Quarto ciclo
Anno liturgico C (2012-2013)
Tempo di Avvento
1a Domenica
(2 dicembre 2012)
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Ger
33,14-16; Sal 24; 1Ts 3,12-4,2;
Lc 21,25-28,34-36
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Il tempo dell’Avvento è celebrato
nelle sue tre dimensioni attorno alla figura di Gesù: a) l’evento della nascita
di Gesù nella storia; b) il suo ritorno glorioso alla fine della storia; c)
l’oggi della storia vissuto nel Signore che nasce e cresce nei cuori. Il colore
viola dei paramenti liturgici richiama la fatica storica della rivelazione
dello splendore del Cristo in e tra di noi, in attesa della letizia del Natale
con la consuetudine di farci doni perché ci è stato fatto il Dono per
eccellenza: Dio si è fatto uno di noi, la terra può vivere come il cielo.
Proprio come diciamo nel Padre nostro: sia fatta la tua volontà come in cielo
così in terra, cioè perché la nostra terra diventi tutta cielo.
Il tema della vigilanza, tipico
dell’Avvento, si innesta nella corrispondenza tra l’antifona di ingresso: “Mio Dio in
te confido” e il versetto 14 del salmo responsoriale: “Il
Signore si confida con chi lo
teme”, versetto che il testo ebraico proclama in modo ancora più eloquente:
“Il segreto (l’intimità) del Signore è per
chi lo teme”. Il segreto del Signore è quello rivelato dal profeta Geremia,
mentre si trovava in prigione e riceve la rivelazione: “Invocami e io ti risponderò… perdonerò tutte le iniquità… verranno
giorni nei quali io realizzerò le promesse di bene che ho fatto”. E il
salmo, come interpretando i bisogni del cuore dell’uomo e la difficoltà di
incontrare il Signore che viene, continua a sottolineare: “Fammi conoscere, Signore, le tue vie, insegnami i tuoi sentieri”.
Come a dire: le vie del Signore che chiediamo di conoscere sono la verità del
suo amore, che in Gesù si è reso toccabile. Non c’è evento nella nostra vita
che possa cancellarlo o soffocarlo o far desistere il Signore dal suo amore.
Temere lui vuol dire non impedire al cuore di vivere di quel suo desiderio di
amore per noi. Non è proprio agevole né per nulla scontato accettare che i
sentieri di Dio nei nostri confronti siano amore e fedeltà. Ma il Signore Gesù,
nato nella nostra storia, è lì a proclamarlo, a ricordarcelo, a far risplendere
il suo amore perché ci conquisti e ci acquieti, ciascuno e tutti insieme.
La vigilanza serve a questo: a
tenerci desti all’amore del Signore. E l’uomo è colui che alza il capo per essere capace di vedere le promesse di Dio, di vederle compiersi nel suo cuore. Per
tutto l’avvento risuonerà l’esortazione: ‘vegliate e pregate’, come a dire:
abbiate un occhio acuto e un cuore ardente. Non si tratta solo di un esercizio
di intelligenza (vegliate!) ma di un
processo di confidenza (pregate!). Un
antico saluto degli indiani Hopi suona: sta’ attento a che la tua testa resti
aperta verso l’alto! Tenere aperta la testa verso l’alto significa allora
superare la paura, perché il Dio che siamo chiamati a conoscere è un Dio di
amore per noi. Attende solo – anche Dio attende! – di incontrare cuori aperti
alla sua promessa, fiduciosi di vedere il bene che la sua promessa ci rivela.
L’esortazione alla vigilanza allude
all’attesa del cuore, mentre l’invito alla preghiera allude alla possibilità
del compimento delle promesse di Dio. Attesa e promessa che sono ben espresse
dalle parole di Gesù riportate in Giovanni: “Chi ama me sarà amato dal Padre mio e anch’io lo amerò e mi manifesterò
a lui … Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi
verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14,21.23). Costituisce
il godimento dell’ultima promessa di Gesù: “Ecco,
io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,20). E che
il prefazio della liturgia di Avvento interpreta: “Ora che egli viene incontro
a noi in ogni uomo e in ogni tempo, perché lo accogliamo nella fede e
testimoniamo nell’amore la beata speranza del suo regno”.
Il compimento di quelle promesse si
sperimenta in ciò che Paolo esorta a vivere scrivendo ai Tessalonicesi: “Fratelli, il Signore vi faccia crescere e
sovrabbondare nell’amore fra voi e verso tutti, come sovrabbonda il nostro per
voi, per rendere saldi i vostri cuori e irreprensibili nella santità, davanti a
Dio e Padre nostro, alla venuta del Signore nostro Gesù con tutti i suoi santi”.
La lettera è il più antico documento letterario del Nuovo Testamento, scritta
da Paolo verso l’anno 51, appena una ventina d’anni dopo la morte e
risurrezione di Gesù. La generosità degli inizi con la partecipazione
entusiasta alla carità di Dio rivelata in Gesù che tutti coinvolge trasformando
la vita si riflette nella fede nell’imminenza del ritorno di Gesù.
Gesù invita a vegliare e a pregare
nell’imminenza della sua passione. Se ricorda gli eventi della fine è per
convogliare i desideri dell’anima su colui che tutti riconosceranno come
giudice giusto perché pieno di amore per noi. Ogni evento può essere aperto a
tale riconoscimento: vegliamo e preghiamo perché i nostri sguardi trovino
sempre gli occhi compassionevoli di Chi ha preferito noi a se stesso e ci
insegna a vivere del suo stesso amore.
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Quarto ciclo
Anno liturgico C (2012-2013)
Solennità e feste
Immacolata Concezione
(8 dicembre 2012)
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Gn
3,9-15.20; Sal 97; Ef 1,3-6.11-12; Lc 1,26-38
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“Rallegrati,
piena di grazia” è il saluto dell’angelo Gabriele a Maria. La festa di oggi
fa presagire quanto siano insondabili i confini di questa sua pienezza di
grazia: unica tra tutte le creature non è toccata da ombra di peccato, fin dal
suo concepimento, fin dal suo primo istante di esistenza. Dire che non ha ombra
di peccato non è che la modalità per negativo di dire quanto sia coperta
dall’ombra dello Spirito Santo: “Lo Spirito
Santo scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra
…”.
La liturgia oggi non fa che
proclamare l’insondabile e straordinaria volontà di benevolenza di Dio per gli
uomini, in tutto lo splendore d’amore che comporta, che, per dirla con l’espressione di Paolo agli
Efesini, esprime tutto ‘il disegno d’amore della sua volontà’ per noi. Se
leggiamo la festa di oggi sulla falsariga dell’inno di Paolo, nel capitolo
primo della sua lettera agli Efesini, potremo comprendere più adeguatamente sia
l’inno del magnificat pronunciato dalla Vergine che la ragione della profezia
rivoltale di essere ‘la benedetta tra tutte le donne’. Dice Paolo: “In lui siamo stati fatti anche eredi,
essendo stati predestinati - secondo il progetto di colui che tutto opera
secondo la sua volontà – a essere lode della sua gloria, noi, che già prima
abbiamo sperato nel Cristo”. Vediamo in lei la prima che ha sperato in
Cristo e che perciò è stata fatta a lode della sua gloria, vale a dire adatta a
rivelare la sua gloria, adeguata a portare la sua gloria. E se la gloria non è
che lo splendore del suo amore per gli uomini, allora è lei colei che più di
tutti l’ha fatto risplendere con il portare in grembo, partorire, custodire,
condividere il mistero di quel Gesù, suo Figlio, dato per noi, a rivelazione
dell’amore di Dio per gli uomini. La pienezza di grazia della Vergine è in
funzione di quella rivelazione, che costituisce la ragione per cui lei è
chiamata a dare carne a colui nel quale riposa il sommo beneplacito, la totale
compiacenza di Dio, come sarà dichiarato espressamente nel momento del
battesimo e della trasfigurazione del Signore Gesù. È lei che può esprimere in
tutta la sua profondità ed esultanza quell’amore di benevolenza di Dio che
salva l’uomo, di cui tutti siamo chiamati a fare esperienza: “Benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù
Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo
…”. Ci può essere per l’uomo motivo più
autentico di benedizione di questo ‘riconoscimento’ dell’amore di Dio per noi,
in Cristo, che ha presieduto alla stessa origine del mondo e che ha avuto nella
Vergine Immacolata il suo segno tangibile?
Riflettendo sul passo del racconto
del peccato narrato dal libro della Genesi si può osservare come le varie
creature si pongano nei confronti di Dio. Quando Dio chiede ad Adamo se abbia
trasgredito il suo comando, lui risponde addossando la colpa ad Eva. Quando Dio
si rivolge ad Eva, lei risponde addossando la colpa al serpente. Ma quando Dio
è davanti al serpente, il serpente tace. Adamo ed Eva rispondono a Dio, pur
giustificandosi, perché hanno nostalgia di Dio. Il serpente sembra non avere
alcuna nostalgia: non semplicemente ha peccato, ma non è proprio d’accordo sul
fatto che Dio conceda i suoi favori agli uomini e resta quindi avversario di
Dio. È avversario di Dio chi è geloso dei beni che Lui riversa sulle sue
creature e perciò resta astioso, astio di cui facciamo le spese noi
continuamente. Chi è capace di far risplendere i doni di Dio solo godendo dell’immenso
amore di Dio per gli uomini è pieno di grazia. E da tale pienezza di grazia non
può non derivare il Salvatore, che è la rivelazione dell’infinito amore di Dio
per gli uomini. Credo voglia dire anche questo la pienezza di grazia della
Vergine, dalla quale nasce Gesù, il Salvatore. Ed è per questo che la
tradizione saluta
Lei proclama: “Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola”.
Come a dire: Dio solo sia benedetto, si realizzi la sua promessa, si manifesti
in me, finalmente e compiutamente, il suo Bene all’umanità! Proclamandosi serva
del Signore esprime il suo desiderio della dimora di Dio in mezzo agli uomini,
di cui tutto il suo essere è testimonianza e intercessione per l’umanità intera.
Ma esprime anche la preghiera di ogni credente, di ogni discepolo del Signore:
avvenga per me secondo quello che hai stabilito fin dall’eternità, si compia in
me quello che dalla fondazione del mondo hai promesso all’umanità, si veda
realizzato in me quel Regno che nel tuo Figlio hai fatto venire.
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Quarto ciclo
Anno liturgico C (2012-2013)
Tempo di Avvento
2a Domenica
(9 dicembre 2012)
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Bar
5,1-9; Sal 125; Fil 1,4-6,8-11; Lc 3,1-6
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La chiesa introduce la testimonianza
di un profeta d’eccezione per predisporci ad accogliere la venuta di Gesù:
Giovanni Battista. È definito come la ‘Voce che grida nel deserto’, voce per
una Parola che ancora deve mostrarsi, ma dalla quale è già conquistato e di cui
diventerà testimone.
Il brano del vangelo di Luca, in
questo inizio del capitolo terzo, si espande in continue e misteriose
allusioni. La persona di Gesù è compresa in rapporto a Giovanni Battista e
Giovanni Battista è compreso in rapporto al popolo di Israele che attende la
manifestazione del proprio Dio secondo la sua promessa, ma le coordinate
storiche degli avvenimenti sono situate entro la cornice della storia pagana, a
indicare la centralità dell’evento per la storia umana. Siamo nell’anno 28/29
d.C. Vengono nominate le autorità che derivano il loro potere dal beneplacito
di Roma: anzitutto Tiberio, poi Ponzio Pilato (governatore/prefetto della
Giudea tra il 26 e il 36 d.C.), Erode Antipa (che governa tra il
La voce del Battista risuona forte:
“Preparate la via del Signore,
raddrizzate i suoi sentieri!”. Eppure, la colletta fa pregare così: “O Dio
grande nell’amore, che chiami gli umili alla luce gloriosa del tuo regno,
raddrizza nei nostri cuori i tuoi sentieri …”. Identica cosa dice il profeta
Baruc: “Poiché Dio ha deciso di spianare
ogni alta montagna e le rupi perenni, di colmare le valli livellando il
terreno, perché Israele proceda sicuro sotto la gloria di Dio”.
Se è Dio che raddrizza i sentieri,
come si concilia questo agire di Dio con l’invito del Battista? Due sono i
movimenti che si intersecano: l’azione di Dio e l’azione dell’uomo. L’azione di
Dio riguarda l’invio del Figlio all’umanità, Figlio che riunisce i figli di Dio
dispersi, che diventa segno glorioso dell’amore di Dio per gli uomini. A questa
azione di Dio, che riassume il suo desiderio di stare con gli uomini e di
renderli partecipi finalmente dell’amore suo di cui è ricolmo il Figlio,
corrisponde l’azione dell’uomo che consiste proprio nell’aprirgli le porte,
nell’accoglierlo, nel cogliere il segno
che lui rappresenta. Sarà il Figlio, accolto, ricevuto in casa (pensiamo agli
incontri avuti da Gesù con i vari discepoli e personaggi nei vangeli!), che ‘raddrizza i sentieri di Dio in noi’, nel
senso che nel Signore Gesù e con il Signore Gesù l’uomo ritrova la sua
vocazione divina e la possibilità di compierla in pienezza, per cui torna ad essere
capace di compiere i comandamenti, che costituiscono i sentieri di Dio per noi.
E quando il Battista applica
all’uomo l’esortazione di raddrizzare i sentieri di Dio non fa che scuoterlo
dai suoi sogni e dalle sue illusioni perché apra il suo cuore a quel Figlio che
sta per venire, che è venuto a portare e a far vivere la vita di Dio. E
aggiungendo: “ogni uomo vedrà la salvezza
di Dio!”, non fa che sottolineare l’estensione del progetto di Dio per
l’umanità. Come non si tratta di una salvezza che riguardi me più degli altri,
così non si tratta di una salvezza che riguarda me senza gli altri. È la via di
Dio per l’uomo, che diventa la via dell’uomo per Dio: lasciare libero il
sentiero tra uomo e uomo è il segno più inequivocabile della rimozione di ostacoli
nel sentiero tra uomo e Dio. Amare il prossimo torna a gloria di Dio perché è
segno dell’esperienza dell’ incontro con Dio, segno dell’accoglienza gioiosa e
solidale con l’umanità di quel Figlio, mandato a riunire i figli di Dio
dispersi.
L’invito alla conversione è dunque
l’invito a vedere la venuta di Dio
che viene incontro al suo popolo, è l’apertura di cuore a riconoscerlo nella
sua offerta di alleanza, nella sua proclamazione di amore. Il Battista chiama
la gente alla conversione nel deserto per imparare a percepire la nuova
opportunità di salvezza che viene da Dio, mentre Gesù, che di quella salvezza è
l’attore e il portatore, andrà lui dalla gente per farla gustare e rinnovare
così i cuori tanto che ‘ogni creatura potrà vedere la salvezza’, cioè vedere in
Lui quanto è grande l’amore di Dio per gli uomini (= vedere la gloria) e
disporre tutti a vivere lo stesso mistero di amore perché Dio sia celebrato
ovunque. Sarà uno degli esiti della gioia del Natale.
L’allusione alla voce che grida nel
deserto riprende il testo di Osea: “Perciò,
ecco, io la sedurrò, la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore … Là mi
risponderà come nei giorni della sua giovinezza, come quando uscì dal paese
d'Egitto … Ti farò mia sposa per sempre, ti farò mia sposa nella giustizia e
nel diritto, nell' amore e nella benevolenza, ti farò mia sposa nella fedeltà e
tu conoscerai il Signore” (Os 2,16.17.21-22), dove il brano, reso
pudicamente in italiano, ha un connotato molto più realistico: ti sedurrò,
parlerò sul tuo cuore, con espressioni tipiche dell’intimità delle relazioni
tra l’uomo e la donna; risponderà, nel senso della risposta della sposa che si
dona a suo marito. Allora, portare nel deserto da parte di Dio allude, sì, allo
spogliamento (= penitenza) dei beni e delle cose nei quali ci si è illusi di
trovare felicità, ma soprattutto allude a una nuova storia di amore che Dio è
pronto a intessere col suo popolo su basi nuove, con una nuova alleanza, perché
finalmente il cuore possa godere la vita in modo soddisfacente. Quando il
Battista comincia a gridare nel deserto, nella sua voce c’è l’eco di questo
desiderio di Dio di venire dal suo popolo, un’eco che non rimbomba più da
lontano ma si fa sempre più vicino, fino a tramutarsi nel suono diretto della
Parola d’amore che appare in mezzo al suo popolo quando Gesù si manifesterà.
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Quarto ciclo
Anno liturgico C (2012-2013)
Tempo di Avvento
3a Domenica
(16 dicembre 2012)
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Sof
3,14-18a; Is 12,2-6; Fil 4,4-7; Lc 3,10-18
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“Rallegrati,
figlia di Sion, grida di gioia, Israele; esulta e acclama con tutto il cuore,
figlia di Gerusalemme! Il Signore ha revocato la tua condanna, ha disperso il
tuo nemico”; “Siate sempre lieti nel
Signore, ve lo ripeto: siate lieti. La vostra amabilità sia nota a tutti. Il
Signore è vicino!”. Così la liturgia, oggi, accoglie i fedeli: li chiama
alla gioia, insistentemente. Con quali ragioni?
Riferire la gioia a Dio comporta due
significati: Dio è pieno di gioia per noi (= noi siamo la sua gioia) e Dio è
fonte di gioia per noi (= Dio è la nostra gioia). La colletta fa pregare: “O
Dio, fonte della vita e della gioia, rinnovaci con la potenza del tuo Spirito,
perché corriamo sulla via dei tuoi comandamenti, e portiamo a tutti gli uomini
il lieto annunzio del Salvatore”. La
potenza dello Spirito è collegata al mistero della letizia che ci rinnova
facendoci ‘correre’, non semplicemente ‘camminare’, sulla via dei comandamenti.
Se il cuore non percepisce mai come Dio non si dia pace finché noi vediamo
quanto è contento di poter stare con noi, come potremo fare esperienza che i
suoi comandamenti sono la gioia del nostro cuore? Il profeta Sofonia lo dice
chiaramente: è Dio ad esultare di gioia per noi. La cosa è tanto singolare che
la nostra psicologia interiore sembra non riuscire a produrre una sensazione
del genere. Eppure, la percezione della gioia di Dio per noi è la radice della
nostra dignità.
Essa è appunto il frutto della conversione, vale a dire della
impossibilità di negare che Dio viene a noi con gioia, non si stanca di venire
a noi con gioia, gioia che è frutto del suo amore per noi che conquista il
nostro cuore. Quando il Battista riconosce in Gesù l’Inviato di Dio lo
riconosce appunto come riflesso della gioia che quell’incontro gli procura. Fin
dal grembo materno Giovanni ha esultato di gioia alla presenza di Gesù. Da
adulto, ormai al termine del suo cammino, di sé dice: “Ma l’amico dello sposo, che è presente e lo ascolta, esulta di gioia
alla voce dello sposo” (Gv 3,29). Così, quando Luca vuol descrivere la
premura di Dio per gli uomini, non ha di meglio che narrare la parabola del
figlio ritrovato, della pecorella e della dramma ritrovate (Lc 15) dove la
rivelazione del cuore di Dio si fa evidente proprio attraverso la sua gioia per
noi. Ciò vuol dire ancora che la nostra gioia non può derivare dalla nostra
innocenza, perché davanti a Dio suonerebbe solo come una pretesa di giustizia,
mentre deriva dal suo amore per noi.
Il brano del vangelo odierno termina
con l’annotazione: “Con molte altre
esortazioni Giovanni evangelizzava il popolo”. Evangelizzare comporta
l’aprire il cuore alla gioia di una presenza, per la ragione che Paolo dice ai
Filippesi: “Il Signore è vicino”. È una gioia che si tradurrà in un tratto di
dolcezza verso tutti e tutto, tanto da gustare una pace che sovrasta ogni
afflizione e ogni contrasto. Il Battista esorta a fare frutti degni della
conversione e i frutti degni della conversione sono quelli accompagnati dalla
gioia di una Presenza amica. Ogni bene non lambito dalla gioia non è ancora un
frutto degno della conversione. La conversione non vuol semplicemente dire fare
azioni buone a differenza di prima che si facevano azioni cattive; comporta
accedere al fuoco del cuore che dà ragione di quel fare ‘diverso’, che dà senso
all’impegno del bene e che abilita a godere il dono di Dio.
La liturgia mostra il motivo della
gioia nella proclamazione che il Signore è in mezzo a noi come un salvatore
potente, dove potente significa
‘capace di dare letizia’ e salvatore
‘pieno della gioia che arriva anche a noi’, capaci finalmente di condividerla.
Giovanni chiama Gesù ‘colui che è più forte di me’ e mette in relazione quella
forza allo Spirito Santo nel quale Gesù battezzerà. Come riporterà Luca più
avanti, cap. 11, v. 22, il definire Gesù ‘il più forte’ significa riconoscergli
la dignità di Messia. E la forza del Messia sta nel fatto che fa vedere Dio
presente, che fa vedere il Regno che si compie. Ma il Regno che si compie è
proprio l’amore di Dio che si fa condiviso, apertamente e fraternamente
condiviso con tutti gli uomini, nello Spirito, cioè nella letizia che non viene
più tolta. E la letizia che non viene più tolta (si pensi alla ‘perfetta
letizia’ di s. Francesco di Assisi) è proprio quella che custodisce la gioia di
Dio per noi perché il suo amore ormai risplende senza farsi più turbare o
distrarre da altro. È la letizia come segno del Regno che viene, come l’opera
di Dio che si fa manifesta. I nostri peccati annegano in questa gioia di Dio
per noi.
Insieme allo Spirito Santo viene
nominato il fuoco. È l’altra faccia della medaglia: condividere la gioia di Dio
per l’uomo comporta evidentemente il bruciare tutto quello che a quella gioia
si oppone o che quella gioia contraddice. E poi scopriamo che ciò che
contraddice alla gioia di Dio è la chiusura nei confronti dell’umanità, prima
di tutto del nostro Dio, poi nostra e di tutti i suoi figli, per cui
l’indicazione delle varie opere che il Battista indica come segno dell’incipiente
conversione si muove nella prospettiva di una dinamica di solidarietà con gli
uomini. Essere solidali in umanità significa ricreare quell’ambiente umano che
fa concludere a s. Benedetto la sua famosa Regola con queste parole che si
applicano alla vita comune di tutti i credenti in Cristo: “… c’è anche uno zelo
buono, che allontana dai vizi e avvicina a Dio e all’eterna vita. Questo è lo
zelo che i monaci devono coltivare con il più ardente amore. Essi dunque, si
prevengano nello stimarsi a vicenda (Rom 12,10); sopportino con instancabile
pazienza le loro infermità fisiche e morali; facciano a gara nell’obbedirsi a
vicenda; nessuno cerchi il proprio vantaggio, ma quello degli altri; amino con
cuore casto tutti i fratelli; temano Dio con trasporto d’amore; vogliano bene
al loro abate dimostrandogli una carità umile e sincera; nulla assolutamente
antepongano al Cristo; ed egli ci conduca tutti insieme alla vita eterna”.
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Quarto ciclo
Anno liturgico C (2012-2013)
Tempo di Avvento
4a Domenica
(23 dicembre 2012)
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Mic 5,1-4a; Sal 79; Eb 10,5-10; Lc 1,39-45
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Siamo ormai prossimi alla festa del
Natale e tutta la liturgia oggi è un invocare il compimento del ‘volere’ la
nostra salvezza da parte di Dio. Non è l’uomo a muovere Dio, ma è il volere
salvatore di Dio che investe l’uomo. Il salmo 79 riassume bene gli aneliti dei
cuori: “Risveglia la tua potenza e vieni
a salvarci ... Guarda dal cielo e vedi e visita questa vigna”. Quel
‘volere’ si rivela in un volto di cui godremo finalmente la vista. Quel Giusto,
quel Salvatore, di cui si invoca la discesa contemporaneamente dall’alto e
dalla terra, è colui che di sé dice entrando in questo mondo: “Ecco, io vengo per fare la tua volontà”
(Eb 10,7). La sua non è una dichiarazione puntuale, che avviene cioè in un
determinato momento sottintendendo che prima non pensava in questi termini, ma
è una dichiarazione eterna, frutto del colloquio eterno tra il Padre e il
Figlio nell’amore che li lega tra loro e al mondo. L’apparire finalmente di
Gesù nella storia umana non riguarda semplicemente la cronaca storica, ma
concerne la dimensione eterna della storia umana. Lui ne è il fulcro, ne è la
radice ed insieme il frutto.
Con il cantare nel salmo
responsoriale: “Risveglia la tua potenza e vieni a salvarci” (Sal 79,3),
invochiamo di essere toccati dalla compassione di Dio per noi, la cui potenza
si esprime nella capacità di dare letizia al nostro cuore, conquistandolo alla
sua pace. E se per cogliere la portata della salvezza operata da Gesù, la
lettera agli Ebrei gli mette in bocca le parole del salmo 40: “Ecco, io vengo a
fare la tua volontà”, vuol dire che la volontà del Padre è che il Figlio mostri
la grandezza del suo amore per i suoi figli e li riunisca dalla dispersione in
cui erano piombati. In quella volontà noi siamo santificati, vale a dire siamo
abilitati a vivere nella comunione del Padre nel suo stesso volere di bene per
tutti, perché tutti sono invitati alla mensa del suo amore.
Si invoca la sua discesa dall’alto:
Dio si avvicina all’uomo, non l’uomo a Dio; Dio si fa figlio dell’uomo, non
l’uomo Figlio di Dio. Ma si invoca pure dal basso, dalla terra: Dio non
sopraggiunge come un meteorite, come importato da fuori, benché dall’alto; Dio,
nel suo agire, sempre accondiscende all’uomo e quando si avvicina all’uomo lo
fa in modalità umana, da dentro quella storia che ha messo in moto per
condividere con l’uomo il suo Bene. Invocare la sua discesa dalla terra è
proclamare la santità dell’umanità della Vergine che Dio stesso si è preparato
perché finalmente si compia quel ‘volere’ che ha costituito il desiderio di Dio
dall’eternità: Dio e l’uomo in uno, tutto Dio per l’uomo e tutto l’uomo per
Dio.
A quel ‘volere’ si appella
Se si accoglie il Verbo di Dio, se
ne accoglie anche la dinamica di amore che l’ha spinto a venire a noi, dinamica
che investe il mondo e che costituisce il suo splendore. Ecco perché in quell’
“avvenga per me secondo la tua parola”
c’è anche l’impeto di carità che muove
Nel salmo 79 il versetto che fa da
ritornello responsoriale “Fa’ splendere
il tuo volto e noi saremo salvi”, viene ripetuto tre volte. Quel volto che
risplende su di noi è il Messia cantato come ‘figlio dell’uomo che per te hai
reso forte’. Forte da vincere ogni nemico e farci godere la pace, cioè
ricondurci all’esperienza dell’amore di Dio così forte da non concepire la vita
in altri termini se non nella logica di quell’amore. La pace non è
evidentemente assenza di afflizioni, ma condivisione dell’amore, amore che
esprime tutto il volere di Dio per l’uomo e da parte sua e da parte nostra.
È interessante osservare che
l’espressione della lettera agli Ebrei: “entrando nel mondo, Cristo dice: Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato…
Allora ho detto: Ecco, io vengo - poiché di me sta scritto nel rotolo del libro
- per fare, o Dio, la tua volontà” riprende la versione greca del salmo 40,
ma l’ebraico porta: “gli orecchi mi hai aperto”, ad indicare la disponibilità
totale al volere di Dio. Ma se Gesù prende un corpo, lo prende non solo per
compiere il volere di salvezza di Dio per l’uomo, ma anche per mettersi in
condizioni di compiere quella salvezza in termini di splendore di amore e di
nient’altro. Non c’è ombra di ‘potenza’ nell’amore che Gesù manifesta nascendo
come un bambino, vivendo da uomo e morendo sulla croce; eppure, non c’è potenza
più forte di quell’amore che non si fa vincere da nulla. È l’amore che
‘magnifica’ il Signore davanti all’uomo e l’uomo davanti a Dio.
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Quarto ciclo
Anno liturgico C (2012-2013)
Tempo di Natale
Natale del Signore
(25 dicembre 2012)
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Messa
della notte: Is 9,1-6; Sal 95; Tt 2,11-14;
Lc 2,1-14
Messa
dell’aurora: Is 62,11-12; Sal 96; Tt 3,4-7; Lc 2,15-20
Messa
del giorno: Is 52,7-10; Sal 97; Eb 1,1-6; Gv 1,1-18
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La liturgia natalizia, con i suoi
tre formulari della messa nella notte, all’aurora e di giorno, illustra il
mistero della nascita di Gesù a Betlemme nella luce di tre sguardi: lo sguardo
del profeta, lo sguardo del discepolo e lo sguardo dei testimoni oculari.
Anzitutto lo sguardo del profeta,
quello di Isaia. Il suo sguardo potente si affissa sulla promessa di Dio e
sulla visione di consolazione per il popolo. Se la promessa riguarda un bambino
che deve nascere: “un bambino è nato per
noi, ci è stato dato un figlio”, l’immagine di fondo dei brani è invece
un’immagine nuziale, che possiamo riassumere nell’espressione: “Nessuno ti chiamerà più Abbandonata, né la
tua terra sarà più detta Devastata, ma sarai chiamata Mia Gioia e la tua terra
Sposata, perché il Signore troverà in te la sua delizia e la tua terra avrà uno
sposo”. Dio è lo sposo che gioisce della sua sposa, la quale passa da una
percezione di angosciosa solitudine, di abbandonata
e sola, all’emozione di essere
svelata a se stessa in una dolcezza di riposo che la fa sentire abitata, mio compiacimento e sposata (forse, meglio: abitata
in dolcezza). La percezione di quella nuova realtà, di cui è indegna, ma di
cui gode nell’intimo, grata e consegnata, costituisce il contenuto del nome
nuovo con la quale è chiamata. È la situazione dell’umanità dopo la nascita di
quel Bambino che è nato per svelare quanto è grande l’amore di Dio per l’uomo e
come l’uomo possa accogliere e vivere questo amore in tutta umanità.
Poi c’è lo sguardo del discepolo, di
Paolo, che nella sua lettera a Tito riassume la rivelazione del natale di Gesù
con le espressioni: “è apparsa la grazia
di Dio, che porta salvezza a tutti gli uomini”, “quando apparvero la bontà di Dio, salvatore nostro, e il suo amore per
gli uomini”. Con la nascita di Gesù, con il Figlio di Dio fatto uomo,
questa ‘apparizione’ è diventata visibile, toccabile. Potremmo intendere:
proprio la vita umana di Gesù rivela la bellezza di Dio; proprio la pratica di
umanità conforme alla volontà di Dio, in Gesù, racconta la salvezza e il
progetto di Dio su tutta l’umanità.
Infine c’è lo sguardo dei testimoni
oculari:
A dire il vero, la liturgia propone
nella messa del giorno un altro sguardo, quello dell’apostolo Giovanni, che
guarda alla storia da dentro una profondità inattingibile, la stessa vita
divina intratrinitaria. La particolarità però è che quella vita a noi appare
nell’umanità di quel Bambino, perché la luce del Natale rimanda alla Pasqua,
come un poema natalizio di s. Efrem canta: “Gloria al Nascosto che non potrebbe
essere intravisto con l’intelligenza, ma che si è reso palpabile nella sua
bontà tramite la sua umanità! La natura che non fu mai toccata, per le mani fu
legata e appesa, per i piedi fu fissata e crocifissa: come a lui è piaciuto, ha
preso corpo perché lo si potesse prendere”. Proprio a questo, con tutta la
potenza di rivelazione che comporta quanto all’amore di Dio per l’uomo, vanno
riferite le parole dell’apostolo Giovanni: “Dalla
sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto: grazia su grazia”. È la luce di
tale splendore, fonte della nostra dignità, che rifulge nel Natale. La luce, la
gioia, la pace che caratterizzano il clima della festività natalizia, tanto da
indurre pressoché tutti a riversarle nelle case, nelle strade, nelle città,
hanno a che fare proprio con quel Figlio, nato bambino, che vuol condividere
all’uomo il segreto di Dio.
Sempre s. Efrem canta: “Sia
benedetto Colui che ha fatto del nostro corpo una tenda per la sua Invisibilità!
Sia benedetto Colui che nella nostra lingua ha tradotto i suoi segreti!”.
Cosa hanno visto i pastori e tutti i
discepoli? Qualcosa che ha a che fare con l’apertura di un orizzonte e la
possibilità di una esperienza fino ad allora impraticabili: “Dio, nessuno l’ha mai visto: il Figlio
unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato”.
Quell’orizzonte e quell’esperienza costituiscono il dono natalizio della pace.
Se l’amore che ha originato quel dono è intravisto, allora si possono risanare
le ferite della storia, si è abilitati a costruire un altro tipo di storia, si
è raggiunti così nel profondo da non volere altro per sé e per tutti. È l’esperienza
che farà dire all’apostolo: se Dio ci ha dato il suo Figlio unigenito, come non
ci darà anche tutti gli altri beni? Come a dire: in lui potremo trovare tutti i
beni ai quali anela il nostro cuore. È il perenne annuncio profetico dei
credenti in Cristo al mondo.
Buon Natale a tutti!
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Quarto ciclo
Anno liturgico C (2012-2013)
Tempo di Natale
Santa Famiglia
(30 dicembre 2012)
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1Sam
1,20-22.24-28; Sal 83; 1Gv 3,1-2.21-24; Lc 2,41-52
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Celebrare la festa della santa
famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe, è un altro modo di sottolineare la verità e
la veridicità dell’incarnazione del Figlio di Dio. Per porre la sua tenda tra
di noi, Dio ha assunto la storia di una determinata genealogia (Gesù è ascritto
alla discendenza davidica), carica delle promesse divine ma intessuta anche di
peccato e di miserie umane e ha assunto pure la struttura che ha consentito a
quella storia di svolgersi, cioè la famiglia. L’uomo che viene al mondo senza
ritrovarsi in una famiglia che l’accoglie porta i segni dello strappo subito
perché non garantito nel suo diritto a vivere e a crescere. Anche per Gesù, che
è nato da una Vergine, è stato essenziale il contesto famigliare per crescere e
scoprire il senso della sua vita. E tutto questo ha attinenza non solo con il
bisogno dell’uomo, ma con il mistero di Dio. Voglio dire che il fatto che Gesù
abbia avuto una famiglia non significa solo che Dio abbia voluto assumere la
realtà umana della famiglia, ma ancor più che la famiglia nella sua realtà
umana parla di Dio. Con tutti i misteri che comporta.
Nel racconto del ritrovamento al
tempio di Gesù da parte dei suoi genitori ne abbiamo un indizio rivelatore. Al
padre e alla madre che lo cercavano angosciati Gesù non teme di rispondere: “Perché mi cercavate? Non sapevate che io
devo occuparmi delle cose del Padre mio?”. Altre volte nel vangelo Gesù
risponderà con questo tono a sua madre. Quando gli dicono che lo cercano sua
madre e i suoi fratelli, egli dichiara: “Mia
madre e miei fratelli sono questi: coloro che ascoltano la parola di Dio e la
mettono in pratica” (Lc 8,21). Oppure, a Cana, durante il banchetto di
nozze, a sua madre che lo sollecitava ad intervenire risponde: “Donna, che vuoi da me? Non è ancora giunta
la mia ora” (Gv 2,4). Gesù rimanda continuamente, da dentro gli affetti
familiari, ad una dimensione ancor più profonda che costituisce la radice
stessa di quegli affetti e la garanzia più sicura. Rimanda cioè a quel ‘Padre’,
di cui ogni affetto parla, al quale ogni affetto rimanda e nel quale ogni affetto
trova la sua radice più appropriata ed il termine verso il quale ogni affetto
anela.
Gli orizzonti sono mantenuti larghi,
è un continuo andare oltre la cronaca e la materialità degli eventi, dentro la
necessità e la difficoltà di un superamento continuo di quello che si pensava
ovvio. Tutti i genitori conoscono questa ambivalenza nella crescita dei figli:
fanno tutto per i figli e la loro gioia sta in questo, ma sanno che i figli
sono chiamati a realizzare un loro progetto, spesso senza poterlo condividere,
almeno all’inizio. Ma corrisponde al progetto di Dio sia la premura dei
genitori che la libertà dei figli e se entrambi, genitori e figli, sono
consapevoli di questa unità di progetto in Dio, tutti e due trovano la loro
gioia, misteriosamente. Diventa così essenziale, per i genitori e per i figli,
la consapevolezza della verità di questo rimando. La comprensione non è
immediata, ma è assicurata. Della Vergine si annota nei vangeli: “Maria, da parte sua, custodiva tutte queste
cose, meditandole nel suo cuore”. Non comprendere subito il piano di Dio
non significa non accoglierlo. Trattenere perciò eventi e parole, misteriose,
che vengono da Dio, significa accogliere in cuore il suo piano in attesa di
comprenderne il senso. E questo vale soprattutto negli affetti, negli affetti
familiari in particolare, quando la forza del legame farebbe valere il legame
tra madre e figlio, a volte in senso perfino ricattatorio e non invece con Colui che di quel legame è
Forse non è inutile sottolineare che
la prima e l’ultima parola di Gesù nel vangelo di Luca è una evocazione del
Padre. Nel tempio, quando è ritrovato dai suoi genitori: “Non sapevate che io devo
occuparmi delle cose del Padre mio?”; sulla croce, prima di morire: “Padre,
nelle tue mani consegno il mio spirito” (Lc 23,46); oppure, prima
dell’ascensione: “Ed ecco, io mando su di voi colui che il Padre mio ha
promesso” (Lc 24,49). Gesù fa vedere come in tutto ciò che vive, in tutto ciò
che possiamo vivere noi, quello che è essenziale è scoprire e far valere la
radice di vita, di senso, di sentimenti, che è il Padre dei cieli, Colui dal
quale ogni bene riceviamo e verso il quale porta ogni bene vissuto. Senza
questo ‘sconfinamento’, da dentro i legami degli affetti, l’uomo si insacca su
se stesso e non trova più slancio e passione per un progetto grande di vita. In
altre parole, non ritrova più lo Spirito donato da Gesù. Lo dice assai bene la
seconda lettura tratta dalla prima lettera di s. Giovanni: “Chi osserva i suoi
comandamenti rimane in Dio e Dio in lui. In questo conosciamo che egli rimane
in noi: dallo Spirito che ci ha dato”. In altri termini, osservare i
comandamenti risulta possibile in forza dello Spirito che ci fa una cosa sola
con Gesù, nel quale abita la pienezza della divinità. E lo Spirito è Colui che
continuamente tiene aperti gli orizzonti verso il Padre, tanto in Gesù quanto
in noi perché il desiderio di comunione di Dio con gli uomini si compia
finalmente. Così è stato per la santa famiglia di Nazareth, così è stato per
Gesù e così è per noi tutti. E solo così gli uomini possono vivere i loro
affetti senza sottrarre loro quel vigore e quello slancio che li apre ad
aneliti sempre più profondi e veritieri, dentro un’umanità così larga di
orizzonti da sentire tutti della stessa famiglia.
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Quarto ciclo
Anno liturgico C (2012-2013)
Tempo di Natale
Maria ss. Madre di Dio
(1 gennaio 2013)
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Nm
6,22-27; Sal 66; Gal 4,4-7; Lc 2,16-21
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Nel calendario liturgico, l’ottavo
giorno dopo il Natale del Signore fu consacrato a onorare
Con lei,
‘Il nome di Dio è ormai posto su di
noi’: non c’è più motivo di paura e se la paura non fa più presa sui cuori,
allora vengono meno anche la violenza e l’ingiustizia che di quella paura sono
gli strumenti di offesa per autodifesa. Quel nome di Dio, pur nel suo mistero,
ha un volto, risponde a un nome che è stato scelto umanamente, anche se dietro
suggerimento angelico, che definisce il figlio della Vergine Maria, Gesù. Quel
‘Gesù’, che ora adoriamo bambino nella stalla di Betlemme – questa è la bella notizia per il mondo
intero! – è ormai la benedizione e la protezione di Dio per gli uomini, è il
volto di Dio che risplende benevolo e misericordioso, è il sigillo della pace
di Dio sugli uomini, come la solenne preghiera di benedizione israelita
profetizzava: “Ti benedica il Signore e
ti custodisca. Il Signore faccia risplendere per te il suo volto e ti faccia
grazia. Il Signore rivolga a te il suo volto e ti conceda pace”. Ora
possiamo vedere che il Signore ha effettivamente benedetto, ha rivolto il suo
volto e ci ha concesso la sua pace. È un bambino ‘nato da donna’, a
sottolineare che è veramente figlio, contemporaneamente suo e del Padre, motivo
per cui coloro che come tale lo riconosceranno, a loro volta saranno chiamati
figli di Dio. Ma chi sono coloro che sono chiamati figli di Dio? Coloro che lo
Spirito Santo guida, coloro che lo Spirito Santo governa, coloro che in forza
di quello Spirito saranno operatori di pace (‘beati gli operatori di pace perché saranno chiamati figli di Dio’).
Nella lettera ai Galati s. Paolo scrive: “…Dio
mandò nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio il quale grida: Abbà, Padre!
Quindi non sei più schiavo, ma figlio e, se figlio, sei anche erede per grazia
di Dio”. Operare la pace da figli, non da schiavi! Non schiavi di nessuno e
di nessuna ideologia, non schiavi per comodo o per paura, non schiavi di beni,
esteriori o interiori, che non procedano da quell’unico Bene, che è Cristo
stesso, pace di Dio, il cui godimento sorpassa ogni intelligenza e custodisce
cuori e pensieri (cfr. Fil 4,7). Anche la pace si può cercare da schiavi.
Favorirà violenze ancora più terribili, non custodendo la dignità di nessuno.
La pace che viene da Dio non tollera mascheramenti o ambiguità, perché porterà
tutti a riconoscere la stessa dignità condivisa che deriva dall’unico Padre,
l’unico che è Giusto perché Misericordioso. Il Figlio, Gesù, che fa risplendere
il suo volto tra gli uomini, ha fatto vedere come sia possibile declinare la
pace di Dio nella storia degli uomini. Coloro che vogliono vivere e gustare la
sua eredità non hanno che da seguirlo e, a loro volta, far risplendere il suo
volto tra gli uomini: è il dono più bello che possono regalare ai loro
fratelli, come
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Quarto ciclo
Anno liturgico C (2012-2013)
Tempo di Natale
Epifania del Signore
(6
gennaio 2013)
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Is
60,1-6; Sal 71; Ef 3,2-3a.5-6; Mt 2,1-12
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Epifania vuol dire manifestazione.
Come tutti i racconti sulla nascita
e sull'infanzia di Gesù, ciò che viene riferito va letto in contrappunto ai
racconti della sua passione-morte-risurrezione. Nella narrazione dei Magi che
arrivano a Gerusalemme in cerca del re dei Giudei è presentato il conflitto che
opporrà alle autorità ufficiali il vero re e salvatore del suo popolo. Colui
che le guide della nazione si rifiutano di ricevere è adorato dalle nazioni;
Colui che doveva essere noto a coloro che conoscevano le Scritture perché di
lui le Scritture parlano viene rivelato a coloro ai quali, non potendo le
Scritture parlare, parlano gli astri, messaggeri di Dio. Ogni cosa può agire da
messaggero di Dio, se il nostro cuore sa guardare in alto. E tutto alla fine
conduce a lui, il Salvatore, Colui che rivelerà definitivamente e in tutta
pienezza, anche per il nostro cuore, quaggiù o di là, l’infinito amore del
Padre per gli uomini, Colui che compirà in tutta la loro estensione i nostri
desideri di vita, di santità, di comunione.
L’antifona di ingresso della messa
si richiama al libro del profeta Malachia, l’ultimo libro dell’Antico
Testamento: “È venuto il Signore nostro
re: nelle sue mani è il regno, la potenza e la gloria”. Un bambino è
proclamato ‘sovrano, potente e glorioso’! La proclamazione comporta qualcosa di
radicalmente nuovo per gli occhi umani o, se vogliamo, comporta la visione di
una realtà con occhi radicalmente nuovi. Stessa novità che sta dietro la proclamazione nei vangeli di Gesù come re
(soltanto durante la sua passione Gesù accetta il titolo di re) e
particolarmente come re della gloria (titolo che fornisce, da una parte, la
ragione della condanna sul patibolo della croce e, dall’altra, per la visione
di fede dei credenti, la ragione dell’amore di Dio per l’uomo che proprio sulla
croce risplende). È in ragione di quella novità
che la manifestazione di Gesù può conquistare le genti e può convincere
Israele. Quando la colletta fa pregare: “O Dio, che in questo giorno, con la
guida della stella, hai rivelato alle genti il tuo unico Figlio, conduci
benigno anche noi, che ti abbiamo conosciuto per la fede, a contemplare la
grandezza della tua gloria”, guida i credenti alla percezione di quella novità e li predispone a cogliere e a
vivere dello splendore di quell’amore, che costituisce ormai la ragione di
senso del vivere nella storia.
