Quinto
ciclo
Anno
liturgico A (2013-2014)
Solennità
e feste
Esaltazione della
Santa Croce
(14 settembre
2014)
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Nm 21, 4b-9;
Sal 77; Fil 2, 6-11; Gv 3, 13-17
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L’origine di
questa festa va ricercata nell’antica adorazione della croce il venerdì santo,
descritta dalla pellegrina Egeria che visitò i luoghi
santi nel IV secolo. L’oggetto della festa è proprio la croce, non il
crocifisso. Suggestivo nella liturgia bizantina il rito dell’innalzamento della
croce ai quattro punti cardinali con la solenne benedizione del mondo,
accompagnata da 500 invocazioni: Kyrie eleison! La liturgia acclama la croce:
‘arma di pace, che ci ha dato la bellezza, davanti alla quale la creazione
gioisce e fa festa, per la quale è stata donata al mondo la misericordia e noi
siamo stati attratti a Dio mentre la morte è stata inghiottita’. In
particolare, un’immagine colpisce per la sua potenza. Se Adamo è stato
ingannato a partire da un albero, anche satana è stato adescato da un legno.
Vale anche per il demonio la legge delle passioni umane: più la passione è
esercitata senza freni, più ci si allontana dall’obiettivo che si voleva
ottenere. Così il demonio si è trovato ingannato con le sue stesse azioni: la
morte inflitta a Gesù si è trasformata in vita per tutti, in splendore di amore
dove la morte non ha più alcun potere.
L’immagine
dell’esaltazione della croce comporta però una terribile ambiguità. Quando Gesù
parla della necessità per lui di essere innalzato, allude al supplizio della
croce. Come poter tenere insieme sofferenza e gloria? Perché l’innalzamento per
noi non è mai percepito nell’umiliazione? Perché la croce, celebrata gloriosa,
a noi fa paura?
Quando il
libro della Sapienza riprende l’episodio proclamato dalla prima lettura,
l’innalzamento del serpente di bronzo da parte di Mosè, così lo interpreta: “Perché ricordassero le tue parole venivano
feriti ed erano subito guariti, per timore che, caduti in un profondo oblio,
fossero esclusi dai tuoi benefici. Non li guarì né un’erba né un unguento ma la
tua parola, o Signore, che tutto risana” (Sap
16,11-12). La salvezza deriva dall’avere fiducia nella parola di Dio che aveva
invitato a guardare il serpente innalzato per sfuggire la morte del morso
velenoso dei serpenti. La potenza guaritrice della sua parola scaturisce dalla
fiducia nella quale si accoglie. Avviene lo stesso guardando al Trafitto sulla
croce perché a lui è stato dato un ‘nome al di sopra di ogni altro nome’. Lui
più di tutti e di tutto esprime quello che Dio è per noi, vale a dire:
Salvatore, Amore salvatore, totalmente e puramente Amore salvatore.
La ragione
la illustra Gesù stesso nel colloquio con Nicodemo. A Nicodemo Gesù dice: “Nessuno è mai salito al cielo, se non colui
che è disceso dal cielo, il Figlio dell’uomo ... Dio infatti ha tanto amato il
mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada
perduto, ma abbia la vita eterna”. Domando: si può salire al cielo senza
scendere? L’immagine è quella dell’essere innalzato, ma la realtà è quella del
discendere. Forse, l’aspetto più maestoso della gloria di Gesù sta nel suo
chinarsi a lavare i piedi ai discepoli. Quel suo chinarsi allude al suo
scendere, al perdere ogni parvenza di grandezza per assumere la vera grandezza
dell’amore, che è il segreto di Dio e per se stesso e per noi uomini. Il
discendere allude all’abbassarsi nel servizio di tutti perché tutti abbiano la
vita e godano dello stesso segreto di Dio, il quale non accresce la sua
grandezza (Egli è l’Altissimo) se non abbassandosi. Quel movimento è la legge
della vita perché l’uomo è fatto a immagine di Dio. Occorre però partecipare al
segreto: è l’amore che dà vita. La realtà, alla quale allude la nostalgia che
ci abita e che Nicodemo indaga, solo Gesù la compie. Gesù prima gli dice che
l’uomo non può vedere, poi che non può entrare e poi che tutto si apre credendo
in lui. Quello che s. Paolo proclama in Gal 6,14, cantato nell’antifona di
ingresso e dicendo che il mondo è crocifisso per lui e lui per il mondo.
Intendendo: non c’è nulla nel mondo che può essere preferito all’amore di Gesù
e nulla in se stessi che può trovare compimento al di fuori di Gesù.
