Quarto ciclo

Anno liturgico B (2011-2012)

Tempo di Avvento

 

1a Domenica

(27 novembre 2011)

 

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Is 63,16b-17.19b; 64,2-7;  Sal 79;  1Cor 1,3-9;  Mc 13,33-37

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L’anno liturgico comincia come finisce, inscrivendo il tempo della nostra storia nell’attesa della venuta del Signore: la venuta del Cristo alla fine dei tempi come giudice glorioso, la venuta nella carne del Figlio di Dio fatto uomo a Betlemme e la venuta mistica del Signore nel cuore di ciascuno che l’accoglie. L’invito costante è alla vigilanza.

Vigilanza per che cosa? Sia il capitolo di Mt 25 che ha concluso l’anno liturgico, con le tre parabole delle dieci vergini, dei talenti e del giudizio finale che l’odierno passo di Mc 13 introducono al racconto della passione del figlio dell’uomo. Come a dire: lo sguardo sia puntato su quel figlio, morto e risorto per noi, sul quale giocare il nostro desiderio, la nostra responsabilità e il segreto della vita.

Il profeta Isaia descrive molto bene la condizione di coloro che non aspettano più, che non si premurano di essere vigilanti: “Nessuno invocava il tuo nome, nessuno si risvegliava per stringersi a te; perché tu avevi nascosto da noi il tuo volto, ci avevi messo in balia della nostra iniquità”. E quando l’iniquità prevale, allora il cuore si accorge della sua ferita mortale e grida: “Se tu squarciassi i cieli e scendessi!”. La liturgia di avvento porta inscritto questo grido, perché sa che l’uomo può essere salvato solo dal suo Dio. L’invito alla vigilanza vuole indirizzare gli sguardi all’amore di Dio per i suoi figli che viene a salvare facendosi bambino, uno di noi, perché noi torniamo a essere di Dio. Scenda allora a noi come ha fatto con Mosè liberando il popolo dalla schiavitù dell’Egitto, come ha fatto con Ciro permettendo al popolo di tornare da Babilonia a Gerusalemme, come ha fatto con la Vergine nascendo come suo figlio, come ha fatto con gli apostoli aprendo il loro cuore al suo mistero! Il primo movimento della vigilanza è appunto la coscienza della lontananza. Il servo addormentato della parabola evangelica è colui che non si risveglia per stringersi al suo Signore, è colui che resta in balìa della sua iniquità e perciò non potrà più riconoscere la benevolenza del suo padrone che viene a lui. La vigilanza scongiura tale esito.

Quando la colletta di oggi fa pregare: “O Dio, nostro Padre, nella tua fedeltà che mai vien meno ricordati di noi, opera delle tue mani, e donaci l’aiuto della tua grazia, perché attendiamo vigilanti con amore irreprensibile la gloriosa venuta del nostro redentore”, vuole invitarci a un certo tipo di operosità, quella che la parabola del giudizio finale illustrava e di cui la festa del Natale fornisce la ragione più convincente.

Tutto il segreto dell’operosità del servo della parabola sta nel movimento interiore che Paolo così descrive: “a voi, che aspettate la manifestazione del Signore Gesù Cristo … Degno di fede è Dio, dal quale siete stati chiamati alla comunione con il Figlio suo Gesù Cristo, Signore nostro”. Ecco la direzione di sguardo della vigilanza, come sia innervata sulla promessa di Dio di far vivere l’uomo in comunione con lui, partecipandogli la sua stessa vita e lo splendore della sua santità, aprendolo alla comunione con il Figlio suo.

Attendere la manifestazione del Signore però non significa guardare al ritorno glorioso del Signore quando si chiuderanno i tempi e la sua parola giudicante svelerà tutta la verità. Quella tensione caratterizza anche il desiderio del cuore dei credenti nella vita quotidiana. Chi riceve le parole del Signore, chi si sforza di metterle in pratica senza desiderare di poter percepire e vedere la presenza del Signore nella sua vita? Questo è appunto l’oggetto specifico della vigilanza, mentre la sua dinamica è la tensione a entrare nel processo della manifestazione del Signore al nostro cuore, nella nostra storia, manifestazione di cui la nascita di Gesù a Betlemme presenterà la realtà alla nostra portata. Se a livello dell’agire dell’uomo la vigilanza si risolve nella fatica di evitare il male e di compiere il bene, a livello del cuore si risolve in una memoria calda della presenza del Signore, in una memoria di eventi e parole che ci possono significare quella presenza, memoria che tenda a esplodere nella percezione della sua presenza. La vigilanza allora è il compito di responsabilità dei servi della parabola del vangelo in attesa del ritorno del loro padrone. Perché è nello splendore di quella presenza percepita che possiamo vivere fino in fondo la nostra vocazione all’umanità e tornare a far risplendere il mondo della luce di Dio.