La visione dei popoli che si
ritrovano a Gerusalemme, ripresa anche dal salmo 71 e celebrata dal salmo 87,
mostra come ormai non esiste più motivo di distinzione tra gli uomini perché la
loro dignità deriva da un’unica radice. La dignità degli uomini parla
dell’amore di Dio che si è rivelato in quel Figlio di Dio fatto uomo e che
nella liturgia odierna è adorato da tutte le genti. Quando Paolo ricorda agli
Efesini che il mistero manifestato ora agli uomini è il fatto che i Gentili
sono chiamati, in Cristo Gesù, a partecipare alla stessa eredità di Israele,
rivela che davanti a Dio sussiste un’unica famiglia umana, destinataria e
portatrice allo stesso tempo del Suo amore. Se il Signore, come dice il salmo
71, interviene a favore del povero e del debole, categorie che attraversano la
diversità dei popoli e si riferiscono all’umanità di tutti, significa che chi
calpesta il povero e il debole ferisce la propria dignità umana e non rispetta
l’immagine di quel Figlio che si è confuso con l’umanità di tutti. Davanti a
quel Figlio, bambino, adorato dalle genti, dice il salmo, eco del pensiero di
Dio: chiunque tu sia, da qualunque paese provenga, qualsiasi sia stata la tua
storia, a qualsiasi cultura appartenga, sappi che qui sei nato, di qui trai
vita e qui conducono i tuoi desideri perché qui si compiono i miei progetti:
nel mio Figlio!
I magi sono la figura della
manifestazione di Dio alle genti (con l’oro riconoscono la regalità misteriosa
di quel ‘bambino nato per noi’, con l’incenso riconoscono la sua divinità, con
la mirra la sua umanità pronta a soffrire la passione per la nostra salvezza).
Il loro far ritorno a casa per altra strada allude al fatto che chi si apre
all’adorazione di Dio riscopre la casa propria in altro modo, con altro
sguardo, sotto altri orizzonti. Questo mi induce a due osservazioni: 1) se il
Messia è promesso alle genti, di che cosa siamo noi credenti debitori al mondo?
Siamo debitori proprio della conoscenza del Signore. E questo debito pende
sulla nostra testa: ecco la responsabilità della testimonianza dei credenti di
fronte al mondo; 2) se il Messia è promesso alle genti, vuol dire che fin tanto
che tutte le genti non l’hanno conosciuto, la nostra stessa conoscenza del Messia
è manchevole, resta limitata. Come in un amore: fin tanto che non ho trovato
qualcuno che voglia bene a me, io non potrò scoprire quello che sono in verità,
quello che porto e di cui sono capace. Così è con Dio. Fin tanto che tutti non
l’hanno conosciuto, Dio non ha ancora avuto modo di manifestarsi in tutta la
sua ricchezza. Attendere questa manifestazione, nel cuore di tutti, rende umili
e adoranti e risponde al comandamento dell’amore verso tutti, anche verso i
nemici, finché la gloria di Dio si manifesti compiutamente.
Quanto al mistero della
trasformazione dell’acqua in vino alle nozze di Cana (cfr. Gv 2,1-10), simbolo
delle nozze del Signore Gesù con l’umanità nostra, anche questo ha a che vedere
con la manifestazione della gloria di Dio nella nostra vita. Potremmo
chiederci: quando siamo acqua e quando siamo vino? Passare dall’essere acqua al
diventare vino significa passare dalla volontà di osservanza del comandamento
al gusto del frutto che il comandamento comporta. La promessa nascosta in ogni
parola di Dio è questa: “Se uno mi ama,
osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e
prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14,23). Come a dire: ogni comandamento
ha un’ispirazione; senza cogliere tale ispirazione non potremo mai gustare la
promessa che è nascosta dentro ogni comandamento, la promessa della conoscenza cordiale del Signore, la promessa del
gusto della sua compagnia. Come in un rapporto d’amore. Non basta fare delle
cose, neanche farle per l’altro; se non si coglie l’ispirazione che muove il
cuore ad agire, se non si coglie l’effetto che il nostro agire ha sul cuore
dell’altro, se non ci viene rimandata la gioia dell’altro che coglie il
movimento del nostro cuore, si resta acqua. Il vino invece, dice
Nel Cristo divinità e umanità sono
inscindibilmente unite, Dio finalmente risplende nell’uomo e l’uomo risplende
del suo Dio. E se tutto diventerà più svelato
con la morte e risurrezione di Gesù, già però se ne può intravedere il mistero
fin dalla sua nascita dalla Vergine Maria, almeno per coloro che gli si
avvicinano con stupore e sanno vedere nelle parole e negli eventi che lo
riguardano gli indizi della sua gloria.
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Quarto ciclo
Anno liturgico C (2012-2013)
Tempo di Natale
Battesimo del Signore
(13
gennaio 2013)
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Is
40,1-5.9-11; Sal 103; Tt 2,11-14; 3,4-7; Lc 3,15-16.21-22
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Con la festa del battesimo di Gesù
si chiude il ciclo natalizio. L’Avvento si era aperto con l’invocazione del
profeta: “Se tu squarciassi i cieli e
scendessi!” (Is 63,19). I cieli si sono effettivamente squarciati lasciando
‘piovere il Giusto’, come oggi la scena
del Battesimo di Gesù fa intravedere: “il
cielo si aprì e discese sopra di lui lo Spirito Santo in forma corporea, come
una colomba, e venne una voce dal cielo: «Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te
ho posto il mio compiacimento»”. I cieli che si aprono non preludono ad una
visione del mondo celeste, ma alla discesa sulla terra dei beni divini, beni
che dovevano caratterizzare il popolo di Dio dell’era messianica, dei quali il
principale è proprio lo Spirito Santo, effuso su tutti, attraverso quel Figlio
che lo possiede in pienezza.
Il simbolismo della colomba sembra
alludere al carattere escatologico della visione che indica in Gesù il Messia e
il punto di partenza della comunità messianica. Ricorda la colomba del Cantico
dei Cantici, sposa di Yahvé e Giovanni Battista potrà poi esclamare: “Lo sposo è colui al quale appartiene la
sposa; ma l’amico dello sposo, che è presente e l’ascolta, esulta di gioia alla
voce dello sposo. Ora questa mia gioia è piena. Lui deve crescere; io, invece,
diminuire” (Gv 3,29). Se nel racconto di Luca sembra che Gesù solo veda in
visione la colomba, in quello di Giovanni anche il Battista vede lo Spirito
discendere su Gesù sotto forma di colomba e comprende che Gesù aveva la
missione di far apparire la colomba, cioè il nuovo popolo di Dio animato dallo
Spirito Santo.
Il primo gesto di Gesù, nel dare
inizio alla sua missione, è quello di stare solidale con i peccatori. Lui,
l’Innocente, l’Agnello che toglie i peccati del mondo, è in fila con i
peccatori per ricevere il battesimo di penitenza di Giovanni. Non ha bisogno
del battesimo, eppure viene a farsi battezzare. Perché? Viene per celebrare il
suo sposalizio: nella sua umanità
oramai è lavata tutta l’umanità, che può stare unita a lui e godere, come lui,
di quello Spirito che come colomba si posa sul suo capo, capo del suo corpo che
siamo noi. Nessuno può ancora vedere lo Spirito però; solo Gesù, uscendo dalle
acque, lo può vedere perché ne è ripieno ed anche Giovanni, che con quel
battesimo dato a Gesù finisce la sua opera di battezzatore per lasciare posto a
lui, al suo nuovo battesimo nello Spirito. La cosa si farà evidente a
Pentecoste allorquando lo Spirito verrà effuso come lingue di fuoco sugli
apostoli.
La chiesa prega che il Signore, come
ha squarciato i cieli, si degni squarciare i nostri cuori perché anche a noi
appaia, finalmente, in tutta la sua bellezza, il volto del Figlio di Dio,
testimone supremo dell’amore di Dio per gli uomini. E come dice Paolo a Tito “… nell’attesa della beata speranza e della
manifestazione della gloria del nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo”,
noi aspettiamo la manifestazione del Signore al nostro cuore in ogni
circostanza della nostra vita, in ogni azione e non soltanto alla fine della
vita. Come se pregassimo: “fa’ che possiamo vedere il volto del tuo Figlio, fa’
che il nostro cuore sia rapito dalla sua bellezza, apri il nostro cuore alle
sue parole perché venga rivelato al nostro cuore il tuo amore e possiamo venire
risanati, facci fare l’esperienza viva del tuo perdono perché possiamo vivere
un corpo solo e un’anima sola con tutti, nel suo Spirito, ormai popolo nuovo”.
“Tu
sei il Figlio mio, l’amato”. Nelle Scritture si parla del figlio, l’amato, a proposito di Isacco, figlio di Abramo (Gen 22,2), quando
Dio gli chiede la sua vita e nella parabola dei vignaioli assassini (Mc 12,6)
quando il padrone della vigna pensa di mandare loro il figlio, che poi mettono
a morte. Quell’aggettivo l’amato, se
rivela la radicalità della fede di Abramo, rivela a maggior ragione la
radicalità dell’amore di Dio per l’umanità.
L’aggiunta: “in te ho posto il mio compiacimento”, si può tradurre: ‘in te il
mio Amore è perfetto’. In te, però,
non è più solo rivolto al Figlio nella sua divinità, ma nella sua umanità:
l’amore di Dio e dell’uomo si corrispondono ormai perfettamente. Oppure, si può
anche tradurre: ‘in te la mia volontà si compie, perfetta’. E la volontà di Dio
non è che l’amore per l’uomo e nella vita e nella persona di Gesù questo amore
risplende nella sua radicalità e totalità. Se noi stiamo in lui, allora anche
in noi la volontà del Padre si compirà perché anche in noi il suo amore
risplenderà. É ciò che comporta l’essere nati dallo Spirito, il vivere mossi e
guidati dallo Spirito di cui Gesù è ricolmo e che ci ha effuso con la sua morte
e risurrezione. Proprio come s. Francesco di Assisi proclamerà della nostra vita
in Cristo: “ciò che devono desiderare
sopra ogni cosa è di avere lo Spirito del Signore e la sua santa operazione”.
La figura di Gesù, nel racconto del
battesimo, è definita da tre termini: figlio/servo/agnello. Il compiacimento
del Padre si risolve nel fatto che Gesù viene a fare la sua volontà, vale a
dire fa riferimento all’obbedienza del servo che accetta fino in fondo il
compito affidatogli, ma allude anche all’intimità ed alla libertà del figlio
che condivide intensamente con il Padre la sua passione d’amore per gli uomini.
Per noi accogliere i due riferimenti contemporaneamente è proprio difficile!
Per noi la volontà di Dio non suona subito come una volontà di Bene, come un
Bene che vuole condividere con noi, come una gioia di Bene che riposa i cuori e
di Dio e degli uomini. Ma se riconosciamo lo splendore dell’amore di Dio che
rifulge dal volto di quel figlio/servo/agnello, potremo anche noi, come lui e
in lui, cogliere e compiere il volere di bene di Dio in favore degli uomini e
godere della sua gioia che consiste nell’unire ‘i figli di Dio dispersi’.
Quando il cuore dell’uomo non si lascia guidare da alcun’altra ragione nel suo
agire, saprà che la fraternità con gli uomini è il supremo desiderio di Dio e
il luogo di manifestazione del suo splendore. Così si compiono i misteri di
Dio, così l’uomo torna alle radici della sua gioia, nel suo Dio. Cose
misteriose, certo, ma veritiere e fondanti il senso stesso del nostro vivere e
del nostro desiderare.
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Quarto ciclo
Anno liturgico C (2012-2013)
Tempo Ordinario
2a Domenica
(20 gennaio 2013)
_________________________________________________
Is
62,1-5; Sal 95; 1Cor 12,4-11;
Gv 2,1-12
_________________________________________________
Il brano evangelico di oggi termina
con l’annotazione: “Questo, a Cana di
Galilea, fu l’inizio dei segni compiuti da Gesù; egli manifestò la sua gloria e
i suoi discepoli credettero in lui”. Se ci rifacciamo a Gv 1,14: “E il Verbo si fece carne e venne ad abitare
in mezzo a noi; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come del Figlio
unigenito che viene dal Padre, pieno di grazia e di verità”, ci possiamo
domandare: che cosa hanno visto i discepoli, a Cana, di questa gloria? Quando
Giovanni usa il termine segno, non
intende riferirsi al miracolo come se si trattasse di vedere la potenza
straordinaria di Gesù in atto; allude a un’altra cosa, a qualcosa che sia in
relazione con la gloria.
Possiamo afferrare meglio la
rivelazione di Cana se incastoniamo l’episodio nella narrazione di Giovanni.
Gli eventi che intercorrono dal riconoscimento di Gesù da parte di Giovanni
Battista al Giordano fino alle nozze di Cana sono racchiusi nello spazio di una
settimana, la settimana della nuova creazione, in riferimento alla settimana
della creazione narrata dalla Genesi. L’episodio di Cana segue il
riconoscimento di Gesù da parte di Natanaele, il quale segue quello da parte di
Andrea e Giovanni, i quali seguono quello di Giovanni Battista. Per cogliere la
portata del miracolo di Cana, bisogna percepire la densità di quel ‘andarono e videro’ di Andrea e Giovanni,
i quali svelando a Pietro tutta l’emozione che li abitava riferiscono la loro
scoperta in questi termini: ‘abbiamo
trovato il Messia’. E ancora, bisogna intuire la sorpresa di Natanaele, che
risiedeva proprio a Cana, quando Gesù gli si rivolge con quelle parole: ‘vedrai cose più grandi di queste!’.
Tutti i segni che Gesù compie sono collocati nella scia di questo vedere cose più grandi fino alla
rivelazione suprema, con la morte e risurrezione di Gesù, allorquando le cose più grandi sono ormai le cose ultime, definitive, supreme, a partire
dalle quali tutto prende senso e splendore. La sua gloria finalmente è svelata in tutto il suo splendore, la gloria
del suo amore per gli uomini.
I segni sono dunque in relazione con la gloria dentro un movimento di rivelazione di cose sempre più grandi
fino alla rivelazione suprema, la morte/risurrezione di Gesù. I segni sono
allora gesti simbolici che hanno la funzione di indicare che in Gesù si
realizza l’evento escatologico (“In
verità, in verità io vi dico: vedrete il cielo aperto e gli angeli di Dio
salire e scendere sopra il Figlio dell’uomo”, compiendo il sogno di
Giacobbe di Gen 28,17); invitano tutti gli uomini a percepire la filiazione
divina di Gesù, come dirà Giovanni alla fine del suo vangelo riferendosi ai
segni che ha descritto nella sua narrazione: “Ma questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il
Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome”. Il
mistero di Gesù allude al mistero della Trinità, la quale si rivela nel suo
amore agli uomini tramite Gesù e nel dono dello Spirito Santo che ci rende atti
a vivere di e dentro quell’amore.
A Cana Gesù viene invitato alle
nozze, simbolo dell’antica alleanza. Ma manca il vino, quello che solo il
Messia avrebbe portato, il vino simbolo dell’amore e della gioia, compimento
delle promesse di Dio al suo popolo. Se ne accorge sua madre, che appartiene
all’antica alleanza, ma la cui fedeltà a Dio la rende capace di vedere in Gesù
il Messia, per cui si rivolge fiduciosa ai servi: “Qualsiasi cosa vi dica, fatela”. Gesù, che fa riempire d’acqua le
giare e fa attingere e portare in tavola, realizza il passaggio dall’antica
alla nuova alleanza con il dono del vino che simboleggia l’esperienza diretta e
personale, nella gioia e nell’amore, della relazione tra Dio e l’uomo: “Perché la legge fu data per mezzo di Mosé,
la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo” (Gv 1,17). Non per
nulla, l’episodio che segue alle nozze di Cana è la purificazione del Tempio a
Gerusalemme da parte di Gesù che scaccia venditori e cambiamonete. Quello che
la legge prometteva, Gesù lo rende possibile in sovrabbondanza; quello a cui
anelava il cuore dell’uomo ora diventa vivibile, gustosamente esperibile: l’uomo
vive finalmente la pace con il suo Dio, in un amore ritrovato e condivisibile.
E questo si vedrà proprio nella sua ora
quando dalla croce risplenderà il suo amore infinito, amore che con il dono
dello Spirito Santo diventa radice di vita e di azione nel suo discepolo e
segno di Dio per il mondo intero.
Il miracolo di Cana con la
trasformazione dell’acqua in vino, mentre allude al passaggio dalla Legge alla
Grazia, allude anche al mistero dell’intelligenza delle Scritture. Tutte le
Scritture parlano di lui (‘Voi scrutate
le Scritture pensando di avere in esse la vita eterna: sono proprio esse che
danno testimonianza di me’, Gv 5,39): tutte le parole alludono alla Parola
fatta carne. E quando si incomincia a intravedere questa tensione profonda che
percorre tutta
L’immagine di fondo è quella delle
nozze, a illustrare il mistero della comunione di Dio con l’uomo. Le nozze
alludono al compimento dei desideri del cuore ormai abitati dal desiderio di
Dio che ci è venuto incontro, che ci ha guadagnati al suo amore e che ci ha conquistati
al suo splendore.
Quest’ultimo aspetto è ben delineato
nel brano di Isaia che descrive Dio come lo Sposo che gioisce della sua sposa,
la quale passa da una percezione di angosciosa solitudine, di abbandonata, all’emozione di essere
svelata a se stessa in una dolcezza di riposo perché sposata (forse, meglio: ‘abitata in dolcezza’). La percezione di
quella nuova realtà, di cui è indegna, ma di cui gode nell’intimo, grata e
consegnata, costituisce il contenuto del nome nuovo con la quale è chiamata.
Così possiamo pregare con la chiesa:
“… la santa chiesa sperimenti la forza trasformante del suo amore e pregusti
nella speranza la gioia delle nozze eterne” allorquando tutti ci relazioneremo
come figli di Dio nell’esperienza assoluta e sovrana dell’amore di Dio per noi.
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Quarto ciclo
Anno liturgico C (2012-2013)
Tempo Ordinario
3a Domenica
(27 gennaio 2013)
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Ne
8,2-4.5-6.8-10; Sal 18; 1Cor 12,12-30; Lc 1,1-4; 4,14-21
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Nel racconto di Luca la predicazione
a Nazaret assume il valore di avvenimento emblematico, collocato all’inizio
dell’attività apostolica di Gesù, subito dopo il battesimo e le tentazioni nel
deserto, come se l’evangelista volesse riassumere in una immagine premonitrice
il senso del messaggio messianico di Gesù.
L’inizio del brano evangelico
comporta un particolare assolutamente significativo. Il testo dice che Gesù
ritorna in Galilea con la potenza dello
Spirito, mentre in precedenza aveva riportato che Gesù, dopo il battesimo
al Giordano, pieno di Spirito, era stato spinto nel deserto per essere tentato
da diavolo. Avendo vinto il maligno, cioè avendo accettato di condursi, come
Messia, secondo i segreti di Dio e non del diavolo, Gesù inizia la sua
missione. E quando si presenta nella sinagoga a Nazaret riferisce a se stesso
il passo di Isaia: “Lo Spirito del
Signore è sopra di me … Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete
ascoltato”. Gesù si presenta come l’Inviato, capace di dare compimento alle
promesse di Dio, come riporta il canto al vangelo: “Il Signore mi ha mandato ... ”. Quello che forse non cogliamo più
della manifestazione di questa autocoscienza di Gesù è il suo carattere
dinamico. L’invio non rimanda semplicemente all’opera per la quale è mandato,
ma all’intimità che vive con il Padre nel mostrare, con le parole e l’agire, il
suo grande amore agli uomini.
La profezia messianica di Isaia 61,
che parla di poveri, di prigionieri/oppressi, di ciechi, allude alle deficienze del nostro vivere che Gesù è
venuto a redimere: a) la nostra vita è mancante, soffre di limiti; b) viviamo
sotto l’oppressione di una schiavitù imposta o procurata, subita o provocata;
c) camminiamo all’oscuro, non distinguiamo bene nulla. Gesù si presenta, dalla
parte di Dio, capace di rinnovare la letizia, di offrire la libertà e di
suggerire un senso. Sono le coordinate di un vivere felicemente la propria
vocazione umana, in comunione con Dio. La felicità, come la vita stessa di Gesù
mostrerà, è dire bene Dio con la
premura della cura dell’uomo fino a dare la nostra vita perché la vita
dell’altro cresca. Ma come vivere questa felicità senza la rivelazione del
volto di Dio che si fa conoscere come cura
per l’uomo? Per questo Origene annota come sia da invidiarsi l’assemblea
che tutta intera, alla lettura della parola di Dio, tiene gli sguardi fissi su
Gesù!
Tutti i frutti dello Spirito “amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza,
bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé” (Gal 5,22) sono espressione della
cura per l’uomo e chi più li possiede, più si prende cura. E più ci si prende
cura, più il volto di Dio è rivelato nella sua verità e la letizia riempie il
cuore dell’uomo, secondo l’invito di Neemia al popolo dopo la lettura della
Legge: “Non vi rattristate, perché la
gioia del Signore è la vostra forza”. Gli ebrei erano appena ritornati
dall’esilio di Babilonia, avevano ricominciato a costruire il tempio e le mura
di Gerusalemme, ma la vita si prospettava piena di insidie sia sociali che religiose.
Il popolo viene ricompattato con la proclamazione del libro della legge, la
lettura del quale suscita un’emozione grandissima. Il popolo piange, si
rattrista, si accorge di quanto sia stato infedele al suo Dio. Come era
successo al re Giosia: “Udite le parole
del libro della legge, il re si stracciò le vesti” (2Re 22,11); come
succederà alla gente che aveva ascoltato il discorso di Pietro a Pentecoste: “all’udire queste cose si sentirono
trafiggere il cuore” (At 2,37). Ma Esdra e Neemia invitano alla gioia, sia
perché quello era un giorno di festa e nella festa è prescritto di stare lieti
insieme alla mensa invitando anche i poveri sia perché la parola di Dio
proclamata, spiegata, vissuta e condivisa nella sua potenza di letizia rende
solidali gli uomini, non avendo più nulla da rivendicare in senso egoistico.
La gioia, dono messianico per
eccellenza, cela un’energia potente, diventa la forza che il salmo 18 descrive
se leggiamo le espressioni in significato intensivo: la legge del Signore è perfetta, cioè rende integri e perciò
rinfranca l’anima; la testimonianza del
Signore è stabile, cioè rende veritieri e ti fa partecipe della sapienza
dall’alto; i precetti del Signore sono
retti, cioè rendono integri e gioiosi; il
comando del Signore è limpido, cioè rende l’uomo luminoso, dallo sguardo
pulito e bello. Potremmo anche interpretare sinteticamente: la giustizia del
Signore, il contenuto cioè della parola di Dio, è quella di portare gioia al
cuore e questa gioia è quella che consente al nostro cuore di vivere secondo la
sua giustizia, cioè di manifestare la sua presenza con il prenderci cura di
ognuno fino a dare la vita perché l’altro possa averla abbondante. Solo il
Messia poteva rivelare che consisteva in questo la manifestazione del Signore e
che in questo risiedeva e il compimento del desiderio dell’uomo e la felicità
di Dio, quello che san Paolo descrive come la realtà dell’essere un corpo solo
in Cristo. Non c’è nulla di più affascinante di tale mistero e nello stesso
tempo nulla di più salutarmente rischioso nella vita degli uomini.
L’esito della predicazione di Gesù a
Nazaret sarà però drammatico e questo sarà il tema delle letture di domenica
prossima.
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Quarto ciclo
Anno liturgico C (2012-2013)
Tempo Ordinario
4a Domenica
(3 febbraio 2013)
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Ger
1,4-5.17-19; Sal 70; 1Cor 12,31-13,13; Lc 4,21-30
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Il brano evangelico di oggi
ripresenta la stessa scena di domenica scorsa: la predicazione di Gesù a
Nazaret. Possiamo così continuare la riflessione sul valore emblematico di
quell’evento. Se viene fatto conoscere il rifiuto di Gesù da parte dei suoi
concittadini, la sottolineatura si deve al valore profetico di quel rifiuto,
che l’evangelista Giovanni descriverà come “Venne
fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto” (Gv 1,11). Oltre ad alludere
alla passione di Gesù, allorquando il rifiuto comporterà la sua messa a morte,
allude anche all’universalità di quella morte che toglierà il muro di
separazione tra Israele e Gentili, aprendo Israele ai Gentili, pena
l’esclusione del dono di grazia.
La scena è racchiusa da due identici
sentimenti dal valore diametralmente opposto. Si apre con la meraviglia,
sospettosa, che si tramuta poi in ostilità da parte degli ascoltatori presenti
nella sinagoga e si chiude con la meraviglia, dispiaciuta, di Gesù che si vede
costretto a fuggire (il passo parallelo di Marco conclude: “E si meravigliava della loro incredulità”,
Mc 6,6). Una meraviglia, quella di Gesù, che non si tramuta in ostilità con la
sua fuga, bensì in tenacia e
immaginazione per creare nuove occasioni, fino alla fine, perché i cuori
finalmente si aprano all’amore del Padre testimoniato da lui e dalla sua
attività in tutto il paese.
L’agire di Gesù tende a ristabilire
in tutti, vicini e lontani, ebrei e pagani, la possibilità di tornare a dar
credito alla promessa di Dio. Quella grazia è accessibile solo ai piccoli, come
sottolinea il canto al vangelo: “Benedetto
sei tu, Padre, Signore del cielo e della terra, perché ai piccoli hai rivelato
i misteri del regno dei cieli” (Mt 11,25). I piccoli sono coloro che, ai
propri pensieri, preferiscono quelli di Dio.
Così, voler mantenere la distanza delle differenze tra ebrei e pagani,
tra giusti e empi, tra puri e impuri, ecc. (gli ascoltatori della sinagoga si
sentono offesi quando Gesù ricorda loro che Dio non ha disdegnato i pagani – la
vedova di Zarepta di Sidone e Naaman il siro – come se questa preferenza
comportasse l’accusa ai suoi figli) significa stravolgere il piano divino della
creazione e restare impassibili davanti all’amore di Dio che tutti ingloba nel
suo amore salvatore, che non si piega al ricatto del figlio maggiore come non
si ritrae dalla vergogna del figlio minore per riunirli entrambi nella gioia
del Regno. La terribile lotta che l’uomo è chiamato a sostenere è quella contro
il sospetto che la differenza non contenga la ricchezza della promessa di Dio,
ma sia un attentato alla sua identità. La ragione di tale sospetto, che insidia
ogni relazione, deriva non dalla paura dell’uomo, ma dalla paura di Dio al cui
amore e alla cui promessa di vita non si dà credito. Questa mi sembra la
ragione profonda della difficoltà a credere, a prestare fede alla testimonianza
di Gesù come a Colui che davvero ci rivela il volto del Padre. Purtroppo troppe
cose nella vita quotidiana e dentro noi stessi non fanno che confermare quel
sospetto, che preferiamo rimuovere piuttosto che curare, per cui ci appare più
pio difendere il nome di Dio nascondendoci nella giustizia di qualche pratica
religiosa che ci dà il senso di vantare dei meriti piuttosto che fidarsi
dell’amore di Dio che si traduce in prossimità per tutti gli uomini a gloria
del suo nome, seguendo Gesù nella sua rivelazione del Padre.
Un ulteriore motivo di riflessione è
dato dalla corrispondenza tra le letture di oggi. Il profeta Geremia,
tormentatissimo, che ha dovuto subire l’ostilità del suo paese e del suo popolo
fino alla fine, richiama la vicenda dell’altro profeta, Gesù, anche lui non accettato,
ma fedele esecutore e contemporaneamente rivelatore dell’amore del Padre. Il
dramma del rifiuto davanti al profeta non sottolinea la grandezza del profeta,
ma la tenacia del disegno di Dio che comunque si rivela nel suo desiderio di
prossimità con l’uomo. Il dramma del rifiuto perdura finché si giunge alla
rivelazione del punto di incandescenza dell’amore di Dio nel profeta tanto da
fargli divorare l’ingiustizia e far trionfare l’amore. Ma se questo avviene nel
profeta, vuol dire che può avvenire in ogni fedele, in ogni credente. Così
l’esperienza del profeta diventa emblematica, ripetibile da ogni credente, come
lo sottolinea il salmo 70 che ognuno, nel crogiolo della sua esperienza, può
proclamare: “In te mi rifugio, Signore …
Sii per me rupe di difesa … Sei tu, Signore, la mia speranza … Dirò le
meraviglie del Signore”, cioè le meraviglie di quell’amore che non è venuto
meno davanti all’ingiustizia ed è rimasto fisso nel suo scopo perché finalmente
su tutti risplenda il volto del Signore. Così per l’esperienza di Gesù, che
fornisce il contenuto divino-umano dell’esperienza di ogni credente. Quando
Paolo dirà: “non vivo più io, ma Cristo
vive in me” (Gal 2,20), “avere gli
uni verso gli altri gli stessi sentimenti, sull’esempio di Cristo Gesù”
(Rom 15,5) o Giovanni : “Se uno mi ama,
osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e
prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14,23), non faranno che alludere a
quella esperienza di Gesù che diventa la stessa esperienza del discepolo.
Nella preghiera dopo la comunione
diciamo: “O Dio, che ci hai nutriti alla tua mensa, fa’ che per la forza di
questo sacramento, sorgente inesauribile di salvezza, la vera fede si estenda
sino ai confini della terra”. Preghiamo per diventare partecipi della potenza
di quell’amore che ci è fatto conoscere in Gesù e di cui tesse l’elogio s.
Paolo nel suo inno alla carità. Non c’è conoscenza che tenga, non c’è fede che
conti, non c’è generosità che salva: solo la carità esprime lo splendore che
deriva dalla fede in Gesù. Quando Paolo dichiara che senza la carità non sono
nulla, non dice semplicemente che io non conto nulla davanti a Dio senza la
carità, ma che tutte le cose eccelse, senza la carità, non hanno alcun valore
presso Dio. E se non l’hanno presso Dio, vuol dire che non possono costituire
strumenti di comunione tra gli uomini. E senza vivere la comunione con gli
uomini non si può sperare di godere la comunione con Dio, che è Padre. Ogni
vanto umano qui cessa. Ogni giustificazione umana qui tace. Ogni differenza che
non si traduca in fantasia di prossimità ci condanna al sospetto, alla
negazione di Dio, alla lacerazione dell’illusione e della prevaricazione. La
sapienza evangelica è radicale, ma consona al cuore dell’uomo, se si accoglie
la buona novella del profeta di Nazaret.
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Quarto ciclo
Anno liturgico C (2012-2013)
Tempo Ordinario
5a Domenica
(10 febbraio 2013)
_________________________________________________
Is
6,1-2,3-8; Sal 137; 1Cor 15,1-11;
Lc 5,1-11
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La pesca miracolosa è funzionale al
racconto della vocazione dei discepoli. Solo Luca, a differenza di Marco e
Matteo, riferisce della pesca miracolosa. Ritroviamo quel racconto anche nel
vangelo di Giovanni, al cap. 21, quando Gesù, risorto, si manifesta agli
apostoli. Si tratta di due episodi diversi o della diversa interpretazione di
uno stesso episodio? Nella prospettiva degli evangelisti la domanda è del tutto
secondaria. La domanda principale è la seguente: cosa ha comportato per i
discepoli la manifestazione di Gesù? O, ancora più precisamente: cosa ha
comportato per i discepoli la decisione di Gesù di manifestarsi a loro? Perché
di questo essenzialmente si tratta: Gesù si manifesta e succede qualcosa. Sia agli inizi della vita pubblica di Gesù sia
dopo la risurrezione l’evento è della stessa natura.
Un’esperienza comune collega le tre
letture odierne, l’esperienza della propria indegnità davanti a Dio e
contemporaneamente l’esperienza della gratuità dell’incontro con Lui. Il profeta
Isaia vede il Signore e trema. Come a
dire: non è possibile continuare a vivere la vita di prima, rimanere
nell’ingiustizia, mantenere un cuore impuro e menzognero, quando ti appare il
Signore della gloria e risplende davanti a te la sua santità. Il Signore non
convive con la nostra iniquità ma cerca
i nostri cuori, cerca di mostrarsi ai nostri cuori. Vedere Lui comporta così
vedere la nostra iniquità nell’attimo stesso che viene bruciata dal suo amore.
E se davanti a Lui vale l’esperienza della gratuità del suo amore, davanti al
prossimo vale la memoria della nostra iniquità per non rinnegare di nuovo la
potenza della sua misericordia che vale per me come per tutti.
È la stessa esperienza dell’apostolo
Paolo, che si sente l’infimo degli apostoli, anzi, neppur degno di essere
chiamato apostolo, perché non può dimenticare che ha perseguitato la chiesa di
Dio, ma proprio in questa memoria risalta la gratuità e la potenza della grazia
che l’ha raggiunto e di cui non ha motivo alcuno per esaltarsi.
Vale la stessa cosa anche per Pietro
che davanti al miracolo della pesca miracolosa non può che esclamare: “Signore, allontànati da me perché sono un
peccatore”. E fino alla fine, come risalta dal racconto dei vangeli che non
tacciono mai le sue manchevolezze, Pietro non teme di far memoria dei suoi
peccati e delle sue debolezze e di presentarsi a tutti nella luce di questa
memoria perché risalti la gratuità del dono di Dio. Il contenuto di quel sono peccatore, nel cuore di Pietro, si
cristallizzerà attorno al suo rinnegamento, che Gesù, dopo la sua risurrezione,
evoca dolcemente al suo apostolo quando gli chiede per la terza volta se lo
ama. Al gesto di gettarsi alle ginocchia di Gesù e di stringerle, mentre dice
di non essere degno di stare alla sua presenza, corrisponde il sussurro di
Pietro, addolorato: “Signore, tu conosci
tutto; tu sai che ti voglio bene” (Gv 21,17).
Dalla gratuità del dono di Dio, che
costituisce il luogo della nuova coscienza di sé, scaturisce l’urgenza della missione, l’impegno cioè della
testimonianza in nome di Dio in mezzo ai propri fratelli. Il profeta Isaia,
dopo essere stato purificato dal carbone ardente, intuisce il desiderio di Dio,
lo scopo stesso di quella purificazione ottenuta e risponde pronto: “Eccomi, manda me!”. La missione del
profeta non si presenta esaltante davanti al popolo perché il popolo non vorrà
prestare fede alla parola del profeta, ma risulterà esaltante agli occhi di Dio
per l’obbedienza e l’intimità che il profeta vive, cosa che alla fine
convincerà anche il popolo a dare obbedienza a Dio. Lo stesso vale per Paolo:
annunciare il vangelo non è un diritto, ma un dovere per Paolo, costi quel che
costi e la forza per portare tutta quella fatica gli deriva dalla gratuità
dell’amore di Dio di cui condivide la dinamica con tutto il suo essere. Così
per Pietro: proprio mentre riconosce la sua indegnità è chiamato ad essere
pescatore di uomini. Gli ci vorranno anni di sequela, di debolezze e di
generosità, di simbiosi con la vita con Gesù, di conoscenza del suo mistero, per
accogliere tutte le conseguenze di quella chiamata, per sapere fino a quale
punto la sua vita sarebbe stata totalmente stravolta.
La tensione interiore della
missione, allora, è direttamente proporzionale all’intensità della visione di Dio, che comporta la
confessione del proprio peccato. Questo, perché l’azione dell’uomo risulti
pulita e non si appropri la gloria di Dio. È per questo che il segnale della
fedeltà all’opera di Dio, tra gli uomini, non sarà costituito dal fatto che i
cuori si convertono, ma dal fatto che un uomo non si allontana dalla carità
anche quando viene oltraggiato e messo a morte. La missione comporta la
condivisione di un compito di
intimità col proprio Signore finché la sua gloria risplenda e si manifesti.
La tradizione ha applicato al
mistero dell’eucarestia l’esperienza del carbone ardente poggiato sulle labbra
del profeta. Perché, ricevendo il corpo del Signore, non ne veniamo bruciati?
Non è forse la stessa immagine che vale per l’amore? L’amore brucia; brucia
tutto ciò che lo ostacola, tutto ciò che lo impedisce, tutto ciò che non lo
indebolisce. Se non brucia, è perché si tratta di un amore pallido, più sognato
che vissuto, più immaginato che reale. Se l’eucaristia non brucia è perché non
abbiamo incontrato nessuno, non abbiamo sentito, non abbiamo corrisposto
all’amore di nessuno. Ma se è così, quale potenza ravvisare nella nostra
missione, nella nostra testimonianza in mezzo ai nostri fratelli che di
quell’amore solo è l’espressione?
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Quarto ciclo
Anno liturgico C (2012-2013)
Tempo di Quaresima
1a Domenica
(17 febbraio 2013)
_________________________________________________
Dt
26,4-10; Sal 90; Rm 10.8-13;
Lc 4,1-13
_________________________________________________
Per cogliere il dramma dell’evento
delle tentazioni di Gesù nel deserto, possiamo farci questa domanda: quale
potere comporta la verità dell’essere Figlio di Dio? Il diavolo riconosce a
Gesù questa verità. Ne può però comprendere la reale portata? In effetti, le
tentazioni seguono l’esperienza di una pienezza, quella del battesimo, con la
manifestazione dello Spirito che riposa su Gesù, come se lo zelo per il Signore
che muove Gesù nel suo compito messianico potesse risultare equivoco.
Il perno dell’equivoco tra Gesù e il
diavolo è proprio il potere.
L’offerta del diavolo è un’offerta di potere: conquistare gli uomini, ma
assoggettandoli; servirsi di Dio piuttosto che servire Dio; conquistarli
facendoli strabiliare. Il diavolo riconosce che Gesù è Figlio di Dio. “Se tu sei Figlio di Dio” significa: dato
che tu sei Figlio di Dio, allora puoi … hai il potere di .... Quando gli offre
la gloria del mondo, è consapevole che Gesù è inviato al mondo, ma il diavolo
non conosce i segreti di Dio né desidera averne parte, per cui tratta Gesù da
par suo ed è disposto a passare in sordina davanti al mondo, per bearsi del
fatto che chi conquista il mondo riconosca che lo deve alla sua nefasta
liberalità.
La quaresima era iniziata, il
mercoledì delle ceneri, con l’invito di Dio ai suoi figli: “Ritornate a me con
tutto il cuore”. Ritornate, cioè, a vivere la vostra vita in alleanza con me,
accogliendola nella Provvidenza mia per voi perché il vostro cuore viva e
conosca l’amore che l’ha voluto.
Le risposte di Gesù frantumano l’illusione
con la quale il diavolo irretisce per impedirci di essere liberi e veritieri.
Gesù si fida di Dio e non dei suoi poteri,
come maliziosamente il diavolo gli riconosce. Dio si adora per nessun altro
motivo che per lui stesso, non in vista di qualcos’altro. Evidentemente, come
fa supporre il diavolo, chi cerca potere e gloria non adora Dio. La fiducia in
Dio è proclamata senza bisogno alcuno di certificazione di nessun genere. Non
ha bisogno di dimostrare nulla a nessuno, se stesso compreso, chi si fida del
suo Dio. La testimonianza suprema di questa fiducia di Gesù risalterà nella sua
passione quando tutti dovranno sapere come lui ama il Padre e come sia grande
l’amore del Padre per gli uomini.
Proviamo a considerare la tentazione
dalla parte del diavolo. Quale sarebbe l’esito per noi se acconsentissimo? Ci
ritroveremmo condannati a queste illusioni: all’oppressione dell’esibizione del
nostro potere, che in realtà ci allontana dalla vita, perché rende tutto il
resto insignificante; all’ipertrofia di se stessi a tal punto da servirci
persino di Dio pur di riempire la scena; alla tirannia della gloria effimera di
questo mondo. In realtà la posta in gioco della vita sta in questa
corrispondenza: scegliere Dio stando dalla parte degli uomini e scegliere gli
uomini stando dalla parte di Dio. Quando questa corrispondenza si spezza – lo
scopo del diavolo è proprio quello di pervertirla – allora l’uomo diventa
schiavo, perché idolatra.
Se consideriamo la tentazione dalla
parte di Dio che la consente, vediamo come sia in gioco la verità della promessa
di Dio al nostro cuore: ci è promessa la vita, ma non secondo il proprio
piacere; ci è promessa la gloria, ma non per i propri interessi; ci è
promesso il soccorso, ma dentro una
provvidenza che impariamo ad accogliere.
Essere figli non comporta titolo alcuno di pretesa; significa solo
condividere con Dio il suo amore per gli uomini. Quando con la colletta
preghiamo: “O Dio, nostro Padre … concedi a noi tuoi fedeli di crescere nella
conoscenza del mistero di Cristo e di testimoniarlo con una degna condotta di
vita”, è come domandassimo: concedici di entrare in quella intimità di sentire
e volere del tuo Figlio con il tuo amore per noi da trovarvi le radici del
nostro vivere.
E se leggiamo le tentazioni
nell’insieme della rivelazione evangelica, possiamo commentare la prima
risposta di Gesù con l’altra sua affermazione: “Cercate invece, anzitutto, il regno di Dio e la sua [= di Dio] giustizia, e tutte queste cose vi saranno
date in aggiunta” (Mt 6,33). Ogni bisogno, nobile o ignobile che sia, che
non attinga la sua verità da dentro quella misura suprema del regno di Dio e
della misericordia salvatrice di Dio, risulterà distruttivo. Non esiste un
idolo liberatore o salvatore. La seconda tentazione può essere accostata alla
dichiarazione di Gesù: “E come potete
credere, voi che ricevete gloria gli uni dagli altri, e non cercate la gloria
che viene dall’unico Dio?”. Le azioni che non procedono dall’adorazione di
Dio sono vincolate alla gloria del mondo, il cui detentore è il maligno. Con
azioni del genere non si svilupperà nel cuore né la gratitudine né la libertà.
E l’uomo resterà irretito nell’illusione. Le parole di satana nella terza
tentazione sono rivelate in tutta la loro portata nel momento cruciale della
vita di Gesù allorché, appeso in croce, si sente apostrofare: “Ha salvato altri e non può salvare se
stesso! È il re d’Israele; scenda ora dalla croce e crederemo in lui. Ha
confidato in Dio; lo liberi lui, ora, se gli vuol bene. Ha detto infatti: ‘Sono
Figlio di Dio’!” (Mt 27, 42-43). Vi sono racchiuse in sintesi tutte e tre
le tentazioni. Nella logica del maligno, di cui gli uomini fanno le spese nella
loro vita, veramente Gesù non può salvare se stesso (non si sfama con un
miracolo), non viene liberato dalla morte (adora davvero Dio solo), non può
dimostrare nulla (non si butta dal pinnacolo). Eppure, proprio quel non salvare
se stesso, non essere liberato dalla morte, non voler dimostrare nulla,
comporterà la rivelazione del vero amore di Dio che riempie la sua vita e che
riverbererà sul cuore degli uomini che non vorranno più illudersi.
La cosa strana è che noi, pur
rifiutando l’azione del male, non riusciamo a vincere la sua seduzione perché
non rinunciamo alla visione mondana sottostante, alla visione del maligno, vale
a dire: immaginiamo che Dio debba servire ai nostri scopi o interessi. La
vittoria di Gesù sul maligno dice altro, dice che stare dalla parte di Dio
significa servire l’uomo nella verità del suo amore per lui.
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Quarto ciclo
Anno liturgico C (2012-2013)
Tempo di Quaresima
2a Domenica
(24 febbraio 2013)
_________________________________________________
Gn
15,5-12.17-18; Sal 26; Fil 3,17-4,1;
Lc 9,28b-36
_________________________________________________
La liturgia inizia con la
rivelazione del desiderio più profondo dei cuori: “Di te dice il mio cuore: ‘Cercate il suo volto’; il tuo volto, Signore,
io cerco”, cantato dal salmo 26 e ora reso nella nuova versione: “Il mio
cuore ripete il tuo invito: Cercate il mio volto!”. È il versetto che orienta
la comprensione dell’evento della trasfigurazione alla quale tutto il salmo 26,
il salmo responsoriale, rimanda, perché, come dice Paolo nella sua lettera ai
Filippesi: “La nostra cittadinanza è nei
cieli”. È la cittadinanza alla quale rimanda la gloria della trasfigurazione, intravista dai discepoli, impauriti e
rapiti nello stesso tempo, per la quale la chiesa con la colletta fa supplicare
per diventarne partecipi: “purifica gli occhi del nostro spirito perché
possiamo godere la visione della tua gloria”. Gloria che splende sul volto di
colui sul quale è proclamato: “Questi è il mio Figlio, l’amato: ascoltatelo!”,
come ripete il canto al vangelo. Viene delineato l’intero arco del percorso del
discepolo di Gesù: ascoltarlo con desiderio, conoscerne il mistero e vederne la
gloria. Tutto il cammino quaresimale è teso a questo obiettivo.
A quale condizione possiamo essere
ammessi alla visione? Solo chi dal fondo del cuore, nonostante le sue
resistenze e confusioni, dice con il salmista: “Di te dice il mio cuore: Cercate il suo volto” potrà intuire
l’esperienza dei tre discepoli sul monte della trasfigurazione. Qualcosa della
bellezza di quel Volto ha ferito allora i cuori dei discepoli, come del resto
ogni nostro cuore aspetta di esserne ferito. Intervengono gli occhi, ma sono
guidati dagli orecchi: la contemplazione del Signore avviene nello spazio
creato nel cuore dalla voce misteriosa di cui gli occhi ne vedono i contorni di
bellezza. Già al battesimo era stata udita la voce dal cielo, che proclamava
Gesù come il Figlio prediletto, ma ora, per i discepoli, viene aggiunto:
“ascoltatelo!”. I discepoli ancora non possono sapere fin dove li porterà
l'ascoltare il loro Maestro e ancora non possono conoscere tutta la profondità
di quell'espressione: “il mio Figlio, l’Amato”, come poi si rivelerà alle loro
coscienze e ai loro occhi con la passione-morte-risurrezione di Gesù e con la
testimonianza della loro vita, resa capace di portare quello stesso amore di
Dio, visto in Gesù e da lui partecipato, in se stessi e per tutti gli uomini.
