Quarto
ciclo
Anno
liturgico C (2012-2013)
Tempo
Ordinario
XXVI Domenica
(29 settembre
2013)
_________________________________________________
Am 6, 1.4-7;
Sal 145; 1 Tm 6, 11-16; Lc 16, 19-31
_________________________________________________
A dispetto
del contenuto ovvio sull’uso delle ricchezze, la parabola risponde a una
duplice domanda di fondo:
1) possiamo
conoscere il pensiero di Dio?
2) in
rapporto a che cosa va giocata la vita?
Il giudizio
di Dio che presenta le sorti rovesciate (di qui il ricco gaudente e il povero
tribolato, di là il ricco tormentato e il povero consolato) intende proprio far
conoscere il pensiero di Dio all’uomo perché questi si muova in conseguenza. La
forza del racconto non sta nel deterrente di paura (si usano toni pacati e
familiari) ma nello svelamento del segreto della vita di cui Dio è il custode e
il dispensatore.
La tensione
della narrazione mira a svelare l’illusione provocata dalle ricchezze. Se il
bene cercato è la ricchezza, allora la dinamica dei cuori sarà questa: non mi
fido di Dio (di qui la paura che assale); ho bisogno di accumulare per
garantirmi un potere sul futuro e sugli uomini (di qui l’affanno); non posso
condividere i beni con gli altri perché di loro o non ho alcuna considerazione,
nemmeno li vedo o nutro disprezzo oppure ho paura (di qui l’egoismo). In realtà
divento come quello che servo, cioè inconsistente e menzognero. Il salmo,
riferendosi agli idoli costruiti dagli uomini, dice: “Sia come loro chi li fabbrica e chiunque in essi confida” (Sal 115,8). L’accusa al ricco della parabola non riguarda
il fatto di essere ricco, ma di non vedere la realtà, di non accorgersi del
povero, di vivere illuso.
Se invece la
ricchezza produce il bene, allora la dinamica dei cuori diventa quest’altra:
cerco la vita nella promessa di Dio (di qui la fiducia); non ho bisogno di
accaparrare (vivo senza affanni); posso essere solidale con il prossimo (vivo
nella carità). Il frutto sarà duplice: l’uomo sarà onorato e Dio sarà visto
presente nel mondo. L’esortazione di s. Paolo a Timoteo “ti scongiuro di conservare senza macchia e irreprensibile il
comandamento, fino alla manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo” può
essere intesa: il comandamento dell’amore a Dio e al prossimo è il tesoro del
nostro cuore da custodire al di sopra di tutto e senza alcun annacquamento,
perché ai cuori sia rivelato il volto del Signore, prima al nostro e poi a
quello di tutti.
Una
condizione è richiesta. La trovo ben espressa in una colletta della messa nel
rito ambrosiano: “... conferma in noi la
grazia della tua libertà”. Vedere nei comandamenti la possibilità di
sperimentare l’amore di Dio per noi e la fraternità con gli uomini comporta il
dono di una grande libertà, quella che ci deriva dal Signore Gesù Cristo che
rivelandoci il suo Volto dà anche a noi un volto in cui specchiarsi,
riconoscersi e ritrovarsi. È la libertà che il cuore respira quando i suoi
pensieri si accostano ai pensieri di Dio, quando i suoi pensieri si intessono
con i pensieri di Dio e cade l’illusione di potenza, di sufficienza, di dominio
per aprirci orizzonti nuovi e lucidità di visione e calore di rapporti.
Ma la punta
più decisiva della parabola sta nel sottolineare che in gioco è la fede nel
Salvatore che convince alla fraternità nella comunione col proprio Dio. In
effetti la parabola non si conclude con un’ammonizione a proposito delle
ricchezze, ma con l’invito a riconoscere il Figlio dell’uomo, il Salvatore: “Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non
saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti”. È l’allusione
misteriosa dell’intera parabola. Gesù risusciterà, ma di per sé nemmeno questo
sarà convincente per coloro che non sanno vedere l’opera di Dio, l’azione di
Dio. Così dar credito alla parola di Dio, alla promessa di Dio celata nella sua
parola e compiuta nel Crocifisso-Risorto significa aprirsi al segreto della
vita, che si gioca nella fraternità condivisa.
A modo di
flash possiamo ancora sottolineare:
- Dio non si
può vedere direttamente. A Lui ci si può aprire accogliendo la sua parola e
avendo cura del povero. Non basta però condividere i propri beni; occorre anche
aver premura del povero, perché è quella premura che rende preziosa e amabile
la condivisione, che risulta così essere segno della fede in Dio, che vuole
felici i suoi figli.
- nella
parabola ci sono come dei punti nevralgici che ci aprono gli occhi. È
sintomatico che il ricco non porti nessun nome, mentre il povero è chiamato
Lazzaro, che significa Dio aiuta. Voler avere la vita dalla ricchezza comporta
dimenticare Dio e misconoscere il fratello. Il ricco non è presentato come
cattivo, ma più semplicemente e più drammaticamente come uno che nemmeno s’accorge
del povero tanto vive nella sua illusione. A tale riguardo, la prima lettura
del profeta Amos celebra l’intervento di Dio nella storia come il
sopraggiungere del disincanto, come la cessazione dell’illusione. Quella classe
nobile che sperperava allegramente i beni del popolo senza curarsi del suo bene
verrà spazzata via: la potenza assira conquisterà Israele e tutti saranno
ridotti in schiavitù.