Ma c’è ancora dell’altro. Se leggiamo il passo parallelo di Lc 12,37, veniamo a sapere come si manifesterà il Signore: “si stringerà le vesti ai fianchi, li farà mettere a tavola e passerà a servirli”. L’accudire ai fratelli non è soltanto agire bene, ma partecipare al servizio divino dell’umanità. Come a dire: quando accogli il tuo fratello perché guardi al tuo Signore, il tuo cuore godrà dall’essere accudito dal suo Signore e non potrà non condividere con lui l’ansia di arrivare a tutti perché lo splendore della sua presenza prevalga comunque.

 

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Quarto ciclo

Anno liturgico B (2011-2012)

Tempo di Avvento

 

2a Domenica

(4 dicembre 2011)

 

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Is 40,1-5.9-11;  Sal 84;  2Pt 3,8-14;  Mc 1,1-8

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La vigilanza, di cui ci era stato fatto comando domenica scorsa, ora si fa intuito di speranza e di gioia prossima. La severità della predicazione del Battista, che annuncia un battesimo di penitenza per la remissione dei peccati, va intuita dentro il grido del profeta Isaia: “Consolate, consolate il mio popolo”. Del resto, tutte le letture profetiche della prima settimana di avvento riportano  le profezie di consolazione del libro di Isaia. Nella settimana abbiamo supplicato: “Vieni, Signore, a visitarci con la tua pace: la tua presenza ci riempirà di gioia”; “ridesta la tua potenza e vieni, Signore”. Il salmo responsoriale di oggi, il salmo 84, è il canto della pace portata dal natale di Gesù. Ma occorre che la grazia di quel natale parli al nostro cuore; occorre che il nostro cuore si senta toccato dal mistero della pace che quel natale costituisce per il mondo, proprio come l’antica versione greca proclama: “Ascolterò che cosa dirà in me il Signore Dio, perché proclamerà la pace sul suo popolo e sui suoi santi e su quelli che convertono a lui il loro cuore” (LXX). Appunto perché il nostro cuore si apra a quella ‘grazia di pace’ il grido del Battista percuote i nostri orecchi: “Preparate la via del Signore ...”.

Preparare la via vuol dire disporsi e esporsi al desiderio della pace del Signore. In effetti, con il salmo 84 la liturgia canta l’incontro del desiderio di Dio con il desiderio dell’uomo: “amore e verità si incontreranno, giustizia e pace si baceranno”. Tutto ciò che Dio ha voluto per l’uomo, l’uomo lo potrà ormai godere perché “colei [Elisabetta] che portava il giusto, Giovanni Battista, ha baciato colei [Maria] che portava la pace, Gesù”. La visione messianica del salmo si può interpretare come la manifestazione della gloria del nome di Dio al cuore dell’uomo che il Battista rivela essere il compito specifico del Messia. Come a dire: se l’uomo riconosce in verità il suo peccato, troverà la misericordia di Dio. Il riconoscimento del peccato porta all’esperienza della bontà di Dio. E se l’esperienza è autentica, allora, la riconciliazione ottenuta non potrà che essere condivisa con tutti, non potrà che diventare l’unica giustizia degna del cuore dell’uomo. Da un cuore riconciliato e fonte di riconciliazione risplenderà la grazia del Salvatore, che lì ha preso dimora. L’azione di Dio che si compie in me, non è destinata a me, ma al mondo; l’azione di Dio che si compie nel mondo, non è destinata al mondo in generale, ma a me. Perché, tutti insieme, possiamo vedere lo splendore dell’amore del Signore. E non esiste altra possibilità concreta per l’uomo di vedere risplendere l’amore del Signore se non nella tensione che quell’amore sia condiviso da tutti e da ciascuno.