Anzi, tutta la scena della trasfigurazione sembra abbia lo scopo, nella
narrazione evangelica, di segnare i cuori dei discepoli in vista della prova
della croce. Così non può che seguire la consegna del silenzio, perché l'evento
divino, ancora misterioso al loro cuore, non si trasformi in un motivo di vanto
o di confusione.
Il racconto della trasfigurazione
segue la confessione di Pietro a Cesarea e il primo annuncio della passione da
parte di Gesù ai discepoli increduli. Soltanto Luca però annota che Gesù aveva
preso i discepoli con sé per passare la notte in preghiera sul monte,
descrivendoli in preda all’oppressione del sonno e soltanto lui svela il
contenuto del colloquio tra Gesù e i due uomini apparsi nella gloria con lui,
Mosè ed Elia. Il tutto, evidentemente, allude alla scena futura del giardino
degli ulivi nella notte del tradimento di Gesù. I discepoli sembrano accorgersi
dell’evento della trasfigurazione all’ultimo momento, allorquando,
svegliandosi, vedono Gesù, Mosè ed Elia in colloquio mentre si stanno
congedando. Quasi nello stesso tempo li sorprende la nube e sentono la voce: “Questi è il mio Figlio, l’amato:
ascoltatelo!”, voce che costituisce il punto di fuga della visione.
La proclamazione della voce
misteriosa, già sentita al battesimo di Gesù nel Giordano, è costruita sul
salmo 2,7: “Egli mi ha detto: Tu sei mio
figlio” e su Isaia 42,1: “Ecco il mio
servo che io sostengo, il mio eletto di cui mi compiaccio. Ho posto il mio
spirito su di lui”. Lo conferma il redattore della seconda lettera di
Pietro: “Infatti, vi abbiamo fatto
conoscere la potenza e la venuta del Signore nostro Gesù Cristo, non perché
siamo andati dietro a favole artificiosamente inventate, ma perché siamo stati
testimoni oculari della sua grandezza. Egli infatti ricevette onore e gloria da
Dio Padre, quando giunse a lui questa voce dalla maestosa gloria: «Questi è il
Figlio mio, l’amato, nel quale ho posto il mio compiacimento». Questa voce noi
l’abbiamo udita discendere dal cielo mentre eravamo con lui sul santo monte”
(2Pt 1,16-18).
L’annotazione della preghiera sul
monte allude alla rivelazione che sta per compiersi. Di per sé, però, la
rivelazione non riguarda la visione della gloria, ma il senso misterioso di
quella gloria. In un attimo folgorante, i discepoli vedono, sì, la gloria di
Gesù, ma senza rendersi ben conto. La rivelazione della gloria ha a che fare
invece con il segreto di Dio per l’uomo, che costituisce il colloquio tra Gesù
e i due personaggi: “e parlavano del suo
esodo, che stava per compiersi a Gerusalemme”, ma che Pietro e i suoi
compagni non sanno ancora reggere. Pietro, che non aveva potuto accettare una
settimana prima l’umiliazione e la sofferenza del suo Maestro, ora davanti al
Signore trasfigurato, non sa quel che dice. Se l’evento della Pasqua del
Signore sta al centro del mondo, del senso del mondo, come possono i discepoli
comprendere che fin dalla creazione del mondo il colloquio tra il Padre, il
Figlio e lo Spirito Santo verte sull’immolazione dell’agnello, figura
dell’amore che Dio riversa sul mondo e di cui la gloria della trasfigurazione è
l’allusione misteriosa? Sanno solo che quel Figlio, l’Eletto, è degno di Dio,
custodisce il segreto di Dio per l’uomo e attendono di conoscerlo per davvero
imparando ad ascoltarlo, ad ascoltarlo per seguirlo e a seguirlo per ascoltarlo
finché si manifesti finalmente al cuore. Il senso della paura che prende i
discepoli è appunto il segno del desiderio e del rischio insieme che
caratterizza l’avventura dell’uomo toccato dalla presenza di Dio.
Eppure, nel riconoscere Mosè ed Elia
in colloquio con Gesù, intuiscono che tutte le Scritture, di cui Mosè ed Elia
costituiscono l’espressione riconosciuta, tendono a quella rivelazione, che
tutte le Scritture si compiranno in quell’evento. Non solo, ma presentare il colloquio
che avviene nella gloria significa
collocare quell’evento nella dimensione divina, nella quale si radica la storia
degli uomini.
L’esperienza misteriosa dei
discepoli è la stessa che vive Abramo, con una fede così radicale nella
promessa di Dio che si compie, nonostante l’evidenza umana contraria, da
permettere anche a noi di fidarci dell’alleanza di Dio che in Gesù si rivela in
tutta la sua profondità ed estensione. Così, se domandiamo, come nella
colletta, di vedere la sua gloria, in realtà non facciamo che domandare a Dio
di credere alla sua promessa, di fare esperienza del suo amore a tal punto da
esserne tutti riverberati perché la gloria di Dio è l’amore che risplende dal
trono della croce e la gloria dell’uomo è vivere di quello splendore.
§*§*§*§*§*§*§*§*§*§
Quarto ciclo
Anno liturgico C (2012-2013)
Tempo di Quaresima
3a Domenica
(3 marzo 2013)
_________________________________________________
Es
3,1-8a.13-15; Sal 102; 1 Cor 10,1-6.10-12; Lc 13,1-9
_________________________________________________
Nel vangelo risuona forte oggi il
grido di Gesù: convertitevi! Risuona
però in un contesto per noi non immediatamente ricevibile. Per il nostro cuore
non valgono semplicemente l’impegno e l’urgenza della conversione se non si
trova coinvolto nello scenario interiore che essa comporta, se non vibra
all’emozione che la produce. Invece di riferire subito a noi l’impegno della
conversione, potessimo sentire, dalla parte di Dio, come possa scaturire dal
cuore la conversione, allora la liturgia di oggi parlerebbe in verità al nostro
cuore.
Nel capitolo 12 del vangelo di Luca
Gesù aveva invitato i discepoli a fuggire l’ipocrisia, a confidare in Dio, a
cercare il suo regno e a stare vigilanti indicandone, con un’immagine potente,
la ragione di fondo. Nel v. 37 Gesù rivela che sarà lui stesso che si metterà a
servire i suoi discepoli quando li trovasse vigilanti. Perché il nostro cuore
non coglie quasi mai questo servizio
suo, questo suo accudire a noi, questa sua premura nei nostri confronti?
L’urgenza e l’impegno della conversione derivano dalla percezione di questo suo
servirci.
Quando la gente cerca di ottenere da
Gesù la conferma di un senso plausibile alle crudeltà della storia (vedi
l’esempio dei Galilei uccisi da Pilato e degli altri periti in un incidente di
vita quotidiana), riceve una risposta paradossale. È assurdo pensare che, se io
sono risparmiato dal dolore, significa che ho Dio dalla mia parte! L’uomo non
ha alcun potere su Dio e quindi è perfettamente inutile che cerchi di avere Dio
dalla sua parte. Dio è già dalla sua parte, ma in un modo che non è scontato
vedere e vivere. L’esempio di Gesù è lì a evidenziarlo. Lui è l’Inviato di Dio,
Lui è la rivelazione dell’amore di Dio. Da come accogliamo Lui, accogliamo la
vita. Gesù è tutto teso a quel gridare: convertitevi!
Senza la conversione all’alleanza di Dio, di cui Lui costituisce il sigillo,
periremo tutti nel senso di non poter saziare il desiderio del nostro cuore e
di venire lasciati in balia delle nostre ossessioni, rendendoci la vita impossibile
gli uni contro gli altri.
La spiegazione della parabola assume
così il significato di introdurci al mistero della conversione. Sarà possibile
convertirci sulla base del buon volere
del contadino (=Gesù) che lavora la terra perché la pianta (=discepoli)
fruttifichi per il Padre. Quel buon
volere corrisponde ai sentimenti di compassione e di amore che Dio svela a
Mosè dal roveto ardente, come la prima lettura annuncia. È interessante
osservare che il brano dell’Esodo è introdotto dalla risposta di Dio al grido
di lamento del suo popolo sotto la schiavitù riassunta nell’espressione: “Dio guardò la condizione degli Israeliti,
Dio se ne diede pensiero”, espressione che nella versione della LXX suona:
“Dio si fece conoscere da loro” e nel testo ebraico: “Dio guardò e conobbe”.
Gli antichi commentatori ebrei spiegano: Dio previde che il suo popolo
l’avrebbe rigettato, ma lo volle liberare per amore del suo nome; Dio vide la
ribellione del suo popolo, ma anche che il suo popolo avrebbe proclamato: “Dio è
il mio Dio” (Es 15,2) e “Quanto ha detto il Signore, lo eseguiremo e vi
presteremo ascolto” (Es 24,7) allorquando il popolo professò l’impegno
incondizionato di obbedienza al suo Dio prima ancora di udire i comandamenti
che avrebbe ricevuto.
Il grido di Gesù: convertitevi! sale dalla profondità del
mistero di Dio rivelato a Mosè nel roveto ardente, che il salmo responsoriale,
il salmo 102, modula in mille sfumature. Dio confessa a Mosè: “Ho osservato la miseria del mio popolo in
Egitto … conosco le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo …”. In quel conosco le sue sofferenze si rivela
tutta la partecipazione dell’amore di Dio per le sue creature, tutta
l’accondiscendenza che lo muove nei confronti dell’uomo. Gli antichi
commentatori spiegano così i sentimenti di Dio: ‘io pure soffro come soffrono
loro … le loro pene mi riguardano; vedo anche le pene che non dicono, ma che
opprimono i loro cuori…’. E quando Mosè chiede a nome di chi dovrà presentarsi,
Dio risponde: “Io sono colui che sono! …
il Signore, Dio dei vostri padri, Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe
mi ha mandato a voi”. Il Nome di Dio esprime ciò che l’uomo di Lui può
sperimentare quando lo invoca, quando, avendolo invocato, ne coglie la
vicinanza e la sua potenza di liberazione e di favore. L’espressione,
misteriosa nella sua disarmante semplicità ‘Io sono colui che sono’ può voler
dire allora: ‘Io sono colui che sarò’; ‘Io sono là con voi come voi vedrete’;
‘io sono colui che tu vedrai quando invocandomi io ci sarò’; ‘chi io sia voi lo
saprete da quello che farò per voi’. Il nome di Dio non rinvia semplicemente
all’essere di Dio, ma al suo essere per noi. Tanto che Dio è sempre Dio di: Dio
di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe, Dio di Israele, Dio di Gesù Cristo,
Dio di ciascuno di noi… Così il popolo fa parte del nome di Dio, come Dio, El,
fa parte del nome del popolo, Isra-El. Nostro
o mio e unico in rapporto a Dio stanno sempre insieme. Tale è l’alleanza di
Dio con l’uomo. Tanto che, secondo la bellissima espressione di Origene, in questa alleanza che si rivela nel Nome di
Dio è sottesa tutta la dinamica della nostra crescita spirituale: “Magari
venisse concessa anche a me l’eredità di Abramo, Isacco, Giacobbe e divenisse
mio il mio Dio allo stesso modo che è diventato Dio di Abramo, Dio di Isacco,
Dio di Giacobbe, in Cristo Gesù, Signore nostro”.
Se il salmo 102 lo mettiamo in bocca
allo stesso Mosè, quante sfumature di senso si potrebbero cogliere! Lui può
comprendere quello che Gesù dice di sé nelle parole di benedizione dei credenti
che lo riconoscono come l’Inviato: “Benedetto
colui che viene nel nome del Signore”. La nostra lode al Signore è l’eco di
quella benedizione: “Benedici il Signore,
anima mia, quanto è in me benedica il suo santo nome”. Quando proclamiamo:
“Egli perdona tutte le tue colpe,
guarisce tutte le tue malattie… Buono e pietoso è il Signore, lento all’ira e
grande nell’amore”, noi intendiamo esprimere la scoperta del Nome di Dio
rivelato a Mosè sul Sinai. E ancora: quello che proclamiamo con il salmo 102
corrisponde alla preghiera dopo la comunione: “O Dio, che ci nutri in questa
vita con il pane del cielo, pegno della tua gloria”, vale a dire: quando ci
attrai alla comunione con te e con i fratelli e noi gustiamo il tuo perdono
nella capacità di condividerlo con tutti, allora scopriamo la dolcezza del tuo
Nome, allora portiamo frutti degni di conversione e tutta la nostra vita
risplende di un’altra luce. Proprio alla scoperta del Nome di Dio che si rivela
in Gesù ci rimanda l’invito evangelico: “Convertitevi!”.
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Quarto ciclo
Anno liturgico C (2012-2013)
Tempo di Quaresima
4a Domenica
(10 marzo 2013)
_________________________________________________
Gs
5,91.10-12; Sal 33; 2 Cor 5,17-21; Lc 15,1-3.11-32
_________________________________________________
Il mistero che s. Paolo proclama
essere il contenuto stesso della rivelazione (“Tutto questo però viene da Dio, che ci ha riconciliati con sé mediante
Cristo e ha affidato a noi il ministero della riconciliazione”) la parabola
del vangelo lo narra splendidamente.
Gesù risponde alle lamentele, che
diventano perfino accuse, dei farisei di fronte al suo agire: “I farisei e gli scribi mormoravano: Costui
riceve i peccatori e mangia con loro” (Lc 15,2). Non si davano pena dei
sentimenti di Dio come rivela il profeta Isaia: “Sion ha detto: "Il Signore mi ha abbandonato, il Signore mi ha
dimenticato". Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non
commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se costoro si
dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai” (Is 49, 14-15) Non si
ricordavano più il rimprovero che Dio aveva rivolto al profeta Giona per la sua
irritazione a causa della pianta di ricino seccata (cfr Gio 4,10-11).
Più che denominare la parabola ‘del
figlio prodigo’, dovremmo parlare di parabola ‘del padre misericordioso’ o ‘del
figlio ritrovato’. L’accento non è posto sul o sui figli, ma sul padre. La
parabola è costruita su tre personaggi: i due figli, il minore e il maggiore ed
il padre. I personaggi si caratterizzano tanto per i silenzi che per le parole
proferite. Possiamo notare subito che non esiste dialogo diretto tra i due
figli, ma solo tra i figli e il padre. Questa parabola, come le due precedenti
della pecora e della moneta ritrovate, finiscono sull’invito a condividere la
gioia del ritrovamento.
Le parabole, prima che di noi,
parlano di Dio, di Dio in rapporto a noi. Siamo a metà del cammino quaresimale
e la chiesa si interroga: come Dio agisce con i peccatori? Possono i peccatori
trovare salvezza? O, più direttamente: ha diritto alla gioia l’uomo peccatore?
In cosa consiste il segreto della gioia? Oppure ancora: come si riconosce la
vera devozione?
La risposta a questi interrogativi
si potrebbe riassumere così: nel partecipare ai sentimenti di Dio; nel prendere
parte alla gioia di Dio che vuole i suoi figli con lui. Ogni altro motivo del
proprio agire risulterebbe alla fine discriminatorio tra fratelli e quindi non
gradito a Dio. Non per nulla i due figli non si parlano mai direttamente, in
quanto il loro rapporto o deriva dalla condivisione dei sentimenti del padre e
sarà vicendevolmente benevolo oppure è corroso dalla gelosia tra loro e
rivelerà l’incomprensione dei sentimenti del padre.
La parabola è viva e rimane aperta.
Possiamo farci allora due domande. La prima: se la comunione con il padre resta
il segreto della felicità dei due figli, come si collocano rispetto ad essa? Il
figlio minore l’ha disprezzata e l’ha rotta; il figlio maggiore, che sembra
averla mantenuta, non l’ha però mai goduta e quindi in fondo anche lui la
disprezza. Tutti e due falliscono la loro felicità. Il padre tuttavia accoglie
entrambi, segue premuroso entrambi: come corre incontro al figlio minore che
torna pentito, così esce per convincere il figlio maggiore a partecipare alla
sua festa. La seconda: cosa sarebbe successo se il figlio minore, ritornato
pentito, si fosse stizzito per l’atteggiamento del fratello maggiore che non
poteva accettare quel trattamento di riguardo del padre a suo favore? Se avesse
preteso comprensione anche dal fratello maggiore, non sarebbe stato sincero nel
suo pentimento verso il padre. E se il figlio maggiore si fosse sentito
solidale con il padre nella sua gioia, avrebbe potuto rivendicare qualcosa per
sé? Evidentemente non si è mai trovato, insieme al padre, durante tutto il
tempo dell’assenza del fratello, a dire: ‘speriamo non gli capiti qualcosa di
irreparabile …”. Il punto è esattamente questo allora: stare solidali con il
padre, con la sua premura e la sua angoscia per poter godere della sua gioia.
In questa prospettiva, tutte le
annotazioni a proposito dei sentimenti del padre sono particolarmente preziose
perché rivelano la natura dell’amore di Dio per i suoi figli. Voglio rimarcare
solo due particolari. Del padre si dice che, vedendo da lontano il figlio che
tornava, ‘ebbe compassione’, vale a dire: si lasciò commuovere fin nelle
viscere. Quel movimento del cuore è così intenso che non lascia respiro al
figlio, nel senso che tutto quello che il figlio aveva da dire nella sua
vergogna non ha più bisogno di essere ascoltato perché il suo cuore l’ha già
accolto e ristabilito nella sua dignità, di nuovo erede di tutti i beni. Dietro
tutte le parole della Scrittura sta quello stesso movimento di compassione di
Dio per l’uomo; dietro le parole e l’agire di Gesù sta quello stesso movimento,
come spesso si annota nei vangeli (cfr Mt 14,14; 18,27; Mc 1,41; 6,34; 8,2; Lc
7,13; 15,20). La stranezza sta nel fatto che l’uomo può cogliere gli effetti di
quel movimento di compassione per lui proprio quando gli brucia la vergogna di
essersi perso. La conversione inizia con la coscienza di aver disprezzato la
sua dignità di figlio e di non meritarsi più nulla, senza però chiudersi in se
stesso. L’amore che si riceve non è dovuto, ma ‘sorprendente’.
Del padre si dice ancora che vuole
fare festa, che chiama alla festa ed esce per invitare anche il figlio maggiore
alla festa. Quella festa è però misteriosa. É la festa della grande cena per
gli invitati che non vogliono venire (Lc 14,15-24), la festa del banchetto di
nozze che il re vuole per il figlio (Mt 22,1-14). Ma soprattutto è la festa in
cui si uccide il vitello grasso. Come non pensare al ‘sacrificio’ del figlio
amato, inviato dal padre a riscuotere i frutti della vigna (Lc 20,9-19)? Così,
il far festa non richiama semplicemente alla gioia, ma alla gioia dell’amore di
Dio che vuole radunare i suoi figli e non teme di vedere il figlio
‘sacrificato’ perché l’amore deve rivelarsi in tutta la sua immensità. La gioia
ha a che vedere con l’esperienza di quell’amore sconfinato che solo permette di
attraversare il male senza restarne vittime e che in Gesù ha il suo testimone
per eccellenza.
§*§*§*§*§*§*§*§*§*§
Quarto ciclo
Anno liturgico C (2012-2013)
Tempo di Quaresima
5a Domenica
(17 marzo 2013)
_________________________________________________
Is
43,16-21; Sal 125; Fil 3,8-14;
Gv 8,1-11
_________________________________________________
Con quale sincerità e intensità
sarebbero risuonate sulla bocca di quella donna spiata, scoperta, strattonata,
minacciata, giudicata e poi lasciata sola perché potesse essere perdonata da
Gesù, le parole del salmo: “È stato
grande il Signore nell’agire con noi, siamo stati colmati di gioia” (Sal
125,3, secondo le antiche versioni greca e latina)! È da dentro questa gioia
inattesa, confusa, che si apre per il cuore uno spazio di intimità tutto nuovo,
secondo quella novità di cui parla il profeta Isaia: “Ecco, io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne
accorgete?... Il popolo che io ho plasmato per me celebrerà le mie lodi”
(Is 43,19.21). È lo spazio di una ritrovata dignità, che si percepisce dal tono
dolce con cui ci viene rivolta la parola in quella intimità di benevolenza con
cui veniamo accolti e che ci guarisce dal di dentro: “Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più”.
Il canto al vangelo “Ritornate a me con tutto il cuore, perché io
sono misericordioso e pietoso” introduce splendidamente al racconto
evangelico dell’adultera. L’espressione è del profeta Gioele 2,12-13, ma
riprende la rivelazione del nome di Dio a Mosè sul Sinai raccontata in Es 34.
Mosè aveva chiesto di vedere la gloria di Dio dopo il peccato del vitello
d’oro, contro il quale aveva spezzato le tavole che il Signore stesso aveva
tagliato e scritto. La rivelazione del nome di Dio ‘misericordioso e pietoso’
avviene nella tempesta di sentimenti scatenata dal peccato del popolo che Dio
avrebbe voluto distruggere, ma per il quale Mosè intercede trovando grazia agli
occhi di Dio. Dio è Dio perché è misericordioso e pietoso, ricco nell’amore,
esperienza che l’uomo realizza a fronte del suo peccato drammaticamente
riconosciuto. Quando Mosè ridiscende con le nuove tavole di pietra, si tratta
ormai delle tavole tagliate e scritte dallo stesso Mosè con le dieci parole
rivelate. Tra il comandamento e il cuore c’è ormai una specie di distanza,
essendo il comandamento avvertito come imposto, distanza che con la nuova
alleanza ad opera di Gesù si sarebbe dissolta.
Nell’antica colletta preghiamo:
“Vieni in nostro aiuto, Padre misericordioso, perché possiamo vivere e agire
sempre in quella carità, che spinse il tuo Figlio a dare la vita per noi”.
All’inizio (forse è meglio dire: lungo il percorso della nostra vita), ancora
confusi per il nostro peccato, non riusciamo a sentire l’amore che ci viene
donato, non siamo ancora in grado di rispondere a quell’amore con il
cambiamento dei nostri comportamenti. Ma la percezione della dignità ritrovata
costituisce il punto di partenza nuovo. Tutto ciò che di male abbiamo commesso,
se lo mettiamo davanti al Signore Gesù, resta scritto sulla polvere. Soltanto
però il male riconosciuto, quello che non viene taciuto o giustificato, resta
scritto sulla polvere! Quello che non è riconosciuto, che si mantiene nascosto,
che si annida nelle rivendicazioni irose o latenti, resta in cuore e impedisce
la scoperta della benevolenza di Dio. Tutti gli accusatori della donna se ne
devono andare perché, effettivamente, non sono così stupidi da immaginare di
essere senza peccato. Ma essi non hanno potuto fare esperienza della
benevolenza di Dio.
Gesù ridà senso al dramma del
peccato. Il peccato non è una semplice trasgressione della legge né una
questione personale di inclinazioni o scelte. La posta in gioco è assai più
alta, ma senza l’esperienza della benevolenza perdonante del Signore non si esce
dal tranello che i farisei avevano preparato a Gesù: se si pronuncia per
l’assoluzione, va contro la legge; se approva la condanna, va contro l’immagine
di Dio che va predicando, con la conseguenza che allora è un falso nuovo
profeta, non è degno di credito. Con il peccato non è in gioco semplicemente la
nostra vera o supposta rettitudine, bensì la nostra fiducia nella promessa di
Dio per noi. Se l’uomo viene condannato per il suo peccato, gli si impedisce di
credere alla promessa di Dio per lui; e lo stesso avviene se il peccato è
banalizzato. Il peccato, riconosciuto da dentro una relazione col proprio Dio,
diventa la porta della grazia.
La logica interiore di questa
esperienza è ben descritta da Paolo, nella lettera ai Filippesi: “ritengo che tutto sia una perdita a motivo
della sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore. ... So soltanto
questo: dimenticando ciò che mi sta alle spalle e proteso verso ciò che mi sta
di fronte, corro ...”. Non puoi non tendere a ciò da cui è venuto per te il
senso della tua dignità. Non puoi più stare riverso sul tuo passato, ormai
abbandonato alla polvere: non puoi che guardare al futuro di Dio che viene a te
nella condivisione del suo progetto di bene e di salvezza per gli uomini.
L’inganno che può ancora nascondersi
nelle pieghe dell’anima resta ormai quello di ‘dimenticare’ il proprio peccato
e perdere così la solidarietà con i nostri fratelli peccatori. Il segno di tale
dimenticanza è ravvisabile nel momento in cui mi difendo dai miei fratelli,
rivendico qualcosa a Dio contro i miei fratelli. Ciò significa che la
benevolenza di Dio è diventata per me un diritto e quindi ha perso tutta la
profondità dell’intimità con cui mi era stata rivolta. Non per nulla s.
Cipriano ricorda, nel suo commento al Padre Nostro, che all’invocazione
‘rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori’, la
prima cosa che domandiamo non è la generosità per essere capaci di perdonare,
ma la coscienza di essere peccatori, bisognosi noi di misericordia. Sentendoci
peccatori, non abbiamo titoli per avanzare diritti e possiamo sperimentare in
tutta la sua dolcezza il perdono di Dio.
Come invoca la colletta: “ … perdona
ogni nostra colpa e fa’ che rifiorisca nel nostro cuore il canto della
gratitudine e della gioia”, il segno dell’esperienza della benevolenza di Dio è
dato dalla gratitudine e dalla gioia che costituiscono l’humus interiore del
cuore che si conosce peccatore perdonato, perdonato davanti a Dio, peccatore
davanti al prossimo. E allora si realizza quello che l’antica colletta
domandava: “ … possiamo vivere e agire sempre in quella carità, che spinse il
tuo Figlio a dare la vita per noi”.
§*§*§*§*§*§*§*§*§*§
Quarto ciclo
Anno liturgico C (2012-2013)
Tempo di Quaresima
DOMENICA DELLE PALME E DELLA
PASSIONE DEL SIGNORE
(24 marzo 2013)
_________________________________________________
Lc
19,28-40 // Is 50,4-7; Sal 21;
Fil 2,6-11; Lc 22,14-23.56
_________________________________________________
Con la liturgia delle palme si dà
inizio alle celebrazioni della Settimana Santa. Un sentimento di esultanza, di
euforia quasi, introduce agli avvenimenti pasquali: Gesù entra trionfalmente in
Gerusalemme acclamato da ali festanti di discepoli. Presto l’euforia cederà il
passo alla paura, al tradimento. E quando tutto sembrerà ormai definitivamente
cancellato nel silenzio della morte, risuonerà ancora un grido di gioia la
domenica di Pasqua, ma questa volta senza nessuna euforia, come strappato a
forza, trasfigurante nella sua assoluta imprevedibilità. Sarà il grido, non che
vince la morte, ma che l’attraversa, che l’assume, che la libera dai suoi
confini mondani aprendola allo splendore del mistero di Dio.
Tutti i vangeli riportano il solenne
ingresso di Gesù in Gerusalemme, nell’ottica del compimento della profezia di
Zaccaria, unico testo messianico dove il Messia è umile: “Esulta grandemente, figlia di Sion, giubila, figlia di Gerusalemme!
Ecco, a te viene il tuo re. Egli è giusto e vittorioso, umile, cavalca un
asino, un puledro figlio d’asina” (Zc 9,9). L’accentuazione di Luca cade
sulla ‘regalità’ di Gesù, con le allusioni alla consacrazione di Salomone (cfr
1Re 1,33-40) e alla proclamazione di Ieu re di Israele con lo stendere da parte
dei grandi i mantelli per terra (cfr 2Re 9,13), regalità che la liturgia latina
sottolinea con la solenne processione.
È assolutamente significativo che
Gesù accolga il riconoscimento del suo essere re soltanto a partire da questo
ingresso in Gerusalemme che introduce la sua passione. Nel racconto di Luca
Gesù aveva puntato diritto a Gerusalemme nel corso del suo ministero. Quando
sta per entrarvi, i discepoli lo acclamano festosi pensando evidentemente altra
cosa rispetto a quello che ha in mente lui, pur sottolineando comunque
È curioso osservare che l’esultanza
dei discepoli richiama l’esultanza degli angeli a Betlemme: la proclamazione
della pace, dono di Dio all’umanità, là annunciata, qui si delinea in tutta la
sua drammaticità, senza che alcuno ancora se ne renda conto, eccetto Gesù.
Forse, la sua risposta ai farisei, sorpresi e intimoriti per le possibili
conseguenze di fronte all’occupante romano: “Io vi dico che, se questi taceranno, grideranno le pietre”, allude
al ‘giudizio’ della storia nella tragedia della prossima distruzione di
Gerusalemme. Gesù si rivolge alla città, piange su di essa, la richiama a
riconoscere la visita del suo Dio. Già altre volte Gerusalemme era stata
richiamata dai profeti a leggere gli avvenimenti tragici nell’ottica della
storia con il suo Dio.
La liturgia si fa carico di
mostrarci tale drammaticità, subito dopo la solenne processione, con la
colletta: “Dio onnipotente ed eterno, che hai dato come modello agli uomini il
Cristo tuo Figlio, nostro Salvatore, fatto uomo e umiliato fino alla morte di
croce …”. Non c’è più ombra dell’esultanza di prima. Viene letto il terzo canto
del Servo del Signore del profeta Isaia: “Ho
presentato il mio dorso ai flagellatori ... non ho sottratto la faccia agli
insulti e agli sputi”. Si canta il salmo 21: “hanno scavato [forato] le mie
mani e i miei piedi... Si dividono le mie vesti”. S. Paolo canta la figura
di Gesù nella sua passione d’amore per gli uomini: “… svuotò se stesso assumendo una condizione di servo ... umiliò se stesso
facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce”. E viene
proclamato solennemente il racconto della passione di Gesù.
Proprio su questo Gesù la chiesa
invita a fissare gli sguardi, in tutta la potenza della sua rivelazione quanto
all’amore di Dio per gli uomini. Quanto sono preziosi gli uomini per lui!
Quanto può essere rivoluzionata la vita se vissuta dentro e a partire dal suo
amore! Quando la colletta ci propone l’immagine di Gesù umiliato non è per
suggerirci un modello di umanità sofferente. Gesù resta modello perché, per
realizzare la nostra vocazione all’umanità, non possiamo non rifarci a lui che
di questa umanità ha svelato tutta la bellezza nel suo stare fedele in
comunione con Dio, dalla parte degli uomini ed in comunione con gli uomini,
dalla parte di Dio. E la sua bellezza traspare proprio nel momento in cui,
sfigurato dal dolore e calpestato, non rinnega l’alleanza di Dio ed apre, per
lui e per tutti, la promessa di una vita inattaccabile dalla morte. Ed è la sua
bellezza a generare speranza, quella di cui il mondo oggi, come sempre, ha
tremendamente ed urgentemente bisogno.
§*§*§*§*§*§*§*§*§*§
Quarto ciclo
Anno liturgico C (2012-2013)
Tempo di Pasqua
Pasqua di Risurrezione del Signore
(31 marzo 2013)
_________________________________________________
At
10, 34a. 37-43; Sal 117; Col 3, 1-4; Gv 20, 1-9
_________________________________________________
Aveva introdotto le celebrazioni del
triduo sacro la messa del crisma, che sottolinea l’unità della chiesa attorno
al suo vescovo che consacra il sacro crisma con cui i candidati al battesimo e
alla cresima verranno unti, per essere testimoni nel mondo dello splendore del
nome di Cristo.
La cena del Signore del giovedì
santo, incastonando l’istituzione dell’eucaristia e del sacerdozio con il
sacramento del servizio attraverso il rito della lavanda dei piedi, ha
celebrato il mistero della comunione con Dio e tra gli uomini, scopo supremo
dell’agire del cuore, profumo della conoscenza del Cristo. La proclamazione
della passione del Signore e l’adorazione della croce il venerdì santo hanno
rivelato l’intimità e la tenacia dell’amore di Gesù per gli uomini, colte nel
mistero della sua obbedienza fino alla morte di croce. Con la conseguenza: se
il Figlio di Dio non ha preferito nulla a noi, come possiamo noi preferire
qualcosa a Lui?
Il sabato santo trascorre nel
silenzio liturgico in attesa della solenne veglia pasquale che annuncia la
restituzione ai discepoli del loro Signore, il Vivente, con i segni indelebili
nel corpo della sua passione salvatrice. Il senso specifico di tutte le letture
della grande veglia pasquale mi sembra quello di collocare e leggere la nostra
storia personale dentro la grande storia d’amore di Dio per i suoi figli di cui
sentiamo narrare le gesta, storia che in Gesù, annunciato dai profeti, si fa
esperibile per noi. Tutta la veglia pasquale è imperniata sulla ‘luce’, la luce
del Signore risorto che arriva ad accendere i nostri cuori. Abbiamo così
bisogno di una luce calda, amica, tenera, per vedere la vita e le sue angosce!
La liturgia tende proprio a infondere nei cuori la sovrabbondanza della luce
amica, calda, del Signore Gesù che è il Dono di Dio per la nostra umanità.
Se viva è stata la compassione per
l’Uomo dei dolori, prorompente sarà la gioia per la notizia della risurrezione
del Signore. È una notizia certa, ma non evidente. È una notizia vera, ma non
apodittica. Quella notizia ha bisogno di tempo per apparire in tutta la sua
potenza, per convincere i nostri cuori e scoprir loro la sorgente di gioia
inesauribile che costituisce. Ha bisogno di spazi per espandersi, ha bisogno di
condivisione per rafforzarsi, ha bisogno di testimonianze per risplendere. Sono
i tempi della chiesa, gli spazi dell’umanità, la condivisione e le
testimonianze dei credenti, perché i nostri cuori finalmente si convincano a vedere e a riconoscere il Signore Gesù in tutta la sua bellezza, morto e
risorto per noi.
Così esulta la chiesa nell’inno
pasquale: “Irradia sulla tua Chiesa la
gioia pasquale, o Signore, unisci alla tua vittoria i rinati nel battesimo”.
La gioia, quella vera, stabile, agognata, non può che essere pasquale; non solo
nel senso che ci deriva dall’evento della Pasqua del Signore, che rende nota al
cuore dell’uomo la motivazione inconfutabile della possibilità ritrovata di
essere nella gioia, ma anche nel senso che la gioia è strettamente correlata al
dramma, alla fatica, alla fedeltà di un amore che svela il mistero stesso della
vita e che si esprime nel suo rivelare la potenza d’intimità con il Padre,
autore della vita. Gioia che per noi si risolve nel dolce perdono che Gesù ci
riversa: “Tu, o Cristo, sei il nostro dolce perdono. Fa’ che di Te in ogni
istante io mi sappia rivestire e non abbia potere su di me la miseria con cui
mi vedo e mi sento. Con le tue ferite risanami, che io respiri e viva del tuo
sguardo verso il Padre. Nelle tue piaghe nascondimi, che il sentimento della
mia malinconia non si erga a obiezione della tua grandezza. Lasciami entrare
nel tuo cuore, che io mi avvolga della sua benevolenza e mi faccia rinascere,
finiti i terrori della notte, al mattino della tua presenza”.
Accenno solo a un particolare del
brano evangelico che viene proclamato nella messa del giorno di Pasqua.
Giovanni parla della pietra tolta via dal sepolcro per sottolineare, in questo
Giorno della Risurrezione, che viene tolto l’ultimo impedimento alla vista,
alla visione, come poi il brano dirà a proposito del discepolo entrato nel
sepolcro. L’episodio dei due discepoli che corrono al sepolcro lo conferma in
una tensione crescente per giungere, alla fine, alle straordinarie parole: “Allora entrò anche l’altro discepolo, che
era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette”. È come una richiesta
che viene sussurrata al cuore dei possibili lettori del vangelo, la richiesta
di avanzare nella conoscenza del mistero, di salire fino all’intelligenza della
risurrezione che viene svelata poco a poco: “Vide e credette”. La tensione del racconto punta qui. Un invito per
noi alla gioia della sua conoscenza perché profumi la nostra vita e ne
manifesti lo splendore. Possiamo tutti essere custoditi e accompagnati dalla
tenacia dell’amore del Signore per noi, che, come ha promesso: “ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino
alla fine del mondo”.
Il Signore è risorto! È davvero
risorto!
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Quarto ciclo
Anno liturgico C (2012-2013)
Tempo di Pasqua
II Domenica
(7 aprile 2013)
_________________________________________________
At
5, 12-16; Sal 117; Ap 1, 9-11.12-13.17.19; Gv 20, 19-31
_________________________________________________
Se entriamo nella liturgia di oggi
con l’attestazione dell’identità del Risorto secondo le parole di Giovanni
nell’Apocalisse, tutto si carica di risonanze straordinarie. Il Figlio d’uomo
che compare in visione a Giovanni si presenta con queste parole: “Non temere! Io sono il Primo e l’Ultimo e il
Vivente. Ero morto, ma ora vivo per sempre e ho le chiavi della morte e degli
inferi”. Parole che la colletta riprende: “O Padre, che nel giorno del
Signore raduni il tuo popolo per celebrare colui che è il Primo e l’Ultimo, il
Vivente che ha sconfitto la morte, donaci la forza del tuo Spirito, perché,
spezzati i vincoli del male, ti rendiamo il libero servizio della nostra
obbedienza e del nostro amore, per regnare con Cristo nella gloria”.
Quelle parole non attestano
semplicemente la verità personale del Risorto, ma la dinamica di rivelazione
dell’amore di Dio ai suoi figli che Gesù ha mostrato in tutto il suo splendore.
Se quelle parole le mettiamo in bocca a Gesù che vediamo parlare e agire nei
racconti evangelici, allora la sfumatura di significato risulta: io, che sono
il Primo, mi sono fatto ultimo, servo di tutti e perciò sono pieno della vita
di Dio, che è amore per voi. Così voi, se vi fate servi di tutti, sarete
innestati in colui che è Primo e godrete della vita che a lui appartiene.
Chiedere la forza del suo Spirito è chiedere di essere innestati nella potenza
di questa rivelazione. Quando il Risorto afferma che lui ha le chiavi della
morte significa che con lui la morte non agisce più, morte intesa nel senso di
mortificazione dell’amore che è vita di Dio per noi. Qui si ricollegano le
parole evangeliche della vite e dei tralci, del rimanere in lui, dell’osservare
la sua parola per essere custoditi nell’amore, ecc. E qui ricollego anche
l’attestazione del profeta Isaia a proposito di Dio: “Io, il Signore, sono il primo e io stesso sono con gli ultimi” (Is
41,4).
Se la liturgia pasquale proclama
insistentemente: “eterna è la sua misericordia”, ciò significa non soltanto che
Dio sarà eternamente fedele alla sua misericordia, che la sua misericordia
durerà per sempre, ma soprattutto che, essendo la sua misericordia
dall’eternità, si trova alle origini del nostro mondo, ne racchiude il senso e
il mistero fino alla fine, finché il mondo sussisterà. Quella verità ha a che
vedere con l’attestazione che lui è il Primo e si è fatto ultimo per dare la
vita. E’ il servizio di Dio all’umanità, che Gesù mostra nel suo splendore e
che noi uomini stentiamo così tanto a riconoscere. E quando Gesù si presenta a
Tommaso con l’indicare le sue cicatrici vuole mostrargli quella verità e
Tommaso, al di là della sua ostentata incredulità, si situa in quella verità
con la sua sussurrata e potentissima confessione di fede: mio Signore e mio
Dio! E’ l’unica volta nei vangeli che Gesù è chiamato direttamente Dio.
Il racconto dell’apparizione a
Tommaso fa accedere alla nostra condizione di non vedenti chiamati a credere
per vedere. Tommaso non è un pavido, un insicuro. Le altre due volte che il
vangelo di Giovanni parla di Tommaso ce lo presenta come un uomo generoso,
pronto ad andare a morire con Gesù. Il suo dubbio procede da un cuore che ha
preso molto sul serio la vicenda di Gesù. Quando Gesù, ricomparendo, gli dice
di mettere la mano nel costato e nelle cicatrici, non ha bisogno di ricredersi
o di scusarsi: è tutto teso a quel Signore che ha sempre voluto seguire e che
ora riconosce per davvero "mio Signore e mio Dio", la più solenne
professione di fede del vangelo di Giovanni e, nello stesso tempo, la più
intima delle professioni. In quel mio, c'è tutto l'anelito del suo cuore, la
sua appassionata esperienza di lui; in quel Signore e Dio, c'è tutta la
rivelazione di Gesù al suo cuore, l’intelligenza di tutte le Scritture.
La sua esclamazione ricalca quella
di Maria Maddalena: “Hanno portato via il
mio Signore” (Gv 20,13) e quella di Gesù: “Salgo al Padre mio e Padre vostro, al Dio mio e Dio vostro”
(20,17). Non solo, ma in essa si avverte la risposta alla domanda che
nell’ultima cena l’apostolo Giuda aveva rivolto a Gesù: “Signore, come è accaduto che devi manifestarti a noi, e non al mondo?”
(Gv 14,22). Gesù si rende presente a coloro che lo amano, non si manifesta al
mondo: questo è il mistero da accogliere. In effetti, Tommaso riceve la
rivelazione del Signore risorto dentro
la comunità degli apostoli, divenuta il luogo della sua manifestazione nel
mondo a partire dall’amore che gli apostoli esprimono al loro Signore e tra di
loro, come segno della vita nuova ricevuta con il dono dello Spirito. È caratteristico
che la conoscenza del Signore, ormai, non si riferisca più alla modalità con
cui i discepoli hanno conosciuto Gesù nella sua storia terrena, ma si riferisca
all’esperienza della sua presenza tra loro come Messia crocifisso (con le
cicatrici sul corpo), nella pace che rassicura e accompagna nelle difficoltà
dell’impegno nel mondo. La sua presenza è esperita a partire dalla comunità dei
credenti, che diventano testimoni e nello stesso tempo donatori al mondo della possibilità della visione del Signore.
Gesù aveva promesso nell’ultima
cena: “Ancora un poco e il mondo non mi
vedrà più; voi invece mi vedrete, perché io vivo e voi vivrete. In quel giorno
voi saprete che io sono nel Padre mio e voi in me e io in voi” (Gv
14,19-20). E quando rimprovera Tommaso gli dice: “Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto
e hanno creduto!”. Eppure, tutti i credenti sono chiamati a vedere il loro
Signore. La visione, però, deriva ormai dallo sperimentare la vita che egli
comunica, vita che diventa nostra praticando il suo comandamento e accogliendo
il suo amore. Qui si innesta la missione di cui ci fa portatori il Signore: “Pace a voi! Come il Padre ha mandato me,
anche io mando voi”. La pace che dà il Signore è quella per la quale gli
apostoli sono inviati nel mondo, per la quale viene loro dato lo Spirito Santo
in modo che l’innocenza ottenuta da Dio e con Dio confermi la fraternità degli
uomini, segno dello splendore della presenza di Dio ormai riconosciuto.
Una domanda risuona insistente nella
liturgia bizantina di oggi a proposito dell'audacia di Tommaso: come poté
toccare e non restare bruciato? “O straordinario prodigio! Il fieno ha toccato
il fuoco ed è rimasto indenne. Tommaso ha infatti messo la mano nel costato
igneo di Gesù Cristo Dio e non è stato bruciato da questo contatto…”; “Chi
impedì che la mano del discepolo si fondesse quando l’accostò al fianco
infuocato del Signore? Chi le diede l’ardire e la forza di tastare ossa
fiammeggianti? Fu il costato stesso che egli toccò. Se quel costato non avesse
trasmesso il potere a una destra di fango, come avrebbe potuto toccare il segno
dei patimenti che avevano scosso le regioni superiori e inferiori?”. La
liturgia drammatizza un evento per mostrarcene il mistero. Da parte di Tommaso
non si tratta di un semplice ‘riconoscimento’, come da parte nostra non si tratta
di un semplice riconoscere vera la risurrezione di Gesù. Siamo coinvolti in
modo molto più profondo e misterioso.
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Quarto ciclo
Anno liturgico C (2012-2013)
Tempo di Pasqua
III Domenica
(14 aprile 2013)
_________________________________________________
At
5, 27b-32. 40b-41; Sal 29; Ap 5, 11-14;
Gv 21, 1-19
_________________________________________________
Il brano di vangelo di oggi chiude
il vangelo di Giovanni. Sembra quasi un’appendice, che racchiude però un alto
valore simbolico, soprattutto se incentriamo l’attenzione sull’apostolo Pietro.
Nel vangelo di Giovanni, il primo incontro di Gesù con Pietro viene narrato in
1,42 quando Gesù gli dice: “Tu sei
Simone, il figlio di Giovanni; sarai chiamato «Cefa» – che significa Pietro”.
Nel corso della narrazione evangelica viene sempre denominato Simon Pietro o
Pietro. Solo alla fine, di nuovo, Gesù lo chiama: “Simone, figlio di Giovanni ...” per tre volte. Perché? Sembra che
Pietro, con tutto l’amore che porta al suo Maestro, abbia ancora bisogno di
qualcosa di essenziale, di decisivo, per realizzare quello che il nome, Pietro,
impostogli da Gesù, significa per lui e per la comunità dei suoi fratelli.
