di
Dio, per cui tutti vedranno quanto è grande l’amore di Dio per i suoi figli sia
che se ne partecipi nella gioia sia che ce ne si senta dolorosamente privati,
ci diamo premura perché anche il nostro agire, nell’oggi che ci è dato, sia
teso a rivelare quella manifestazione, a far sì che appaia al nostro cuore,
oggi, nel suo splendore, quell’amore che ci è stato riversato nella persona del
Figlio dell’uomo. Così, ogni evento della fine non può che ricollegarsi
all’evento della morte-risurrezione del Figlio dell’uomo il quale davvero consuma la storia aprendola al suo fine,
alla rivelazione di quel progetto di pace. La domanda angosciosa che ci
accompagna resta sempre la medesima: ma perché la storia deve contemplare nel
suo seno tanto dolore? Perché il Figlio dell’uomo è anche l’uomo dei dolori? Si
convince un cuore dell’amore che gli porti se non vede che puoi anche soffrire
per lui? E la risposta resta segreta nel cuore di Dio, segreto a cui il cuore
attinge quando non si premura d’altro che di condividere il progetto di pace di
Dio. Proprio come canta l’antifona alla comunione: “Il mio bene è stare vicino a Dio, nel Signore Dio riporre la mia
speranza”. Oppure, come nel ritornello del salmo responsoriale: “Proteggimi, o Dio: in te mi rifugio”. Da
intendere: veniamo custoditi proprio dalla manifestazione dell’amore del
Signore al nostro cuore, che così ne resta conquistato, in modo tale che
quell’amore risulta il segreto vero della nostra umanità, la nostra radice di
vita.
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Quinto ciclo
Anno liturgico B (2014-2015)
Tempo Ordinario
XXXIV Domenica
Nostro Signore Gesù Cristo Re
dell'universo
(22 novembre 2015)
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Dn 7,13-14; Sal 92; Ap 1,5-8; Gv 18,33b-37
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Il ciclo liturgico si chiude
sull’immagine del Cristo Re. È l’ultima domenica del tempo ordinario; domenica
prossima inizia l’Avvento. L’immagine del re richiama la signoria universale di
Gesù, il suo ruolo di Giudice alla fine dei tempi, l’ammissione alla gioia di
quel Regno che non avrà mai fine. Eppure la liturgia sceglie come icona della
regalità il brano del processo davanti a Ponzio Pilato e ai capi dei giudei
dove il potere religioso e il potere politico rivelano la loro inconsistenza
rispetto alla verità.
Il re messianico, colui che avrebbe
inaugurato l’era messianica, era designato con l’espressione ‘colui che viene’,
espressione che era risuonata festosa, pochi giorni prima, sulla bocca dei
discepoli all’ingresso trionfale di Gesù in Gerusalemme, ripresa dal canto al
vangelo: “Benedetto colui che viene nel nome del Signore! Benedetto il Regno
che viene, del nostro padre Davide!” (Mc 11,9-10). Per mettere maggiormente in
risalto il valore dell’espressione sarebbe bene tradurre: ‘Benedetto nel nome
del Signore colui che viene!’. Se teniamo presente che quell’espressione
risuona come definizione di Dio: “Io sono
l’Alfa e l’Omega, Colui che è, che era e che viene, l’Onnipotente” (Ap 1,8)
e che l’ultima parola della Bibbia si raccoglie in un doppio grido da e per
Colui che viene: “Sì, vengo presto! Amen.
Vieni, Signore Gesù” (Ap 22,20), allora se ne può intuire la densità di
significato. Colui che da sempre è stato atteso, colui che da sempre si
attende, Colui che riassume tutte le nostre attese è proprio Lui, il re dei
giudei, sotto processo, condannato, giustiziato. Perché a questo è destinato
colui che proclama la verità, colui il cui regno non è e non appartiene a
questo mondo, ma di cui il senso è noto e svelato soltanto da Lui.
Quando dice che il suo regno non è
di questo mondo, non vuol dire che non riguarda questo mondo, ma più
semplicemente e più potentemente che proprio perché non è di questo mondo, può
essere in questo mondo, può riprenderne le minime cose senza sciuparle, può
riprendere ciò che è rotto e farne un canale. Lo proclamerà dall’alto della
croce quando si svelerà la profezia messianica: “E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me” (Gv
12,32). È la verità dell’amore del Padre per tutti i suoi figli che in lui
splende.
È d’altronde caratteristico che il
re promesso sia crocifisso: crocifisso in quanto re, re in quanto crocifisso.
Non vale più alcun titolo di prestigio o potere, solo lo splendore dell’amore!
Mi sembra che nel corso del processo si richiamino a vicenda, nella loro
profondità di verità, le due espressioni sarcastiche, una proferita e l’altra
pensata: ‘Ecco l’uomo’; ‘Ecco il vostro Dio’. Fin sotto la croce arriva l’eco
di questo sarcasmo. Ma il sarcasmo non toglie la verità: Gesù è davvero l’uomo
pieno, libero, sovrano nell’amore e nella dedizione ed è davvero il vero volto
di Dio, il volto di compassione e misericordia, capace di salvare.
Credo sia questo il senso per cui
Gesù abbina il titolo di re alla verità: “Per
questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza
alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce”. La regalità di
Gesù ha a che fare con la verità, che è amore. É la proclamazione ferma,
sovrana, del brano dell’Apocalisse: “A Colui
che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue, che ha fatto
di noi un regno, sacerdoti per il suo Dio e Padre…”. A Lui, all’Agnello
immolato fin dalla fondazione del mondo, a colui che costituisce l’inizio e la
fine, a lui tutti volgeranno gli sguardi perché tutti vanno in cerca della
verità che acquieta solo quando si rivela come amore, amore per noi.
Così l’espressione ‘chiunque è dalla verità ascolta la mia voce’
acquista il significato: chiunque vuol compiere in verità i desideri del suo
cuore ascolta la mia voce, vale a dire regna con me, serve come me. Servire e
regnare si richiamano a vicenda perché ambedue sono in funzione dell’amore che
risplende in verità: nel servire è allusa la fedeltà all’alleanza con Dio,
mentre nel regnare è allusa la libertà dei cuori liberata da odio e tristezza e perciò sovrana. L’alleanza si
traduce in desiderio di fraternità, dove ormai non si tratta più di attirare a
me le simpatie del Re, che è già tutto dalla mia parte, ma di condividere con
lui i suoi sentimenti verso l’umanità intera. Posso così chiamare mio il mio
Re, quando rispetto a tutti sono soltanto servo perché condivido ormai il suo
segreto, che è il suo desiderio di comunione con gli uomini che diventa lo
scopo supremo dell’agire umano.
Quando, nell’orazione dopo la
comunione, preghiamo: “Fa’ che obbediamo con gioia a Cristo, Re dell’universo,
per vivere senza fine con lui, nel suo regno glorioso”, domandiamo di imparare
ad assumere il servizio all’umanità come condivisione del segreto di Dio perché
si manifesti lo splendore di verità del suo amore per noi, in mezzo a noi. E
come viverlo senza che i nostri sguardi si volgano con tenerezza a quel ‘re,
crocifisso’ per tutti?