Così, quando nella nostra storia quotidiana, invochiamo la sua misericordia, in realtà non chiediamo che di essere finalmente raggiunti e conquistati dal e al suo amore, come proclama l’antica colletta: “Dio grande e misericordioso, fa’ che il nostro impegno nel mondo non ci ostacoli nel cammino verso il tuo figlio, ma la sapienza che viene dal cielo ci guidi alla comunione con il Cristo, nostro Salvatore”. Movimento, questo, come dice Pietro nella sua seconda lettera, che non solo ci mette nella disposizione di attendere la manifestazione del Signore, ma in quella di togliere ogni impedimento per velocizzare quella manifestazione: “quale deve essere la vostra vita nella santità della condotta e nelle preghiere, mentre aspettate e affrettate la venuta del giorno di Dio”.

Affrettare la venuta del giorno di Dio ha a che vedere con la manifestazione della gloria del Signore, che è splendore di amore per noi, splendore che possiamo contemplare nel suo Figlio, nato, morto e risorto per noi.

In rapporto alla manifestazione di quello splendore possiamo interpretare il paragone che il Battista stabilisce tra lui e Gesù: “E proclamava: «Viene dopo di me colui che è più forte di me: io non sono degno di chinarmi per slegare i lacci dei suoi sandali»”. Gesù si presenta come il forte che ha legato colui che era ritenuto forte, cioè il diavolo: “Nessuno può entrare nella casa di un uomo forte e rapire i suoi beni, se prima non lo lega. Soltanto allora potrà saccheggiargli la casa” (Mc 3,27). La sua forza in cosa consiste? Era compito di uno schiavo slacciare i sandali al padrone, ma uno schiavo ebreo era esentato dal servizio del lavare i piedi al padrone. Ma Gesù è proprio quello che fa con i discepoli nell’ultima cena: va oltre ciò che era richiesto ad uno schiavo! In questo suo andare oltre scorgiamo l’immensità del suo amore per noi. In quello che compie in quel momento, preludio di quello che avverrà di lì a poche ore sulla croce, possiamo leggere tutta la sua vita, tutto il dono della sua vita, tutto il suo insegnamento e tutta la potenza di vita nuova di cui ci fa partecipi. Ad un’unica condizione: che noi ci lasciamo toccare, ci lasciamo commuovere. Proprio in questo consiste il preparare la via del Signore.

 

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Quarto ciclo

Anno liturgico B (2011-2012)

Solennità e feste

 

Immacolata Concezione

(8 dicembre 2011)

 

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Is 40,1-5.9-11;  Sal 84;  2Pt 3,8-14;  Mc 1,1-8

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IMMACOLATA CONCEZIONE, B4

Gn 3,9-15.20; Sal 97; Ef 1,3-6.11-12; Lc 1,26-38

 

La benedizione che Paolo implora ed annuncia nell’esordio della sua lettera agli Efesini ha ricoperto e intriso in modo singolare la Tutta Santa, la Vergine Maria. In lei quella benedizione si fa così concreta che prende addirittura corpo: da lei nasce il Salvatore, che costituisce la Benedizione di Dio sugli uomini, benedizione oltre la quale non c’è nulla di prezioso da desiderare. La tradizione venera la Vergine come “la madre del creatore di tutte le cose, colei che ha divinizzato il genere umano e ha divinizzato la terra, che ha fatto di Dio il figlio dell’uomo e ha reso gli uomini figli di Dio”.

La benedizione ha raggiunto l’umanità della Vergine in modo così singolare da renderla tanto ‘umanamente piena’ da essere degna dimora per il Figlio, come proclama la colletta: “O Padre, che nell’Immacolata Concezione della Vergine hai preparato una degna dimora per il tuo Figlio, e in previsione della morte di lui l’hai preservata da ogni macchia di peccato, concedi anche a noi, per sua intercessione, di venire incontro a te in santità e purezza di spirito”. La sua umanità, in tutte le sue fibre, è andata incontro al Signore in santità e purezza di spirito ed è diventata degna dimora del Figlio. Della sua umanità siamo fatti anche noi, condividiamo con il suo Figlio la stessa umanità perché anche noi, come è nel disegno divino della creazione fin dall’inizio, possiamo tornare a far splendere e a far godere nel mondo la stessa benedizione, la dimora di Dio in mezzo a noi.

A differenza di noi, la Vergine non è caduta nell’inganno che tormenta i figli degli uomini, inganno che presenta il brano della Genesi. Anche lei è stata duramente provata nella sua umanità: con l’offerta della sua umanità ha permesso all’amore di Dio, nel suo Figlio, di svelarsi al mondo; ha conosciuto la sofferenza dell’amore con il suo Figlio e ora accompagna ogni sofferenza umana perché venga aperta all’esperienza dell’amore. In lei la sofferenza non ha generato ribellione, il dramma non ha velato la fede, il desiderio non ha compromesso l’amore, l’agire non ha macchiato la coscienza. E questo perché l’unico rimedio all’inganno è “andare incontro al Signore”, così tipico dell’anima della Vergine.