Gesù lo chiama con il vecchio nome
rammentandogli l’amore che gli ha sempre protestato senza però essere stato
capace di viverlo fino in fondo. Nell’ultima cena aveva protestato: “Signore, perché non posso seguirti ora? Darò
la mia vita per te!” (13,37) e poi, nella stessa notte, l’aveva rinnegato
tre volte. Ma Giovanni non dice nulla del suo pentimento, come gli altri
evangelisti hanno annotato: “E, uscito
fuori, pianse amaramente” (Lc 22,62). Sembra che Pietro conservi ancora
qualcosa dell’antico discepolo del Battista, almeno nella sua visione
messianica su Gesù, il Messia che avrebbe stabilito il regno di Dio, come
d’altronde fa fede la sua prontezza nel difendere Gesù con la spada nell’orto
degli ulivi e nella volontà di seguirlo fin dentro il cortile del sommo
sacerdote. Pietro ha sempre preteso giocare un ruolo di primo piano per la sua
generosità nella sequela del Maestro – cosa che Gesù e gli altri compagni gli
riconoscono. Quando vuole uscire a pescare, e gli altri compagni lo seguono,
lavora invano. Invece, quando si presenta Gesù sulla spiaggia e gli dice di
gettare le reti alla destra della barca, la pesca è oltremodo sovrabbondante.
Ma lui non capirà se non dopo il colloquio con Gesù: “Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di costoro?”. Era chiaro a
tutti che Pietro amava il Signore più di tutti per la sua impetuosità, ma ora
Pietro non lo può più riconoscere perché era stato l’unico a rinnegarlo. E
quando, la terza volta, Gesù gli dice: “Simone,
figlio di Giovanni, mi vuoi bene?” Pietro non può che restare addolorato
perché evidentemente si rendeva conto della sua posizione e, finalmente
conquistato alla nuova modalità di sequela che Gesù esigeva, risponde
affidandosi: “Signore, tu conosci tutto;
tu sai che ti voglio bene”.
Solo ora la sua sequela diventa
quella voluta da Gesù. Qui avviene la trasformazione definitiva di Pietro. In
effetti, per l’apostolo, non si tratta semplicemente di dare la vita per Gesù –
cosa che può avvenire anche dentro una visione delle cose mondana o ideologica!
- ma di darla condividendo i suoi segreti, il suo sentire, la sua modalità di
azione nel mondo perché tutti abbiano la vita. Potremmo anche interpretare:
“Signore, non sono degno del tuo amore, e del mio non posso fare gran conto, ma
tu conosci il mio cuore, tu sai che ti vuole bene”. Quando un uomo professa il
suo amore come balbettando, appena sussurrando, vuol dire che il suo amore va
oltre ogni forma di orgoglio o di pretesa e sarà immune dal tarlo del
predominio, sotto qualsiasi forma si cerchi: in quell’amore c’è tutto il suo
cuore perché si fida totalmente dell’accoglienza dell’altro. E non ha da
esibire altro di sé. E quando l’amore è di tal fatta, allora può assumere il
compito pastorale in nome del Signore: “Pasci
le mie pecore”. A tutti verrà inviato, di tutti si prenderà cura, e di gran
cuore, perché tutti e ciascuno appartengono a quel Signore, il cui amore l’ha
conquistato e l’amore per il quale costituisce il vero obiettivo del suo
interessamento per tutti perché tutti lo riconoscano e trovino riposo. Gesù può
predirgli tranquillamente il suo martirio: l’intimità goduta, finalmente, non
sarà più insidiata, così come è avvenuto per Gesù.
Allora avverrà, nelle afflizioni o
nelle persecuzioni, come riporta la prima lettura, di essere “lieti di essere stati giudicati degni di
subire oltraggi per il nome di Gesù”, con l’allusione al fatto che la
letizia nella persecuzione rivela la dignità ottenuta dall’anima, dignità che
si esprime nel suo splendore quando gli altri la calpestano e non viene meno. E
non è un fatto personale, ma ecclesiale. Vale a dire: non è in gioco la virtù
di una persona, ma la fede, una fede condivisa dentro uno stesso progetto di
vita e di missione evangelica per il mondo. L’obbedienza è così dovuta a Dio
prima che agli uomini e comporta appunto la condivisione del segreto di Dio per
gli uomini nell’amore che ha mosso Gesù e che perdura nei suoi discepoli. Nel
brano evangelico il pasto comune dopo la pesca miracolosa comporta due
‘offertori’ di sapore eucaristico: c’è il pesce preparato prima da Gesù e il
pesce portato dai discepoli. Vi si può ravvisare il dono di Gesù ai suoi e il
dono degli uni agli altri nell’amore che risponde a quello di Gesù.
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Quarto ciclo
Anno liturgico C (2012-2013)
Tempo di Pasqua
IV Domenica
(21 aprile 2013)
_________________________________________________
At
13, 14. 43-52; Sal 99; Ap 7, 9. 14-17; Gv 10, 27-30
_________________________________________________
Le ultime domeniche del tempo
pasquale sono tutte incentrate sulla comunità dei discepoli unita attorno al
suo Signore, testimone del suo amore, pervasa dalla gioia dello Spirito Santo,
in missione apostolica nel mondo fino alla fine dei tempi. La liturgia di oggi
ruota attorno all’immagine del gregge e del suo pastore, tema del cap. 10 di
Giovanni, insistendo sul fatto che la comunità è unita saldamente al suo
pastore, che non può essere dispersa, che possiede ormai la vita dal suo
Signore, per cui vive.
Gli ascoltatori sono divisi nei
riguardi di Gesù: è vero, le sue parole suonano piuttosto strane, ma sono
proferite da uno che ha guarito un cieco dalla nascita (cap. 9) e che è capace
di ridare la vita a un morto (cap.
Gli uomini sono sempre in ricerca e
si accorgono della stranezza di Gesù.
Non potrebbe parlare più chiaramente?, pensa il gruppo dei Giudei che lo
attornia. Ma appena Gesù risponde, l’incertezza si trasforma in avversione e
rifiuto. È vicino il dramma finale. Il punto centrale può essere espresso in
questi termini: voi non mi potete capire perché non volete essere dalla mia parte;
voi vi appellate a Dio per respingermi, ma è proprio lui che mi ha inviato a
voi e se non accogliete me non potete nemmeno capire quanto è grande il suo
amore per voi. Invece, chi mi ascolta, è perché mi appartiene, conosce in
verità la grandezza dell’amore di Dio e nessuno potrà privarlo di questa
certezza, nessuno potrà dividerlo da me. Come nessuno ha potuto rapire Gesù
dalle mani del Padre, nonostante tutto congiurasse contro questa fedeltà del
Figlio al Padre suo, soprattutto nel dramma della passione e della morte in
croce, così nessuno potrà rapire i discepoli di Gesù dalle sue mani, per quanto
si scateni la violenza degli avversari. Non si fa parte del gregge per pregi o
meriti, ma per accoglienza. Tanto che Gesù non dice: “Le mie pecore ascoltano
la mia parola”, ma “Le mie pecore
ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono”. Si ascolta la
voce, prima ancora di quello che questa voce proferisce, quando si è accolta
l’intimità amichevole di una persona e il cuore, a partire dal dono di
quell’intimità, si dispone ad accogliere anche quello che la voce dice (=mi
seguono).
In effetti, l’unico impedimento
risulta essere quello di giudicarsi non degni della vita eterna, come dicono
Paolo e Barnaba ai convenuti in sinagoga ad Antiochia: “… poiché la respingete e non vi giudicate degni della vita eterna ...”
(At 13), come se la vita eterna scaturisse da qualche nostro merito o pregio.
Il dramma dell’uomo consiste proprio in un giudizio cattivo su di sé, che
nasconde un cattivo giudizio su Dio: non ci si ritiene degni dei misteri di
Dio! Quando l’uomo non accoglie umilmente questa dignità si fa violenza e la eserciterà su tutti: sarà preda del
tormento della morte. E il mondo è prostrato dagli effetti di questo tormento.
I discepoli invece sono “pieni di gioia e
di Spirito Santo” perché partecipano all’opera dello Spirito Santo che è
l’edificazione di un’umanità con un cuor
solo e un’anima sola. La partecipazione al mistero stesso della vita di Dio
e in Dio non dipende minimamente da quello che fa il mondo o da quello che ci
fa il mondo.
Quando cantiamo con il salmo
responsoriale: “noi siamo suo popolo,
gregge che egli guida”, non vogliamo dire che siamo semplicemente quelli
che lui guida individualmente, ma che siamo coloro che hanno in lui una stessa
vita e fanno risplendere la fraternità nel mondo come espressione della
rivelazione del Padre ai loro cuori. Riconoscere, con il salmo: “egli ci ha fatti” significa proclamare
tutta la dignità dell’uomo di cui il gregge del Signore, che noi siamo, ha la
responsabilità, in questo mondo, di far risplendere nella sua bellezza.
Dignità, che è riservata a tutti e che tutti condivideranno nel regno dei
cieli, ma che qui, nel mondo, i discepoli del Signore custodiscono per sé e
difendono in tutti. La dignità dell’uomo non è basata sull’uomo, ma chi ne ha
conosciuto per esperienza di fede il segreto, in Gesù, è chiamato a custodirla
per tutti finché a tutti venga svelata.
In questa luce le parole di Gesù
risuonano in tutta la loro densità. Gesù è amato dal Padre perché dà la sua vita per le pecore (Gv 10,17)
e questo comporta il suo dare la vita
eterna (10,28), vale a dire la vita come espressione di un amore che non
cede davanti a nulla e che diventa la radice di vita di coloro che da lui
l’accolgono. Se aggiunge che nessuno strapperà le pecore a lui affidate vuol
dire che per quanto si scateni il male contro di loro, all’interno e
all’esterno, non verrà meno la percezione di quello che Gesù dirà nell’ultima
cena: “Se uno mi ama, osserverà la mia
parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso
di lui” (Gv 14,23). Anche per noi, uniti a Gesù, varrà quello che lui dice
di sé a conferma delle sue parole: “Io e
il Padre siamo una cosa sola”, perché: “le
mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono”. Da
intendere secondo questi tre passaggi:
1) ‘le mie pecore ascoltano la mia
voce’: non semplicemente ascoltano quello che dice, ma riconoscono che quello
che dice viene da Dio. Sentono che la sua parola e la sua vita confermano tutte
le parole della Scrittura e ne svelano il mistero;
2) ‘io le conosco’: vedendo
l’intimità tra lui e il Padre, le pecore si sentono conosciute, cioè amate e cercate da lui. Il movimento di amore di
Dio per l’uomo riguarda tutti e perciò dire ‘io le conosco’ comporta la
sfumatura di senso: io conosco tutti, ma di quella conoscenza che fa godere
l’intimità con lui sono capaci solo le pecore che si lasciano raggiungere,
portare in spalla, come la parabola della pecorella perduta dirà. Ne consegue
che chi non accetta questo, si trova come escluso dalla sua conoscenza e
proprio perché escluso non può sentirsi amato;
3) ‘esse mi seguono’: solo lui può
mostrare il segreto di Dio in tutta la sua estensione e bellezza. In gioco è
sempre la disponibilità alla fede e la fede si gioca nell’accogliere il mistero
di accondiscendenza di Dio, per l’uomo, in Gesù, rivelatore del Volto del
Padre.
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Quarto ciclo
Anno liturgico C (2012-2013)
Tempo di Pasqua
V Domenica
(28 aprile 2013)
_________________________________________________
At
14, 21-27; Sal 144; Ap 21, 1-5; Gv 13, 31-33. 34-35
_________________________________________________
Tutta la liturgia di oggi ruota
attorno all’aggettivo nuovo.
L’ingresso segnala il canto nuovo, la
colletta il fatto che Dio, nel suo Figlio, rinnova
gli uomini e le cose, l’Apocalisse rivela: “Ecco,
io faccio nuove tutte le cose”, il canto al vangelo e il vangelo: “Vi do un comandamento nuovo”, l’antifona
dopo la comunione parla di vita nuova.
Ora, più si coglie la novità che
Gesù vive nella sua umanità nel rapporto con il Padre e con noi, più noi
potremo vivere di quella novità nella nostra umanità. Gesù abbina il
comandamento dell’amore alla menzione della sua gloria. Perché? Il capitolo 13
di Giovanni è il capitolo della lavanda dei piedi nell’ultima cena. Gesù ha
lavato i piedi anche a Giuda e tutti hanno sentito la spiegazione di Gesù: “Vi ho dato infatti l’esempio, perché come ho
fatto io, facciate anche voi” (Gv 13,15). Gesù ha chiara la percezione
dell’imminente tradimento e sa quel che fa, a differenza dei discepoli che non
comprendono, ma che comprenderanno in seguito. Solo quando Giuda se ne è andato
e Gesù vede tutto quello che gli accadrà può aggiungere: “Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io
vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri”. Come a dire:
l’amore di cui vi faccio comando comprende la disponibilità a lavarvi i piedi
gli uni gli altri, senza distinzioni di sorta tra buoni o cattivi. In gioco è
la rivelazione del segreto di Dio che mi è stato affidato e di cui vi rendo
partecipi: la gloria del Suo amore
deve risplendere in tutta la sua bellezza.
La novità del comandamento
dell’amore è posta tra la gloria che
rifulge in Gesù nel suo farsi dono agli uomini da parte di Dio e il segno che rivela al mondo
l’appartenenza dei discepoli al loro Signore. Se si contempla il crocifisso
come il re della gloria non si può
non cogliere quella gloria come lo splendore dell’amore che si è riversato
sugli uomini e che farà dire agli apostoli: “dobbiamo entrare nel regno di Dio attraverso molte tribolazioni”.
Sono le tribolazioni come fatica di fedeltà all’amore, come pazienza dell’amore
che non viene meno nelle avversità e nelle afflizioni, come vestito di umiltà che
segnala la forza dell’intimità con quel Signore che si è conosciuto e che ci ha
conquistati. Di fronte al mondo, invece, quella gloria diventa segno di
appartenenza, segno rivelatore e segno attirante: rivelazione di un’esperienza
forte di fede nel Cristo, capace di farci vivere e di far desiderare ad altri
di vivere secondo quella novità di amore che rinnova alle radici la nostra
umanità. Accogliere Gesù significa anche accogliere che in noi si esprima la
dinamica di rivelazione che lo caratterizza: mostrare quanto è grande l’amore
del Padre per i suoi figli e riunire i figli di Dio dispersi.
È singolare che Gesù non faccia mai
comando ai discepoli di amare lui, mentre il comando di amare Dio e amare il
prossimo è diretto. Quando allude all’amore per lui, lo suggerisce attraverso
le espressioni: ‘se mi amate, osserverete i miei comandamenti’; ‘rimanete nel
mio amore’. Verso di lui invece il comando diretto è: ‘credete in me’. Perché?
Qui si può comprendere il nocciolo dell’amore di cui Gesù ci fa comando.
L’amore vicendevole non rivela la generosità dei cuori, ma l’esperienza
dell’incontro con Gesù; l’amore vicendevole parla di Dio che ha toccato il
cuore dell’uomo e non dell’uomo che è diventato buono e perciò è in rapporto
diretto all’esperienza della fede, quella fede di cui Gesù ci fa comando nei
suoi confronti.
Così, se potessi illustrare con mie
parole la novità del comandamento dell’amore annunciata da Gesù, direi che la
si può cogliere in rapporto a tre cose. Anzitutto, accogliere il comandamento in
rapporto alla radice che lo origina.
L’amore di Gesù deriva dalla intimità della vita, del volere e dei sentimenti
con il Padre. Quell’amore di cui ci fa comando deriva dalla partecipazione a
quella stessa intimità. Il suo sigillo sta nel fatto di lavare i piedi ai
discepoli per renderli partecipi del suo segreto con il Padre, segreto che a
nessuno è dato di cogliere se non a coloro che credono nel Figlio. Circondarsi
la vita con l’asciugatoio è l’immagine dell’umiltà come vestito della divinità,
mistero di quell’accondiscendenza di Dio che raggiunge l’uomo nel suo cuore più
segreto, là dove l’uomo può imparare la lingua stessa di Dio. In secondo luogo
è in rapporto alla potenza che lo
sottende, la potenza cioè dello Spirito Santo che da Gesù ci verrà effuso sulla
croce. Quell’amore non è che l’accoglimento dell’azione dello Spirito Santo nei
nostri cuori, esito di tutto l’impegno ad agire bene che ad altro non conduce
se non a poter essere degni dei misteri di Dio. Perché l’opera specifica dello
Spirito Santo è la costruzione della fraternità, come stupendamente dice la
terza preghiera del canone eucaristico: “e a noi, che ci nutriamo del corpo e
sangue del tuo Figlio, dona la pienezza dello Spirito Santo perché diventiamo
in Cristo un solo corpo e un solo spirito”. Ed infine è in rapporto alla dinamica che lo anima e che lo muove
verso un unico punto di convergenza, contemporaneamente termine e scopo della
storia stessa: che il regno di Dio si sveli in tutta la sua bellezza e in tutto
il suo splendore, per tutti i cuori, per tutto il mondo, per tutti i tempi,
regno che altro non è se non la condivisione dell’amore di Dio, in Cristo, fino
a che sia partecipato a tutti.
Il proclamare da parte di Dio: “Ecco, io faccio nuove tutte le cose”,
allude al suo amore per noi che si è manifestato nella debolezza e che ora
rifulge in tutto il suo splendore potente, tanto da far dire a Isacco Siro:
“L’amore di Dio non è qualcosa che si diffonde senza che se ne abbia coscienza
o senza che ce se ne renda conto, perché non può sgorgare a partire dalla sola
conoscenza delle Scritture, come nessuno può amare Dio facendo sforzi per
farlo… E non è nemmeno possibile amare Dio a partire dalla Legge o dai
comandamenti, che pur tuttavia lui stesso ha dato e non senza rapporto con l’amore,
poiché
§*§*§*§*§*§*§*§*§*§
Quarto ciclo
Anno liturgico C (2012-2013)
Tempo di Pasqua
VI Domenica
(5 maggio 2013)
_________________________________________________
At
15, 1-2. 22-29; Sal 66; Ap 21, 10-14. 22-23; Gv 14, 23-29
_________________________________________________
L’espressione con cui inizia la
proclamazione del vangelo di oggi: “Se
uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui
e prenderemo dimora presso di lui” riprende due altre espressioni del
discorso di Gesù nell’ultima cena. La situazione è quella di chi sarà presto
sottratto ai suoi discepoli e li rincuora promettendo loro l’invio del
Paraclito, colui che assicurerà nel cuore dei discepoli l’amore al loro Maestro
e l’osservanza dei suoi comandamenti. Solo in quell’amore e nella misura di
quell’amore Gesù si manifesterà: “Chi
accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama. Chi ama
me sarà amato dal Padre mio e anch’io lo amerò e mi manifesterò a lui” (Gv
14,21).
Ma il Messia non avrebbe dovuto
apparire al mondo come il realizzatore del regno di Dio premiando i pii e
distruggendo gli empi? Questa era l’immagine che gli apostoli si facevano del
regno. Lo esprime chiaramente, intuendo la verità, Giuda, non l’Iscariota: “Come è accaduto che devi manifestarti a noi
e non al mondo?” (Gv 14,22). Gesù risponde all’ansia di rivelazione che gli
uomini hanno. Tra poco lui subirà la passione, morirà e verrà sepolto, ma
apparirà, risorto, ai suoi discepoli. Saranno loro a testimoniare al mondo la
sua presenza, la presenza di colui che ha vinto la morte. Ma perché la
manifestazione del Risorto non sarà evidente
a tutti? Perché l’opera di Dio non sconvolgerà nessuno nel senso di farlo
restare attonito e come obbligato a credere? Perché la sua è una parola di
amore e chi non accoglie quell’amore non può capire la sua parola. La sua
parola cela la potenza di amore del Padre per gli uomini e soltanto quando gli
uomini si decideranno ad ascoltarla (come un bambino ascolta la sua mamma
facendo quello che gli dice) la parola rilascerà la potenza che essa racchiude,
potenza che costituisce la radice della comunione con tutti perché a tutti
quella parola è diretta. La responsabilità dei discepoli nel mondo sarà appunto
quella di favorire in tutti l’esperienza della verità di quella parola che così
si svela nella sua potenza di salvezza per tutti.
La parola di Gesù ha sempre a che
fare con il Padre, che è Creatore. Ciò significa che entrare nella parola di
Gesù significa entrare nel mistero della creazione, dell’essere creature,
scoprendo l’amore del Padre che vi è all’origine, dentro e al di là di tutte le
ferite della storia. La dinamica di questa rivelazione non riguarda il passato,
come se si trattasse di risalire indietro nella storia per comprendere il
mondo, ma concerne il futuro nel senso che si guarda a cosa avverrà per
comprendere e accogliere ciò che è e ciò che è stato. Il Risorto presiederà a
questa rivelazione e i discepoli ne porteranno la responsabilità di fronte al
mondo.
La sottolineatura nelle parole di
Gesù, però, è data dal fatto che accogliendo la sua parola si partecipa ad una
intimità di vita; meglio, si condivide l’intimità di vita che corre tra il
Padre e il Figlio nello Spirito, che proprio da Gesù ci è stato effuso e che
proprio di Gesù ci fa vedere la verità di testimone dell’amore del Padre per
gli uomini. Così la crescita spirituale sottende sempre un radicamento
nell’intimità di un rapporto che permette ai cuori di schiudersi, di percepirsi
nell’amore, di vedere le cose in verità. In effetti, quando Gesù dice ‘mi
manifesterò’, in realtà vuol dire, non solo che lo riconosceremo, ma che tutto
parlerà di lui, tutto splenderà per lui e quindi che la vita svelerà il suo
segreto.
La condizione di possibilità perché
ciò avvenga è svelata alla fine del brano, che nella versione CEI suona: “Non parlerò più a lungo con voi, perché
viene il principe del mondo; contro di me non può nulla, ma bisogna che il
mondo sappia che io amo il Padre, e come il Padre mi ha comandato, così io
agisco” (Gv 14,30-31). L’espressione ‘contro di me non può nulla’, tradotta
più letteralmente sarebbe: ‘in me non ha
nulla’. Siccome in Gesù c’è solo l’amore del Padre, il demonio non ha alcun
diritto su di lui nel senso che può rovesciargli addosso tutto il male che
vuole, ma senza poterlo deviare dal suo scopo, senza potergli sottrarre
quell’amore; al contrario, suo malgrado, farà risplendere davanti a tutti
quell’amore affascinando i cuori. Questa espressione è costruita allo stesso
modo dell’altra che la richiama: ‘chi ha
i miei comandamenti’ (v. 21), che noi traduciamo: ‘chi accoglie i miei
comandamenti’. Quando un cuore è conquistato all’amore di Gesù, non facendo
valere altro che i suoi comandamenti,
dato che in essi ha scoperto le radici del vivere bello, ne conoscerà la
potenza di vita e il demonio nulla potrà contro quell’amore.
Quando al battesimo e alla
trasfigurazione la voce dal cielo aveva proclamato su Gesù: “Questi è il Figlio mio, l’amato”, il
significato non è semplicemente da riferire a Gesù ma anche a tutti noi in lui,
vale a dire: tutti noi, credendo a quel Figlio, l’Inviato del Padre e
accogliendo la sua parola per metterla in pratica, entreremo nella benedizione
di quell’amore di predilezione nel quale il Padre vuole inglobare tutti. La
rivelazione di Dio è sempre per noi perché non c’è rivelazione se non parla
dell’amore di Dio per l’uomo. E se nel Padre nostro chiediamo: ‘sia fatta la
tua volontà come in cielo così in terra’, non chiediamo prima di tutto di poter
stare fedeli alla sua volontà, ma più direttamente di poter sperimentare la sua
volontà di amore per noi nella nostra vita, tanto da godere della comunione con
lui al di sopra di tutto. Questo ci otterrà l’azione dello Spirito Santo, che
ci farà memoria viva del Signore Gesù in questo mondo.
Collegando poi la colletta alla
prima lettura comprendiamo che la liberazione pasquale, che celebriamo
nell’eucaristia per testimoniarla nella vita, è caratterizzata dalla letizia.
Ma la letizia è per la comunione. Una letizia che non si traduca in ansia di
comunione non risponde alla liberazione pasquale. La prima lettura mostra
quella letizia in ansia di comunione alle prese con gli imprevisti della
storia. I credenti provenienti dalla tradizione mosaica, pur accogliendo la
fede in Gesù, temono di mancare alla santità di Dio non obbligando anche i
fratelli provenienti dal paganesimo alle stesse leggi. La decisione apostolica
ribadisce la fede di tutti: oramai c’è un unico popolo di salvati, circoncisi e
incirconcisi e l’invito ai pagani sembra soltanto quello di non essere fonte di
disagio per i fratelli circoncisi trovandosi alla stessa mensa. La liberazione
è per la gioia e la gioia è per la comunione: questa è la dinamica pasquale.
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Quarto ciclo
Anno liturgico C (2012-2013)
Tempo di Pasqua
Ascensione del Signore
(12 maggio 2013)
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At
1,1-11; Sal 46; Eb 9,24-28; 10,19-23; Lc 24,46-53
_________________________________________________
Gesù non ascende a un luogo. Gli
angeli non sarebbero venuti a ricordare: “Uomini
di Galilea, perché state a guardare il cielo?”. Se si fosse trattato
semplicemente della sparizione dalla loro vista, non sarebbe stato ragionevole
annotare: “poi tornarono a Gerusalemme
con grande gioia”. Spiega Agostino: “Disparve agli occhi mortali perché noi
ritornassimo al cuore e trovassimo il Cristo”. In effetti i discepoli hanno visto
il fenomeno fisico dell’ascendere al cielo di Gesù ma ne hanno anche intravisto
la portata mistica. Il che significa che lo sparire di Gesù dalla vista dei
loro occhi permetteva di coglierlo presente nei loro cuori, come lui stesso
aveva promesso: “Ecco, io sono con voi
tutti i giorni, fino alla fine del mondo”, versetto con il quale si chiude
il vangelo di Matteo.
Il brano del vangelo di Luca
proclamato oggi è introdotto dalla frase: “Allora
aprì loro la mente per comprendere le Scritture”. Aprire le Scritture al
cuore e aprire il cuore alle Scritture è far entrare nel regno di Dio,
argomento tipico del sostare del Risorto con i suoi discepoli prima di
ascendere al cielo. Solo quando il Risorto è riconosciuto sulla base delle
Scritture ormai aperte, si può aprire lo spazio della missione e della
testimonianza, perché quell’esperienza è offerta a tutti.
Il che significa che Gesù, nel suo
mistero di morte e risurrezione, non si può manifestare assolutamente; i cuori non lo potrebbero riconoscere. Sono le
Scritture che descrivono e introducono al suo mistero. E significa ancora che
senza
In effetti, l’aspetto singolare di
quell’avvenimento è costituito dall’esperienza di una gioia speciale, abbinata
alla promessa dello Spirito Santo che di lì a poco gli apostoli avrebbero
ricevuto. Con l’ascensione si inaugura lo spazio di testimonianza della chiesa
nel mondo, testimonianza che può essere vissuta nella forza dall’alto (= battezzati in Spirito Santo). Leggendo insieme i
passi del vangelo di Luca e degli Atti, due particolari saltano agli occhi.
Primo particolare. La forza dello
Spirito agisce nel nostro cuore rispetto a tre contesti ben precisi e
interdipendenti: il riconoscimento della realtà e dell’identità del Risorto, lo
stesso che ha patito per noi; l’intelligenza delle Scritture di cui il Risorto
mostra il compimento; la missione nel mondo. Quando i discepoli di Emmaus si
comunicano la sensazione interiore che li aveva accompagnati nel colloquio con
il pellegrino dicono: “Non ardeva forse
in noi il nostro cuore mentre egli conversava con noi lungo la via, quando ci
spiegava [in greco, letteralmente: ci
apriva] le Scritture?”. Così
l’evento dell’ascensione al cielo di Gesù acquista tutto il suo senso. Il cielo
non è il cielo fisico, ma il luogo dove lui abita nella sua santità. E dove può
essere percepita la santità se non nel vivere fraterno? Così, la predicazione
alle genti non riguarda semplicemente l’annuncio di ciò che Dio ha operato per
gli uomini, ma comprende anche il mostrare da parte dei discepoli che tale
annuncio si è tradotto per loro in splendore di vita. Il vangelo di Luca
termina con l’immagine di Gesù benedicente. Se gli occhi non vedranno più la
mano benedicente, sentiranno però nel cuore la potenza di quella benedizione
perenne che lui costituisce, sigillo ultimativo della volontà di bene di Dio
per l’uomo. Volontà, nella quale si radica tutta la dignità dell’uomo e il suo
impegno di responsabilità di fronte al mondo.
Secondo particolare. Gli apostoli
hanno come la sensazione che forse è arrivato finalmente il momento della
ricostituzione del regno di Israele, il momento cioè dell’immissione nella
storia della potenza di Dio che tutto trasforma nel suo regno e non lascia più
posto a null’altro. Gesù però risponde loro che la cosa non li deve riguardare.
A loro basta sapere che ‘riceverete la
forza dallo Spirito Santo … e di me sarete testimoni…’. Ora dunque è il
tempo della testimonianza, il tempo cioè della conoscenza del Figlio dell’uomo,
il tempo della fraternità ricostituita nella potenza dall’alto, nella potenza
dello Spirito Santo. Essere allora testimoni del Signore Gesù nel mondo vuol
dire partecipare alla testimonianza dello stesso Signore che ha fatto
risplendere nel mondo il volto di Dio nel suo amore per gli uomini; vuol dire
godere di quella gioia, pace e libertà che il mondo desidera ma non conosce e
di cui invece il Risorto fa dono ai suoi senza che nessuno possa rapirle dai
loro cuori. Per questo, anche se gli apostoli non vedono più con i loro occhi
il loro amato Signore, non possono che essere pieni di gioia, perché in lui e
con lui continuano la rivelazione dell’alleanza di Dio con gli uomini.
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Quarto ciclo
Anno liturgico C (2012-2013)
Tempo di Pasqua
Pentecoste
(19 maggio 2013)
_________________________________________________
At
2, 1-11; Sal 103; Rm 8, 8-17; Gv 14, 15-16. 23-26
_________________________________________________
Nella settimana che precede la
festa, la chiesa aveva fatto pregare: “Venga su di noi, o Padre, la potenza
dello Spirito Santo perché aderiamo pienamente alla tua volontà per
testimoniarla con amore di figli” (colletta lunedì) e “Venga, o Padre, il tuo
Spirito e ci trasformi interiormente con i suoi doni; crei in noi un cuore
nuovo perché possiamo piacere a te e cooperare alla tua volontà” (colletta
giovedì). I brani evangelici erano tratti dal c. 17 di Giovanni che riporta la
solenne preghiera di Gesù al Padre finalizzata a che i discepoli “abbiano in se
stessi la pienezza della mia gioia” (Gv 17,13). La volontà del Padre è la
salvezza degli uomini che vuole uniti alla mensa del suo amore, mentre l’invio
dello Spirito Santo ha lo scopo di illuminare e sostenere i cuori dei discepoli
nell’esperienza della conoscenza di Gesù secondo la sua promessa: “Io sono con voi tutti i giorni, fino alla
fine del mondo” (Mt 28, 20), fonte di gioia nel dramma della storia.
Quando Paolo proclama che “l’amore di Dio è stato effuso nei nostri
cuori per mezzo dello Spirito” (Rm 5,5) si deve intendere: è lo Spirito che
ci dà la conoscenza del Signore Gesù, testimone dell’amore del Padre per i suoi
figli e ci attira, insieme a Gesù, in quella stessa testimonianza di fronte al
mondo. Si tratta di rivelazione per
il cuore, non di semplice conoscenza. È un dono accolto, una scoperta
inaspettata, una gioia immeritata.
Lo Spirito, ottenutoci dalla
passione gloriosa di Gesù, svelerà al nostro cuore il colloquio eterno tra il
Padre e il Figlio a proposito della salvezza dell’uomo, il colloquio tra il
Padre e il Figlio che vive la sua umanità nell’amore per gli uomini. Tutto
questo ‘colloquio’ lo Spirito ha udito e ce ne renderà partecipi. Così
conosceremo la verità, vale a dire la grandezza dell’amore di Dio per l’uomo,
che in Gesù si è fatto evidente, a
noi accessibile, per la fede in lui. Ci farà gustare la promessa di Gesù: “Vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che
ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi” (Gv 15,15).
Delle due immagini caratteristiche
della Pentecoste, le lingue che compaiono sul capo degli apostoli e il fuoco di
cui si prega “Vieni, santo Spirito, riempi i cuori dei tuoi fedeli e accendi in
essi il fuoco del tuo amore”, il fuoco esprime appunto la cifra di quel
colloquio, la condivisione di un segreto capace di far ardere il cuore.
Collegare l’invio dello Spirito alla volontà di Dio significa far percepire che
quella volontà è essenzialmente una volontà di bene per l’uomo, significa
ridare al cuore dell’uomo la percezione della verità del fuoco dell’amore di
Dio che a lui arriva tramite Gesù. Se tale è la percezione del cuore, allora il
cuore non potrà che vivere nell’onda di quell’amore e estenderlo a tutti, fino
ai confini della terra. Qui si collega la responsabilità della testimonianza,
che non sarà più vissuta tanto come impegno o dovere ma come sovrabbondanza: lo
Spirito riempirà di Gesù i cuori fino a che tutta la sua verità risplenda e
conquisti, me come tutti. La testimonianza è in funzione di uno splendore, non
di un impegno!
La comparsa delle lingue a
Pentecoste proclama: l’opera di Dio unisce tutti gli uomini. E l’opera di Dio è
la verità del suo amore per gli uomini che in Gesù si è fatto visibile e
accessibile. Il miracolo che a Pentecoste acquista una rilevanza fisica tanto
che ognuno sente proclamare l’opera di Dio nella sua lingua nativa (= ogni
lingua, ogni uomo, nella sua diversità, è chiamato a proclamare la stessa ed
unica cosa), è lo stesso miracolo che è operato nei cuori dallo Spirito quando
li convince a muoversi nella carità, aprendo la diversità alla comunione e
facendo esperienza che così viene proclamato l’amore di Dio che riempie i
cuori. Riconoscere, assecondare, favorire tale dinamica, significa aver
ricevuto e agire nella potenza dello Spirito Santo.
L’aspetto singolare per i credenti è
dato dal fatto che l’impegno della testimonianza, di cui è fatto loro comando,
consiste proprio in questa lingua di comunione. La ‘verità tutta intera’ che lo
Spirito farà conoscere è prima di tutto la verità dello splendore dell’amore di
Dio per gli uomini che in Gesù rifulge, ragione per la quale l’unione dei
discepoli con il Cristo precede e fonda la carità che sono chiamati a usarsi
vicendevolmente. Anzi, quella carità sarà segnale per il mondo perché
testimonia la potenza della presenza del Signore nel mondo.
È caratteristico che la settima beatitudine
suoni: ‘beati gli operatori di pace,
perché saranno chiamati figli di Dio’ (Mt 5,9), da comprendere insieme
all’altra espressione: ‘tutti quelli che
sono guidati dallo Spirito di Dio, questi sono figli di Dio’ (Rm 8,14). Lo
Spirito agisce nei discepoli di Gesù nel senso di renderli come lui, il Figlio
di Dio, la cui testimonianza si risolve nel mostrare quanto è grande l’amore di
Dio per gli uomini. E come per il Figlio la fonte della sua testimonianza sta
nella comunione di vita con il Padre, così nei discepoli la potenza della loro
azione deriva dalla intimità di comunione con il Figlio che non si stanca di
trascinarli a cercare gli uomini perché godano anch’essi dell’amore del Padre.
In questo i discepoli imparano a parlare la lingua della comunione, la lingua
dello Spirito.
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Quarto ciclo
Anno liturgico C (2012-2013)
Solennità e feste
Ss. Trinità
(26 maggio 2013)
_________________________________________________
Pro
8, 22-31; Sal 8; Rm 5, 1-5; Gv 16, 12-15
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L’antifona di ingresso definisce
bene la prospettiva nella quale accostare il mistero della Trinità: “Sia
benedetto Dio Padre, e l’unigenito Figlio di Dio, e lo Spirito Santo: perché
grande è il suo amore per noi”. Se possiamo accedere al mistero di Dio è perché
Dio si è rivelato come ‘amore per noi’. È però il Padre che è indicato come
amore, di cui il Figlio è rivelatore e testimone e della cui vita d’amore lo
Spirito è donatore. Gesù, che pur rappresenta per noi l’espressione stessa
dell’amore (“li amò sino alla fine”,
Gv 13,1), non si definisce mai come amore, termine che invece è riservato al
Padre, come la preghiera stessa della Chiesa sottolinea: “Ti glorifichi, o Dio,
la tua Chiesa, contemplando il mistero della tua sapienza con la quale hai
creato e ordinato il mondo; tu che nel Figlio ci hai riconciliati e nello
Spirito ci hai santificati, fa’ che nella pazienza e nella speranza possiamo
giungere alla piena conoscenza di te che sei amore, verità e vita”, dove amore fa riferimento al Padre, verità al Figlio, vita allo Spirito Santo.
Se lo Spirito è detto 'Consolatore,
Spirito di verità', lo è in rapporto alla verità che è Gesù, cioè farà vedere
il vero volto di Dio nella persona di Gesù, rivelatore del Padre, pieno di
amore per gli uomini. Non per nulla Gesù emise
lo Spirito dalla croce rivelando quanto è grande l’amore di Dio per l’uomo e
abilitando l’uomo a vivere del suo stesso Spirito. Lo splendore di quell’amore
manifestato da Gesù diventa così, per la potenza del suo Spirito, radice di
vita in coloro che ne accolgono la testimonianza. Come dice Giovanni nel
prologo del suo vangelo: “A quanti però l’hanno
accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo
nome, i quali, non da sangue né da volere di carne né da volere di uomo, ma da
Dio sono stati generati” (Gv 1,12-13). E quando Gesù dice che lo Spirito
guiderà alla verità tutta intera non allude tanto alla comprensione dei vari
aspetti del mistero di Dio ma piuttosto al fatto che quella verità di
rivelazione del vero volto di Dio, di cui Lui è il Testimone, risplenda in
tutto il suo splendore, che quella verità conquisti i cuori interamente, che
quella verità convinca i cuori della grandezza dell’amore di Dio, che
l’esperienza di quell’amore ci sveli i suoi segreti.
Segreti, che attingono all’origine
stessa della creazione, di cui costituiscono il fondamento e lo scopo, come la
lettura del capitolo 8 del libro dei Proverbi suggerisce. Un’espressione è
particolarmente suggestiva: “… io ero con
lui come artefice ed ero la sua delizia ogni giorno: giocavo davanti a lui in
ogni istante, giocavo sul globo terrestre, ponendo le mie delizie tra i figli
dell’uomo”. Il Padre trovava delizia nel Figlio,
Se è Gesù che rivela compiutamente
il desiderio di comunione con gli uomini da parte di Dio e compie il desiderio
di comunione con Dio da parte degli uomini, allora ne deriva che la fonte della
nostra dignità procede proprio dal fatto che Dio ha reso l’uomo degno dei suoi
misteri. Il salmo 8 proclama: “Che cosa è
mai l’uomo perché di lui ti ricordi, il figlio dell’uomo, perché te ne curi?”.
In cosa consiste la cura di Dio per l’uomo? Nel passo parallelo del salmo 144,
v. 3, le antiche versioni greca e latina riportano: ‘Signore, che cos’è l’uomo, perché ti sia a lui fatto conoscere?’ (Domine, quid est homo, quoniam innotuisti
ei?). La tradizione ha colto bene in cosa consiste la cura di Dio per
l’uomo: Dio l’ha elevato alla sua conoscenza. Lo ricorda l’antifona alla
comunione: “Voi siete figli di Dio: egli ha mandato nei vostri cuori lo Spirito
del Figlio suo, che grida: ‘Abbà, Padre’ ”. Non viene detto in generale: siamo
tutti figli di Dio. Lo si proclama in senso ‘speciale’, secondo il significato
del vangelo di Giovanni: A quanti però l'
hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio. Allude all’essere
trovati in Cristo; allude a coloro che sono stati resi partecipi della delizia della Sapienza. E se tutti gli
uomini sono figli di Dio lo sono in quanto tutti sono chiamati alla stessa
esperienza, tutti sono destinatari della stessa offerta, tutti portano la ‘vocazione
all’umanità’ secondo quel Figlio di Dio, che riceve tutte le compiacenze del
Padre perché in Lui tutti siano riuniti nella stessa delizia.
Quando la preghiera iniziale
definisce Dio come ‘amore, verità e vita’, allude certamente al Padre, al Figlio
e allo Spirito Santo, di cui preghiamo di avere piena conoscenza, nella
pazienza e nella speranza. Ma tutto procede dalla verità del Figlio che,
dandoci il Suo Spirito, che è vita (cioè ci comunica quell’amore che non è più
rapibile da niente e da nessuno), ci fa conoscere l’amore del Padre. Da parte
nostra tutto procede dall’accoglienza del Figlio, perché il Padre che
desideriamo conoscere è il Suo Padre, e lo possiamo conoscere nel Suo Spirito.
In tal senso la ‘verità tutta intera’ di cui parla Gesù riferendosi allo
Spirito non riguarda tanto la verità nei suoi vari enunciati, ma la verità come
comunione con Cristo. Di quanta ‘pazienza’ e di quale ‘speranza’ necessita
allora l’uomo per realizzare radicalmente e totalmente nella sua vita quella
comunione con Cristo! Ma è a partire da quella comunione che la rivelazione del
Padre, del Figlio e dello Spirito costituirà la delizia del nostro cuore.
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Quarto ciclo
Anno liturgico C (2012-2013)
Solennità e feste
Ss. Corpo e Sangue di Cristo
(2 giugno 2013)
_________________________________________________
Gn
14, 18-20; Sal 109; 1 Cor 11, 23-26; Lc 9, 11-17
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L’origine di questa festa, propria
dell’Occidente latino, va messa in rapporto con il possente risveglio della
devozione eucaristica che dal secolo XII in poi si sviluppò, accentuando
particolarmente la presenza reale di Cristo nel sacramento e quindi la sua
adorazione. Furono le visioni di Giuliana di Cornillon, monaca agostiniana di Liegi,
ad avere un influsso decisivo nell’introduzione della festività, che per la
prima volta si celebrò nella diocesi di Liegi nel 1247. Urbano IV, già
arcidiacono di Liegi e confessore di Giuliana, la prescrisse per tutta
Non è possibile cogliere il senso
del mistero dell'Eucarestia senza riuscire a percepire profondamente nel cuore
l'eco delle parole di Gesù: “Quanto ho desiderato mangiare questa Pasqua con
voi, prima di patire!” (antif. ora terza). È il desiderio di Dio che va
percepito. Come sempre, in un legame d'amore, ciò che più conta è il desiderio
dell'altro per me. Il desiderio di Dio copre tutto lo spazio del mistero,
l'attraversa e ne segna la dinamica nella quale entrare a far parte. Nell'inno
ai vespri si canta: "Frumento di Cristo noi siamo .... In pane
trasformaci, o Padre, per il sacramento di pace: un Pane, uno Spirito, un
Corpo,
La colletta della festa di oggi
esprime assai bene il timbro eucaristico di tutta l’esperienza cristiana: “Dio,
Padre buono, che ci raduni in festosa assemblea per celebrare il sacramento
pasquale del Corpo e Sangue del tuo Figlio, donaci il tuo Spirito, perché nella
partecipazione al sommo bene di tutta
L’eucaristia ci implica nella
dinamica stessa del Signore Gesù. Poco prima della sua passione, nel racconto
di Giovanni, Gesù è definito come colui che ha il compito di ‘riunire insieme i figli di Dio che erano
dispersi’ (Gv 11,52), mentre di se stesso dice: ‘viene il principe del mondo; contro di me non può nulla, ma bisogna che
il mondo sappia che io amo il Padre’ (Gv 14,30-31). Ma perché il demonio
non ha alcun potere su di lui, se proprio contro di lui esercita tutto il suo
potere? Il demonio non ha potere su Gesù perché in lui non trova nulla che leda
o impedisca l’unità dei figli di Dio dispersi. È questa la volontà del Padre e
Gesù si muove secondo questa volontà: riunire i figli di Dio dispersi,
mostrando quanto è grande l’amore di Dio per gli uomini che li vuole commensali
alla mensa del suo amore, di cui l’eucaristia è il sacramento per eccellenza.
Nel Corpo e nel Sangue del Cristo,
dato per noi, tutte le cose acquistano il sapore di segni di un’alleanza con
Dio, di cui non esiste una migliore, per cui è inutile sognarne altre di nuove:
“Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue…”. All’uomo non resta che far
memoria, evidentemente non nel senso di ricordare, ma di entrarne a far parte,
di condividerne la potenza, di celebrarla nella vita, così come recita la
colletta. Due aspetti mi sembrano importanti: 1) Se l’alleanza nuova ci è
offerta, vuol dire che dipende dall’iniziativa di Dio e non dal merito nostro.
Questo acquieta l’ansia del cuore che teme sempre di non essere raggiunto, per
la sua indegnità, dall’amore al quale anela e di cui avverte acutamente il
bisogno; 2) L’alleanza nel Corpo e nel Sangue di Cristo, è un ‘memoriale
perenne’: non c’è altro evento così significativo nella storia delle persone e
del mondo da desiderarne il compimento, in cui far risiedere tutte le tensioni
del cuore per aver riposo e pienezza. Il problema, caso mai, è portare la
nostra coscienza a percepire questa realtà, a sentirla, a viverne la potenza: è
tutto il cammino di crescita nella fede sia come singoli che come comunità.