Quando Gesù
parla di innalzamento alludendo alla sua morte in croce, non fa che esprimere
in termini umani ciò che costituisce l’intimità del movimento d’amore di tutta
la Trinità. Nessuna delle tre Persone si possiede, ma si riceve eternamente. Lo
spazio dell’amore e per l’amore è proprio quella dimensione di ‘spossesso’ che
fa vivere dell’altro e per l’altro. Quello che il Figlio rivela vivere
nell’amore per gli uomini, Dio lo vive in se stesso. Così, quando Paolo dice che
Gesù “svuotò se stesso assumendo una
condizione di servo ... umiliò se stesso facendosi obbediente fino a una morte
di croce” alza il velo sul segreto della Trinità. Non per nulla il segno di
croce è abbinato alla proclamazione delle tre Persone della Trinità.
A questo
punto ha senso parlare della gloria della croce di Cristo, come ripete
l’antifona di ingresso: “Di null’altro ci
glorieremo se non della croce di Gesù Cristo, nostro Signore”. Il che
significa che non potremo certo gloriarci della nostra giustizia, ma solo
dell’esperienza dell’amore perdonante di Dio che tende a inglobare tutti, senza
riserve. E quando l’anima accoglierà senza riserve l’intima logica di quella
esperienza nella fede, allora scoprirà lo splendore di un’umanità sulla misura
di Dio. Il segno, che quell’esperienza sta radicandosi nell’anima, lo si può
intravedere dalla misura di amabilità che il movimento dell’abbassarsi ottiene
sul nostro cuore. Allora si può scoprire la croce come colei che ci ha dato
bellezza, come ripete la liturgia.
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I TESTI DELLE LETTURE (dal “Messale
Romano”):
Prima Lettura Nm 21, 4b-9
Dal libro dei Numeri
In quei
giorni, il popolo non sopportò il viaggio. Il popolo disse contro Dio e contro
Mosè: «Perché ci avete fatto salire dall’Egitto per farci morire in questo
deserto? Perché qui non c’è né pane né acqua e siamo nauseati di questo cibo
così leggero».
Allora il
Signore mandò fra il popolo serpenti brucianti i quali mordevano la gente, e un
gran numero d’Israeliti morì.
Il popolo
venne da Mosè e disse: «Abbiamo peccato, perché abbiamo parlato contro il
Signore e contro di te; supplica il Signore che allontani da noi questi
serpenti». Mosè pregò per il popolo.
Il Signore
disse a Mosè: «Fatti un serpente e mettilo sopra un’asta; chiunque sarà stato
morso e lo guarderà, resterà in vita». Mosè allora fece un serpente di bronzo e
lo mise sopra l’asta; quando un serpente aveva morso qualcuno, se questi
guardava il serpente di bronzo, restava in vita.
Salmo Responsoriale
dal Salmo 77
Non dimenticate le opere del
Signore!
Ascolta,
popolo mio, la mia legge,
porgi
l’orecchio alle parole della mia bocca.
Aprirò la
mia bocca con una parabola,
rievocherò
gli enigmi dei tempi antichi.
Quando li
uccideva, lo cercavano
e tornavano
a rivolgersi a lui,
ricordavano
che Dio è la loro roccia
e Dio,
l’Altissimo, il loro redentore.
Lo
lusingavano con la loro bocca,
ma gli
mentivano con la lingua:
il loro
cuore non era costante verso di lui
e non erano
fedeli alla sua alleanza.
Ma lui,
misericordioso, perdonava la colpa,
invece di
distruggere.
Molte volte
trattenne la sua ira
e non
scatenò il suo furore.
Seconda Lettura
Fil 2, 6-11
Dalla lettera di san Paolo apostolo
ai Filippési
Cristo Gesù,
pur essendo
nella condizione di Dio,
non ritenne
un privilegio
l’essere
come Dio,
ma svuotò se
stesso
assumendo
una condizione di servo,
diventando
simile agli uomini.
Dall’aspetto
riconosciuto come uomo,
umiliò se
stesso
facendosi
obbediente fino alla morte
e a una
morte di croce.
Per questo
Dio lo esaltò
e gli donò
il nome
che è al di
sopra di ogni nome,
perché nel
nome di Gesù
ogni
ginocchio si pieghi
nei cieli,
sulla terra e sotto terra,
e ogni
lingua proclami:
«Gesù Cristo
è Signore!»,
a gloria di
Dio Padre.
Vangelo Gv 3, 13-17
Dal vangelo secondo Giovanni
In quel
tempo, Gesù disse a Nicodèmo:
«Nessuno è
mai salito al cielo, se non colui che è disceso dal cielo, il Figlio dell’uomo.
E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il
Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna.
Dio infatti
ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in
lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna.
Dio,
infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché
il mondo sia salvato per mezzo di lui».