Quarto
ciclo
Anno
liturgico C (2012-2013)
Tempo
Ordinario
XXIII Domenica
(8 settembre
2013)
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Sap 9,
13-18; Sal 89; Fm 9b-10. 12-17; Lc 14, 25-33
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Gesù
affascina ma non inganna. Le parole del brano di oggi sono inequivocabili: “Se uno viene a me e non mi ama più di quanto
ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino
la propria vita, non può essere mio discepolo. Colui che non porta la propria
croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo”. La liturgia,
con la prima lettura e la proclamazione del salmo 89, ci fa chiedere la
sapienza del cuore proprio perché non è così agevole coglierla e accoglierla: “Chi avrebbe conosciuto il tuo volere, se tu
non gli avessi dato la sapienza e dall’alto non gli avessi inviato il tuo santo
spirito?”.
Emerge
allora la domanda: può l’uomo accogliere le parole di Gesù senza che la
sapienza dall’alto abbia raggiunto il suo cuore? Perché la sapienza che viene
dall’alto comporta proprio l’apertura del cuore al mistero di quel Figlio di
Dio che rivela lo splendore dell’amore del Padre per gli uomini. Se il cuore
non intravede quello splendore, tutto risulta sbarrato. Da notare che la
sapienza, avendo presieduto alla stessa creazione, conosce i misteri delle
creature perché conosce i pensieri di Dio. Così, quando Gesù annuncia la grazia
del suo vangelo, non scavalca la natura, ma ne rivela il compimento. Gesù è la
verità da parte di Dio (= rivela il vero volto di Dio) e da parte dell’uomo (=
conosce il desiderio dell’uomo e ne assicura il compimento). Perché allora il
suo parlare, come nel brano di oggi, suona tanto ostico alla nostra natura?
Qui si cela
il dramma e la gloria dell’uomo: l’uomo desidera il bene, ma sembra non poter
ritrovare in sé il criterio di discernimento del bene. Nessuno, che sia sano di
mente, sosterrà che non siano buoni gli affetti familiari (tra l’altro, oggetto
di comandamenti precisi!); ma chi può sostenere che gli affetti familiari siano
sempre e comunque buoni? “Perché mi
interroghi su ciò che è buono? Buono è uno solo” (Mt 19,17) ebbe a dire
Gesù. Gli affetti naturali vanno giudicati in rapporto a quella vocazione
all’umanità che è il destino della vita, ma la vocazione all’umanità è definita
sullo splendore dell’amore di Dio per gli uomini, manifestato in Gesù. Così,
quando Gesù parla di preferire l’essere suo discepolo agli affetti naturali,
intende rivelare che la radice della vita è nell’amore di Dio che fa da
criterio di discernimento a ogni altra cosa. La cosa non è scontata però per il
cuore dell’uomo; comporta una specie di ‘morte a se stessi’ per vivere se
stessi in modo pieno imparando a servire gli altri, non a servirsi degli altri.
Portare la croce significa morire alla logica del mondo che ci fa ricercare noi
stessi contro o sugli altri per accedere davvero alla dimensione della fede,
diventata radice di vita in Gesù, che si traduce in comunione di sentimenti con
Dio nel suo amore per gli uomini. La sapienza che viene dall’alto ci è
necessaria continuamente per operare questo passaggio, perché conoscere i
pensieri di Dio comporta sempre scoprire le radici della vita. E questo è il
motivo per cui la scoperta della sapienza, del tesoro nascosto nel campo,
comporta sempre un’intima letizia, letizia che ti abilita a vendere, a lasciare
tutto il resto. Chi vive un amore profondo lo sa.
In effetti,
il brano di oggi termina con l’affermazione: “Così chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere
mio discepolo”. Delle tre caratteristiche che contraddistinguono il
discepolo di Cristo, questa è la prima; le altre due sono: il discepolo perdona
condividendo la gratuità dell’amore misericordioso di Dio e resta fedele nelle
prove vivendo nella pazienza la pace sperimentata. Gli averi, beni e affetti,
sono tutto ciò che sostenta la vita, però non più vissuti a partire da se
stessi, ma nella più totale confidenza con Colui che ne è il Dispensatore.
Sottrarre confidenza ai beni significa godere della confidenza nella vita. Non
è immediata la costatazione, ma risulta vera: facendo confidenza sui beni, si
perde confidenza con la vita; guadagnando confidenza con la vita, si godono i
beni. La vita però è quella che Gesù rivela e promette al suo discepolo; è
quella che lui stesso vive e comunica al suo discepolo; è quella che proviene
dal vivere il compimento della vocazione all’umanità che in lui acquista tutto
il suo splendore perché a Dio rimanda e da Dio prende vigore. La sapienza che
domandiamo conduce là.