Se ci accostiamo ora al racconto
della moltiplicazione dei pani e dei pesci, segno dei tempi messianici (siamo
nel deserto, luogo di incontro con Dio; è imbandita la mensa del Signore, dove
il cibo offerto da Dio assume il sapore più gradito al palato di ciascuno; la
sovrabbondanza è tale da avanzarne dodici ceste, perché a tutte le nazioni è
destinato quel pane), possiamo cogliere il ruolo della chiesa, della
fraternità, nel ruolo degli apostoli: “Voi
stessi date loro da mangiare … e li dava ai discepoli perché li distribuissero
alla folla”.
§*§*§*§*§*§*§*§*§*§
Quarto ciclo
Anno liturgico C (2012-2013)
Solennità e feste
Ss. Cuore di Gesù
(7 giugno 2013)
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Ez
34, 11-16; Sal 22; Rm 5, 5-11; Lc 15, 3-7
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I testi della liturgia di oggi
parlano della ‘immensa carità’ del Cuore di Gesù, alludendo evidentemente al
‘cuore trafitto’ che il prefazio (‘dalla ferita del fianco effuse sangue e
acqua’) e l’antifona alla comunione (‘un soldato trafisse il costato con la
lancia e subito ne uscì sangue e acqua’) esaltano. I brani delle letture invece
illustrano l’amore divino secondo l’immagine del pastore, un pastore che
raccoglie le sue pecore, che le conduce in ottime pasture, che le fa riposare,
che cura quella malata, che non trascura quella forte, e soprattutto che
riconduce in spalla la pecora smarrita. Un bellissimo commento di s. Ambrogio
spiega: “Rallegriamoci, dunque, perché quella pecora, che in Adamo era andata
perduta, in Cristo è sollevata in alto. Le spalle di Cristo sono le braccia
della Croce. Là ho deposto i miei peccati, sul capo di quel nobile patibolo ho
trovato riposo… Egli è dunque un pastore ben provvisto, perché tutti noi siamo
la centesima parte della sua proprietà. Ma Egli possiede le greggi innumerevoli
degli Angeli, possiede quelle degli Arcangeli, delle Dominazioni, delle
Potestà, dei Troni e di tutti gli altri che ha lasciato al sicuro sui monti. E
poiché sono creature spirituali, non a torto gioiscono per la redenzione degli
uomini”.
Il mistero della parabola riguarda
non semplicemente l'amore di Dio, ma l'esperienza che fa il nostro cuore
dell'amore di Dio. Con le sue parabole Gesù vuol rispondere alle mormorazioni
del cuore dell'uomo che non è più capace di onorare i suoi fratelli perché non
sa più riconoscere il mistero di Dio, non riesce più a percepire il cuore di
Dio. Per noi, in effetti, si tratta solo di 'riconoscere' e 'credere' a questo
amore di Dio che viene a cercarci, ad usarci premura, a fare dono di Sé a noi,
a perdonarci, noi, la sua gioia! Ma il nostro cuore, irretito nelle illusioni
del peccato, è più aspro di quello di Dio; crede di salvare una specie di
nobiltà teorica condannandosi, rinchiudendosi in una condanna sfiduciata. Non è
che manchino nella vita motivi di sfiducia, ma la vita dell’uomo si gioca
proprio nella fiducia a Qualcuno che è riconosciuto come Colui che ‘si perde’
per noi e ci ridà dignità. È vero che Dio può far nascere altri figli perfino
dalle pietre, ma è ancora più vero che, per quanto indegni e ribelli, i figli
che Dio preferisce sono quelli in carne ed ossa, quelli che siamo, che
rimprovera ma di cui continua ad avere premura. Gesù, morto e risorto per noi,
è il sigillo ultimativo di quella Volontà e il suo ‘Cuore trafitto’ è l’emblema
più suggestivo di quella Volontà di Bene per noi.
L’antifona d’ingresso cantava: “Di
generazione in generazione durano i pensieri del suo Cuore, per salvare dalla
morte i suoi figli e nutrirli in tempo di fame”, eco del salmo 32 là dove
proclama: “Il Signore annulla i disegni
delle nazioni, rende vani i progetti dei popoli. Ma il piano del Signore
sussiste per sempre, i pensieri del suo cuore per tutte le generazioni”. Il
piano del Signore è la determinazione all’amore per l’uomo senza lasciarsi
vincere dalla sua diffidenza e dalla sua cattiveria. Il Cuore di Gesù svela
questo ‘piano’ e lo rende noto a tutti i cuori, perché è da sempre, ancor prima
della fondazione del mondo, anzi, motivo della stessa fondazione del mondo,
perché è perenne, definitivo, sempre nuovo, perché risponde al desiderio e alla
gioia di Dio e perché risponde al desiderio e al riposo dell’uomo.
La cosa straordinaria è che Dio
fonda la sua giustizia nel condividere la sua gioia. “Io vi dico: così vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si
converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di
conversione” (Lc 15,7). Ora, tutti i nostri pensieri di autocondanna, di
paura, di disprezzo di noi e degli altri, feriscono l'amore di Dio perché gli
rendono impossibile la gioia. Ogni autocondanna è una incomprensione di Dio.
Ogni condanna, di sé e degli altri, è un'incomprensione profonda del cuore di
Dio: come non sapere quello che gli procura gioia? Il buon ladrone che non
pretende la misericordia, ma riconosce in pace la sua pena di fronte al Giusto
crocifisso e chiede, per grazia, un posto nel regno, è un esempio eloquente
della misteriosa convergenza in Dio di giustizia e di misericordia, gioia Sua e
gioia della creatura.
Del resto, chi sono i giusti?
Nell'interpretazione spirituale dei Padri i novantanove giusti lasciati sui
monti sono gli angeli. Ma sono anche coloro che, come gli angeli, adorano e
lodano e gioiscono con Dio. Sono cioè coloro che gioiscono con Dio quando un
peccatore ritorna, quando un uomo si pente. Di qui il criterio di discernimento
della bontà, che ci rende 'sim-patici' di Dio, vale a dire degli stessi
sentimenti di Dio: un cuore è buono quando gioisce del bene del fratello.
Gioire della virtù di un fratello più che per la propria è segno di un cuore
puro, ormai conquistato dalla bontà di Dio. Gioire per un altro rende intimi di
Dio. E se l'uomo è invitato a riconoscere come agisce Dio, come 'sente' Dio, è
perché è chiamato ad imitarlo. E l'imitazione consiste nell'impegnare la
propria carità fino alla gioia, senza pretenderla comunque per sé. Non che la
cosa risulti ovvia, ma se il nostro cuore si è sentito trafitto guardando al
Cuore trafitto dalla lancia del soldato, allora qualcosa dei segreti di Dio si
comunica a noi e proprio questo rende capaci di vivere nello splendore di
quella rivelazione.
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Quarto ciclo
Anno liturgico C (2012-2013)
Tempo Ordinario
X
Domenica
(9 giugno 2013)
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1Re
17,17-24; Sal 29; Gal 1,11-19; Lc 7,11-17
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Il brano di vangelo di oggi con il
miracolo del richiamo alla vita del ragazzo morto, per la compassione che Gesù
prova verso sua madre, vedova, va letto con la conseguenza che ne deriva
rispetto alla fede in lui. In effetti, subito dopo Luca narra della risposta di
Gesù ai due discepoli inviati da Giovanni Battista: “Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?”. È la
domanda di una vita. Di Giovanni Battista, anzitutto. Tutta la sua vita era
consistita nel predisporre la via a un Altro: ‘bisogna che lui cresca e io diminuisca’. Accoglierne il mistero non
significa però saperne in anticipo l'esito. Significa, più semplicemente ma più
sinceramente, stare disposto ad accogliere comunque tutta l'esperienza umana e
spirituale che quel mistero comporta nel suo dispiegamento. Così Giovanni, in
carcere, alla fine della vita, riformula la stessa domanda con un risvolto
angosciante: mi sono forse illuso? È lui quel Tu che tutti attendono e che io
sono stato chiamato a svelare al mondo?
Coloro che assistono al miracolo per
la vedova di Nain proclamano pieni di stupore: “Un grande profeta è sorto tra
noi “ e “Dio ha visitato il suo popolo”, richiamandosi evidentemente al profeta
Elia, di cui la prima lettura di oggi riporta un identico miracolo. Ma Gesù non
è semplicemente un grande profeta e quel miracolo è soltanto allusivo di quella
‘potenza’ di salvezza che si compirà con la sua morte e risurrezione. Il
miracolo è inserito nella compassione che Gesù vive, compassione a cui spesso
il racconto evangelico rimanda come segno della grandezza dell’amore del Padre
per tutti i suoi figli, di cui Gesù è il Testimone per eccellenza. La
compassione di Gesù rimanda al desiderio che lavora il suo cuore in vista dello
svelamento del segreto di Dio nel suo amore per gli uomini (cfr Lc 12,50;
22,15) che apparirà in tutto il suo splendore nella sua morte e risurrezione. I
cuori, per aprirsi all’accoglimento del segreto di Dio per loro, sono invitati
sentire quella compassione di Gesù per loro, per la loro umanità, per la loro
storia. Compassione che, a sua volta, sarà provata dai cuori quando guarderanno
a Colui che hanno trafitto. L’incontro dei due sentimenti di compassione genera
il processo della salvezza.
Gesù chiude la sua risposta agli
inviati del Battista con l’affermazione: ‘beato
è colui che non trova in me motivo di scandalo’, che costituisce la firma
apposta da Gesù in calce alla vita ed alla persona del Battista. Il volto di
Dio lo vedono coloro che non si scandalizzano della sua piccolezza quando, ormai sfigurato sulla croce, allorché nemmeno
d'uomo aveva più l'aspetto, accolgono tutto il mistero di Dio nel suo amore agli
uomini, vedono cioè la sua scelta di essere Dio per gli uomini, non di
sembrarlo soltanto.
La domanda di Giovanni Battista non
è che l’eco dell'angoscia di Gesù al Getsemani e al Calvario dove la sua piccolezza raggiunge la punta massima,
ma dove si rivela in tutto il suo splendore la grandezza di Dio. E la domanda
del Battista, come quella che resta nascosta nel cuore di coloro che assistono
al miracolo di Gesù, è anche la nostra domanda di credenti che sempre ci
troviamo confrontati, lungo il percorso della nostra vita, con il mistero della
scoperta del vero Volto di Dio. L'esito dell'incontro con Dio non è mai
scontato. L’esperienza che siamo invitati continuamente a fare va sempre al di
là di quello che ci immaginiamo o ci aspettiamo: in gioco è l'incontro con il
Dio Vivente e non con un simulacro di Dio che risulterebbe soltanto la
proiezione delle nostre pretese. Ma tutto questo esige l'entrata nella piccolezza di Dio a cui risponde,
specularmente, la piccolezza dell’uomo
che trova vita, se la perde, che vive se è capace di morire, che si ritrova
libero se rinnega se stesso, ecc., al seguito ‘del più piccolo nel Regno dei
Cieli’, cioè Gesù.
Il movimento interiore del Battista
esprime la traiettoria dello stesso movimento che caratterizza il nostro cuore.
Anche noi siamo nella sua condizione e, come lui, per vivere fino in fondo la
nostra vocazione all'umanità, abbiamo bisogno di affidarci all'Inviato di Dio e
di imparare a modellare le nostre attese sul compimento effettivo delle opere
di Dio che in Gesù si manifestano.
Quando Paolo, nella sua lettera ai
Galati, si richiama alla potenza di rivelazione del vangelo che ha cambiato la
sua vita vuole come invitarci ad
attendere la manifestazione del Salvatore al nostro cuore finché essa diventi
radice di letizia. Solo allora non scambieremo più le nostre opere con la
pretesa di giustizia o la nostra scienza con la rivendicazione di potere e
sapremo rapportarci a tutti nella condivisione di quella letizia che fa
conoscere a tutti l'amore salvatore di Dio. L’inizio dell’accoglimento
dell’amore salvatore di Dio è dato dallo stupore e dal timore che la gente
prova nel vedere le azioni di Gesù, nel notare i suoi sentimenti. E questo
sarebbe uno degli esiti della lettura del racconto evangelico per i nostri cuori.
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Quarto ciclo
Anno liturgico C (2012-2013)
Tempo Ordinario
XI
Domenica
(16 giugno 2013)
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2
Sam 12,7-10.13; Sal 31; Gal 2,16.19-21; Lc 7,36-8,3
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“Ma
Due sono gli episodi narrati nei
vangeli a proposito di una unzione di
Gesù da parte di una donna. Uno, riportato da Luca, nella casa di un fariseo,
per mano di una donna peccatrice che piange sui piedi di Gesù e li asciuga con
i suoi capelli e li cosparge di olio profumato insieme ai suoi baci. L’altro, a
Betania, poco prima della passione: Matteo e Marco riferendo di una donna che
versa sul capo di Gesù un olio profumato in casa di Simone il lebbroso; Giovanni, invece, riferendo di Maria, sorella
di Lazzaro, che unge con nardo genuino i piedi di Gesù, suscitando la reazione dei
discepoli che gridano allo spreco.
Le accentuazioni del racconto di
Luca sono assolutamente particolari. Anzitutto il contesto. Gesù accetta
benevolmente l’invito a pranzo da un fariseo che mostra buoni sentimenti verso
di lui. Il fariseo non sa bene con chi veramente ha a che fare e Gesù lo
istruisce sul mistero del regno dei cieli attraverso la sua parabola e il suo
comportamento. Il centro della scena in effetti non è dato dalle espressioni di
amore della donna, pur così tenerissime e espresse come se il mondo attorno non
esistesse nemmeno tanto era rapito il suo cuore, ma dal comportamento di Gesù
che accoglie quelle manifestazioni, le sa leggere svelandone il dinamismo
segreto e cercando di aprire il cuore all’amico fariseo. Il centro è dato dalla
grazia dell’amore ricevuto, dall’amore di Gesù che ha toccato e sanato il cuore
della donna peccatrice, secondo la verità proclamata dalle parole del canto al
vangelo: “Dio ha amato noi e ha mandato
il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati” (1Gv 4,10).
È la scoperta di una vita! Lei ne ha fatto esperienza viva e tutti i suoi
gesti, semplici e splendidi, rivelano proprio quell’esperienza e a questa Gesù
richiama il fariseo. Il dramma dell’uomo è dato dal fatto che si può nascondere
all’amore del Signore sotto il manto della propria millantata giustizia.
Quando Gesù racconta la sua parabola
per illustrare al fariseo l’agire di Dio, è come se ricordasse che l’uomo non
può dare in cambio a Dio qualcosa per saldare il suo debito. Non può dare
nulla, ma il suo amore sì. E l’amore è più grande tanto più grande è la
coscienza del proprio debito, perché Dio condona proprio tutto il debito. Tra
l’altro, l’episodio sembra rispondere all’accusa verso Gesù che è ‘un beone e
un mangione, un amico di pubblicani e di peccatori’. Sì, si tratta di quel
‘beone e mangione’ ma che conosce i segreti di Dio, che attende i cuori al
varco e che svela a tutti la misericordia perdonante di Dio, perché questa è la
sua gloria: vedere l’uomo riconciliato con Lui, convinto dal suo amore.
L’esperienza appare sicuramente desiderabile, ma non è affatto scontata, tanto
è vero che i pensieri del cuore degli uomini sembrano muoversi in altre
direzioni. Tutto il racconto del vangelo mostra la difficoltà per gli uomini di
accogliere la via di Dio. Ma non esiste un’altra via di Dio; la via è proprio
Gesù, perché svela in verità il volto di Dio, dandoci
Solo l’episodio raccontato da Luca
riporta il particolare delle lacrime e s. Ambrogio suggerisce: “Proprio per
questo, forse, Cristo, non ha lavato i propri piedi, affinché noi glieli
laviamo con le lacrime. Lacrime benedette, che non soltanto possono lavare la
nostra colpa, ma anche bagnare i piedi del Verbo celeste, affinché i suoi passi
abbondino dentro di noi”. Le lacrime non parlano soltanto della vergogna del
nostro peccato, ma del desiderio di Dio che ha toccato il nostro cuore; parlano
della bellezza del nostro cuore che è fatto per Dio e per rispondere al suo
amore. Quando il mondo scompare, quando anche l’io non è più ingombrante,
allora il cuore sta solo con il suo Signore e sa che può star lì perché il
Signore si è fatto solidale con la nostra umanità peccatrice. Ed è per questo
che quando ritorna alla vita quotidiana, un cuore siffatto non custodisce
semplicemente in sé la grazia dell’incontro, ma si fa memoria vivente di
quell’amore misericordioso per il mondo.
La frase finale pronunciata da Gesù
: “La tua fede ti ha salvata; va’ in
pace!” si carica allora di un significato potente. La fede ha a che fare
con l’esperienza dell’essere perdonati, del vedere la propria verità di
peccatore, senza accampare ragioni di sorta, davanti a un Dio che ti circonda
della sua benevolenza, che non aspetta altro che di tirarti a sé. Tutto il
mondo circostante (pensieri, giudizi, eventi, persone) non ha più alcuna presa
sul cuore. Il perdono ricevuto non semplicemente acquieta ma ridà dignità nuova
per vivere nella grazia di quel perdono.
La donna non proferisce parola
alcuna; non ne ha bisogno. È tutta nei suoi gesti. Il suo cuore gode della
beatitudine descritta dal salmo responsoriale: “Beato l’uomo a cui è tolta la colpa e coperto il peccato. Beato l’uomo
a cui Dio non imputa il delitto e nel cui spirito non è inganno”. Gregorio
Magno annota che quella donna non poteva avere alcuna vergogna esteriore tanto
era assorta nella sua vergogna interiore. Il fariseo non interviene per
allontanarla perché non infastidisca l’ospite, in quanto si è reso conto
dell’accondiscendenza silenziosa e mite di Gesù verso di lei. Lei non vede
nessun altro se non Gesù; anzi, vede solo i suoi piedi, si è rannicchiata ai
suoi piedi, piange e asciuga e bacia e unge di profumo i suoi piedi. In quei
gesti passa tutta la sua anima; non ha bisogno di alcuna parola, di alcun
sguardo: sente il cuore di Gesù come lui sente il suo. La scena è così potente
che s. Ambrogio può interpretarla come immagine della Chiesa che risponde
all’amore del Cristo. Nell’offerta del suo amore
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Quarto ciclo
Anno liturgico C (2012-2013)
Tempo Ordinario
XII
Domenica
(23 giugno 2013)
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Zc
12,10-11; 13,1; Sal 62; Gal 3,26-29; Lc 9,18-24
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Il mistero della persona di Gesù non
viene mai meno. Nonostante tutte le sue spiegazioni e nonostante la
confessione, pur sincera, degli apostoli, quel mistero permane, come permane
ancora per noi sia nel suo fascino sia nella sua insondabilità. Gesù si
avvicina gradualmente al cuore dei suoi apostoli. Prima chiede: “Le folle, chi dicono che io sia?” e poi:
“Ma voi, chi dite che io sia?”.
Matteo colloca l’episodio a Cesarea di Filippo, Marco nel viaggio di Gesù a
Gerusalemme, Luca è il solo ad annotare: “…mentre
Gesù si trovava in un luogo appartato a pregare e i discepoli erano con lui…”.
Come a sottolineare: è da dentro la preghiera che scaturiscono domanda e
risposta, perché le domande e le risposte vere non sono curiosità intellettuali
ma riguardano la verità di cui ha bisogno il cuore per vivere e solo nella
preghiera il cuore può lambire quella verità. Per Gesù, le domande nascono
dalla volontà di fedeltà al Padre e nascono nella preghiera perché qui si
esprime tutto il contenuto di intimità che quella volontà di fedeltà comporta.
Così è per i discepoli, con la differenza che per loro, che non conoscono
ancora quella intimità con il Padre, c’è bisogno prima di vedere come prega
Gesù, di restare affascinati dalla intensità della sua preghiera, per
desiderare a loro volta la stessa cosa. E anche per loro, la risposta scaturisce
da quel contesto di preghiera partecipato: tu sei “il Cristo di Dio”, come a
dire: tu sei Colui che viene da Dio, che ci sveli il volto di Dio, tu sei il
Messia. Ma Gesù sa fin troppo bene che dietro allo slancio del cuore, non c’è
ancora tutta la loro mente, non ci sono ancora tutte le loro energie interiori
perché i misteri di Dio hanno bisogno di tempo per conquistare l’uomo, che non
si rassegna mai a perdere le sue ‘idee’ di Dio.
La liturgia accompagna la
rivelazione da parte di Gesù della sua passione con il brano di Zaccaria: “Riverserò sopra la casa di Davide e sopra
gli abitanti di Gerusalemme uno spirito di grazia e di consolazione:
guarderanno a me, colui che hanno trafitto”, che Giovanni sfrutterà nel suo
racconto (Gv 19,37). Il misterioso ‘trafitto’ della visione profetica richiama
Gesù che annuncia ai suoi apostoli quello che gli accadrà a Gerusalemme. Nel
racconto parallelo di Matteo, Pietro rifiuta questa rivelazione e viene
aspramente rimproverato da Gesù: “Va’
dietro a me, Satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma
secondo gli uomini”. Pietro ha voluto mettersi davanti a Gesù, ma Dio,
secondo la testimonianza di Es 33,20-23, si può vedere solo di spalle. Il che
significa: solo accettando di camminare per dove Dio indica lo si potrà vedere
in verità. E ancora: solo disponendoci a praticare la sua parola si può
scoprire la verità della promessa di vita che la sua parola comporta. Solo
stando dietro il Maestro si potrà scoprire il Volto di Dio in verità nel suo
amore per gli uomini.
Quando Gesù, subito dopo, invita i
discepoli a rinnegare se stessi, prendere la croce e seguirlo, non fa che
estendere a tutti il rimprovero rivolto a Pietro. Potremmo intendere le cose
così. Pietro, nel rimproverare Gesù, aveva probabilmente temuto per sé. Se
Gesù, il Messia, avesse dovuto subire tutti quei tormenti, certamente sarebbe
svanito il prestigio dell’essere ‘compagno’ del Messia. E allora che ne sarebbe
stato di lui? Il ‘rinnegare se stessi’ vale in rapporto al mistero di Dio che
in Gesù si fa prossimo agli uomini per la potenza del suo amore tanto da far
scaturire la vita proprio là dove gli uomini mai la cercherebbero. Se gli
uomini pensano in prospettiva mondana come potranno vedere i segreti di Dio? La
rinuncia a ogni prospettiva mondana è la condizione per accogliere il mistero
di Gesù che sulla croce rivela lo splendore dell’amore, motivo di ogni rinuncia
a qualsiasi cosa che non sia collegabile o derivante da quell’amore. D’altronde
qui risiede tutta la dignità della vita. Il portare la croce non si riferisce
primariamente alla fatica del vivere, ma alla condizione perché la fatica del
vivere risulti fruttuosa: la rinuncia ad ogni prospettiva mondana ci apre alla
rivelazione dell’amore di Dio nella nostra vita, amore che possiamo cogliere in
tutto il suo splendore proprio nella croce di Gesù. Seguire Gesù significa
essere partecipi di questa rivelazione fino a viverla nel concreto della
propria vita per dare spazio alla stessa dinamica di amore.
Un esempio dell’immensità di
orizzonte e quindi della sfida che comporta per l’uomo la verità che viene da
Dio ci è riportato dal brano della lettera ai Galati: “Non c’è Giudeo né Greco; non c’è schiavo né libero; non c’è maschio e
femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù”. Quale sfida per
l’uomo! Eppure quella verità fa parte dei segreti di Dio svelati all’uomo da
Gesù. Nell’accogliere quei segreti sperimentiamo l’intensità e la profondità di
quell’amicizia con l’uomo che Gesù ci ha offerto da parte di Dio. Tra il
desiderio del cuore e l’accoglimento del mistero di Gesù si pone con tutto il
suo peso la sfida di Dio che spesso si presenta debole, disprezzato, capace di
mettersi nelle mani degli uomini per essere vilipeso e condannato. I
comandamenti del Signore, rispetto alla sapienza del mondo che pervade la
nostra carne, non hanno spesso quella stessa risonanza, quella per la quale non
ci sentiamo attirati, ma come impauriti, respinti?
I discepoli accettano con gioia
Gesù, ma faticheranno molto ad accettare la sua passione e morte. Accettare la
realtà di Dio non è così agevole per l’uomo, perché l’uomo non ha mai
abbandonato la ‘pretesa di bene’ dimenticando che il bene è tale solo se rivela
Dio. Così il mistero di Gesù si riflette nel mistero della vita del discepolo
di Gesù. Ma se il discepolo, oltre allo slancio del cuore, avrà la pazienza di
misurare le sue ‘idee’ fino ad accantonarle pur di accogliere la verità che
viene da Gesù, a dispetto di ogni altra aspettativa, allora incomincerà a
godere di quella ‘amicizia’ che lo mette a parte dei segreti di Dio. E una
volta che si sente custodito in quella offerta di amicizia, non basterà il
mondo intero a dissuaderlo, pur sapendo che sarà proprio la ‘debolezza’ di Dio
a custodirlo e non la sua forza.
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Quarto ciclo
Anno liturgico C (2012-2013)
Tempo Ordinario
XIII
Domenica
(30 giugno 2013)
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1
Re 19, 16.19-21; Sal 15; Gal 5,1.13-18; Lc 9,51-62
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Dal momento che suoneranno dure le
parole di Gesù ai nostri orecchi, il canto al vangelo le introduce con il
riferimento ai sentimenti del giovane Samuele e dell’apostolo Pietro: “Parla, Signore, perché il tuo servo ti
ascolta: tu hai parole di vita eterna” (1Sam 3,9; Gv 6,68). Se già ci sono
sembrate perentorie le condizioni di discepolato per Eliseo rispetto al profeta
Elia, con Gesù esse si faranno ancora più esigenti.
Con il brano evangelico di oggi
inizia la lunga sezione della salita di Gesù a Gerusalemme (9,51-19,28). Nella
descrizione di Luca il momento è così rivelativo del mistero della persona di
Gesù che la narrazione assume toni solenni e del tutto speciali anche nel
linguaggio. Noi leggiamo: “Mentre stavano
compiendosi i giorni in cui sarebbe stato elevato in alto, egli prese la ferma
decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme e mandò messaggeri davanti a
sé. ... non vollero riceverlo, perché era chiaramente in cammino verso
Gerusalemme”. Letteralmente invece suona: “Mentre si compivano i giorni della sua assunzione (termine che può
indicare sia la morte che l’ascensione di Gesù), indurì il suo volto per incamminarsi verso Gerusalemme e mandò davanti
al suo volto degli angeli … non vollero riceverlo, perché il suo volto stava
seguendo il cammino verso Gerusalemme”.
Per Gesù è arrivato il momento di
salire a Gerusalemme per dare compimento alla sua missione. Aveva già
preannunciato ai discepoli la sua passione; li aveva come consolati con
l’evento della trasfigurazione, sapendo che non avrebbero retto allo scandalo
della sua condanna; aveva cercato di istruirli sui misteri di Dio che con lui
si compivano. Ora è venuto il momento di portare a compimento il disegno di
Dio, come non sopportasse più alcuna dilazione. La decisione di Gesù,
sottolineata con l’espressione tipica del profeta Isaia ‘rendere la faccia dura
come pietra’ (Is 50,7), mostra sia la realizzazione della parola del profeta
che la fedeltà di Gesù al volere del Padre, che così, con quel che avverrà a
Gerusalemme, ha voluto svelare tutto il suo amore agli uomini.
Da dentro quella fedeltà vanno
compresi sia il rimprovero a Giacomo e Giovanni sia le condizioni esigite da
Gesù per seguirlo. La fedeltà di Gesù è la fedeltà a un amore che non si lascia
mai distogliere dal suo obiettivo perché è il segreto di Dio che deve essere
rivelato agli uomini: “Dio ha tanto amato
il mondo da dare il Figlio unigenito” (Gv 3,16). Gesù compie la fedeltà dei
profeti, che non potevano ancora conoscere in tutta la sua consistenza quel
segreto e rimprovera i discepoli che volevano imitare il profeta Elia (cfr. 2Re
1,10-12). E quando esige dai discepoli certe condizioni per seguirlo, non fa
che trasmettere loro il principio della sua stessa fedeltà, che si fa urgenza
di annunciare il regno di Dio ormai giunto, cioè urgenza di svelare il suo
segreto, il segreto stesso di Dio (perché in questo consiste la missione degli
apostoli!). Di fronte alla scoperta di tale segreto, non c’è bene o valore
umano che possa prevalere.
La condizione prima è accettare il
modello di Gesù che si definisce come Figlio dell’uomo che non ha dove posare
il capo. Mi piace riportare il commento di s. Chiara di Assisi: “Cristo non ha
dove posare il capo e quando lo reclinò sul suo petto, fu per rendere l’ultimo
respiro” (FF 2864). Come a dire: chi cerca il suo riposo altrove, non segue
Cristo; chi cerca il suo riposo prima di dare la sua anima, non segue Cristo;
chi cerca il suo riposo nel vivere di quell’annuncio del segreto di Dio è
beato, perché partecipa alla stessa fedeltà di Gesù. L’unico luogo di riposo
del capo di Cristo è il volere del Padre e il volere del Padre è l’amore
sconfinato agli uomini. Dello splendore che deriva da quell’amore manifestato
da Gesù parla l’urgenza che attraversa il brano di oggi.
Così, l’espressione del salmo: “Il mio Signore sei tu, solo in te è il mio
bene” va letta come dichiarazione di
un amore: posso avere tante cose, ma se non ho te, che vale la vita? L’antica
versione latina cantava: ‘bonum mihi non est sine te’. Nessun presunto bene è
bene per me senza di te! Nessun bene è tale se non contribuisce a manifestare
quel segreto di Dio, il suo amore agli uomini. Se l’amore è esigente, lo è in
proporzione della potenza e della qualità di vita che dischiude, nella fedeltà
di un agire che non si lascia più distogliere dal perseguirlo sempre e comunque
perché tutti ne godano e finalmente ci si possa riposare.
Quando Gesù, in un crescendo di
espressioni perentorie che illustrano le condizioni per seguirlo, afferma: “Nessuno che mette mano all’aratro e poi si
volge indietro, è adatto per il regno di Dio” rivela una grande verità per
il cuore dell’uomo. L’uomo, è vero, non è degno del Regno, ma adatto, sì. Il
che significa che la misura del cuore dell’uomo è proprio il Regno. Il dramma
dell’uomo consiste proprio in un giudizio cattivo su di sé, che nasconde un
cattivo giudizio su Dio: non ci si ritiene adatti ai misteri di Dio (At 13,46)!
E quando l’uomo non accoglie umilmente questa verità si fa violenza e la
eserciterà su tutti; sarà in preda del tormento della morte e il mondo è prostrato
dagli effetti di tale tormento.
Per questo Paolo nella seconda
lettura parla di ‘libertà liberata’. È la libertà frutto dell’amore, che non
teme di sottomettersi ai fratelli pur di non essere distolti dalla
partecipazione al segreto di Dio. La colletta ci fa pregare: “O Dio, che ci
chiami a celebrare i tuoi santi misteri, sostieni la nostra libertà con la
forza e la dolcezza del tuo amore, perché non venga meno la nostra fedeltà a
Cristo nel generoso servizio dei fratelli”, dove ‘servizio’ non sta semplicemente
per azioni buone ma per atteggiamento del cuore, del cuore di un uomo che ‘ha
indurito il suo volto’ per non mancare lo scopo della sua vita.
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Quarto ciclo
Anno liturgico C (2012-2013)
Tempo Ordinario
XIV
Domenica
(7 luglio 2013)
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Is
66, 10-14; Sal 65; Gal 6, 14-18; Lc 10, 1-12. 17-20
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Il profeta Isaia aveva annunciato la
prosperità di Gerusalemme, descrivendo l’invasione di consolazione che
l’avrebbe sommersa. Parlava della consolazione che annuncia il canto al
vangelo: “La pace di Cristo regni nei
vostri cuori; la parola di Cristo abiti tra voi nella sua ricchezza” (Col
3,15.16) e che la missione dei 72 discepoli preannunciava essere l’eredità di
tutte le genti. Il numero di 70 o 72 si riferisce appunto al numero delle
nazioni secondo la tradizione ebraica di Gn 10 (70 per il testo ebraico, 72 per
il testo greco).
Tre sono i passaggi significativi
del brano: prima Gesù istruisce i discepoli, poi accoglie la loro gioia a
missione compiuta e alla fine (purtroppo questo terzo passaggio manca nella
proclamazione liturgica) svela la ragione profonda e della missione e della
gioia con la sua preghiera di lode al Padre.
Il brano inizia con l’annotazione: ‘dopo questi fatti’, con l’allusione alle
condizioni della sequela di Gesù presentate prima. Chi sono quei settantadue
discepoli che il Signore invia davanti a sé nel suo cammino verso Gerusalemme?
Sono coloro che, avendo incontrato Gesù, al pari di lui, non fanno riposare il
loro capo se non nel volere di Dio che cerca la salvezza degli uomini; sono
coloro il cui riposo consiste nella pace che portano nel nome del Signore.
Gesù li invia due a due. Come
possono annunciare la pace del Regno se non la fanno vedere come compiuta nella
loro relazione fraterna? Come possono invitare a condividere insieme a loro la
pace del Signore che si fa nostro prossimo se quella pace non è diventata
radice di benevolenza tra loro, segno dello splendore di Dio in mezzo a loro?
Gesù li invita a pregare perché Dio
non si stanchi di far grazia di sé attraverso coloro che hanno trovato nella
pace del vangelo il riposo del loro cuore. Il fatto di far pregare allude ad
una rivelazione. Vuol dire che nell’annuncio del vangelo è Dio stesso che si
approssima all’uomo e questo è il mistero che, se ha conquistato il cuore degli
annunciatori, conquisterà anche quello degli ascoltatori. Se questo è vero,
vuol dire che Dio ritiene l’uomo suo compagno ("Siamo infatti collaboratori di Dio", 1Cor 3,9). È una cosa
straordinaria! Con la rivelazione di Gesù, che svela, mentre compie, il supremo
desiderio di Dio di stare dalla parte degli uomini, possiamo scorgere all'opera
nel mondo le segrete intenzioni di Dio nei confronti delle sue creature.
Parlare di annuncio evangelico, di redenzione, di salvezza, di grazia,
significa alludere a questa opera di riconciliazione in atto nella storia, come
dice Gesù: «Il Padre mio opera sempre e
anch'io opero» (Gv 5,17). Opera appunto la riconciliazione in Gesù, nostra
pace ("Egli infatti è la nostra pace",
Ef 2,14). I discepoli di Gesù sono chiamati a concorrere alla realizzazione di
questa opera. In questo senso dobbiamo imparare a giudicare ogni cosa in base
alla convergenza verso questo supremo scopo divino. Tra l’altro, imparare a
diventare coscienti di questa realtà significa passare dal livello psicologico
a quello spirituale, diventare compagni di Dio.
Li invia come agnelli in mezzo ai
lupi. Come dicesse: non cercate di imitare i lupi, perché avverrà come per il
Figlio dell’Uomo, l’Agnello di Dio, che ha rivelato lo splendore dell’amore di
Dio per gli uomini. Stare agnelli comporta la rivelazione di quel mistero
d’amore. Ma non temete: la debolezza di Dio è più forte della forza degli
uomini!
A missione compiuta, i discepoli
tornano pieni di gioia. La letizia è il segnale della partecipazione all’opera
di Dio di cui Gesù ci fa corresponsabili. Una prima ragione di gioia sta nella
caduta di satana dal cielo. Il che significa: il demonio non ha più un potere
superiore all’uomo. Cessa la sudditanza, anche se inizia la lotta, che si può
vincere nel nome di colui che l’ha ormai detronizzato con l’annuncio
evangelico: “è vicino a voi il regno di
Dio”. La forza del nemico sta nell’intimorire, ma a chi non gli presta
orecchio non fa alcun danno. Gesù però conferma la loro gioia sulla base del
fatto che “i vostri nomi sono scritti nei
cieli”. Come a dire: non rallegratevi di aver potuto fare cose
straordinarie, impensate e impensabili fino ad ora, ma rallegratevi di godere
del segreto di Dio, di stare solidali con il suo sentire di benevolenza verso
gli uomini. L’annuncio si gioca infatti sulla potenza del contagio della
letizia di cui fanno esperienza i discepoli e di cui Gesù svela la vera ragione:
i vostri nomi sono scritti nei cieli, avete parte al ‘far grazia di sé all’uomo
da parte di Dio’, partecipate al suo amore per gli uomini.
I discepoli impareranno l’estensione
e la natura di quella letizia nel seguire il loro Maestro che sta andando a
Gerusalemme dove subirà la passione. Lo ricorda s. Paolo nella seconda lettura
di oggi quando proclama: “Fratelli,
quanto a me non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù
Cristo, per mezzo della quale il mondo per me è stato crocifisso, come io per
il mondo” (Gal 6,14). Come a dire: rispetto a quell’amore, rivelato
dall’alto e colto nel seguire il Signore Gesù, non c’è nulla nel mondo che
meriti la preferenza e non c’è nulla in me che può trovare adeguato compimento
a partire dal mondo. La letizia evangelica è una letizia esigente.
Ma la vera radice di quella letizia
è rivelata da Gesù quando firma la gioia dei discepoli con la sua esultanza: “Ti rendo lode, o Padre ... perché hai
nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì,
Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza” (Lc 10,21). È
all’intimità di quella rivelazione che il discepolo attinge per fondare le
ragioni di un vivere che si strutturano come radici di umanità nuova. E la sua
forza sta tutta nella fiducia delle parole di Gesù: “Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto dare a
voi il Regno” (Lc 12,32)! Non è conquista nostra, non attiva meccanismi di
rivendicazioni o esibizioni, non comporta grandezze umane che dividono; solo
una gratitudine immensa, uno stare solidali con i sentimenti di benevolenza di Dio per tutta l’umanità.
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Quarto ciclo
Anno liturgico C (2012-2013)
Tempo Ordinario
XV
Domenica
(14 luglio 2013)
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Dt
30, 10-14; Sal 18; Col 1, 15-20; Lc 10, 25-37
_________________________________________________
L’incontro dello scriba con Gesù è
presentato nei tre sinottici con queste rispettive domande: “qual è il grande
comandamento?” (Mt 22,34-40); “qual è il primo di tutti i comandamenti” (Mc
12,28-34); “Cosa devo fare per ereditare la vita eterna?” (Lc). Noi potremmo
riformulare le loro domande pressappoco così: qual è il comandamento che dà
vita mentre si eseguono tutti gli altri? Chi devo amare?
In questo modo risalta meglio la
posta in gioco e la risposta di Gesù con la parabola del buon samaritano
acquista tutta un’altra risonanza. La conclusione della parabola restituisce in
effetti allo scriba l’ottica giusta, quella di Dio: non si tratta di sapere chi
sia o non sia il prossimo meritevole del mio amore, ma di agire da prossimo con
chiunque, anche con i nemici o gli avversari. “Va’, e anche tu fa’ così”, come il buon samaritano che si è mosso a
compassione vedendo un uomo ferito sulla strada.
Il mistero della parabola però va
oltre, perché le parabole parlano di Dio e non semplicemente dell’uomo. Il buon
samaritano è Gesù, che ha lasciato le 99 pecore (gli angeli) al sicuro ed è
venuto a cercare la pecora (l’uomo) perduta. Così, l’agire in compassione fa
ereditare la vita eterna perché assimila a Dio, rende simili al Cristo. È la
solidarietà con i sentimenti di Dio che la parabola proclama, solidarietà per
la quale l’uomo davvero è attirato dall’amore di Dio che è chiamato a far
risplendere. Facendosi prossimo di chiunque il discepolo di Gesù annuncia che
Dio è Padre e ama tutti i suoi figli.
È il mistero di ogni parola di Dio
che il brano del Deuteronomio illustra così: “Questo comando che oggi ti ordino non è troppo alto per te, né troppo
lontano da te. ... Anzi, questa parola è molto vicina a te, è nella tua bocca e
nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica”. Cosa significa che la parola
del Signore, il suo comandamento, è vicino
a noi? Almeno due cose: 1) non è qualcosa di complicato o assurdo o
inarrivabile, ma accessibile a noi; 2) è adatto a noi, corrisponde al nostro
cuore, nel senso che fa vivere il cuore, ne compie gli aneliti profondi. La
difficoltà per noi deriva dal fatto che il comandamento non è evidente e la
promessa di vita che racchiude si rivela solo a chi lo pratica, come dice
sempre il brano appena citato: la parola del Signore ti è vicina perché tu la metta in pratica. Davanti
alla parola dovremmo domandarci: qual è il mistero che nasconde, di cui
diventare partecipi, mettendola in pratica? Vale a dire: il comandamento non
rivela il suo segreto se non praticandolo. Non lo puoi praticare se non lo
accogli da dentro un’alleanza col tuo Dio, ma non lo puoi comprendere se non
praticandolo e così cogliere il gusto di quell’alleanza con Dio che si era
prima appena percepita. L’amore di Israele per il suo Dio è un tema tipico del
libro del Deuteronomio, assente negli altri libri del Pentateuco. Il brano di
oggi chiude praticamente il libro del Deuteronomio e tutto il Pentateuco. Se il
vangelo lo riprende è come se riprendesse in sintesi tutta la Legge mostrandone
il compimento, come giustamente dimostra di conoscere lo scriba che interroga
Gesù.
Ad avvalorare la percezione della
verità della parabola la seconda lettura della lettera ai Colossesi ci ricorda
che tutte le cose sono state create e tutte le cose sono state riconciliate
‘per mezzo di lui e in vista di lui’. Creazione e redenzione si corrispondono.
Il che significa che la struttura intima del nostro cuore è misurata sui sentimenti
di Dio che Gesù svela e ci consente di vivere stando uniti a lui. Se Dio in
Gesù si è fatto nostro prossimo, possiamo anche noi in Gesù farci prossimo di
chiunque in modo che l’amore di Dio per tutti splenda. Significa ancora
conferire alla parola evangelica non tanto la natura di ideale ma quella di
radice. In altri termini: se vogliamo conoscere cosa davvero vuole il nostro
cuore in profondità non abbiamo che da riferirci a Gesù e alla parola di Gesù;
se vogliamo realizzare i desideri profondi che portiamo, la dinamica da seguire
per ottenere soddisfazione è quella mostrata dalla parola evangelica. Non
sembra affatto scontato riconoscere la cosa, ma beato colui al quale è concesso
vedere il mondo sotto questa angolatura.
Lo rivela anche il salmo 18 con il
proclamare: “La legge del Signore è
perfetta, rinfranca l’anima; la testimonianza del Signore è stabile, rende
saggio il semplice. I precetti del Signore sono retti, fanno gioire il cuore;
il comando del Signore è limpido, illumina gli occhi”. Come dicessimo: ho
scoperto che la legge del Signore è perfetta perché rende noi perfetti
rendendoci pieni di vigore; che è salda perché rende noi veri e saggi; che è
retta perché ci fa giusti in letizia; che è limpida perché rende puro il cuore
e gli occhi luminosi, ecc. La parola del Signore ristora l’anima, dà gusto
all’intelligenza, gioia al cuore e luminosità agli occhi. Come a dire: è la
parola del Signore, cioè la vita che deriva da lui, a costituire la fonte del
ristoro (pace), del gusto (sapienza, senso), della gioia e della luminosità per
i nostri cuori. E tutto questo si sperimenta accettando di condividere l’agire
di Dio per gli uomini: farsi prossimo a tutti.
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Quarto ciclo
Anno liturgico C (2012-2013)
Tempo Ordinario
XVI
Domenica
(21 luglio 2013)
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Gn
18, 1-10; Sal 14; Col 1, 24-28; Lc 10, 38-42
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La lettura della Genesi ed il brano
di Luca sono accomunati da un atteggiamento di fondo caratteristico: la
sollecitudine. Abramo corre per
onorare i suoi ospiti; Marta, presa dalla stessa sollecitudine, è tutta
indaffarata nei molti servizi per un'ospitalità degna dell'illustre Ospite,
mentre Maria, con lo stesso atteggiamento di sollecitudine anche se in modalità
differente dalla sorella, è tutta presa dall'Ospite dal quale non stacca occhi
e orecchi. Da dove scaturisce quella sollecitudine? Senza cogliere la radice di
quella sollecitudine, difficilmente possiamo avvertire il mistero che questi
testi illustrano.
Gesù intesse l’elogio di Maria per
rimproverare Marta? Cosa significa: ‘non
le sarà tolta’? Semplicemente, che Gesù l’avrebbe lasciata stare ai suoi
piedi e non l’avrebbe comunque importunata invitandola ad aiutare la sorella nel
servizio? Il vangelo non riporta semplici annotazioni di cronaca quotidiana.
Il fulcro dell’episodio sta appunto
in quel non le sarà tolta.
L’allusione è al desiderio profondo del cuore dell’uomo che è fatto per Dio.