L’uomo, invece, si dibatte nell’inganno: la nostra individualità ce ne certifica la compromissione con la ribellione, mentre la sofferenza della nostra umanità svela faticosamente le tracce della nostalgia di Dio. Se rifacessimo a ritroso il tragitto delineato dal colloquio nel giardino tra Dio e i progenitori dopo la trasgressione, ci ritroveremmo nuovamente in una umanità condivisa e goduta insieme a Dio e a tutti i fratelli. Dio proclama l’inimicizia tra satana e la donna, simbolo contemporaneamente di Maria e dell’umanità: la possibilità dell’inganno è sempre reale, ma quell’inimicizia dichiarata da Dio salvaguarda la nostra umanità, che non può trovare beatitudine nell’inganno e quindi non potrà compiersi stando dalla parte dell’avversario. Perciò, quando l’uomo cede all’inganno, trasgredendo la parola del Signore rivolta al suo cuore, si perde, va in frantumi dentro e non può vivere che in contraddizione, da antagonista, da avversario a sua volta, sia dentro di sé che fuori di sé, sia con gli uomini che con gli eventi. Quale sofferenza! Ma la causa è una sola: l’uomo ha ormai paura di Dio, perché ha vergogna della sua ‘nudità’, della sua perdita di innocenza. E l’inganno più tremendo è quello di rimuovere la paura di Dio allontanando la vergogna ma per acconsentire semplicemente alla legge del più forte, fonte di illusione e di ingiustizia. Se però l’uomo sa ascoltare l’invito di Dio: “dove sei?”, che continuamente bussa al suo cuore, senza tener conto della sua paura, allora ritorna all’albero della vita, il Cristo Signore, per vivere nella sua umanità la dimora di Dio, fonte di beatitudine. La Vergine è proprio colei che di quella dimora di Dio ha fatto tutto lo scopo della sua vita, tutto il desiderio della sua umanità. L’esperienza di cui è stata gratificata può diventare, nel suo Figlio, accessibile a tutti e a ciascuno.

Lei proclama: “Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola”. Come a dire: Dio solo sia benedetto, si realizzi la sua promessa, si manifesti in me, finalmente e compiutamente, il suo Bene all’umanità! Proclamandosi serva del Signore esprime il suo desiderio della dimora di Dio in mezzo agli uomini, di cui tutto il suo essere è testimonianza e intercessione per l’umanità intera. Ma esprime anche la preghiera di ogni credente, di ogni discepolo del Signore: avvenga per me secondo quello che hai stabilito fin dall’eternità, si compia in me quello che dalla fondazione del mondo hai promesso all’umanità, si veda realizzato in me quel Regno che nel tuo Figlio hai fatto venire.

Quando Dio chiede ad Adamo se abbia trasgredito il suo comando, lui risponde addossando la colpa ad Eva. Quando Dio si rivolge ad Eva, lei risponde addossando la colpa al serpente. Ma quando Dio è davanti al serpente, il serpente tace. Adamo ed Eva rispondono a Dio, pur giustificandosi, perché hanno nostalgia di Dio. Il serpente sembra non avere alcuna nostalgia: non semplicemente ha peccato, ma non è proprio d’accordo sul fatto che Dio conceda i suoi favori agli uomini e resta quindi avversario di Dio. È avversario di Dio chi è geloso dei beni che Lui riversa sulle sue creature e perciò resta astioso, astio di cui facciamo le spese noi continuamente. Chi è capace di far risplendere i doni di Dio solo godendo dell’immenso amore di Dio per gli uomini è pieno di grazia. E da tale pienezza di grazia non può non derivare il Salvatore, che è la rivelazione dell’infinito amore di Dio per gli uomini. Credo voglia dire anche questo la pienezza di grazia della Vergine, dalla quale nasce Gesù, il Salvatore. Ed è per questo che la tradizione saluta la Vergine come la gioia dell’universo.