E se è vero
che la sapienza fa capolino nel cuore quando ci accorgiamo che non siamo eterni
e che passiamo presto, come dice il salmo, può però entrare nel cuore quando
risuonano vere per noi le parole: “si
manifesti ai tuoi servi la tua opera e il tuo splendore ai loro figli” (Sal 89,16), frase che acquista tutto il suo significato
davanti a Gesù, riconosciuto come lo splendore dell’amore del Padre per gli
uomini, la vera opera di Dio per noi. Tanto che lasceremo tutto per seguire
Gesù nel senso di non voler rivendicare nessun bene che si collochi al di fuori
o contro la comunione con lui. Sarebbe il senso delle due parabole dell’uomo
che costruisce una torre e del re che non vuole essere sconfitto.
Alla visione
della fede, nel mistero dell’obbedienza, si accorda la sapienza, come
suggerisce s. Francesco di Assisi nella sua terza ammonizione: “Dice il Signore
nel Vangelo: Chi non avrà rinunciato a
tutto ciò che possiede non può essere mio discepolo (Lc
14,33); e: Chi vorrà salvare la sua
anima, la perderà (Mt 16,25). Abbandona tutto quello che possiede e perde
il suo corpo e la sua anima l’uomo che totalmente si affida all’obbedienza
nelle mani del suo superiore, e qualunque cosa fa o dice e che egli stesso sa
che non è contro la volontà di lui, purché sia bene quello che fa, è vera
obbedienza”. Affidarsi all’obbedienza significa vivere della visione della
fede, in quella compagnia di vita con Colui di cui abbiamo imparato a
riconoscere l’amore salvatore e di cui finalmente ci fidiamo perdutamente.
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I TESTI DELLE LETTURE (dal “Messale
Romano”):
Prima Lettura Sap 9, 13-18
Dal libro della Sapienza.
Quale, uomo
può conoscere il volere di Dio?
Chi può
immaginare che cosa vuole il Signore?
I ragionamenti
dei mortali sono timidi
e incerte le
nostre riflessioni,
perché un
corpo corruttibile appesantisce l’anima
e la tenda
d’argilla opprime una mente piena di preoccupazioni.
A stento
immaginiamo le cose della terra,
scopriamo
con fatica quelle a portata di mano;
ma chi ha
investigato le cose del cielo?
Chi avrebbe
conosciuto il tuo volere,
se tu non
gli avessi dato la sapienza
e dall’alto
non gli avessi inviato il tuo santo spirito?
Così vennero
raddrizzati i sentieri di chi è sulla terra;
gli uomini
furono istruiti in ciò che ti è gradito
e furono
salvati per mezzo della sapienza».
Salmo Responsoriale
dal Salmo 89
Signore, sei stato per noi un
rifugio di generazione in generazione.
Tu fai
ritornare l’uomo in polvere,
quando dici:
«Ritornate, figli dell’uomo».
Mille anni,
ai tuoi occhi,
sono come il
giorno di ieri che è passato,
come un
turno di veglia nella notte.
Tu li
sommergi:
sono come un
sogno al mattino,
come l’erba
che germoglia;
al mattino
fiorisce e germoglia,
alla sera è
falciata e secca.
Insegnaci a
contare i nostri giorni
E
acquisteremo un cuore saggio.
Ritorna,
Signore: fino a quando?
Abbi pietà
dei tuoi servi!
Saziaci al
mattino con il tuo amore:
esulteremo e
gioiremo per tutti i nostri giorni.
Sia su di
noi la dolcezza del Signore, nostro Dio:
rendi salda
per noi l’opera delle nostre mani,
l’opera
delle nostre mani rendi salda.
Seconda Lettura
Fm 9b-10. 12-17
Dalla lettera a Filèmone.
Carissimo,
ti esorto, io, Paolo, così come sono, vecchio, e ora anche prigioniero di
Cristo Gesù. Ti prego per Onèsimo, figlio mio, che ho
generato nelle catene. Te lo rimando, lui che mi sta tanto a cuore.
Avrei voluto
tenerlo con me perché mi assistesse al posto tuo, ora che sono in catene per il
Vangelo. Ma non ho voluto fare nulla senza il tuo parere, perché il bene che
fai non sia forzato, ma volontario.
Per questo
forse è stato separato da te per un momento: perché tu lo riavessi per sempre;
non più però come schiavo, ma molto più che schiavo, come fratello carissimo,
in primo luogo per me, ma ancora più per te, sia come uomo sia come fratello
nel Signore.
Se dunque tu
mi consideri amico, accoglilo come me stesso.
Vangelo Lc 14, 25-33
Dal vangelo secondo Luca
In quel
tempo, una folla numerosa andava con Gesù. Egli si voltò e disse loro:
«Se uno
viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i
figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio
discepolo.
Colui che
non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio
discepolo.
Chi di voi,
volendo costruire una torre, non siede prima a calcolare la spesa e a vedere se
ha i mezzi per portarla a termine? Per evitare che, se getta le fondamenta e
non è in grado di finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a
deriderlo, dicendo: “Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di
finire il lavoro”.
Oppure quale
re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può
affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? Se no,
mentre l’altro è ancora lontano, gli manda dei messaggeri per chiedere pace.
Così
chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio
discepolo».