L’elogio di Gesù si riferisce ad un tempo in cui sarà Lui stesso a servire i
suoi discepoli (cfr. Lc 12,37). Ciò che non verrà mai meno e di cui si potrà
godere in assoluto, quello è la parte buona, l’unica cosa necessaria, quello di
cui c’è bisogno. In primo piano c’è Dio che viene incontro all’uomo, Dio che
ristora l’uomo. La figura di Abramo, nella tradizione ebraica, allude alla
medesima verità. Abramo si era lamentato con Dio perché, appena circonciso,
dolorante, non avrebbe potuto soddisfare il comandamento dell’ospitalità e
allora Dio stesso decide di fargli visita. La figura di Maria ai piedi di Gesù
apre alla stessa visione. Ma quella visione è percepibile se il cuore avverte
la natura del suo ascoltare, tutto teso a godere la verità dell’amore del suo
Dio che la nutre e la ristora. Così, la sua figura è figura di ogni discepolo,
la figura di ogni lettore/ascoltatore della Parola di Dio.
Quando Gesù fa l’elogio di Maria,
rivela la natura vera del servizio di Marta. In effetti, due sono gli aspetti
dell'ospitalità: la sollecitudine nel servizio e l’intimità con l'ospite. Dei
due, la parte migliore è l'intimità, nel senso che è l'intimità la forza e la
finalità della sollecitudine, la quale serve a dare concretezza all'intimità.
Tutto converge verso l'intimità. Ma la domanda vera per noi può essere: posso
godere l'intimità senza esser preso dalla sollecitudine? Nel rapporto tra le
due sorelle, che simboleggiano tutta la chiesa considerata unitariamente nelle
sue molteplici manifestazioni di doni e carismi, Maria deve ringraziare Marta:
può stare con il Signore senza che il Signore sia privato del dovuto onore; e
Marta può ringraziare Maria: può onorare il suo Signore senza che il Signore
sia lasciato solo.
In realtà la suddivisione dei
ministeri non comporta lo spezzettamento dell'unica cosa necessaria, che resta
sempre la medesima per tutti, in tutte le circostanze. Quando gli apostoli
hanno scelto di dedicarsi al ministero della parola e di affidare ad altri il
servizio delle mense, nel racconto degli Atti degli apostoli, non hanno scelto
di fare Maria piuttosto di Marta. L'esempio testimoniale dell'unica cosa
necessaria è dato da Stefano, incaricato del servizio delle mense, che aveva il
cuore rapito nella visione del suo Signore. L’unica cosa necessaria non è
l'opera migliore fra altre; è di altra natura: il possesso di quell'unica cosa
necessaria rende fruttuosa ogni opera
di servizio. Fruttuosa, vale a dire capace di far sbocciare l'opera eseguita in
frutto di intimità. Come a dire, ancora, che il frutto dell'agire bene non è
semplicemente la virtù, ma la visione: aprire gli occhi del cuore alla
conoscenza del Signore, all'unione con il Signore che davvero ristora il nostro
cuore. E se il cuore è ristorato, allora, nel suo servizio ai fratelli, lascerà
intravedere 'quanto è buono il Signore', quanto è desiderabile il suo possesso.
In realtà, il senso stesso della sollecitudine del servizio consiste nel
permettere agli altri di desiderare l’intimità col Signore, che di quel
servizio è motivo e scopo.
Quando di Abramo si descrive la sua
sollecitudine per gli ospiti, quello che il testo vuol far vedere è
l’accondiscendenza di Dio per il suo servo, capace di tener fede alle sue
promesse e di garantire al suo servo la verità della sua conoscenza, per lui e
per i suoi discendenti. Le antiche leggende ebraiche non fanno che sottolineare
questo aspetto nella fantasia dei particolari del racconto. Abramo è visitato
da Dio il terzo giorno dopo la sua circoncisione, segno dell’obbedienza al suo
Dio, quando è ancora sofferente. Il caldo era insopportabile perché nessun
viandante passasse a disturbare Abramo. Ma la cosa aveva reso Abramo molto
triste perché se non capitava nessuno non avrebbe potuto esercitare alcuna
ospitalità. Dio stesso decide allora di
fargli visita e non vuole che nemmeno si alzi per venirgli incontro perché era
sofferente, dicendogli, anzi, che i suoi discendenti, già all’età di quattro o
cinque anni, staranno seduti nelle scuole e nelle sinagoghe dove Lui dimorerà.
Ma quando arrivano gli angeli in veste di uomini, Abramo supplica il Signore di
permettergli di andare loro incontro per offrire ospitalità, preferendola alla
compagnia stessa della Sua Presenza. Tutti particolari che rivelano l’estrema
accondiscendenza di Dio, percepita come la benedizione perenne sul popolo che
da Abramo prende discendenza. E l’invito a Sara di impastare tre sea di farina
(circa mezzo quintale, con la quale si sarebbe potuto sfamare un centinaio di
persone!) allude all’altra donna del vangelo che impasta tre misure di farina
con un po’ di lievito, simbolo appunto di Abramo che per la sua fede ha fatto
regnare Dio in questo mondo.
Quando con l’orazione sui doni
preghiamo: “ … ciò che ognuno di noi presenta in tuo onore giovi alla salvezza
di tutti” intendiamo: sono graditi a Dio solo i doni che procedono e favoriscono
la Sua conoscenza in questo mondo, nel concreto della storia quotidiana, retta
dalla provvidenza di Dio per noi.
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Quarto ciclo
Anno liturgico C (2012-2013)
Tempo Ordinario
XVII
Domenica
(28 luglio 2013)
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Gn
18, 20-21. 23-32; Sal 137; Col 2, 12-14; Lc 11, 1-13
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La liturgia ci introduce oggi al
mistero della preghiera. Vedendo pregare Gesù, i discepoli devono aver colto
qualcosa del mistero della sua
preghiera, tanto da indurli a desiderare intensamente la stessa cosa per loro.
Quando Gesù risponde apre come una finestra sul suo mondo interiore e
contemporaneamente la apre sul nostro mondo interiore. E insegna la preghiera del
Padre Nostro. Se Gesù insegna il Padre
nostro, vuol dire che ciò che rendeva singolare la sua preghiera era
l’intensità di intimità con quel Padre
di cui custodiva i comandamenti, di cui annunciava la prossimità, di cui
svelava il volto, di cui mostrava la verità nell’amore all’uomo e di cui
suscitava la nostalgia in questo mondo.
La profondità di tale rivelazione è
svelata dalla preghiera di intercessione di Abramo. Il brano è introdotto dal
pensiero del Signore: “Devo io tenere
nascosto ad Abramo quello che sto per fare, mentre Abramo dovrà diventare una
nazione grande e potente e in lui si diranno benedette tutte le nazioni della
terra?”, secondo la proclamazione del salmo: “Il Signore si confida con chi lo teme: gli fa conoscere la sua alleanza”
(Sal 25,14), che nel testo ebraico suona: “Il
segreto (o l’intimità) del Signore è per quanti lo temono”. Abramo, che si
sente polvere e cenere, può parlare al suo Signore da dentro l’alleanza che gli
è stata offerta e alla quale ha aperto il suo cuore in tutta fiducia.
Quando intercede per Sodoma è come
osasse richiamare il Signore alla sua dignità
di giustizia e di misericordia, come a lui si era rivelato. Abramo sapeva che
non erano bastati otto giusti per salvare l’umanità dal diluvio (nell’arca
si salvano Noè e quelli della sua famiglia, otto in
tutto). Nella sua intercessione si ferma dunque a dieci: se ci fossero dieci
giusti nella città, come potrà il Signore distruggerla, proprio per riguardo a
quei dieci? Ma l’umanità non ha dieci giusti, ne ha uno solo: quel Figlio di
Dio fatto uomo, l’unico Giusto. Sarà per riguardo a lui che Dio abbandona la
sua giustizia per mostrare la sua misericordia. Ogni preghiera si fa forte
presso Dio per la forza di quel Giusto che costringe Dio alla misericordia.
Sarà quel Giusto a mostrare il volto di misericordia del Padre.
La tradizione ebraica è unanime nel
riconoscere ad Abramo la condivisione dei sentimenti di Dio tanto che sembra
che il servo custodisca il senso dell’alleanza in favore di tutti i popoli in
modo più sollecito dell’Altissimo. E in questo piace all’Altissimo. Negli
antichi racconti su Abramo si fa notare che quando un uomo prega con devozione
può star sicuro che la sua preghiera sarà esaudita, perché è detto: “Il desiderio degli umili tu sempre ascolti, Signore,
disponi il loro cuore, fai attento il tuo orecchio” (Sal 10,17). Nessuno ha
pregato con tale fervore come Abramo: “Lontano
da te agire in questo modo, il far morire il giusto con l’empio, così che il
giusto sia trattato come l’empio; lontano da te!”. Quando l’Altissimo vide
come intercedeva perché non distruggesse il mondo, lo lodò: “Tu sei il più bello tra i figli dell’uomo,
sulle tue labbra è stata versata la grazia” (Sal 45,3).
Nella tradizione cristiana si
sottolinea costantemente che ogni nostra richiesta a Dio, se non può essere
ricondotta ad una domanda del Padre
Nostro, non sarà esaudita. E tutte le richieste confluiscono in una sola,
come la conclusione della spiegazione di Gesù mostra chiaramente: “ ... quanto più il Padre vostro del cielo darà lo
Spirito Santo a quelli che glielo chiedono!”. Raramente abbiamo coscienza
nella nostra preghiera che questa sia la domanda essenziale. Probabilmente,
perché non abbiamo né coscienza dell’urgenza che ci agita dentro né della
confidenza di cui ci è dato l’accesso.
L’invadenza dell’amico importuno fa
pensare alla mancanza di ritegno della donna cananea (cfr. Mt 15, 28),
all’insistenza della vedova presso il giudice disonesto (cfr. Lc 18,1-8). E
dire che Dio esaudisce prontamente le
suppliche dei suoi eletti, quando la verità della storia è lì a provare il
contrario, come tutti ne facciamo amaramente esperienza, significa riconoscere
che solo la richiesta di Spirito Santo sarà esaudita. Vale a dire, sarà
esaudito l'anelito del cuore che non si accontenta delle cose che provengono da
Dio, ma che cerca proprio Dio, la confidenza con lui. Allora, per le cose di
cui abbiamo bisogno, prima che di richiesta, si tratta di affidamento: abbiamo
fiducia che Dio dispone ogni cosa per il nostro bene. Non possiamo pregare se non da dentro
quell’alleanza di benevolenza di cui ci ha fatto dono. Fare la volontà di Dio
significa prima di tutto fidarsi del proprio Dio, dare credito al suo amore e
cercare di stare con Lui, non di avere i suoi doni. Se la preghiera è questo,
allora non c'è preghiera che non venga esaudita. Dio cerca adoratori e amici,
non semplicemente 'consumatori', 'utenti', 'fruitori', 'clienti', termini che
ben si addicono a quanti ricercano prima di tutto le cose.
L’insistenza di Gesù: “Chiedete e vi sarà dato, cercate e
troverete, bussate e vi sarà aperto” allude alla fatica della preghiera che
si muove su due direttrici, quella della profondità e quella dell’intimità. In
funzione della profondità lavora la pazienza. Pregare costa fatica. Diversamente da quanto ci si immagina, la
preghiera, per diventare spontanea e forte, deve prima essere tenace. Non è
così facile pazientare con il proprio cuore, accettare i suoi tempi, accettare
i tempi di Dio, in tutta pace. Non è così agevole entrare nel proprio cuore per
poterlo offrire, tutto, a Dio. In funzione dell'intimità invece lavora la sincerità.
Non siamo mai sinceri davanti a Dio (ancor meno davanti agli altri e spesso
davanti a noi stessi). Dove non c'è sincerità non c'è intimità e dove manca
intimità l'incontro è freddo e banale. La sincerità dà ali alla preghiera.
Imparare ad essere sinceri, fino in fondo, senza barare, è la credenziale
migliore alla porta del cielo. E la sincerità migliore è data da
un’intercessione del genere: “O Signore del mondo. So che non ho virtù o meriti
che ti autorizzino a mandarmi in paradiso dopo la mia morte. Ma se è tua
volontà mandarmi all'inferno in mezzo agli empi, sai che non sono fatto per
intendermela con loro. Quindi, ti prego di portare fuori dall'inferno tutti i malvagi
prima di spedirmi laggiù”.
La drammaticità della logica della
preghiera (ottieni se chiedi, non necessariamente ciò che chiedi) è la
drammaticità di una relazione d’amore, espressa proprio dalla preghiera di quel
Giusto di cui viene detto: “Nei giorni
della sua vita terrena egli offrì preghiere e suppliche, con forti grida e
lacrime, a Dio che poteva salvarlo da morte e, per il suo pieno abbandono a
lui, venne esaudito. Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì”
(Eb 5,7-8).
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Quarto ciclo
Anno liturgico C (2012-2013)
Tempo Ordinario
XVIII Domenica
(4 agosto 2013)
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Qo
1, 2; 2, 21-23; Sal 94; Col 3,1-5. 9-11; Lc 12,13-21
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La risposta di Gesù all’uomo che gli
chiedeva di usare la sua autorità per ottenere giustizia in una questione di
eredità svela l’intenzione nascosta di tante nostre domande: cercare giustizia
presso Dio nel nostro interesse non è forse un diritto? Ma tale domanda è
evangelica? In altri termini: il cuore può trovare davvero soddisfazione? È fin
troppo evidente che non si può vivere bene senza giustizia, ma quale giustizia assicura il vivere bene?
La riflessione sapienziale della
prima lettura, tratta dal libro del Qoelet, lo evidenzia molto bene: tutto è
vanità. Vale a dire: è fatica vana cercare nei beni di questo mondo la
felicità. Il salmo responsoriale fa ben intendere che l’illusione non deriva
solo dalla inconsistenza dei beni ma anche dalla fugacità del tempo: “Insegnaci a contare i nostri giorni e
giungeremo alla sapienza del cuore” (Sal 89/90, 11). Potremmo spiegare: chi
confida nelle cose si percepisce eterno e l’ansietà rispetto ai beni della
vita, con l’affanno per il cuore che porta, rivela la coda di paglia di un uomo
di poca fede. Anche Gesù lo rimarca chiaramente e la risposta a quell’ansietà
che divora e prostra il mondo si trova nelle parole riportate poco dopo il
brano di oggi: “Cercate piuttosto il suo
regno e queste cose vi saranno date in aggiunta” (Lc 12,31). Gesù l’aveva
apertamente dichiarato: “Voi valete più
di molti passeri” (v. 7); “quanto più
degli uccelli valete voi” (v. 24), che pure Dio nutre; “quanto più farà per voi, gente di poca fede”
(v. 28), se Dio si premura di vestire così splendidamente l’erba nel campo!
L’illusione deriva dallo spostare la confidenza da Dio alle cose, con
l’aggravante che l’affanno per le cose impedisce la solidarietà con i fratelli.
È quanto si deduce dalla risposta di
Gesù che fa riformulare le domande in modo più pertinente. Che tipo di giudizio
Gesù formula? Il suo giudizio non riguarda questo mondo, ma il mondo futuro,
che però si gioca in questo mondo, come illustra anche la seconda lettura.
L’uomo cerca i beni di questo mondo per vivere bene, ma – ricorda Gesù – il
vivere bene non dipende dai beni di questo mondo. La parabola dell’uomo ricco
che aveva accumulato molti beni, nel suo significato più immediato, è chiara.
Corrisponde al senso di molti altri passi evangelici: che giova all’uomo guadagnare
il mondo se poi rovina se stesso o muore? (cfr Lc 9,25). Non si tratta però di
scegliere tra la povertà evangelica e la ricchezza, ma tra la cupidigia e la
solidarietà: “Così è di chi accumula
tesori per sé e non si arricchisce presso Dio”. Ecco la domanda meglio
posta: come arricchire davanti a Dio? I beni di questo mondo, di cui abbiamo
assoluto bisogno per vivere, portano vita se ci fanno arricchire presso Dio, ci
rimandano cioè alla confidenza in Lui e alla solidarietà in umanità perché Lui
sia benedetto come Padre di tutti.
Sembra che l’uomo non possa evitare
questa contraddizione: i beni affascinano, ma non soddisfano; il regno di Dio è
proclamato soddisfarci, ma non ci affascina più di tanto, almeno come noi ci
immaginiamo o vorremmo! La profondità della portata delle parole di Gesù
risalta più avanti, nel v. 32: “Non
temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto dare a voi il Regno”.
Contrapposto ai beni sta il Regno.
Noi siamo ancora nella condizione di percepire la natura dell’offerta di Gesù
con il suo parlare della benevolenza del Padre che in lui ci fa gustare il suo Regno? Riusciamo ancora a sognare cosa
possa comportare l’invito: “Venite,
benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin
dalla creazione del mondo” (Mt 25, 34)? In effetti, si tratta di una
rivelazione singolare, che risalterà ancora di più quando leggeremo domenica
prossima il seguito del nostro brano.
La rivelazione di Gesù procede per
due passaggi: prima risponde alla folla, poi ai discepoli. Rispondendo alla
folla indica come la discriminante per la giustizia in questo mondo risulti dal
fatto di stare solidali con l’umanità. Alla domanda: come ci si arricchisce
davanti a Dio, la Scrittura dà una risposta univoca: dando al povero (Pr 3,27;
Is 58,7). La solidarietà con chi è nel bisogno rende la vita degna di essere vissuta. Allora chi è il
ricco? È colui che assomiglia a Gesù: “egli,
pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come
Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo...” (Fil 2,6-7).
Dietro l’ammonizione di Gesù, si nasconde anche questa rivelazione.
Gesù continua poi a spiegarsi con i
discepoli e risponde alla domanda: qual è la radice della confidenza nella
vita? Sta forse nei beni di questo mondo? No! Sta nell’alleanza con Dio, la cui
fruizione permette quel vivere bene
che il nostro cuore cerca, a volte troppo affannosamente, solo nei beni di
questo mondo. Se prima si sottolineava che i beni vanno condivisi, adesso si
sottolinea che il bene vero è l’accoglienza del desiderio di prossimità
all’uomo da parte di Dio, che in Gesù si fa manifesta: al Padre è piaciuto dare
a voi il regno. Tutte le parole di Gesù sono l’eco di questa rivelazione. Qui
si radica quella confidenza capace di
aprire la vita, capace di aprirci alla vita, attraversando l’usura del tempo e
l’inconsistenza dei beni. Qui si radica l’opposto di quella cupidigia che
scardina il cuore dell’uomo e che rende la vita una battaglia persa per la
felicità. Cercare prima di tutto il Regno
è volere prima di tutto la compagnia di Dio, voler godere la benevolenza di Dio
nella nostra vita. Godere la benevolenza porta ad offrirla, a condividerla, a
vivere i beni nell’ottica di una benevolenza condivisa. Il segreto? La
possibilità di imparare a percepire, nelle parole della voce che dice: “Non temere, piccolo gregge, perché al Padre
vostro è piaciuto dare a voi il Regno”, la tenerezza con cui quella voce
risuona. Come a dire: il cuore dell’uomo cerca una pienezza che nessuna delle
ragioni del mondo soddisfa. Le ragioni del mondo non riescono a dare ragione
delle ragioni del cuore. Solo in quella voce
quelle ragioni trovano quiete.
§*§*§*§*§*§*§*§*§*§
Quarto ciclo
Anno liturgico C (2012-2013)
Tempo Ordinario
XIX
Domenica
(11 agosto 2013)
_________________________________________________
Sap
18,3.6-9; Sal 32; Eb 11,1-2.8-19; Lc 12,32-48
_________________________________________________
Il brano evangelico di oggi illustra
il mistero della grandezza divina del servizio, rivelazione tipicamente
evangelica: “Beati quei servi che il
padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità io vi dico, si
stringerà le vesti ai fianchi, li farà mettere a tavola e passerà a servirli”.
Ecco l’immagine di fondo che l’uomo non avrebbe potuto inventarsi e che
riassume invece il senso della persona e dell’agire di Gesù: Dio si mette a
servizio e in servizio degli uomini!
L’esortazione alla vigilanza, con le
parabole che la illustrano, dice assai più di quello che saremmo portati a
credere. I beni sono precari, e anche la vita è precaria. Stare vigili significa allora non perdere la
coscienza di quella precarietà? Oppure, ancora, significa aspettare con timore
l’arrivo del padrone, che comunque verrà e che dovrà ricompensare o castigare i
suoi servi a seconda di come si sono comportati? Non c’è nulla di evangelico in
questo tipo di vigilanza.
La vigilanza evangelica è in
rapporto ad altro. Se al Padre è piaciuto darci il suo regno nel Figlio che lo
rivela, allora tutto va giudicato in funzione di quella verità. E tanto più
quella verità parla al cuore, tanto più il cuore vivrà di quella verità. Come a
dire: tanto più il cuore vedrà la bellezza del Figlio di Dio, tanto più la
vedrà nei figli degli uomini per cui si metterà a servirli. Le parabole alludono
più direttamente al mistero della rivelazione del Figlio di Dio che si compie
nella storia, alludono al Signore che viene a preparare tavola ai suoi, a
condividere i suoi segreti quanto all’amore di Dio per l’uomo, motivo di
beatitudine per il cuore dell’uomo. Si tratta di un’esperienza di fede che
equivale a un vivere nell’orizzonte di una promessa che ha toccato il cuore. In
primo luogo non sta la fatica del vegliare, ma la percezione della fedeltà di
Dio alla sua alleanza. Non per nulla la liturgia comincia con l’antifona: “Sii fedele, Signore alla tua alleanza, non
dimenticare mai la vita dei tuoi poveri. Sorgi, Signore, difendi la tua causa,
non dimenticare le suppliche di coloro che t’invocano”. Si tratta di un
vegliare in funzione della percezione del regno di Dio arrivato a noi, in
funzione della sua promessa di prossimità all’uomo che si è compiuta e che
continuamente si va compiendo. La forza dell’esortazione del vegliare sta tutta
nel riportare il cuore a sentire l’alleanza di Dio, a vederla realizzata nel
Signore Gesù che diventa il tesoro del cuore perché in lui si concentrano le
promesse di Dio e i nostri aneliti. E prima ancora che tradursi in fatica di
veglia perché il nostro cuore non si allontani dalla verità percepita, diventa
ardore di veglia perché il Signore non dimentichi, perché non abbia timore
delle nostre miserie, perché non ci abbandoni, perché si costringa alla fedeltà
a quell’amore che ha così fortemente voluto per noi.
Il senso della parabola dell’attesa
del padrone quando torna dalle nozze va cercato in quel tipo di vigilanza
evangelica. L’immagine non ha nulla di usuale perché non esiste sulla terra
padrone che si metta a servire coloro che sono al suo servizio. Non è possibile
non pensare al gesto di Gesù di lavare i piedi ai discepoli nell’ultima cena,
come non è possibile non riferirsi al versetto di Giovanni “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il
Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui”
(Gv 14,23). Quel gesto, quella volontà del Signore nei nostri confronti, è ben
sottolineata dal versetto iniziale del brano di oggi: “Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto di dare a
voi il Regno”. E corrisponde, nella ricostruzione della vicenda del popolo
di Israele che esce dall’Egitto, secondo il libro della Sapienza,
all’annotazione: “Quella notte fu
preannunciata ai nostri padri, perché avessero coraggio, sapendo bene a quali
giuramenti avevano prestato fedeltà”.
La fede, che diventa ‘una
colonna di fuoco, come guida di un viaggio sconosciuto’, nel viaggio cioè
della nostra vita, sta tutta nella percezione di quel “al Padre vostro è piaciuto”. In quella volontà assoluta di
benevolenza per l’uomo, volontà manifestata in Gesù, sta il segreto della
vigilanza evangelica, come anche della fatica apostolica. Come potremo
liberarci dagli affanni e dalle preoccupazioni per i beni di cui abbiamo
bisogno per vivere, come potremo vivere in sicurezza una vita assolutamente
precaria, come non doverci servire dei fratelli per colmare il vuoto della
precarietà che ci attanaglia, se non abbiamo mai percepito quella volontà di
benevolenza nei nostri confronti? L’insistenza delle Scritture e della
Tradizione quanto al non dimenticate,
state attenti, vegliate, trova qui la sua ragion d’essere.
In questa ottica anche un altro
particolare del brano evangelico di oggi assume tutta la sua rilevanza. Sembra
che le parabole sulla vigilanza si riferiscano a un tempo finale, allorquando
il padrone arriverà e non ci saranno più scuse che tengano. In realtà non si
tratta di un tempo (il tempo eterno dopo il tempo storico) ma di una dimensione
(il tempo eterno che attraversa il tempo storico). Come a dire: il padrone che
arriva è l’immagine della rivelazione che si compie quando la vita quotidiana
si apre al mistero del regno dei cieli. Non si tratta di un vivere oggi in un
certo modo quaggiù per meritarsi di andare domani lassù. Si tratta piuttosto di
un’imminenza del Regno che si può rivelare in ogni punto della nostra vita. A
questo tende il servizio del padrone
riguardo ai suoi servi: lui si rivela al cuore nella sua volontà assoluta di
benevolenza per noi, visione che cambia radicalmente l’orizzonte della nostra
vita.
A ricordarci che non si tratta,
però, di una beatitudine beata, ma angosciosa, lavorata, paziente, sta
l’esempio di Abramo riportato nella seconda lettura. È vero che, se Abramo ha
potuto vedere solo di lontano i beni promessi, noi possiamo dire di averli
conseguiti, avendoli visti realizzati in Gesù. Ma per noi, come per lui, se la
promessa è certa, l’attuazione è precaria. Professare che in Gesù le promesse
si compiono non significa ancora che si compiono in verità in noi. Non per
nulla le parabole sulla vigilanza parlano della responsabilità dell’agire dei
discepoli, con l’insidia dell’illusione sempre alle porte, con l’insidia della
durezza di cuore rispetto all’attesa del padrone e al trattamento dei fratelli.
L’accento però, nell’esperienza evangelica, non è più posto sulla funzionalità
dell’agire (faccio bene per avere una ricompensa) ma sulla qualità della
vigilanza (sono così desideroso del mio padrone che mi preoccupo di tutti i
suoi servi). È l’attesa di Qualcuno, di Qualcuno che si sveli al mio cuore che
informa ormai la qualità dell’agire.
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Quarto ciclo
Anno liturgico C (2012-2013)
Solennità
Assunzione della Beata Vergine Maria
(15 agosto 2013)
_________________________________________________
Ap
11,19a; 12,1-6a.10ab; Sal 44; 1 Cor 15,20-27a; Lc 1, 39-56
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In un inno anonimo del VII secolo,
la prima esclamazione degli angeli nei riguardi della Vergine suona: “Ave,
nutrimento della gioia degli uomini”, mentre gli antichi testi agiografici
parlano della Vergine in rapporto ai fedeli come della Regina, della Madre del
Signore, della loro sorella. La liturgia bizantina sottolinea il parallelo tra
il parto verginale e l’assunzione gloriosa in questi termini: “Nel parto, hai
conservato la verginità, con la tua dormizione non hai abbandonato il mondo, o
Madre-di-Dio. Sei passata alla vita, tu che sei Madre della vita e con la tua
intercessione riscatti dalla morte le anime nostre”.
La festa di oggi modula la devozione
alla Vergine su due registri: la gioia come radice di speranza per l’umanità e
la sua intercessione universale. Nella sua lettera ai Corinzi Paolo ricorda il
dato della fede nella risurrezione. E tratteggia tutto il corso della storia
fino alla fine del mondo nel senso di una rivelazione progressiva, anche se
misteriosa e drammatica, della signoria di Cristo che prevarrà su tutto. Noi
siamo nel tempo della sottomissione a Cristo di tutti i nemici di Dio, morte
compresa. Il regno di Cristo coincide con la riduzione a nulla di ogni potere
della morte. La cosa va vista nel suo succedersi temporale in ciascuno di noi
oltre che nella storia. Tutta l'ascesi e la lotta interiore non sono altro che
l'espressione di questo potere di Cristo che riduce a nulla il potere della
morte che ci assilla e ci impasta. E man mano che questo potere di Cristo
prevale, la vita sgorga fluente e incontenibile.
Ora, nella Vergine Maria, tutto
questo non è più in fieri, non ha più spazi o dinamiche da conquistare. È
compiuto. E siccome è compiuto, può essere consegnata a Dio Padre, fulgida di
tutto lo splendore che la salvezza operata da Dio comporta. Il disegno di Dio
in tutto il suo amore per l'uomo, dalla creazione alla glorificazione finale
nel suo Regno, solo questa nostra sorella, la Vergine, l'ha potuto godere
compiutamente. Oggi, festa dell'assunzione, ella lo sa e può dichiarare: ora so
per esperienza tutto l'amore che Dio ha portato all'umanità, che ha portato a
me perché sia vivibile da tutti e quindi posso glorificarlo compiutamente. E
proprio perché la sua lode per Dio è piena, allora anche l'esultanza del suo
cuore è piena e la sua intercessione potente. Quando i credenti guardano alla
Vergine gloriosa, assunta in cielo, non possono non considerarla, come canta il
prefazio: "primizia e immagine della Chiesa … un segno di consolazione e
di sicura speranza". In lei possono magnificare l'amore di Dio per l'uomo,
la grandezza della salvezza operata da Dio che anche in noi si dispiegherà a
suo tempo, come in lei, che per noi intercede. E a lei rivolti, fiduciosi
possiamo pregarla, come le antiche comunità cristiane: "Sotto la tua protezione
troviamo rifugio, santa Madre di Dio: non disprezzare le suppliche di noi che
siamo nella prova, e liberaci da ogni pericolo, o Vergine gloriosa e
benedetta".
Da dove deriva alla Vergine tutta la
sua gloria? L’elogio alla madre da parte della donna che ascoltava affascinata
Gesù: “Beato il grembo che ti ha portato
e il seno che ti ha allattato!” è trasformato da Gesù nell’elogio ai
discepoli: “Beati piuttosto coloro che
ascoltano la parola di Dio e la osservano!” (Lc 11,27-28). Gesù sembra
spostare l'attenzione sui discepoli, ma in realtà definisce esattamente in che
cosa consiste la beatitudine di sua madre. Come i Padri sottolineano spesso:
prima di essere madre fisicamente di Gesù, Maria lo è spiritualmente, perché il
suo cuore ascolta e osserva la Parola, l'ha sempre ascoltata e osservata. Se
però colleghiamo il commento di Gesù all’espressione pronunciata da Elisabetta
nel saluto alla Vergine: “Beata colei che
ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto”, ci viene
svelato un altro aspetto fondamentale. Ascoltare e osservare la Parola non è
semplicemente un mettere in pratica quello che Dio dice. È assai di più.
Significa permettere alla promessa di Dio racchiusa nella sua parola di
compiersi, di rivelarsi finalmente al cuore e al mondo. Significa acconsentire
al desiderio di Dio di compiersi, significa fare in modo che il desiderio che
Dio ha di incontrare l'uomo finalmente trovi compimento. Ora, da dove deriva la
vita all'uomo se non da un incontro d'amore? Sia in senso fisico, un figlio,
sia nel senso di procurare vitalità, gioia di vivere, visione di speranza,
forza ed energia. Più questo consenso da parte dell'uomo è totale, più la vita
che deriva da Dio è fluente e incontenibile. Vince la morte. Per sempre.
In quel “ha creduto” è indicata tutta la
disponibilità della Vergine all’azione di Dio (“Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola”)
dove il proprio essere è vissuto come risposta al desiderio di Dio, come spazio
di compimento all’agire di Dio. Nell’“adempimento”
è adombrata la generazione del Verbo che in lei prende forma. Accogliere il
Verbo nella propria umanità significa ritrovarsi nel mistero di Dio Trinità,
che è amore comunicato; significa far risplendere l’amore di Dio nel mondo e
compiere la propria umanità permettendole di far trasparire la divina Presenza.
La grazia di questa 'maternità' spirituale è estesa a tutti i credenti: tutti
possono ereditare la beatitudine che deriva dall'ascoltare e osservare la
Parola. Nella dinamica dell’obbedienza della fede, l’ascolto della Parola
equivale alla fin fine ad accogliere e generare in noi il Verbo, di cui
risplendono tutte le parole della Scrittura.
Ora, la vera meraviglia di Dio per
gli uomini è proprio il dono del Figlio, che di quell’umanità che ci costituisce
svela i confini e le sorgenti divine. Chi, più della Vergine, ha goduto tutta
la potenza di splendore di questo dono per l’umanità? Così l’intercessione
della Vergine va nella direzione dell’invocazione della preghiera ‘sia fatta la
tua volontà come in cielo così in terra’, interpretata ‘si compia il tuo
amore finché la terra diventi tutta
cielo’: nulla rimanga inaccessibile all’amore di Dio che si dispiega potente.
Lei, la serva del Signore, terra come noi, ma totalmente disponibile all’agire
di Dio, è diventata tutta cielo. Intercede perché anche la nostra umanità, in
ciascuno e in tutti, si allarghi agli spazi e alle profondità della sua stessa
umanità, nella comunione con il suo Dio.
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Quarto ciclo
Anno liturgico C (2012-2013)
Tempo Ordinario
XX
Domenica
(18 agosto 2013)
_________________________________________________
Ger
38,4-6.8-10; Sal 39; Eb 12,1-4; Lc 12,49-57
_________________________________________________
Il punto focale della liturgia di
oggi è costituito dal v. 49 di Luca 12 :"Sono venuto a portare il fuoco sulla terra; e come vorrei che fosse già
acceso!". La luce che si sprigiona da questa parola fa comprendere
anche gli altri versetti sulla divisione che Gesù sarebbe venuto a portare e
sui segni dei tempi che occorre saper decifrare.
Nei vangeli sono rari i momenti in
cui Gesù apre il suo cuore mostrando il suo vissuto interiore. Questa sua frase
fa vedere cosa vive dentro di Lui. È consumato da un fuoco interiore, dal fuoco
di quello Spirito di cui era stato mostrato ricolmo al momento del battesimo
nel Giordano e in forza del quale si era avviato risoluto a compiere fino in
fondo la missione di rivelatore e testimone supremo dell'amore del Padre agli
uomini. Lui sa che quel fuoco lo porterà ad un altro battesimo, quello della
sua passione e morte e risurrezione, battesimo che otterrà a tutti noi il dono
del suo stesso Spirito e che condurrà anche noi ad essere consumati dallo
stesso fuoco. Questo fuoco che lo rode dentro è lo stesso che vuole partecipare
a noi.
Nel libro del Deuteronomio 4,24 Dio
era definito 'fuoco divorante' o, secondo un'altra traduzione 'fuoco
divoratore'. La stessa definizione è ripresa dalla lettera agli Ebrei 12,29.
Cosa significa?
Una prima spiegazione può essere
data da queste parole di Gregorio Magno: "Dio è indicato come fuoco perché
da Lui è erosa la ruggine dei peccati. Di questo fuoco la Verità dice: Sono
venuto a portare il fuoco sulla terra, e che altro voglio se non che divampi?
La terra indica infatti il cuore dei mondani che accumulando in sé senza sosta
pensieri malvagi finiscono calpestati dagli spiriti maligni. Il Signore però
manda il fuoco sulla terra quando accende col soffio dello Spirito santo il
cuore di chi vive secondo la carne. La terra arde quando il cuore di chi vive
così, gelido nelle sue voluttà perverse, abbandona le bramosie del secolo
presente e divampa nell'amore a Dio" (Omelie
sui vangeli, XXX, 5).
È suggestiva l'immagine del nostro
cuore che diventa terra in quanto è calpestato dagli spiriti maligni. La terra
calpestata non produce nulla. Il fuoco è come se 'soffiasse' questa terra, la
rende di nuovo capace di vita, di accogliere e far fiorire i semi che la parola
di Dio vi deporrà.
Ma c'è un'altra spiegazione che ci
introduce più addentro nel mistero del fuoco che è il nostro Dio. Nel vangelo
apocrifo di Tommaso si riporta una frase suggestiva che antichi Padri ed
esegeti moderni pensano essere propria di Gesù: "Chi è vicino a me, è
vicino al fuoco e chi è lontano da me, è lontano dal regno". La spiegazione
è data da Origene. L'uomo che, dopo il battesimo, torna a peccare, per essere
purificato, deve avvicinarsi a Gesù, il cui amore tormenta il cuore dell'uomo
fino a sciogliere con l'ardore del suo fuoco tutto ciò che lo oppone a Lui e ai
suoi fratelli. Ma se l'uomo, con il suo peccato, chiuso nella sua vergogna o,
per meglio dire, nella sua presunzione, sta lontano da Gesù, allora per lui il
Regno risulta inaccessibile e non troverà né libertà né vita.
Ma c'è ancora un'ulteriore
spiegazione. Quando i due discepoli, in cammino verso Emmaus, incontrano Gesù
risorto non dicono “Non ci ardeva forse il
cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava
le Scritture?” (Lc 24,32) ? Ed il profeta Geremia, sedotto dall'incontro
con il suo Signore, non dice forse "Mi
dicevo: “Non penserò più a lui, non parlerò più in suo nome! ”. Ma nel mio
cuore c’era come un fuoco ardente,
chiuso nelle mie ossa; mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo" (Ger
20,9)? Anche di questo tipo è il fuoco del nostro Dio. E questo ci aiuta a
comprendere più a fondo il fatto che del fuoco di Dio si dice che è
'divorante', 'divoratore'. Dio è geloso, non sopporta di essere preso soltanto
in parte, di essere preso in 'coabitazione' con altri. Il fuoco di Dio è divoratore
delle divisioni del nostro cuore, divisioni che causano dispersione, duplicità,
menzogna, chiusure e quant'altro c'è di cattivo nel cuore che gli impediscono
di essere tutto unito e compatto, teso ad un unico desiderio, capace di essere
solidale con il suo Dio e con i suoi fratelli, con ogni energia libera per
essere impiegata a tale scopo. Il cuore si unifica col fuoco: questa è la
verità. E soprattutto questa è la verità del nostro Dio. Lo sperimentiamo anche
nella vita psicologica e affettiva: quanto più una passione è forte, più tende
a compattare tutto il nostro cuore. Con la differenza che se il cuore si
compatta per un desiderio che non sia rappresentativo della totalità e
profondità delle nostre aspirazioni più vere, cadrà vittima di quel desiderio e
risulterà coartato. Alla fine si sentirà disperso e vuoto.
Ma tutto questo esige un
contraccolpo. Ed è quello che dice Gesù: "Pensate che io sia venuto a portare la pace sulla terra? No, vi dico,
ma la divisione" (v. 51). Se il fuoco di Dio distrugge le divisioni
nel nostro cuore, allora vuol dire che il cuore non deve più temere le altre
divisioni, sebbene dolorose e non volute. Non è possibile tenere insieme tutto.
E il cuore deve sentire che, per restare compatto in ciò che ha di più
essenziale, non può disperdere tale compattezza in ciò che risulta meno
essenziale o addirittura occasionale. È un discorso duro e non per nulla Gesù
parla anche di essere venuto a portare la spada, simbolo appunto delle
divisioni. Ma è inevitabile. È la legge dell'amore, del fuoco che arde dentro.
Solo l'esperienza ci farà capire fino in fondo che solo così viene
salvaguardata la libertà e la gratuità dell'amore. Come a dire: la carità non
equivale ad una buona intesa; è disposizione al martirio. Lo è stato per Gesù,
lo sarà di noi. Ed è una legge di vita. Anzi, la divisione che sembrerà opporti
agli altri non è che l'esplicitazione della disponibilità al sacrificio, per
amore degli altri, ormai partecipi del mistero della carità divina, del fuoco
divino. E anche ogni amore umano degno di questo nome resta attizzato da una
scintilla di questo fuoco divino.
La stessa cosa vale per il
riconoscimento dei segni dei tempi. Non si tratta tanto di discernere dove va
la nostra storia, del resto imprevedibile, ma di scoprire la parte di storia
sacra nella nostra storia personale. Discernere i segni dei tempi significa
scoprire l'azione di Dio nella nostra storia. E se siamo lambiti da quel fuoco
divino, come non discernere che ogni evento può essere vissuto come
introduzione al Regno, come apertura del Regno?
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Quarto ciclo
Anno liturgico C (2012-2013)
Tempo Ordinario
XXI
Domenica
(25 agosto 2013)
_________________________________________________
Is
66, 18-21; Sal 116; Eb 12, 5-7.11-13; Lc 13, 22-30
_________________________________________________
Il canto al vangelo fornisce la
finestra di luce per cogliere la rivelazione del passo di Luca proclamato in
questa liturgia: “Io sono la via, la verità e la vita, dice il Signore; nessuno
viene al Padre se non per mezzo di me” (Gv 14,6). Le parole di Gesù, che vanno
a infrangere le nostre pie immaginazioni e a scuotere il nostro torpore
spirituale, ci mettono a disagio: “Sforzatevi di entrare per la porta
stretta … Voi, non so di dove siete.
Allontanatevi da me, voi tutti operatori di ingiustizia”, parole, queste
ultime, che richiamano la finale della parabola dell’ultimo giudizio raccontata
in Mt 25: “Via, lontano da me …”.
Chi sono gli operatori di
ingiustizia? E perché vengono privati della comunione con il loro Signore? Gesù
sta parlando del Regno che è venuto a portare, per il quale è venuto ad aprire
l’accesso, mostrando la grandezza e l’immensità dell’amore del Padre per i suoi
figli. E il Padre vuole che tutti i suoi figli siano convocati alla mensa del suo
amore e che questo amore splenda e a tutti sia manifestato. Nel vangelo di
Matteo l’invito a entrare per la porta stretta segue il Discorso della montagna
con le beatitudini promesse a chi accoglie Gesù e il Regno che è venuto a
manifestare (cfr Mt 7,13-14).
La volontà del Padre è misericordia
per i suoi figli e Gesù mostra nella sua persona e nel suo agire la bellezza di
questa misericordia che si fa salvezza dei peccatori. Chi si oppone a tale
misericordia in nome di qualche altro pur nobile ideale si oppone alla volontà
del Padre e non verrà riconosciuto. Il fare la volontà del Padre comporta
l’accogliere questa sua misericordia che estendendosi a tutti esige che sia
condivisa con tutti, pena l’esclusione dalla comunione con il Padre, che è
Padre di tutti. Quando Gesù dice che lui è via, verità e vita possiamo
intendere: non solo il suo insegnamento costituisce la via per arrivare al
Padre, ma proprio Lui, la sua persona, è la via che mostra il Padre nella sua
benevolenza per noi. Proprio perché lui mostra il volto del Padre in verità e
ci introduce nella comunione con la vita sua, che è amore per noi. Un antico
insegnamento dei rabbini proclama: “Sii audace come un leopardo, agile come
un’aquila, veloce come un’antilope, forte come un leone per fare la volontà del
Padre tuo che è nei cieli”, volontà che è misericordia per noi.
Siccome però il Regno non si impone,
non è evidente, non è scontato (cfr Lc 17,21; Gv 14,22), soltanto i violenti se
ne impadroniscono (cfr Mt 11,12), soltanto cioè coloro che alle preferenze di
Dio non sostituiscono le proprie, ai pensieri di Dio non sostituiscono i
propri, alla misericordia di Dio non oppongono la loro giustizia. E per questo
Gesù dice: “Sforzatevi”.
Acconsentite, cioè, alla forza dello Spirito, come fa pregare la colletta: “… concedi a noi la forza del tuo Spirito, perché unendoci al
sacrificio del tuo Figlio, gustiamo il frutto della vera libertà [da noi
stessi, dalla curvatura su noi stessi] e
la gioia del tuo regno [nel cuore, che vede così compiersi i desideri profondi
che cela]”. Lo sforzo ha sempre a che vedere con la passione di Gesù che ci ha
mostrato lo splendore dell’amore del Padre per noi.
Ma per noi, fondamentalmente, la
tensione interiore che ci è richiesta per trovare l’accesso al Regno, si
appunta sullo stesso Signore Gesù. Lui è la porta stretta attraverso la quale
dobbiamo passare. È detta stretta perché ha la preferenza di Dio e non nostra,
perché esprime la sapienza che viene dall’alto che è contraria alla sapienza
del mondo di cui siamo impastati, rivela il sentire di Dio che si oppone al
sentire della nostra carne. Ma è una strettezza, come riporta anche il passo
della lettera agli Ebrei: “È per la
vostra correzione che soffrite”, che prelude al passaggio della vita,
proprio come per un bambino il quale, per nascere, deve passare per la porta
stretta. E non per nulla in Gesù si parla di nuova nascita perché soltanto a
partire di lì scopriamo il nostro essere secondo quell’abbondanza di vita alla
quale aneliamo sconfinatamente. La nascita al Regno è descritto qui da Gesù
come un banchetto, per sottolineare il mistero della pienezza e dell’intimità
dell’amore che hanno conquistato il cuore. L’immagine ha una valenza
escatologica, non tanto però per indicare quello che avverrà alla fine dei
tempi, ma per mostrare che quella ‘fine’ dei tempi è venuta a visitare il cuore
e a far assaporare la densità dei misteri di Dio nella nostra storia.
Il luogo di passaggio è indicato
anche dal profeta Isaia, sebbene velatamente, là dove dice: “con le loro opere e i loro propositi. Io
verrò a radunare tutti le genti e tutte le lingue”, reso invece, secondo
un’altra traduzione: “(Sarò) io, i loro atti e i loro pensieri …”, “Sono io che
motiverò i loro atti e i loro pensieri …”, intendendo: quando Dio diventa la
fonte di ogni nostro atto e di ogni nostro pensiero, saremo passati attraverso
quella porta stretta che conduce al regno della vita. E la strettezza, almeno
per il nostro uomo esteriore, è descritta sempre dal profeta: “Su chi volgerò lo sguardo? Sull’umile e su chi
ha lo spirito contrito e su chi trema alla mia parola” (Is 66,2). Ma
scegliere l’umiltà e il cuore contrito significa scegliere il Signore Gesù, che
di sé dice: “Venite a me, voi tutti che
siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di
voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per
la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero” (Mt
11,28-29).