- Lazzaro,
nel paradiso, è descritto con l’immagine del banchetto messianico, nel posto d’onore,
a fianco di Abramo. La scena corrisponde al banchetto dell’ultima Cena con Gesù
e Giovanni al suo fianco che può reclinarsi sul suo petto.
- il
particolare però assolutamente rivelativo è la descrizione del ricco negli
inferi: ‘alzò gli occhi e vide’. Non aveva mai alzato gli occhi durante la sua
vita e perciò non aveva mai visto nulla in verità. L’alzare gli occhi comporta
l’accoglienza della salvezza da Dio e se l’uomo fa questo non può non
accorgersi del suo fratello. Questo particolare esprime il movimento del cuore
che prelude al riconoscimento della verità della vita. Ciò che viene indicato
avvenire là negli inferi, nel giudizio della parabola, è proprio quello che
siamo invitati ad assumere adesso nella nostra vita.
§^§^§
I TESTI DELLE LETTURE (dal “Messale
Romano”):
Prima Lettura Am
6, 1.4-7
Dal libro del profeta Amos.
Guai agli
spensierati di Sion
e a quelli
che si considerano sicuri
sulla
montagna di Samaria!
Distesi su
letti d’avorio e sdraiati sui loro divani
mangiano gli
agnelli del gregge
e i vitelli
cresciuti nella stalla.
Canterellano
al suono dell’arpa,
come Davide
improvvisano su strumenti musicali;
bevono il
vino in larghe coppe
e si ungono
con gli unguenti più raffinati,
ma della
rovina di Giuseppe non si preoccupano.
Perciò ora
andranno in esilio in testa ai deportati
e cesserà l’orgia
dei dissoluti.
Salmo Responsoriale
dal Salmo 145
Loda il Signore, anima mia.
Il Signore
rimane fedele per sempre
rende
giustizia agli oppressi,
dà il pane
agli affamati.
Il Signore
libera i prigionieri.
Il Signore
ridona la vista ai ciechi,
il Signore
rialza chi è caduto,
il Signore
ama i giusti,
il Signore
protegge i forestieri.
Egli
sostiene l’orfano e la vedova,
ma sconvolge
le vie dei malvagi.
Il Signore
regna per sempre,
il tuo Dio,
o Sion, di generazione in generazione.
Seconda Lettura
1 Tm 6, 11-16
Dalla prima lettera di san Paolo
apostolo a Timoteo
Tu, uomo di
Dio, evita queste cose; tendi invece alla giustizia, alla pietà, alla fede,
alla carità, alla pazienza, alla mitezza. Combatti la buona battaglia della
fede, cerca di raggiungere la vita eterna alla quale sei stato chiamato e per
la quale hai fatto la tua bella professione di fede davanti a molti testimoni.
Davanti a
Dio, che dà vita a tutte le cose, e a Gesù Cristo, che ha dato la sua bella
testimonianza davanti a Ponzio Pilato, ti ordino di
conservare senza macchia e in modo irreprensibile il comandamento, fino alla
manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo,
che al tempo
stabilito sarà a noi mostrata da Dio,
il beato e
unico Sovrano,
il Re dei re
e Signore dei signori,
il solo che
possiede l’immortalità
e abita una
luce inaccessibile:
nessuno fra
gli uomini lo ha mai visto né può vederlo.
A lui onore
e potenza per sempre. Amen.
Vangelo Lc 16, 19-31
Dal vangelo secondo Luca
In quel
tempo, Gesù disse ai farisei:
«C’era un
uomo ricco, che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno
si dava a lauti banchetti. Un povero, di nome Lazzaro, stava alla sua porta,
coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del
ricco; ma erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe.
Un giorno il
povero morì e fu portato dagli angeli accanto ad Abramo. Morì anche il ricco e
fu sepolto. Stando negli inferi fra i tormenti, alzò gli occhi e vide di
lontano Abramo, e Lazzaro accanto a lui. Allora gridando disse: “Padre Abramo,
abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell’acqua la punta del dito e a
bagnarmi la lingua, perché soffro terribilmente in questa fiamma”.
Ma Abramo
rispose: “Figlio, ricòrdati che, nella vita, tu hai
ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i suoi mali; ma ora in questo modo lui è
consolato, tu invece sei in mezzo ai tormenti. Per di più, tra noi e voi è
stato fissato un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi, non
possono, né di lì possono giungere fino a noi”.
E quello
replicò: “Allora, padre, ti prego di mandare Lazzaro a casa di mio padre,
perché ho cinque fratelli. Li ammonisca severamente, perché non vengano anch’essi
in questo luogo di tormento”. Ma Abramo rispose: “Hanno Mosè e i Profeti;
ascoltino loro”. E lui replicò: “No, padre Abramo, ma se dai morti qualcuno
andrà da loro, si convertiranno”. Abramo rispose: “Se non ascoltano Mosè e i
Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti”».