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Quarto ciclo
Anno liturgico C (2012-2013)
Tempo Ordinario
XXII
Domenica
(1 settembre 2013)
_________________________________________________
Sir
3,17-20.28-29; Sal 67; Eb 12, 18-19.22-24; Lc 14, 1. 7-14
_________________________________________________
Un invito a pranzo permette a Gesù
di aprire orizzonti insospettati per i suoi ospiti. L’uditorio è particolare:
sono tutte persone ragguardevoli, persone che - annota l’evangelista – lo
stavano ad osservare. E a giudicare dall’intervento di uno di loro, lo stavano
ad osservare a cuore aperto. Ciò che Gesù diceva ai suoi ospiti aveva indotto
un commensale a sognare il banchetto messianico: “Beato chi prenderà cibo nel regno di Dio!”, provocando la parabola
del banchetto disertato dagli invitati e offerto ai poveri, con la quale Gesù
svela il mistero dell’agire di Dio. Purtroppo nella liturgia di oggi manca
questo ultimo riferimento, che resta però essenziale per comprendere le parole
dette prima: “Quando sei invitato a nozze
da qualcuno, non metterti al primo posto ... Quando offri un pranzo o una cena,
non invitare i tuoi amici ...” sulla base del principio: “chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si
umilia sarà esaltato”.
La questione potrebbe essere così
posta: perché l’umiltà ottiene quello che la grandezza sogna? Rispetto
all’agire dell’uomo, potremmo domandarci: chi cerca i primi posti, lo fa
riguardo all’ospite che l’ha invitato o riguardo agli altri commensali?
Evidentemente riguardo ai commensali. Ma così facendo non cerca più l’intimità
col padrone di casa che l’ha invitato, motivo vero dell’onore di fronte ai
commensali. Così, chi dà un pranzo ai suoi amici, ai suoi pari, non va oltre
l’interesse di ricevere altrettanto e sempre nell’ordine di un riconoscimento,
esibito e ricercato, di una qualche grandezza condivisa.
Agendo in tal modo non si coglie la
posta in gioco della vita. L’umiltà non consiste nel farsi piccolo per essere
riconosciuto poi (sarebbe una furbizia raffinata!), ma piuttosto nel vedere
così grande l’invito alla vita da non sentirsene nemmeno degni. Non mi faccio
piccolo ora per essere esaltato dopo, ma sono piccolo perché troppo grande è il
dono ricevuto. Più mi sento piccolo, più vuol dire che colgo la grandezza di
colui che mi invita. Quando la vita non è più giocata nel confronto, di nessun
tipo, con gli altri o sugli altri, vuol dire che il cuore sta saldo
nell’intimità con Colui che gliel’ha data, ne percepisce il mistero e si sente
piccolo. A questa piccolezza è aperto
il Regno. Di quella piccolezza sono beati coloro che siedono alla mensa di Dio.
La cosa è vera perché corrisponde
all’agire di Dio. Dio è tanto grande (nella sua misericordia) che non ha
bisogno di elevarsi al di sopra di nessuno, ma la sua grandezza si gioca
nell’accondiscendenza verso tutti, nell’offrire a tutti la sua mensa senza che
alcuno abbia titolo a qualcosa. Se Gesù esorta il suo ospite a invitare poveri,
zoppi, storpi e ciechi è perché Dio fa lo stesso. ‘Siate perfetti come è
perfetto il Padre vostro’… La ragione risiede nella coscienza che davanti a Dio
nessuno gode di qualche titolo particolare di rivendicazione, ma tutto dipende
dal dono supremo suo, offerto a tutti. La beatitudine deriva proprio dal fatto
di godere della sua offerta senza averne titolo e dal fatto di solidarizzare
con tutti perché tutti raggiunti dalla stessa offerta.
Anche il brano del Siracide va letto
nello stesso senso: “Quanto più sei
grande, tanto più fatti umile, e troverai grazia davanti al Signore. Molti sono
gli uomini orgogliosi e superbi, ma ai miti Dio rivela i suoi segreti”. È
il segreto di quella compiacenza di Dio per i poveri ed i peccatori che siamo,
svelata da Gesù e presagita da quel commensale, perché davanti a Lui non vale
distinzione di persona: vale solo il suo amore per noi, la sua misericordia. Se
l’uomo si attarda ancora a considerare la distinzione delle persone,
rivendicando per sé o esibendo davanti agli altri titoli particolari di
dignità, non ha ancora conosciuto l’intimità dell’amore di Dio e può perfino
rifiutare l’offerta di Dio. Chi non conosce l’intimità dell’amore di Dio non
può ancora dirsi umile.
Lo stesso invito del Siracide:
“Figlio, compi le tue opere con mitezza” va letto nello stesso senso. Agire con
mitezza significa agire senza interessi o bisogni di confronti, senza esibire o
dimostrare nulla, senza prevalere su nessuno, solidali e rispettosi. Ma ciò
suppone un’intimità abitata, una piccolezza acquietata e dolce sul modello di
Gesù proclamato dal canto al vangelo: “Prendete il mio giogo sopra di voi, dice
il Signore, e imparate da me che sono mite e umile di cuore” (Mt 11,29). Si
allude ad una umanità toccata dalla grazia, accesa nelle sue prerogative di
fondo dall’esperienza della grandezza dell’invito, che Dio in Gesù ci fa, di
stare alla mensa del suo amore senza averne alcun titolo.
Così la preghiera pressante che
scaturisce dalla liturgia di oggi non è quella di apprendere la virtù
dell’umiltà, ma di imparare a percepire così intensamente la grandezza del
mistero di Dio, che in Gesù si accompagna a noi, da disprezzare ogni altra
nostra grandezza. La conseguenza strana, ma salutarmente evangelica, di tale
atteggiamento è che meno ci si preoccupa della propria grandezza, più ci sta a
cuore la grandezza di tutti. Perché questi è il giusto: colui che sta contento
dei doni di Dio a tutti, colui che si rallegra della gioia di Dio per i poveri
e i peccatori, ai quali appunto è stato inviato il Salvatore.
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Quarto ciclo
Anno liturgico C (2012-2013)
Tempo Ordinario
XXIII Domenica
(8 settembre 2013)
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Sap 9,
13-18; Sal 89; Fm 9b-10. 12-17; Lc 14, 25-33
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Gesù affascina ma non inganna. Le
parole del brano di oggi sono inequivocabili: “Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre,
la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può
essere mio discepolo. Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a
me, non può essere mio discepolo”. La liturgia, con la prima lettura e la
proclamazione del salmo 89, ci fa chiedere la sapienza del cuore proprio perché
non è così agevole coglierla e accoglierla: “Chi avrebbe conosciuto il tuo volere, se tu non gli avessi dato la
sapienza e dall’alto non gli avessi inviato il tuo santo spirito?”.
Emerge allora la domanda: può l’uomo
accogliere le parole di Gesù senza che la sapienza dall’alto abbia raggiunto il
suo cuore? Perché la sapienza che viene dall’alto comporta proprio l’apertura
del cuore al mistero di quel Figlio di Dio che rivela lo splendore dell’amore
del Padre per gli uomini. Se il cuore non intravede quello splendore, tutto
risulta sbarrato. Da notare che la sapienza, avendo presieduto alla stessa
creazione, conosce i misteri delle creature perché conosce i pensieri di Dio.
Così, quando Gesù annuncia la grazia del suo vangelo, non scavalca la natura,
ma ne rivela il compimento. Gesù è la verità da parte di Dio (= rivela il vero
volto di Dio) e da parte dell’uomo (= conosce il desiderio dell’uomo e ne
assicura il compimento). Perché allora il suo parlare, come nel brano di oggi,
suona tanto ostico alla nostra natura?
Qui si cela il dramma e la gloria
dell’uomo: l’uomo desidera il bene, ma sembra non poter ritrovare in sé il
criterio di discernimento del bene. Nessuno, che sia sano di mente, sosterrà
che non siano buoni gli affetti familiari (tra l’altro, oggetto di comandamenti
precisi!); ma chi può sostenere che gli affetti familiari siano sempre e
comunque buoni? “Perché mi interroghi su
ciò che è buono? Buono è uno solo” (Mt 19,17) ebbe a dire Gesù. Gli affetti
naturali vanno giudicati in rapporto a quella vocazione all’umanità che è il
destino della vita, ma la vocazione all’umanità è definita sullo splendore
dell’amore di Dio per gli uomini, manifestato in Gesù. Così, quando Gesù parla
di preferire l’essere suo discepolo agli affetti naturali, intende rivelare che
la radice della vita è nell’amore di Dio che fa da criterio di discernimento a
ogni altra cosa. La cosa non è scontata però per il cuore dell’uomo; comporta
una specie di ‘morte a se stessi’ per vivere se stessi in modo pieno imparando
a servire gli altri, non a servirsi degli altri. Portare la croce significa
morire alla logica del mondo che ci fa ricercare noi stessi contro o sugli
altri per accedere davvero alla dimensione della fede, diventata radice di vita
in Gesù, che si traduce in comunione di sentimenti con Dio nel suo amore per
gli uomini. La sapienza che viene dall’alto ci è necessaria continuamente per
operare questo passaggio, perché conoscere i pensieri di Dio comporta sempre
scoprire le radici della vita. E questo è il motivo per cui la scoperta della
sapienza, del tesoro nascosto nel campo, comporta sempre un’intima letizia,
letizia che ti abilita a vendere, a lasciare tutto il resto. Chi vive un amore
profondo lo sa.
In effetti, il brano di oggi termina
con l’affermazione: “Così chiunque di voi
non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo”. Delle tre
caratteristiche che contraddistinguono il discepolo di Cristo, questa è la
prima; le altre due sono: il discepolo perdona condividendo la gratuità
dell’amore misericordioso di Dio e resta fedele nelle prove vivendo nella
pazienza la pace sperimentata. Gli averi, beni e affetti, sono tutto ciò che
sostenta la vita, però non più vissuti a partire da se stessi, ma nella più
totale confidenza con Colui che ne è il Dispensatore. Sottrarre confidenza ai
beni significa godere della confidenza nella vita. Non è immediata la
costatazione, ma risulta vera: facendo confidenza sui beni, si perde confidenza
con la vita; guadagnando confidenza con la vita, si godono i beni. La vita però
è quella che Gesù rivela e promette al suo discepolo; è quella che lui stesso
vive e comunica al suo discepolo; è quella che proviene dal vivere il
compimento della vocazione all’umanità che in lui acquista tutto il suo
splendore perché a Dio rimanda e da Dio prende vigore. La sapienza che
domandiamo conduce là.
E se è vero che la sapienza fa
capolino nel cuore quando ci accorgiamo che non siamo eterni e che passiamo
presto, come dice il salmo, può però entrare nel cuore quando risuonano vere
per noi le parole: “si manifesti ai tuoi
servi la tua opera e il tuo splendore ai loro figli” (Sal 89,16), frase che
acquista tutto il suo significato davanti a Gesù, riconosciuto come lo
splendore dell’amore del Padre per gli uomini, la vera opera di Dio per noi.
Tanto che lasceremo tutto per seguire Gesù nel senso di non voler rivendicare
nessun bene che si collochi al di fuori o contro la comunione con lui. Sarebbe
il senso delle due parabole dell’uomo che costruisce una torre e del re che non
vuole essere sconfitto.
Alla visione della fede, nel mistero
dell’obbedienza, si accorda la sapienza, come suggerisce s. Francesco di Assisi
nella sua terza ammonizione: “Dice il Signore nel Vangelo: Chi non avrà rinunciato a tutto ciò che possiede non può essere mio
discepolo (Lc 14,33); e: Chi vorrà
salvare la sua anima, la perderà (Mt 16,25). Abbandona tutto quello che
possiede e perde il suo corpo e la sua anima l’uomo che totalmente si affida
all’obbedienza nelle mani del suo superiore, e qualunque cosa fa o dice e che
egli stesso sa che non è contro la volontà di lui, purché sia bene quello che
fa, è vera obbedienza”. Affidarsi all’obbedienza significa vivere della visione
della fede, in quella compagnia di vita con Colui di cui abbiamo imparato a riconoscere
l’amore salvatore e di cui finalmente ci fidiamo perdutamente.
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Quarto ciclo
Anno liturgico C (2012-2013)
Tempo Ordinario
XXIV
Domenica
(15 settembre 2013)
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Es
32, 7-11. 13-14; Sal 50; 1 Tm 1, 12-17; Lc 15, 1-32
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È vero, come dirà Gesù, che Dio può
far nascere figli perfino dalle pietre (cfr. Lc 3,8). Ma è ancora più vero che,
per quanto indegni e ribelli, i figli che Dio preferisce sono quelli in carne
ed ossa, quelli che siamo, che rimprovera ma di cui continua ad avere premura.
La prima lettura ce lo dice a chiare lettere: Mosè intercede e Dio si lascia
commuovere. Sembra paradossale che sia Mosè a ricordare a Dio i segreti del Suo
cuore! Ebbene, Gesù, morto e risorto per noi, realizzando pienamente quella
intercessione per noi, è il sigillo ultimativo di quella Volontà di bene di
Dio.
Le tre parabole, come la lettura
dell’Esodo e il salmo 50, non si colgono nella loro portata di rivelazione
senza percepirne la densità drammatica. Mosè intercede dopo il peccato del
vitello d’oro, al colmo dell’angoscia e consapevole delle conseguenze della
stoltezza del popolo che ha rotto l’alleanza col suo Dio. Il nome nuovo di Dio
che sentirà proclamare nella visione sul Sinai sarà: ‘Dio misericordioso e pietoso …’ (Es 34,6; Sal 86,15). Dio è Misericordia senza limiti perché fedele
al suo amore. Il peccato non resta impunito, ma sarà lui stesso che se ne
assumerà il peso nelle sue conseguenze inchiodandolo alla croce e sacrificando
se stesso. Il pastore che va in cerca della pecora perduta e se la mette sulle
spalle tornando a casa allude al dramma della passione di quel Figlio dell’uomo
che è angosciato finché il fuoco che è venuto a portare non si accenda e possa
essere noto a tutti il segreto dell’amore di Dio per i suoi figli. Il salmo
50 collega la supplica del perdono
(‘cancella il mio peccato’) proprio con la capacità di Dio di rinnovare (‘crea in
me un cuore puro’) con la conseguenza che la misericordia di Dio verso di noi è
una misericordia ‘giustificante’: non semplicemente ci viene perdonato il
peccato, ma ci è attivata una nuova modalità di accesso alla vita, come
partecipazione ai sentimenti di Dio per i suoi figli (‘siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso’, Lc
6,36). Sarà ormai la misericordia la rivelazione dell’umanità restituita al suo
splendore.
Ciò che le parabole sottolineano,
ragione convincente per il nostro cuore della fiducia che merita l’amore di Dio,
è una cosa sola: la gioia di Dio nel suo essere misericordioso. Gesù non si
cura degli angeli (le 99 pecore al sicuro, secondo l’interpretazione dei Padri)
ma va in cerca dell’uomo peccatore e la sua gioia sta proprio nella compagnia
dell’uomo che ha ritrovato tanto da condividerla con gli angeli. Il padre della
parabola esprime la sua gioia nel veder il figlio prodigo ritornare al quale fa
festa, nel desiderio di condividerla con il figlio maggiore. Il mistero a cui
alludono queste parabole è l’eterno, solidale, amore di Dio per l’uomo, amore
che non può non essere amore di misericordia perché l’uomo si è perso. Ricordo
per inciso che la parabola della pecora perduta e ritrovata è l’annuncio
evangelico della festa del SS. Cuore di Gesù.
Ne scaturisce una conseguenza
‘terribile’ per la nostra coscienza. Qual è la giustizia gradita davanti a Dio?
Qual è il criterio della rettitudine? Il principio di rettitudine è la
condivisione dei sentimenti di Dio, è la condivisione della sua letizia
nell’amore agli uomini. Lo esprime anche la preghiera sulle offerte: “… ciò che
ognuno offre in tuo onore giovi alla salvezza di tutti”, vale a dire: quello
che di noi offriamo al Signore, se non si risolve nella manifestazione della
misericordia di Dio che raggiunge il cuore dei nostri fratelli, non riuscirà
gradito. ll nostro cuore, invece, irretito nelle illusioni del peccato, è più
aspro di quello di Dio; crede di salvare una specie di nobiltà teorica
condannandosi, rinchiudendosi in una condanna sfiduciata. Allora è il momento
di ricordargli che Dio è più grande e se il cuore lo riconosce esce dalla sua
solitudine, si umilia e ritrova speranza, perché può consegnarsi fiducioso a
quell'amore di misericordia di cui le tre parabole di oggi illustrano il
mistero.
È evidente che Gesù, con queste
parabole, vuole rispondere alle critiche dei farisei sulla sua condotta perché
accoglie pubblicani e peccatori. Vuole come rispondere alle mormorazioni del
cuore dell'uomo che non è più capace di onorare i suoi fratelli perché non sa più
riconoscere il mistero di Dio nel suo amore ai suoi figli. In effetti, con il
racconto delle tre parabole, Gesù non cerca semplicemente di giustificare la
condotta di Dio verso gli uomini, ma svela il mistero della sua Persona, lui
che si definisce ‘mite e umile di cuore’ (Mt 11,29), via-verità-vita che mostra
il Padre nella grandezza del suo amore per i suoi figli.
Sullo sfondo di questo mistero,
quando il nostro cuore cede alle condanne e ai disprezzi, di sé e del prossimo,
vale la supplica della preghiera dopo la comunione della messa di oggi: “La
potenza di questo sacramento, o Padre, ci pervada corpo e anima, perché non
prevalga in noi il nostro sentimento, ma l’azione del tuo santo Spirito”,
allusione diretta al mistero dell’amore di Dio che ingloba il nostro cuore,
alla fede nel suo amore che non si tiene lontano da noi peccatori, ma ci viene
a cercare con immensa tenerezza fino a conquistarci. Per quanto il nostro cuore
si ritrovi come schiacciato dai peccati e fatichi a ritrovare la sua dignità, l’amore
di Dio, in Gesù, lo sopravanza, lo sovrasta e lo ingloba.
Ne conseguono alcune costatazioni.
La prima. Dio preferisce la sua gioia alla sua giustizia. “Io vi
dico: così vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più
che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione” (Lc
15,7). Ora, tutti i nostri pensieri di autocondanna, di paura, di disprezzo di
noi e degli altri, feriscono l'amore di Dio perché gli rendono impossibile la
gioia. Ogni autocondanna è una incomprensione di Dio. Ogni condanna, di sé e
degli altri, è un'incomprensione profonda del cuore di Dio: come non sapere
quello che procura gioia a lui e al nostro cuore?
Seconda costatazione. Chi sono i
giusti? Nell'interpretazione spirituale dei Padri i novantanove giusti lasciati
sui monti sono gli angeli. Ma sono anche coloro che, come gli angeli, adorano e
lodano e gioiscono con Dio. Sono cioè coloro che gioiscono con Dio quando un
peccatore ritorna, quando un uomo si pente. Di qui il criterio di discernimento
della bontà, che ci rende 'sim-patici' di Dio, vale a dire degli stessi
sentimenti di Dio: un cuore è buono quando gioisce del bene del fratello.
Gioire della virtù di un fratello più che per la propria è segno di un cuore
puro, ormai conquistato dalla bontà di Dio. Gioire per un altro rende intimi di
Dio.
Terza costatazione. Se l'uomo è
invitato a riconoscere come agisce Dio, come 'sente' Dio, è perché è chiamato
ad imitarlo dato che il suo cuore è strutturato sulla misura divina. E
l'imitazione consiste nell'impegnare la propria carità fino alla gioia senza
volere nulla per sé, senza voler distinguersi da nessuno in alcun modo,
soprattutto nel pretendere la gioia per sé. Ora, che Dio si rallegri più per
una vera conversione che per la sufficienza di tanti che pensano di non aver
bisogno di conversione è ovvio. La cosa meravigliosa è che rinnova la sua gioia
per un peccatore che si pente più che per i veri giusti ed i giusti si
riconoscono tali perché fanno altrettanto.
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Quarto ciclo
Anno liturgico C (2012-2013)
Tempo Ordinario
XXV
Domenica
(22 settembre 2013)
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Am
8, 4-7; Sal 112; 1 Tm 2, 1-8;
Lc 16, 1-13
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Il brano di vangelo odierno, quello
dell'amministratore disonesto, lodato dal padrone, sembra a prima vista
comportare un messaggio ambiguo. Gesù inviterebbe alla disonestà?
Evidentemente, la parabola, raccontata ai discepoli, più volte paragonati nel
vangelo ad amministratori, punta ad altro. Ma a che cosa? Fermiamoci sulla lode
del padrone: “Il padrone lodò quell'amministratore disonesto, perché aveva
agito con scaltrezza”. La lode verte sul fatto che è stato scaltro, accorto.
Sicuramente non si trattava di un amministratore imbecille, se era stato capace
di quel comportamento; piuttosto, era stato avido e l’avidità gli aveva fatto
perdere il posto. Se paragoniamo questa parabola a quella del possidente
straricco (Lc 12,16-21) ci accorgiamo subito della differenza tra i due: il primo
è accorto, il secondo stolto. Per ambedue la domanda decisiva è la medesima:
cosa fare?
La parola di Gesù illustra proprio
quel ‘saper cosa fare’ in rapporto alla propria vita. In gioco è l’uso dei beni
di questo mondo per ottenere vita piena. Il padrone della parabola è Dio che
affida i suoi beni a noi come amministratori, ai quali a suo tempo chiederà
conto. Se nessuno di noi è proprietario a titolo assoluto dei beni che usa
temporaneamente, la prima conseguenza sarà quella di possederli senza che essi
possiedano noi. L’avido, che consacra la sua vita ai beni, scava un fossato
incolmabile tra lui e la felicità. Volendo però la felicità, l’accortezza
consisterà allora nell’invertire la dinamica perversa che si era instaurata:
invece di consacrare la vita ai beni, consacrerà i beni alla vita e ciò avverrà
nella condivisione con tutti. In particolare, la scaltrezza si giocherà sul
fatto che, non potendo rabbonire direttamente il padrone perché l'ammanco sarà
risultato insolubile, si cercherà di carpire la sua lode con il condonare i
debiti ai compagni. La parabola può essere letta come un’illustrazione della
richiesta del Padre Nostro: ‘rimetti a noi i nostri debiti come noi li
rimettiamo ai nostri debitori’. La scaltrezza della santità sta non nel fatto
di rispondere davanti alle proprie mancanze con il tentativo, impossibile data
l'ampiezza dell'ammanco, di saldare i propri debiti, bensì nel fatto di
condonare i debiti altrui per trovare ancora il favore del padrone.
In particolare, l'apostolo è colui
che froda il padrone nel suo diritto di giustizia invitando tutti ad entrare
nel Regno. L'abilità dell'amministrare sta proprio nel favorire in ogni modo
l'entrata nel Regno da parte del maggior numero. La misericordia è il calcolo
più intelligente che possiamo fare per noi e per gli altri. Se tu servirai il
tuo Signore onorando il tuo fratello, qualora tu dovessi mancare in qualcosa
rispetto al tuo Signore, l'onore dato al tuo fratello richiamerà il favore del
tuo Signore. Non solo, ma se il tuo fratello mancherà in qualcosa rispetto al
suo Signore, l'onore che tu gli avrai portato funzionerà da intercessore per
lui perché quell'onore è computato a merito. I meriti davanti a Dio sono
energie di intercessione, pungoli all'amore di Dio a riversarsi su di noi.
A questo punto si aprono nuovi
livelli di comprensione della parabola, ulteriormente spiegata dalle parole di
Gesù sulla distinzione tra ‘vostra’ e ‘altrui’, tra ‘cose importanti’ e ‘cose
di poco conto’. Si tratta di ottenere ciò che è nostro con ciò che non è nostro;
di ottenere le cose importanti con le cose di poco conto. Tutto ciò che usiamo
in questo mondo non è nostro, non ci appartiene; non solo, ma non ha nemmeno
importanza seria rispetto a quello che davvero cerchiamo e dunque è calcolato
come cosa di poco conto. Eppure, non abbiamo altra possibilità di arrivare a
ciò che è nostro se non attraverso le cose non nostre, a patto che le usiamo
senza esserne usati, che le condividiamo con tutti e che le godiamo insieme. E
che cosa è nostro? Cirillo di Alessandria definisce nostro ‘la santa e mirabile
bellezza che Dio forma nelle anime delle persone, rendendole simili a se
stesso, in accordo con ciò che eravamo in origine’. Questa è la cosa
importante, quella che ci definisce, quella che ci struttura. È nostro l’essere
figli dell’Altissimo, è nostra quella somiglianza con il Signore Gesù, che lui
è venuto a ristabilire.
I beni propri, grandi, veri, sono
quelli che corrispondono ai desideri più profondi del cuore, sono quelli che
riguardano l'essere, la pienezza di quella vita che ardentemente cerchiamo e
che vediamo costantemente sfuggirci perché non ci fidiamo della promessa di
Dio; i beni altrui, piccoli, iniqui, sono le cose materiali di cui abbiamo
bisogno per vivere ma senza che costituiscano lo scopo stesso del vivere; sono
quelli che riguardano i desideri nell'immediato che spesso sono così in
contrasto con quelli profondi del cuore e che, se hanno il sopravvento, sono
intaccati dall'ingiustizia; sono quelli che preferiamo contro le promesse di
Dio.
Non per nulla il canto al vangelo
introduce questa parabola con la citazione di 2Cor 8,9: “Gesù Cristo: da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi
diventaste ricchi per mezzo della sua povertà”, da raccordare all’altro
passo di Fil 2,5-8: “Abbiate in voi gli
stessi sentimenti di Cristo Gesù: egli, pur essendo nella condizione di Dio,
non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una
condizione di servo, diventando simile agli uomini. Dall’aspetto riconosciuto
come uomo, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte
di croce”. Condividere i beni con i poveri, stare solidali con l’umanità di
tutti significa portare a compimento quella vocazione all’umanità che ci
appartiene in proprio come figli dell’Altissimo, resi tali da quel Signore Gesù
che ha scelto di stare solidale con gli uomini perché gli uomini potessero
tornare a godere della comunione con Dio, il loro vero Bene. Ed è
caratteristico che l’espressione di Paolo, riportata dal canto al vangelo, segua
l’invito dell’apostolo ai Corinzi a partecipare alla colletta organizzata per
la Chiesa di Gerusalemme, non solo perché si stabilisca una certa uguaglianza
tra ricchi e poveri, ma soprattutto perché si renda visibile nei frutti della
carità la riconciliazione, operata dal Signore Gesù, dell’umanità con Dio,
simboleggiata dall’unità nell’unica famiglia di Dio di ebrei e pagani.
Un’ultima osservazione
sull’espressione dell’amministratore disonesto lodato. Il suo dire: ‘so che
cosa fare’ equivale all’affermazione di Giovanni: “E noi abbiamo conosciuto e creduto l’amore che Dio ha in noi. Dio è
amore; chi rimane nell’amore rimane in Dio e Dio rimane in lui” (1Gv 4,16).
E si contrappone all’espressione che Gesù indirizza al Padre sulla croce a
proposito dei suoi crocifissori: ‘non sanno quello che fanno’ (Lc 23,34).
§*§*§*§*§*§*§*§*§*§
Quarto ciclo
Anno liturgico C (2012-2013)
Tempo Ordinario
XXVI
Domenica
(29 settembre 2013)
_________________________________________________
Am
6, 1.4-7; Sal 145; 1 Tm 6, 11-16; Lc 16, 19-31
_________________________________________________
A dispetto del contenuto ovvio sull’uso
delle ricchezze, la parabola risponde a una duplice domanda di fondo:
1) possiamo conoscere il pensiero di
Dio?
2) in rapporto a che cosa va giocata
la vita?
Il giudizio di Dio che presenta le
sorti rovesciate (di qui il ricco gaudente e il povero tribolato, di là il
ricco tormentato e il povero consolato) intende proprio far conoscere il
pensiero di Dio all’uomo perché questi si muova in conseguenza. La forza del
racconto non sta nel deterrente di paura (si usano toni pacati e familiari) ma
nello svelamento del segreto della vita di cui Dio è il custode e il
dispensatore.
La tensione della narrazione mira a
svelare l’illusione provocata dalle ricchezze. Se il bene cercato è la
ricchezza, allora la dinamica dei cuori sarà questa: non mi fido di Dio (di qui
la paura che assale); ho bisogno di accumulare per garantirmi un potere sul
futuro e sugli uomini (di qui l’affanno); non posso condividere i beni con gli
altri perché di loro o non ho alcuna considerazione, nemmeno li vedo o nutro
disprezzo oppure ho paura (di qui l’egoismo). In realtà divento come quello che
servo, cioè inconsistente e menzognero. Il salmo, riferendosi agli idoli
costruiti dagli uomini, dice: “Sia come
loro chi li fabbrica e chiunque in essi confida” (Sal 115,8). L’accusa al
ricco della parabola non riguarda il fatto di essere ricco, ma di non vedere la
realtà, di non accorgersi del povero, di vivere illuso.
Se invece la ricchezza produce il
bene, allora la dinamica dei cuori diventa quest’altra: cerco la vita nella
promessa di Dio (di qui la fiducia); non ho bisogno di accaparrare (vivo senza
affanni); posso essere solidale con il prossimo (vivo nella carità). Il frutto
sarà duplice: l’uomo sarà onorato e Dio sarà visto presente nel mondo. L’esortazione
di s. Paolo a Timoteo “ti scongiuro di
conservare senza macchia e irreprensibile il comandamento, fino alla
manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo” può essere intesa: il
comandamento dell’amore a Dio e al prossimo è il tesoro del nostro cuore da
custodire al di sopra di tutto e senza alcun annacquamento, perché ai cuori sia
rivelato il volto del Signore, prima al nostro e poi a quello di tutti.
Una condizione è richiesta. La trovo
ben espressa in una colletta della messa nel rito ambrosiano: “... conferma in noi la grazia della tua
libertà”. Vedere nei comandamenti la possibilità di sperimentare l’amore di
Dio per noi e la fraternità con gli uomini comporta il dono di una grande
libertà, quella che ci deriva dal Signore Gesù Cristo che rivelandoci il suo
Volto dà anche a noi un volto in cui specchiarsi, riconoscersi e ritrovarsi. È
la libertà che il cuore respira quando i suoi pensieri si accostano ai pensieri
di Dio, quando i suoi pensieri si intessono con i pensieri di Dio e cade l’illusione
di potenza, di sufficienza, di dominio per aprirci orizzonti nuovi e lucidità
di visione e calore di rapporti.
Ma la punta più decisiva della
parabola sta nel sottolineare che in gioco è la fede nel Salvatore che convince
alla fraternità nella comunione col proprio Dio. In effetti la parabola non si
conclude con un’ammonizione a proposito delle ricchezze, ma con l’invito a
riconoscere il Figlio dell’uomo, il Salvatore: “Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno
risorgesse dai morti”. È l’allusione misteriosa dell’intera parabola. Gesù
risusciterà, ma di per sé nemmeno questo sarà convincente per coloro che non
sanno vedere l’opera di Dio, l’azione di Dio. Così dar credito alla parola di
Dio, alla promessa di Dio celata nella sua parola e compiuta nel
Crocifisso-Risorto significa aprirsi al segreto della vita, che si gioca nella
fraternità condivisa.
A modo di flash possiamo ancora
sottolineare:
- Dio non si può vedere
direttamente. A Lui ci si può aprire accogliendo la sua parola e avendo cura
del povero. Non basta però condividere i propri beni; occorre anche aver
premura del povero, perché è quella premura che rende preziosa e amabile la
condivisione, che risulta così essere segno della fede in Dio, che vuole felici
i suoi figli.
- nella parabola ci sono come dei
punti nevralgici che ci aprono gli occhi. È sintomatico che il ricco non porti
nessun nome, mentre il povero è chiamato Lazzaro, che significa Dio aiuta.
Voler avere la vita dalla ricchezza comporta dimenticare Dio e misconoscere il
fratello. Il ricco non è presentato come cattivo, ma più semplicemente e più
drammaticamente come uno che nemmeno s’accorge del povero tanto vive nella sua
illusione. A tale riguardo, la prima lettura del profeta Amos celebra l’intervento
di Dio nella storia come il sopraggiungere del disincanto, come la cessazione
dell’illusione. Quella classe nobile che sperperava allegramente i beni del
popolo senza curarsi del suo bene verrà spazzata via: la potenza assira
conquisterà Israele e tutti saranno ridotti in schiavitù.
- Lazzaro, nel paradiso, è descritto
con l’immagine del banchetto messianico, nel posto d’onore, a fianco di Abramo.
La scena corrisponde al banchetto dell’ultima Cena con Gesù e Giovanni al suo
fianco che può reclinarsi sul suo petto.
- il particolare però assolutamente
rivelativo è la descrizione del ricco negli inferi: ‘alzò gli occhi e vide’.
Non aveva mai alzato gli occhi durante la sua vita e perciò non aveva mai visto
nulla in verità. L’alzare gli occhi comporta l’accoglienza della salvezza da
Dio e se l’uomo fa questo non può non accorgersi del suo fratello. Questo
particolare esprime il movimento del cuore che prelude al riconoscimento della
verità della vita. Ciò che viene indicato avvenire là negli inferi, nel
giudizio della parabola, è proprio quello che siamo invitati ad assumere adesso
nella nostra vita.
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Quarto ciclo
Anno liturgico C (2012-2013)
Tempo Ordinario
XXVII Domenica
(6 ottobre 2013)
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Ab
1,2-3; 2, 2-4; Sal 94; 2 Tm 1,6-8.13-14; Lc 17, 5-10
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Riportando la preghiera angosciosa
della regina Ester prima di giocarsi la vita per salvare il suo popolo
l’antifona di ingresso canta: “Tutte le cose sono in tuo potere, Signore, e
nessuno può resistere al tuo volere”. Da intendere: Dio ha promesso di salvare,
nessuno glielo impedirà, nessuno impedirà la fedeltà di Dio a se stesso e
nessuno impedirà al cuore ‘fedele’ di ottenere quella salvezza.
Tutta la liturgia di oggi mira a
svelare la struttura del cuore dell’uomo che si gioca nella fede. Come dice il
profeta Abacuc: “Soccombe colui che non
ha l’animo retto, mentre il giusto vivrà per la sua fede”. La situazione
del popolo di Israele, sotto la pressione dell’impero caldeo che, distrutta la
potenza assira, si abbatte sul Medio Oriente, si era fatta drammatica. L’azione
di Dio nella storia diventa incomprensibile tanto era messa alla prova la fede
nella sua capacità di salvezza. Ma proprio allora le illusioni umane vengono
meno e la fede in lui diventa più radicale e potente. L’espressione del profeta
è ripresa più volte da s. Paolo nelle sue lettere (Rm 1,17; Gal 3,11; Eb 10,38)
e risuona nelle parole degli apostoli che chiedono a Gesù: “Accresci in noi la fede!”.
La domanda degli apostoli però
procede da un contesto preciso che i versetti precedenti illustrano bene: “Se il tuo fratello commetterà una colpa,
rimproveralo; ma se si pentirà, perdonagli. E se commetterà una colpa sette
volte al giorno contro di te e sette volte ritornerà a te dicendo: ‘Sono
pentito’, tu gli perdonerai”. La fede è domandata per vivere il compito
divino del perdono, che è il modo umano di vivere l’amore, assecondando quel
mistero di riconciliazione in atto nella storia secondo l’espressione della
lettera agli Efesini: “perdonandovi a
vicenda come Dio ha perdonato [= ha fatto grazia di sé] a voi in Cristo”.
Se poi ci riferiamo al passo corrispondente di Matteo il compito ci appare
ancora più immenso perché nemmeno si accenna al fatto che il fratello ci chieda
scusa: “Se il mio fratello commette colpe
contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?” E Gesù
di risposta: “Non ti dico fino a sette
volte, ma fino a settanta volte sette” (cfr. Mt 18).
Così tanto, in modo così nuovo Gesù
aveva insistito nella sua predicazione su questo comando divino: “tu gli perdonerai”! Il cuore dell'uomo
sa e sente che non può riacquistare l'innocenza perduta se non nel perdono
ricevuto e offerto, costantemente. Qui si radica l'esperienza di Dio: ognuno
sente che non riuscirà credibile nell'offerta del suo amore se l'Amore del
Signore non l’avrà raggiunto, se il Signore non gli riverserà in grembo quella
tenerezza che non guarda a meriti o a diritti. Nel perdonare si gioca la
sincerità dell'aver incontrato Dio e dell'esserci percepiti solidali con i
nostri fratelli. La difficoltà risiede proprio nel fatto che non è così
semplice ritenerci peccatori, assillati come siamo dalla paura di venire
respinti e che non è così facile non aver più paura di Dio.
La risposta di Gesù non riguarda la
quantità della fede, come se importasse poterne avere poca o tanta. Si basa
sulla sua natura, sul fatto di averla vitale,
viva, proprio come un seme che
nasconde l'energia di trasformazione per arrivare ad essere albero. “Se aveste fede quanto un granello di senape”
non vuol dire: 'basta che ne abbiate un pochino, grande come un granello di
senape', ma piuttosto: 'basta che sia viva come un seme, che pur piccolissimo,
poi diventa una grande pianta'. Come sottolinea il salmo responsoriale, il
salmo 94, il primo dei salmi che nella tradizione ebraica si canta al
ricevimento del sabato, al versetto 7: “Se
ascoltaste oggi la sua voce!”. Allora potremmo godere del vero riposo del
sabato e vivere la nostra storia, la nostra storia tormentata, nella confidenza
della compagnia del nostro Dio. Ciò che ci è richiesto, non è il poco o il
tanto, ma la schiettezza, la verità del cuore nella confidenza col suo Dio.
A tale schiettezza si attiene il
servo. Quanto è facile cadere nella rivendicazione dei nostri diritti, di quel
che è giusto, di quel che ci viene! La vita non si allea con chi avanza titoli
di pretesa. Il Signore nemmeno, per quanto aspetti alle porte del nostro cuore
in attesa che impariamo semplicemente a chiedere e non a esigere, semplicemente
a dare e non a pretendere, semplicemente a fare e non ad aspettarci che ci
venga fatto. E questo sarà possibile quando ci accorgeremo che Qualcuno ci ha
trovati, è venuto a servirci; che non avremo mai titoli a sufficienza per farci
ammirare, ma ci ritroveremo belli solo nella grazia di Chi ci ama; che essere
servi, nell'esperienza evangelica, significa non aver più bisogno di dimostrare
nulla, di esibire nulla, di imporci in nulla. Il vero servo è proprio Gesù, che
nella confidenza più totale con il Padre, serve tutti per conquistare tutti a
quella stessa confidenza.
Essere servi inutili significa essere semplicemente
servi e nulla di più. Ma il nostro titolo di gloria e di onore sta proprio qui:
non voler essere e avere altro che quello che l'amore del Signore ha voluto per
noi. La rettitudine del servizio sta esattamente in questo accogliersi nei
confronti del Padrone senza perdersi nei confronti con gli altri servi. È
l’altra faccia dell’espressione: “il
giusto vivrà per la sua fede” e vuol dire: chi non avanza pretese, confida
davvero in Dio e non inciamperà nella vita perché non sarà in contesa con gli
uomini. Quello che non deriva dalla confidenza in Dio viene dalla paura e se
viene dalla paura è la rivendicazione che avanza, rivendicazione che stoppa il
cammino della comunione con se stessi, con gli altri, con Dio, con le cose.
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Quarto ciclo
Anno liturgico C (2012-2013)
Tempo Ordinario
XXVIII Domenica
(13 ottobre 2013)
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2
Re 5, 14-17; Sal 97; 2 Tm 2, 8-13;
Lc 17, 11-19
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Non è la prima volta che Luca narra
della guarigione di lebbrosi (cfr Lc 5,12-14). In questa narrazione però il
testo sembra come sorvolare sull’evento del miracolo di guarigione per
insistere su altro. Lo rivela il colloquio di Gesù con il samaritano guarito,
che è tornato a ringraziarlo e il contesto in cui il brano è collocato. Gesù è
in viaggio verso Gerusalemme e l’annotazione di Luca mette in risalto il fatto
che ciò che avviene deve essere compreso nell’ottica di quel viaggio, per lo
scopo segreto di rivelazione del mistero di Dio che si compirà. Non solo, ma
subito dopo il racconto dei dieci lebbrosi segue la domanda dei farisei sul
regno di Dio: “Quando verrà il regno di Dio?”. Ciò che è in gioco nel brano dei
dieci lebbrosi è appunto la questione del Regno di Dio che viene. Come non
vederlo? Eppure, non sembra così facile vederlo.
In ottemperanza alla legge di Lev
13,46, i dieci lebbrosi si fermano a distanza e gridano al Signore il loro
tormento, chiedendo di essere guariti. Il loro dramma non deriva solo dalla
malattia che lacera le loro carni, ma anche dal fatto che venivano esclusi
dalla comunità, non potevano accedere al tempio per il culto. La lebbra evoca
direttamente il destino orribile del peccato che insidia la fraternità,
irrigidisce i rapporti, contamina a tal punto il cuore da renderlo inaccessibile
al cuore degli altri, separa e opprime, impedisce al volto di Dio di
risplendere. La guarigione di un lebbroso da parte di Gesù allude sempre alla
purificazione del cuore che torna così a far risplendere i rapporti di
comunione e ridà accesso al mistero di Dio.
In dieci chiedono di essere guariti.
Tutti sono sinceri e tutti e hanno fiducia in Gesù perché credono alla sua
parola e si muovono per andare a presentarsi ai sacerdoti. Lungo il cammino si
ritrovano guariti. La loro fiducia è stata premiata. Nove proseguono, uno solo
torna indietro per ringraziare Gesù. È qui che il racconto rivela la sua vera
portata. I nove che proseguono non si accorgono di quel che è avvenuto in
verità. Non hanno sentito in loro la parola del profeta: “Ecco, io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne
accorgete?” (Is 43,19) o, per dirla con il v. 2 del salmo 97, non hanno
compreso che “Il Signore ha fatto
conoscere la sua salvezza”.
Dio non lesina i suoi doni, anche se
gli uomini spesso interpretano questi doni come atti dovuti. Se Dio è Dio,
perché non mi può dare questo o quest'altro? Quante accuse a Dio di fronte agli
eventi della nostra vita! Ma simile atteggiamento si perde nel nulla, non
produce nulla degno di menzione, non viene lodato da Dio. Perché? Perché tutto
ciò che riceviamo e abbiamo, tutti i doni di Dio comportano un'intenzione
segreta, un appello al nostro cuore da parte di Dio. Il rimprovero che Gesù fa
ai nove lebbrosi rivela la sordità di fronte a questo appello, la cecità di
fronte a questa intenzione segreta di Dio. L'uomo si confonde con il dono che
ottiene e si richiude su di sé. È rimasto sordo, non ha visto di cosa si
trattava realmente.
Quando invece prorompe la
gratitudine, il cuore ha percepito l'appello, ha sentito l'intenzione segreta
di Dio. E la lode si risolve in un nuovo livello di fede, che si concretizza in
un nuovo incontro, incontro che non interesserà più soltanto un bisogno, ma
tutto il proprio cuore; non più soltanto una cosa, ma tutta la propria vita.
Difatti l'incontro fa accedere ad una nuova visione (Alzati: ha scoperto che Colui che l'ha guarito nel corpo, l'ha
toccato nel cuore e lo rende capace di sentire le cose in modo diverso) e ad
una nuova condotta (e va’: l'uomo
diventa discepolo, tanto che la fede nel Salvatore gli sarà ormai cammino
sicuro di umanità, di un'umanità aperta, solidale, trasfigurata).
Gesù, accogliendo il samaritano che
torna a ringraziarlo, dice: “Non si è
trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di
questo straniero?”. ‘Rendere gloria’ è un’espressione semita per ‘dire la
verità’. Spesso l’uomo dice cose vere, ma senza dire la verità. Oppure, in
altri termini, diciamo di essere sinceri, ma spesso non siamo veri. Il fatto è
che la sincerità ha a che fare con il dire quello che sentiamo, mentre la
verità ha a che fare con quello che siamo. Ringraziare di un dono ricevuto non
significa solo esprimere la propria riconoscenza ma prendere atto della
benevolenza dell’altro che ci fa sussistere. Dire la verità implica sempre la
responsabilità del nostro essere di fronte a Qualcuno. Questo è mancato ai nove
che si sono dileguati, mentre è risultato così determinante per la conversione
del samaritano.
“La
tua fede ti ha salvato” : è il tutto della vita vissuto a partire da un
punto, il punto di quell'incontro con il Salvatore che irradierà tutta la vita
perché sono state toccate le radici del cuore.
Potremmo alla fine domandarci: qual
è dunque il criterio della vera devozione gradita a Dio? Il versetto di 1 Ts
5,18 del canto all'alleluia lo dice molto bene: “In ogni cosa rendete grazie: questa è la volontà di Dio in Cristo Gesù
verso di voi”. Vale a dire: se rendete grazie in ogni cosa, allora siete
attenti all'appello di Dio, all'invito del suo cuore, che è quello di farci
fare esperienza della sua volontà di benevolenza nei nostri riguardi attraverso
gli eventi della nostra vita, che così diventa storia sacra, storia
dell'incontro dei nostri affetti, di noi e di Dio; benevolenza, che si è
manifestata in Gesù, di cui siamo chiamati a vedere il Volto e nella cui
compagnia siamo invitati a camminare. A dire il vero, al rendere grazie Paolo
unisce l’essere sempre lieti e il pregare ininterrottamente. Le tre cose
insieme segnalano che il cuore ha presagito la presenza del suo Salvatore, che
l’ha riconosciuto e al quale volgerà tutto il suo desiderio. A sottolineare la
fecondità dell’atteggiamento del saper rendere grazie, i padri del deserto
ripetevano che il rendere grazie in tutto solleva da ogni altro obbligo.
Potessimo rimanere sempre in quell’atteggiamento, eviteremmo ogni intrusione
del male nel nostro cuore.
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Quarto ciclo
Anno liturgico C (2012-2013)
Tempo Ordinario
XXIX
Domenica
(20 ottobre 2013)
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Es 17,
8-13a; Sal 120; 2 Tm 3, 14 - 4, 2; Lc 18, 1-8
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La liturgia di oggi risponde a una
delle contraddizioni più lancinanti della vita: se Dio è Dio, perché non
interviene quando il male devasta il mondo? Il popolo di Israele, provato dalla
sete nel deserto, aveva espresso la sua angoscia negli unici termini possibili
per dei credenti: “Il Signore è in mezzo a noi sì o no?” ed era seguito il
miracolo dell’acqua scaturita dalla roccia che Mosè aveva percossa con il
bastone di Dio. Ma subito dopo il popolo corre un altro tremendo pericolo:
l’attacco degli Amaleciti. È il nemico
che viene a cercarli; non semplicemente che trovano un nemico sulla loro
strada. È la prima battaglia di Israele dopo l’uscita dall’Egitto. L’angoscia
del popolo, questa volta, sembra sparire dietro alla figura di Mosè, ritto sul
monte a pregare per la salvezza del popolo e a quella di Giosuè che è mandato a
combattere. Il fatto però che Mosè salga sul monte significa che è visibile a
tutti, ai combattenti e al popolo che attende angosciato l’esito della
battaglia. Tutto il popolo prega con Mosè; tutto il popolo rinnova la sua fede
nel Dio di Israele perché un’altra volta il loro Dio li salvi.
I testi salmici di questa liturgia
alludono a una situazione drammatica. La vita dell’uomo non è drammatica
semplicemente perché continuamente provata da afflizioni e ingiustizie, ma
perché nelle afflizioni e nelle ingiustizie subite ci può essere preclusa la
visione di Dio. Come a dire: l’aspetto più angoscioso per il cuore dell’uomo è
la delusione nei confronti del suo Dio, la perdita di speranza e il tormento di
un amore mancato. Il canto di ingresso (sal 16,6.8) descrive la fiducia in Dio
ma nella costatazione che gli empi opprimono il giusto; il salmo responsoriale,
il salmo 120, allude alla fiducia in Dio ma nel pericolo di un’invasione
(‘alzare gli occhi verso i monti’ allude al possibile alleato assiro contro
l’attacco egiziano, aiuto che però si tramuterà in schiavitù e allora il
salmista invita a fidarsi di Dio).
Ecco allora il punto: come
riconoscere il suo amore? Come fidarsi del suo amore in modo da attraversare le
prove senza venir meno nella fede? Non per nulla Gesù parla della pronta
risposta di Dio che fa giustizia ai suoi eletti mentre sta salendo a
Gerusalemme incontro alla sua ingiusta condanna. La parabola che racconta nasce
da due domande precedentemente poste:
1) il regno di Dio si può
vedere?
2) il Figlio dell'uomo sarà
riconosciuto?
Se il regno di Dio non viene in modo
da attirare l'attenzione, vuol dire che si dovrà imparare a percepirlo, a
sentirlo. Se il Figlio dell’uomo “è
necessario che soffra molto e venga ripudiato”,vale a dire: non si vedrà
come ci si aspetta di vederlo, occorrerà imparare a riconoscerlo, a sentirne la
presenza, a percepirne bellezza e potenza. Ma come? Con la perseveranza nella
preghiera. Lo dice espressamente Luca nell'introdurre la sua parabola del
giudice iniquo e della vedova che lo importuna fino ad ottenere giustizia: “Disse loro una parabola sulla necessità di
pregare sempre, senza stancarsi”. Il linguaggio è quello di Paolo e si
possono citare numerosi passi paralleli: 2 Ts 1,11/ 3,13; Fil 1,4; Col 1,3; Gal
6,9; Ef 3,13.
I discepoli che subiscono
persecuzioni per fedeltà a Cristo si chiedono: perché Dio tarda? Certo Dio farà
giustizia, ma quando? Dio mi aiuterà contro il peccato, ma perché si deve fare
così tanta fatica? Sarà possibile resistere fino alla fine? Ecco, la parabola
risponde a queste domande angosciose.
La parabola della vedova che
importuna il giudice disonesto richiama quella dell’amico importuno raccontata
sempre da Lc 11,5-8. Da notare che quest’ultima è introdotta dall’insegnamento
della preghiera del Padre nostro, allorquando i discepoli erano rimasti
affascinati dal modo in cui Gesù pregava e gli avevano chiesto di insegnar
anche a loro a pregare così. Se poi colleghiamo alla parabola della vedova che
assilla il giudice il commento di Gesù a questa sua parabola dell’amico
importuno: “Se voi dunque, che siete
cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro del
cielo darà lo Spirito Santo a quelli che glielo chiedono!” (Lc 11,13), il
senso che ne scaturisce è più profondo. Cosa significa per noi dire che Dio “farà loro giustizia prontamente”, quando
registriamo con sofferenza come un dato di fatto che il Signore tarda, che non
viene quando vorremmo noi? (cfr. 2Pt 3,9-11).
Dio esaudisce prontamente, senza fare aspettare, ogni richiesta di Spirito Santo,
vale a dire l'anelito del cuore che non si accontenta delle cose che provengono
da Dio, ma che cerca proprio Dio, l'incontro, l'intimità con lui. Quando un
discepolo è afflitto dalla fatica di perseguire il bene, quando non riesce a
sopportare un'ingiustizia, quando è tormentato da persecuzioni interiori ed
esteriori, anche se Dio tarda a rendergli soddisfazione così come se lo
immaginerebbe, subito Dio gli concede lo Spirito del suo Figlio perché il suo
cuore non si allontani da lui comunque, perché non venga meno l'anelito alla
sua compagnia, perché si rafforzi la sua fede, cioè la sua visione di lui. Come
dice Gesù alla fine della parabola: “Ma
il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?”. Senza
quella costante perseveranza nella preghiera la fede non potrà durare. Sulla
fiducia che Gesù stesso ha pregato per me perché venga custodito nel suo amore
(cfr Gv 17,11). E sulla fiducia dell’esortazione di Paolo ai credenti: “Ma il Signore è fedele: egli vi confermerà e
vi custodirà dal Maligno …” (cfr 2Ts 3,3-5) perché ci guiderà a che l’amore
di Dio regni nei nostri cuori e a che stiamo sottomessi al Cristo per non
essere mai mortificati nell’amore che ci ha fatto conoscere.
Perché dobbiamo pregare sempre?
Perché il regno di Dio non lo vediamo e perché il Figlio non si manifesta
secondo le nostre attese. La perseveranza costante nella preghiera è l'unica
porta che ci fa accedere alla visione del Figlio ed al sentore del Regno. Senza
dimenticare che un’antica tradizione ebraica rileva nelle braccia alzate di
Mosè in preghiera sul monte la solenne benedizione sacerdotale di Nm 6,24-27,
benedizione che misticamente fa sussistere il mondo.
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Quarto ciclo
Anno liturgico C (2012-2013)
Tempo Ordinario
XXX
Domenica
(27 ottobre 2013)
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Sir
35, 15-17.20-22; Sal 33; 2 Tm 4,6-8.16-18; Lc 18, 9-14
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Con la parabola del fariseo e del
pubblicano Gesù illustra un altro aspetto del mistero della preghiera. Nel
tempo della storia, stando davanti a Dio, gli uomini non sono suddivisi tra
giusti e peccatori, ma necessariamente soltanto tra quanti presumono di
ritenersi giusti e quanti si ritengono peccatori.
Non si tratta evidentemente di
disprezzare le pratiche buone, tanto più quelle inerenti al culto, che del
resto procedono dai comandamenti di Dio, ma di svelare la condizione che rende
quelle pratiche gradite a Dio e portatrici di frutto per il cuore dell’uomo.
Il brano del Siracide ci offre
indicazioni preziose. Il passo tratta delle offerte al tempio e mette in
guardia il credente dal presentare al Signore vittime ingiuste, sottolineando che “il Signore è giudice e per lui non c’è preferenza di persone
(letteralmente: la gloria della persona non è nulla davanti a lui)”. Uno può
offrire vittime ingiuste in tre modi: a) praticare il rito dell’offerta
materialmente senza impegnare la propria vita convertendosi; b) portare una
vittima sottratta al povero, frutto quindi di ingiustizia e oppressione; c)
presentare una vittima difettosa. Il Signore, che è giudice, vede i cuori e non
si lascia ingannare da nessuna gloria esteriore.
Quando il fariseo proclama la sua giustizia, non dice cose false, ma non è
retto il suo cuore perché interpreta la sua giustizia come una gloria da
esibire e Dio, per il quale la gloria delle persone non conta nulla, non può
accogliere la sua offerta. Il fariseo offre una vittima difettosa.
Ma la ragione più profonda della non
accoglienza della sua preghiera è un’altra. Basta mettere a confronto la
preghiera del fariseo con quella che Gesù innalza al Padre al ritorno dei
discepoli da una missione di predicazione: “Ti
rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste
cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli” (Mt 11,25).
Almeno tre sono le differenze vistose: la preghiera di Gesù prorompe da
un'intimità goduta, esprime solidarietà con Dio e con gli uomini, celebra Dio e
non l'uomo. Quella del fariseo è appiattita sull'esteriorità esibita, fa
rimarcare la separazione, celebra l'uomo e non Dio. Se nella preghiera di Gesù
Dio è benedetto come Padre, in quella del fariseo, la caratteristica che manca,
è proprio la proclamazione della sua paternità.
Nella preghiera del Padre Nostro,
tutte le richieste sono dirette a Dio, eccetto una : “... come noi li
rimettiamo ai nostri debitori”. A questa richiesta che ci fa Dio rimanda la
conclusione della parabola di Gesù: “chiunque
si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato” (Lc 18,14).
Chi è profondamente consapevole del suo peccato e chiede a Dio il perdono, come
dice il pubblicano: “O Dio, abbi pietà di
me peccatore”, non ha bisogno di smarcarsi dagli altri, non avverte nemmeno
che qualcuno sia in difetto verso di lui. Ed è solo a partire da questa
consapevolezza che, risalendo all'indietro nella preghiera del Padre Nostro,
chiediamo di nutrirci del Pane di vita, di accogliere come desiderio e criterio supremo di condotta del cuore il
mistero di benevolenza di Dio per gli uomini, di farci guidare dallo Spirito e
di cercarne il regno, di vivere in maniera che il Nome di Dio sia costantemente
glorificato ed allora, come Gesù, potremo chiamare Dio Padre. Questo, il fariseo, non lo può fare. Ma se non fa questo,
come può essere gradita la sua preghiera? In realtà la preghiera non tende ad
altro se non a far sì che sia rivelata al nostro cuore la verità di Dio, cioè
che è Padre.
La difficoltà per noi, provati dalla
vita, affaticati e oppressi, sta nel fatto che non è così semplice presentarci
davanti a Dio in tutta sincerità da peccatori, come fa il pubblicano della
parabola. Vorremmo comunque poter esibire qualcosa di buono o rivendicare
qualcosa che ci sarebbe dovuto; eppure, così facendo, non conosceremo mai la
vera confidenza in Dio. Sembra questa la ragione per la quale Gesù ci invita a
fare credito al prossimo per ottenerlo davanti a Dio.
Il movimento della preghiera non è
quello di esibire qualcosa per convincere Dio a venire da noi, bensì quello di
confidare nella sua offerta di salvezza, nella sua prossimità. Un passo del
profeta Isaia lo esprime chiaramente: “Su
chi volgerò lo sguardo? Sull’umile e su chi ha lo spirito contrito e su chi
trema alla mia parola” (passo, che la versione greca di Isaia 66,2 rende
con: “Su chi volgerò lo sguardo? Sull’umile e sul mite…”). E non è Gesù colui
che di sé dice: “Venite a me … e imparate
da me, che sono mite e umile di cuore” (Mt 11,28-29)? Così, se Gesù è
l’offerta di salvezza da parte di Dio, non c’è alcun bisogno di esibire
alcunché davanti a Dio; di conseguenza, non c’è più alcun bisogno di separarci
dai nostri fratelli, perché possiamo godere insieme la salvezza di Dio. Più un
uomo si loda e più piccola è l’immagine di Dio che coltiva; più un uomo si
distingue e si separa dagli altri, meno conosce la dolcezza che viene dalla
salvezza di Dio.
Il canto al vangelo ci introduce
alle parole di Gesù con l’affermazione paolina: “Dio ha riconciliato a sé il
mondo in Cristo, affidando a noi la parola della riconciliazione” (cfr. 2Cor
5,19). Come possiamo 'rivelare' la presenza di Dio nel mondo? Come
collaboratori della sua opera di riconciliazione. L’annuncio della fede, la
celebrazione dei sacramenti, la testimonianza della carità, non tendono ad
altro: lasciatevi riconciliare con Dio! Dove ‘riconciliazione’ non significa
“Dio si riconcilia con noi, riconcilia se stesso con noi”, ma solo “Dio
riconcilia a sé noi”. Dio è in pace con noi, Dio offre la sua pace a noi, Dio
ci invita a vivere nella sua pace, riassume la rivelazione del Padre, in Gesù,
nella potenza dello Spirito. E quando Gesù conclude la sua parabola con
l’indicare il pubblicano ‘tornò a casa sua giustificato’ siamo rimandati a
questa suprema verità: Dio offre la sua pace a noi, non noi che dobbiamo
rabbonirlo. È questa la ‘buona notizia’, la radice di una gioia nuova, capace
di creare comunione con se stessi, con i fratelli, con le cose e gli eventi, in
Cristo, nostro Salvatore.
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Quarto ciclo
Anno liturgico C (2012-2013)
Solennità e feste
Tutti i Santi
(1 novembre 2013)
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Ap
7,2-4.9-14; Sal 23; 1 Gv 3,1-3;
Mt 5,1-12a
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Le preghiere e le letture di oggi
mostrano in cosa consiste la gioia della santità: godere dello splendore
dell’amore di Dio per noi. E tutti gli sguardi si accentrano sulla figura
dell’Agnello glorioso e immolato ‘fin dalla fondazione del mondo’ (Ap 13,8). Il
mondo è uscito dall’amore di Dio, di esso è intessuto e percorso, di esso
parla, ma quanta tenebra ne impedisce la visione! Ebbene, oggi la chiesa mostra
al mondo la sua visione: è l’Agnello che attira gli sguardi e gli uomini si
ritrovano uniti nella stessa visione e possono risplendere della santità di
Dio, che è splendore di amore immolato.
Lo sguardo della Chiesa non è però
attirato come da un punto di fuga situato oltre la storia, come si trattasse di
riempirsi gli occhi con una visione consolatoria. La sua visione parla di
un’esperienza quotidiana; parla di realtà ultima ma vicina, più reale delle
cose di tutti i giorni: un mondo che interpella e invita con soave insistenza.
Parla al cuore degli aneliti che lo assillano, delle radici che lo
costituiscono, delle tensioni che lo lavorano, dei desideri che l’abitano.
Sempre mi piace riandare
all’esperienza esaltante degli abitanti di Siena nel 1311 quando l’enorme pala
(tre metri per cinque) della Maestà
di Duccio da Buoninsegna fu scortata in trionfo dalla bottega dell’artista alla
cattedrale, tra gli applausi della cittadinanza. La visione di tutti quei santi
schierati a destra e a sinistra del trono dove, in Maria, la natura umana viene
rivelata come degna dimora dello Spirito, portatrice del Figlio dell’Altissimo,
doveva suscitare l’impressione di trovarsi già partecipi della loro compagnia e
del loro tripudio. Oggi, forse, non avvertiamo più l’attrazione del cielo allo
stesso modo, ma la speranza, di cui era portatrice quell’attrazione, è ancora
necessaria per vivere e cogliere il senso della nostra vita.
L’antifona di ingresso e la
preghiera dopo la comunione fanno come da cornice alla visione aperta dalle
letture della festa di oggi. “Rallegriamoci tutti nel Signore in questa
solennità di tutti i santi: con noi gioiscono gli angeli e lodano il Figlio di
Dio”. È motivo di gioia la santità perché non può esserci gioia se non a
partire da un amore accolto e condiviso. E la santità, come proclamano i beati
davanti al trono dell’Agnello, è questo amore accolto e condiviso. Perché anche
gli angeli sono implicati nella stessa gioia? E perché tutto si risolve nella
lode del Figlio di Dio? La gioia degli angeli esprime il mistero del loro
essere in adorazione: adorano un Dio che è pieno di amore per gli uomini, non
per loro. L’amore di Dio per gli uomini l’ha indotto a farsi uomo come loro, di
modo che l’uomo potesse, nella sua umanità, essere come il Figlio di Dio. Ne
scaturisce una conseguenza: se l’amore che gli uomini si portano non parla di
questo amore di Dio lodato dagli angeli, allora vuol dire che non si è più
capaci di adorazione, cioè della gioia di vedere splendere l’amore di Dio per
tutti gli uomini, non si è più figli di Dio. Un amore che non allude
all’adorazione di Dio diventa tiranno.
Nella preghiera dopo la comunione
diciamo: “... fa’ che raggiungiamo anche noi la pienezza del tuo amore”. Non
preghiamo semplicemente per arrivare anche noi in paradiso, ma preghiamo perché
quell’amore costituisca l’orizzonte della nostra vita. La proclamazione dei
santi, come viene descritta nella prima lettura, non si riferisce ad un futuro
dopo la storia, ma esprime la verità della nostra storia, verità che non
passerà e riempirà tutto del suo splendore. Ma quello splendore costituisce già
il senso della nostra storia, anche se spesso i nostri occhi sono così velati
da non accorgercene più. Sarebbe il senso della preghiera: renderci accorti di
quella verità.
È caratteristico che l’antifona alla
comunione, riprendendo la serie delle otto beatitudini proclamate nel
vangelo, le riduca a tre: puri di cuore,
operatori di pace, perseguitati a causa della giustizia. La purità di cuore
capace di vedere Dio è quella che scaturisce dall’esperienza della compassione,
della misericordia, così tipica della santità di un cuore che consola e
conforta, che accoglie in benevolenza e solidarietà, che rimanda a tutti quello
che lui stesso riceve, cioè il perdono rigenerante del suo Signore, che viene
così conosciuto come il Salvatore, come l’Amore che ti sottrae all’abisso. La
purità però, intrisa di gioia, è solo quella che si traduce in un agire che
porta pace a tutti, che rende capaci i cuori di pace, che si fa dono di pace, capace
di far grazia di sé come il Figlio di Dio che fa dono di sé perché l’amore di
Dio risplenda. E la pace donata è a prova di persecuzione, perché niente è più
caro al cuore di colui che gli ha restituito la dignità di uomo e di figlio di
Dio. L’amore a prova di persecuzione procede dal fatto di sentire la mia
dignità sullo stesso piano della dignità di tutti. Dire che di questi è il
regno di Dio significa proclamare che il cuore dell’uomo non può saziarsi che
della verità di quell’amore che giunge sanante e potente, sebbene ora si sia
sempre nell’occasione di perderlo di vista, di impedirci di goderlo, di
impedire agli altri di farne esperienza. Eppure, così proclama tutta la
liturgia di oggi, quella verità è la verità del mondo come dei cuori. È la verità
di felicità per il cuore dell’uomo, che intravede nelle beatitudini evangeliche
le coordinate precise per non fallirla.
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Quarto ciclo
Anno liturgico C (2012-2013)
Tempo Ordinario
XXXI
Domenica
(3 novembre 2013)
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Sap
11,22-12,2; Sal 144; 2 Ts 1,11 - 2,2; Lc 19, 1-10
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Nella narrazione di Luca, l’ultimo
incontro di Gesù, prima di arrivare a Gerusalemme, è quello con Zaccheo,
l’esattore delle tasse di Gerico, piccolo di statura. La gente, che fa ala al
passaggio di Gesù, non gli lascia nemmeno un varco per sbirciare tanto che, se
vorrà vedere che faccia abbia quel famoso maestro, dovrà correre avanti e
salire su un sicomoro, un albero che può diventare molto grande ma i cui primi
rami sono poco elevati. Non poteva certo prevedere l’esito dell’incontro, ma
sicuramente il suo cuore era già mosso da un’aspettativa misteriosa, che
l’antifona di ingresso interpreta: “Non
abbandonarmi, Signore mio Dio, da me non
stare lontano; vieni presto in mio
aiuto, Signore, mia salvezza” (Sal 37,22-23). Un uomo della sua importanza
non poteva certo esporsi al ridicolo per un motivo futile. Gesù, che guarda ai
cuori, sente il suo desiderio e gli si fa incontro.
Il racconto gioca appunto sulle
attese dei cuori. Tutti, per motivi diversi, non riescono ancora a cogliere
Gesù nella sua realtà di Salvatore. Zaccheo però vuole vedere Gesù (motivo, questo, che ricompare diverse volte nei
vangeli). Anche la folla, curiosi e
simpatizzanti, vogliono vedere il Maestro ma – i loro pensieri lo rivelano! -
non sanno capacitarsi del mistero di Dio che incontra l'uomo.
Quando diciamo nella colletta:
"... porta a compimento ogni nostra volontà di bene..." è come se
domandassimo: fa' che il bene che operiamo si risolva nella visione di te.
Desiderare il bene non comporta solo il fatto di muoversi a farlo, ma di farlo
in modo tale che si riveli al nostro cuore il Volto di Dio. Fare il bene
comporta sempre un incontrare il nostro Dio, che vuole la salvezza di tutti.
Così, quando Gesù arriva sotto l'albero dove è salito Zaccheo e lo invita a
riceverlo nella sua casa, in realtà non è Gesù che va nella casa di Zaccheo, ma
Zaccheo che viene nella casa di Gesù. Avviene come per l’Eucaristia: ci
avviciniamo all’altare per mangiare il Corpo del Signore, ma in realtà è lui
che mangia noi, che ci assimila a sé. La decisione di Zaccheo di dare la metà
dei suoi beni ai poveri e di restituire quattro volte tanto il maltolto,
esprime la gioia di trovarsi ormai nella casa di Gesù, nel mistero cioè di
quella fraternità che svela il Volto di Dio agli uomini. Si realizza per
Zaccheo la preghiera dell’apostolo per i Tessalonicesi: “preghiamo continuamente per voi, perché il nostro Dio vi renda degni
della sua chiamata e, con la sua potenza, porti a compimento ogni proposito di
bene e l’opera della vostra fede”. Il bene che così si compie non ha più
nulla di esibito, di rivendicatorio, ma procede e si risolve interamente in
quella intimità ritrovata con il proprio Dio. La folla invece non è ancora
entrata nella casa di Gesù, anche se lo accompagna.
Se suona vera l’espressione del
libro della Sapienza: “tutto il mondo
davanti a te è come polvere sulla bilancia”, allora possiamo pregare: di
fronte alla visione di Te, tutto è come polvere. Se davvero “Hai compassione di tutti ... chiudi gli
occhi sui peccati degli uomini”, allora i nostri cuori siano così
desiderosi di Te da poterci riferire a tutti in modo da non separarci dal tuo
amore, da non guardare al peccato di nessuno per non essere separati dai nostri
fratelli, da amare chiunque perché tutti facciano esperienza di quanto sia
buono il tuo amore.
Ancora un’annotazione. Gesù dice a
Zaccheo: “oggi devo fermarmi a casa tua”.
Vuol dire che ogni momento della nostra storia è il momento adatto per farla
diventare storia sacra, e lo diventa appena si fa strada nel cuore il desiderio
di vedere Gesù. Ma vedere Gesù
significa disporsi a scoprirlo come il Salvatore, come Colui che ci porta a
vivere nella sua casa, nella comunione con il Padre che vuole i suoi figli con
lui. Vuol dire anche che in ogni situazione, in ogni circostanza, in ogni
peccato, possiamo percepire nel cuore l’eco delle parole di Gesù: “scendi subito, perché devo fermarmi a casa
tua”. Nulla impedisce al Signore di invitarci nella sua casa e di
sciogliere i nostri lacci per vivere finalmente una fraternità che riveli il
gusto di aver incontrato il Signore. Scendere
allude all’abbandonare le nostre posizioni per recarsi dove ci vuole Gesù e
Gesù vuole portarci in casa nostra.
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Quarto ciclo
Anno liturgico C (2012-2013)
Tempo Ordinario
XXXII Domenica
(10 novembre 2013)
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2
Mac 7, 1-2. 9-14; Sal 16; 2 Ts 2,16-3,5; Lc 20, 27-38
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Gesù è entrato trionfalmente in
Gerusalemme, ha mostrato tutta la sua autorità messianica nello scacciare i
venditori dal tempio, si è inimicato la leadership religiosa e politica del
tempo con la parabola dei vignaioli omicidi. Con la decisione di mettergli le
mani addosso, senza però ancora riuscirci, si cercano pretesti e si tendono
trappole al Maestro per coglierlo in fallo. Con la discussione sulla
risurrezione futura, che i sadducei, a differenza dei farisei, non ammettevano,
si chiude il confronto dei capi con Gesù. Non si faranno più domande al
Maestro; l’incomprensione è totale e ci sarà posto solo per la cattura ormai
prossima. Con la differenza che, mentre i capi si chiudono nell’accusa, la
gente resta stupita dalla forza dell’insegnamento di Gesù.
Nella risposta ai Sadducei, nei
passi paralleli di Matteo e Marco, Gesù li apostrofa come coloro che non
conoscono le Scritture né conoscono la potenza di Dio. Cita l’evento del roveto
ardente, narrato in Esodo 3, dove Dio rivela il suo nome, nome che rimanda alla
‘compassione’ per il suo popolo di cui conosce le sofferenze e che vuole
scendere a liberare. Il nome di Dio non rinvia mai semplicemente all’essere di
Dio, ma al suo ‘essere per noi’. Tanto che Dio è sempre ‘Dio di’: Dio di
Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe.
La tradizione ebraica ha commentato
in mille modi la singolarità di questa rivelazione. Dicendo che Dio è Dio di
Abramo non si vuole sottolineare che è il Dio che Abramo ha adorato e servito,
ma il Dio che ha chiamato, custodito e salvato Abramo. L’alleanza con i
Patriarchi non sarà mai dimenticata e quando in ogni generazione i figli di
Israele ricordano e gridano a Dio come al Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe, Dio
risponderà loro. Dio si definisce come Colui la cui esistenza è al loro
servizio tutte le volte che lo cercano. Esperienza così fondante per il cuore
dell’uomo che Origene così illustra nel suo commento a Giosuè: “Magari venisse concessa anche a me l’eredità
di Abramo, Isacco, Giacobbe e divenisse mio il mio Dio allo stesso modo che è
diventato Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe, in Cristo Gesù,
Signore nostro” (Omelia XVIII,3). In quel ‘mio’ possiamo ravvisare tutto il
coinvolgimento emotivo della professione di fede di Tommaso davanti al Signore
Gesù Risorto. Possiamo ravvisare tutta l’intimità di Gesù con il Padre di cui
svela l’immenso amore per noi. In effetti, con la venuta di Gesù e con
l’imminente mistero della sua morte e risurrezione, Dio oramai sarà il ‘Dio di
Gesù’, il Dio che in Gesù ha sigillato il suo amore per noi nel modo più
radicale e definitivo. Non solo ha fatto risorgere Gesù, diventato nella
confessione di fede il Vivente, ma ha
reso accessibile, in Gesù, il dono della sua vita eterna, quella vita sulla
quale la morte non ha potere alcuno di mortificazione.
Il canto al vangelo lo sottolinea
molto bene: “Gesù Cristo è il primogenito dei morti: a lui la gloria e la
potenza nei secoli dei secoli” ripreso da Ap 1,5.6: “…Gesù Cristo, il testimone fedele, il primogenito dei morti…”. Dio è
Dio dei vivi e Gesù, il Vivente, ne dà la certificazione più assoluta. Chiamare
Gesù testimone significa alludere al fatto che lui conosce e svela il disegno
di Dio nella sua grandezza di amore per l’uomo e chiamarlo fedele significa
fondare l’esistenza su quell’amore/compassione che ha presieduto alla
creazione, che regge il mondo e accompagna la storia perché tenda alla
partecipazione della sua gloria, che è splendore di amore per noi, tutte verità
che in Gesù si fanno toccabili e vivibili per il nostro cuore. In questo senso
è potente la dichiarazione di Paolo ai Tessalonicesi: “Ma il Signore è fedele: egli vi confermerà e vi custodirà dal Maligno”
(2Ts 3,3). Ci mantiene nella fiducia dell’amore del Padre che ci ha fatto
conoscere nel suo amore per noi facendoci vivere, uniti a lui, nella vita che
scaturisce da quell’amore. Essere custoditi dal Maligno significa non essere
sottratti alla fiducia in e di quell’amore.
La risposta di Gesù ai Sadducei non
riguarda semplicemente una verità degli ultimi tempi: i morti risorgeranno.
Riguarda la potenza del dono di Dio che rende gli uomini che lo accolgono figli
della risurrezione. D’altra parte, chi non accetterà il patire del Figlio
dell’uomo, nemmeno accetterà la realtà della risurrezione. In gioco è la
potenza della fede che non tollera la prospettiva mondana nel mistero di Dio.
Il caso prospettato dai sadducei dei vari mariti e dell’unica moglie nel regno
di Dio nasconde l’incapacità di comprensione del dono di Dio. Ogni proiezione
mondana impedisce l’accoglienza del dono di Dio. Vale per la risurrezione come
per ogni altra verità del mistero di Dio che in Gesù si rivela.
Per declinare in modo a noi
accessibile la realtà della definizione di Gesù dei beati come figli della
risurrezione, potremmo collegarla alla beatitudine: “beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio”
(Mt 5,9). Gesù dice che i figli della risurrezione sono i figli di Dio. Allora
i figli della risurrezione sono gli operatori
di pace: chi vive nella pace e nella concordia, quella che Gesù ci ha
ottenuto con il dono del suo Spirito e che Paolo illustra in Ef 4,32 dicendo:
‘Dio ha perdonato a voi in Cristo’, espressione che secondo il verbo greco
dovrebbe essere resa con ‘Dio ha fatto grazia di sé a voi in Cristo’.
Un’esperienza profonda del suo perdono, di questo suo far grazia di sé a me,
che rende capace me, a mia volta, di fare grazia di me a tutti nel suo amore,
in fraternità. Questa è proprio l'opera del suo Spirito, quello che sulla croce
Gesù ha reso al Padre perché venisse effuso su di noi. Lo stesso Spirito che
invochiamo nella preghiera eucaristica perché ci renda un unico corpo e uno
spirito solo, finché alla fine Dio sia tutto in tutti. Figli di Dio sono allora
coloro che lo Spirito governa, coloro che si muovono sotto l'azione dello
Spirito e l'unica perfezione desiderabile per l'uomo è appunto quella di
lasciarsi penetrare fin nelle midolla da questo far grazia di sé da parte di
Dio agli uomini, in Cristo, per la potenza del suo Spirito. Come dice
stupendamente s. Francesco, sintesi dell’intera Tradizione: “ciò che devono desiderare sopra ogni cosa è
di avere lo Spirito del Signore e la sua santa operazione”.
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Quarto ciclo
Anno liturgico C (2012-2013)
Tempo Ordinario
XXXIII Domenica
(17 novembre 2013)
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Ml
3, 19-20; Sal 97; 2 Ts 3, 7-12; Lc 21, 5-19
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L’anno liturgico volge al termine e
la Chiesa si confronta con gli eventi della fine. La passione di Gesù è
imminente e le sue parole alludono al giudizio
di Dio sulla storia, giudizio che viene dalla croce: l’amore di Dio si è
manifestato, venga meno ogni boria umana! In una visione volutamente complessa,
secondo lo stile apocalittico della tradizione ebraica, si intersecano annunci
di eventi storici drammatici come la distruzione del tempio e della città di
Gerusalemme (probabilmente Luca ha conosciuto la tragedia del 70 d.C.) insieme
ad allusioni catastrofiche riguardo alla fine della storia e del mondo,
inserite però in un contesto di senso preciso: il dramma della storia fino alla
sua fine si gioca per la testimonianza (“Avrete
allora occasione di dare testimonianza”). Comprendere di che testimonianza
si tratta significa trovare il senso della nostra vita.
L’aspetto singolare di questo brano
lucano è il contrasto tra i terrori annunciati e la fiducia inculcata, aspetto
che la liturgia si premura di sottolineare. L’antifona d’ingresso canta con il
profeta Geremia: “Io ho progetti di pace
e non di sventura” (Ger 29,11); l’antica colletta: “Il tuo aiuto, Signore,
ci renda sempre lieti nel tuo servizio, perché solo nella dedizione a te, fonte
di ogni bene, possiamo avere felicità piena e duratura”; l’antifona alla
comunione: “Il mio bene è stare vicino a Dio, nel Signore Dio riporre la mia
speranza”.
Lungo tutto il cap. 21 di Luca, Gesù
mette in guardia contro il pericolo di seduzione sempre in agguato: “Badate di non lasciarvi ingannare”, “State attenti a voi stessi”, “Vegliate in ogni momento”. La fedeltà al
segreto di Dio svelato nel giudizio della croce non è un viaggio in carrozza
per nessuno, per cui è necessaria una estrema vigilanza. Ciò che Luca ricordava
a proposito della preghiera (‘necessità
di pregare sempre, senza stancarsi mai’, Lc 18,1), ora lo ricorda a
proposito della responsabilità dei servi che attendono l’arrivo del padrone (‘Vegliate in ogni momento, pregando’, Lc
21,36). Nella vita è in atto qualcosa di grande che ci riguarda e che può costituire
anche per noi, come per la Vergine, gli apostoli, Paolo, i santi, il segreto
della vita. Là Gesù indirizza la nostra attenzione. Non si tratta però di
attendere l’eterno dopo il tempo, ma di accogliere l’eterno nel tempo.
Il senso del brano evangelico non è
che un’introduzione al mistero della fedeltà dei credenti, fedeltà che nasce da
una sapienza ricercata e che si gioca in una vigilanza capace di attraversare
le prove e i tormenti della storia. La storia è piena di tormenti, i tormenti
però non sono per la morte, ma perché si svelino i segreti di Dio. Assai
istruttiva a tal riguardo è la prima lettura tratta dal profeta Malachia. Il
testo di Malachia, secondo la suddivisione dei libri nella Bibbia accolta nella
tradizione cristiana, è l’ultimo libro dell’Antico Testamento, quello che fa da
cerniera con i vangeli. Il profeta parla del giorno rovente del Signore, ma
nell’ottica della salvezza di coloro che hanno fatto memoria della parola del
Signore. Sarà proprio la conversione a Gesù a introdurre negli eventi della
fine, intendendo: se in lui è sigillata l’alleanza di Dio godibile per l’uomo,
allora il segreto da condividere non è che quell’immenso amore svelato nel
Cristo che nulla e nessuno potrà rapire. Lo scenario delineato, l’unico
possibile rispetto alla potenza dell’amore che dal Cristo deriva e che diventa
la nostra ragione di vita finché tutto e tutti possano goderlo, non resta che
quello del martirio, cioè della testimonianza. Fatto, che anche le cronache
quotidiane di questi ultimi anni ci rammentano con evidenza a proposito dei
nostri fratelli di fede in certe parti del mondo. D’altra parte, il dire
‘finché tutto e tutti possano goderlo’ significa accettare ogni forma di
avversità e tormento nell’ottica di vivere la potenza di quell’amore comunque.
Significa vivere quell’amore fino alla fine, vale a dire fino a che il segreto
che comporta si sveli in tutta la sua potenza, per me come per tutti.
È chiaro allora che la perseveranza
a cui Gesù ci invita (“Con la vostra
perseveranza salverete la vostra vita”) non allude a uno sforzo di tenacia
ma a una verità di esperienza: “Io sono
con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,20), le parole
conclusive del vangelo. Perseveranza va coniugata con Presenza. In effetti,
nell’ascolto del nostro brano odierno, non saremo tanto colpiti dalle
predizioni dei tormenti, ma dalla fiducia che ci deriva dall’attraversarli in
compagnia di Colui che abbiamo conosciuto essere l’Inviato di Dio, il Figlio di
Dio, nato-morto-risorto per noi, come sottolinea all’evidenza l’espressione
paradossale: “Ma nemmeno un capello del
vostro capo andrà perduto”.
In gioco, nella storia, è appunto la
fedeltà a Colui che il nostro cuore ha scoperto essere il sigillo della
misericordia di Dio per noi, a Colui che per noi è diventato radice di vita e
di sentimenti a tal punto da farci conoscere contemporaneamente il riposo e
l’angoscia dell’amore, non potendo tollerare che nessuno ne resti privo per
causa nostra. Tanto che il modo più sicuro di vivere del riposo dell’amore è
quello di non rifiutarlo a nessuno. Con questa tensione dell’amore ha a che
fare la perseveranza, che non è semplicemente la durata nel tempo, ma la tenuta
di qualità dell’amore nel tempo e nelle prove.
‘Perseverare fino alla fine’ (cfr.
Mt 10,22) non riguarda semplicemente la fine della vita, ma finché il fine
della vita non si sveli pienamente al cuore, vale a dire finché non compare al
cuore il volto misericordioso del Signore. Così, perseveranza o pazienza ha
sempre a che vedere con la presenza del Signore, generatore di letizia, accanto
a noi, pur nelle prove. È tale presenza che salva le nostre vite, che ci
impedisce di intristire e di fallire nella realizzazione della nostra vocazione
all’umanità. Se nemmeno un capello del nostro capo andrà perduto, non è per
invitarci alla speranza, vanesia, che i tormenti non ci toccheranno, ma, al
contrario, che nemmeno i tormenti ci ruberanno la confidenza ottenuta e non ci
muoveranno ad agire contro il suo amore, come del resto è stato per lui, che
non ha agito contro di noi, nella sua passione e morte.
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Quarto ciclo
Anno liturgico C (2012-2013)
Solennità e feste
N.S. Gesù Cristo Re dell’universo
XXXIV Domenica del Tempo Ordinario
(24 novembre 2013)
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2
Sam 5, 1-3; Sal 121; Col 1, 12-20; Lc 23, 35-43
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A ben guardare, molti particolari
del racconto della crocifissione richiamano il racconto delle tentazioni di
Gesù nel deserto all’inizio del suo ministero messianico. Quella che allora
veniva letta come tensione drammatica, qui diventa concretezza drammatica. Se
là emergeva la verità del cuore di Gesù rispetto alle insinuazioni del diavolo,
qui viene proclamata la verità della sua vita rispetto all’amore del Padre e
all’amore dei suoi figli. Le parole del diavolo sono rivelate in tutta la loro
portata nel momento cruciale della vita di Gesù allorché, appeso in croce, si
sente apostrofare: “Ha salvato altri e
non può salvare se stesso! È il re d’Israele; scenda ora dalla croce e crederemo
in lui. Ha confidato in Dio; lo liberi lui, ora, se gli vuol bene. Ha detto
infatti: ‘Sono Figlio di Dio’!” (Mt 27, 42-43). Gli uomini scherniscono, ma
veramente Gesù non può salvare se stesso, non può dimostrare nulla e non viene
liberato dalla morte. Eppure, proprio quel non salvare se stesso, non voler
dimostrare nulla, non essere liberato dalla morte, comporta la rivelazione del
vero amore di Dio che riempie la sua vita e che riverbererà sul cuore degli
uomini che non vorranno più illudersi rispetto alle insinuazioni del maligno.
Nel prefazio di questa festa la
Chiesa canta: “Egli, sacrificando se stesso immacolata vittima di pace
sull’altare della Croce, operò il mistero dell’umana redenzione; assoggettate
al suo potere tutte le creature, offrì alla tua maestà infinita il regno eterno
e universale: regno di verità e di vita, regno di santità e di grazia, regno di
giustizia, di amore e di pace”. La cosa singolare è che l’assoggettamento di
tutte le cose da parte di Gesù avviene proprio nel suo stare sottomesso alla
potenza del male senza venir meno alla confidenza nel Padre e all’amore per i
suoi figli, per i quali è stato inviato. Così la scritta sulla croce “costui è il re dei Giudei” è
interpretata dalle generazioni cristiane: ‘Costui
è il re della gloria’, la gloria dello splendore dell’amore di Dio per
l’uomo.
Nel brano di oggi, al centro, ci
sono i due malfattori, l’empio e il pio, che riassumono le due possibili
visioni: l’empio si accoda, per motivi suoi, alla visione di scherno dei capi e
dei soldati; il pio invece sa scorgere il mistero e si abbandona fiducioso.
Cosa ha visto quel malfattore pio, che l’iconografia cristiana rappresenta come
colui che in paradiso aspetta l’ingresso di tutti i santi, da indurlo a pregare
quel condannato: “Gesù, ricordati di me
quando entrerai nel tuo regno”? Segnalo intanto che questa è l’unica volta
in tutto il Nuovo Testamento che uno si rivolge a Gesù con il suo solo nome, a
indicare la comunanza di destino e la confidenza totale. Il fatto è che, di
fronte a quell’uomo ingiustamente condannato, eppur così mite, vede la propria
storia rovinosa e senza perdersi in rivendicazioni ormai inutili, crudeli
perfino, accoglie in pace la sua sorte perché può aprirla su qualcosa di più
grande. Con la sua richiesta e la risposta di Gesù veniamo a sapere che il
regno di Dio è splendore di amore che si riversa sull’uomo, che Dio non
rinuncia al suo amore perché l’uomo è cattivo, che Dio si manifesta con il
volto mite dell’amore, proprio quando è rifiutato e calpestato, in attesa che
l’uomo lo riconosca e ne faccia la radice della sua vita e del suo tormento.
L’immagine del buon ladrone è una di
quelle immagini che svelano il paradosso del mistero di Dio aperto sull’uomo.
Il giudizio della croce non parla dell’ingiustizia degli uomini, ma della
giustizia di Dio. E la giustizia di Dio è esattamente quella che rende noi,
indegni, degni dello splendore del suo amore a tal punto da farci partecipi di
quella dinamica di amore da riversarla con lui sul mondo. Nel giudizio universale
rappresentato da Giotto nella Cappella degli Scrovegni a Padova, ai piedi della
grande croce (e quasi a darle gambe perché muova incontro all’uomo) sta una
piccola figura umana. Partecipa all’esaltazione della croce: due grandi angeli
la reggono e lui – se ne vedono i piedi, uno scorcio del capo e le braccia – si
stringe al cuore il dulce lignum. Un
piccolo fragile uomo (buon ladrone, cireneo, ciascuno di noi) che si è
imbattuto in quell’Uomo, l’ha riconosciuto Dio, gli si è affezionato: porta
quindi il ‘giogo soave, il carico leggero’, nella prospettiva alta della
felicità, la cui caparra è, qui e ora, la letizia dell’amore.
Secondo le letture della liturgia
della festa odierna, il regno che il Signore ci acquista e che costituisce la
nostra eredità (si veda la parabola del giudizio finale di Mt 25, dove il re
proclamerà: “Venite, benedetti del Padre
mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del
mondo...”) è presentato in tre immagini:
a) come un’alleanza, che il popolo
riconosce nella decisione di Dio di pascere il suo popolo (2Sam 5,2) e che si
realizzerà nella carità svelata dal Figlio morto e risorto;
b) come splendore di riconciliazione
( “È piaciuto infatti a Dio che abiti in
lui tutta la pienezza e che per mezzo di lui e in vista di lui siano
riconciliate tutte le cose ...”, Col 1,19-20) che Gesù ci ottiene sulla
croce, quando ci mette nella condizione di partecipare alla santità di Dio che
è amore per gli uomini. È la carità di Dio, per noi, che si traduce in riconciliazione
vicendevole, a livello della storia e che parla della pacificazione tra il
cielo e la terra, del fatto cioè che la terra del nostro cuore diventa cielo
dove Dio è adorato, goduto, condiviso in fraternità;
c) come comunione con lui, oltre
ogni rivendicazione, sopraffatti dalla sua misericordia: “In verità ti dico: oggi con me sarai nel paradiso”. Nella nostra
umanità, tribolata e pacificata, il Signore ci permette di godere della
comunione con lui.
Ogni proclamazione di regalità che
non partisse dalla croce non potrebbe convincere i cuori perché non renderebbe
ragione dell’immensità dell’amore di Dio per l’uomo. Non per nulla il tono con
il quale i capi, i soldati e il malfattore empio, si rivolgono a Gesù sa di
scherno, è crudele: non possono concepire altra regalità se non nel registro
della potenza. Il tono invece del malfattore pio è mite, esprime tenerezza e sa
riconoscere il mistero di quella regalità così mal compresa. Ma è appunto un re
del genere che la Chiesa contempla, è un re del genere che la chiesa annuncia e
che serve.