La Vergine Immacolata è anche chiamata Signora nostra. Un passo di un’omelia di Gregorio Palamas ne spiega la portata: “ ... signora non solo in quanto libera dalla servitù e partecipe della divina signoria, ma anche perché fonte e radice della libertà del genere umano, soprattutto dopo il parto, ineffabile e beato” (Omelia 14). Così, se l’uomo vuole accedere al regno della libertà, non ha che da guardare a questa sua sorella, al suo mistero, alla sua storia, alle sue emozioni, ai suoi dolori, al suo amore perché in lei ritrova tutto il mistero dell’amore di Dio per l’uomo. E non si può vivere l’amore senza libertà. Nella sua grandezza non cessa di essere sorella nostra, come nella nostra miseria noi non cessiamo di essere oggetto dell’amore di Dio. Il suo avere il Signore con lei è motivo di fiducia per noi di trovarlo, di essere accompagnati a lui, di stare in sua compagnia. Il Signore è con te diventa, nella nostra preghiera: ‘tu, che hai il Signore, supplicalo perché sia anche con noi, ora e sempre!’.

 

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Quarto ciclo

Anno liturgico B (2011-2012)

Tempo di Avvento

 

3a Domenica

(11 dicembre 2011)

 

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Is 61,1-2.10-11;  Lc 1,46-54;  1Ts 5,16-24;  Gv 1,6-8.19-28

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Come Marco e a differenza di Matteo e Luca, Giovanni non narra l’evento della nascita di Gesù a Betlemme. Il suo sguardo si spinge oltre, fino ai confini della storia, oltre la storia. Giovanni risale alla storia eterna dell’amore di Dio per gli uomini: “In principio era il Verbo…” per arrivare ad annunciare: “E il Verbo si fece carne ... e noi vedemmo la sua gloria” (Gv 1,1.14). Il Battista è il primo testimone di quella gloria che via via apparirà anche agli apostoli, a tutti i discepoli e ai seguaci loro, fino a noi, fino alla fine del mondo.

La chiesa, convinta dalla testimonianza del Battista, intravede già l’azione del Messia di cui a breve celebrerà il natale e la riassume in un unico movimento, quello della letizia. Tutta la liturgia di oggi è un assaggio di quello che sarà rivelato al mondo con la nascita dell’Emmanuele, il Dio con noi. L’antifona di ingresso risuona gioiosa: “Rallegratevi sempre nel Signore”. L’antica colletta fa pregare: “Guarda, o Padre, il tuo popolo, che attende con fede il Natale del Signore e fa’ che giunga a celebrare con rinnovata esultanza il grande mistero della salvezza”. Il brano di Isaia descrive ‘il lieto annunzio’ di cui è portatore l’Inviato di Dio. Il salmo responsoriale fa gridare: “la mia anima esulta nel mio Dio”. Paolo esorta: “State sempre lieti”.

Da oggi, per la liturgia, la vigilanza si fa presagio di letizia. Preparare le vie al Signore, da questo punto di vista, significa predisporsi all’esperienza della letizia dall’alto. Quando, con la nuova colletta, preghiamo di avere un cuore puro e generoso, intendiamo pregare perché il Signore ci disponga all’esperienza della letizia, di cui la Madre di Dio è la figura per eccellenza con il suo canto del magnificat, che la chiesa oggi con lei ripete nel salmo responsoriale. La santità della Vergine può essere definita come il superamento radicale della perversione del peccato che consiste nel voler essere noi stessi causa della nostra felicità, mentre per lei, sempre e in ogni cosa, vale solo: “esulto e gioisco nel Signore, l’anima mia si allieta nel mio Dio” (canto di ingresso della festa dell’Immacolata).

Ma qual è la radice della letizia? - sembra la domanda che trapela da tutta la liturgia. Per quanto desiderabile, non sembra proprio che la letizia sia così facilmente afferrabile in questo mondo. La testimonianza del Battista è estremamente rivelatrice: “In mezzo a voi sta uno che voi non conoscete”, e noi potremmo aggiungere: che non conoscete ancora, che non ha ancora toccato il vostro cuore, che non si è ancora manifestato al vostro cuore. Come tutta la storia dello stesso Battista e degli apostoli mostrerà e come tutta la nostra vicenda personale conferma, il mistero della persona di Gesù, il Messia che viene a liberare e rallegrare, non si rivela al nostro cuore, nella sua potenza di redenzione, in un momento. La vita, però, una volta che lui diventa il punto di riferimento, non potrà più essere vissuta se non nella sua luce.

Caratteristica l’immagine che usa il profeta Isaia nel definire l’opera del Messia che libera dal carcere i prigionieri. Di per sé il profeta annuncia la percezione del bagliore di luce dei prigionieri che tornano a vedere la luce del sole dopo essere stati tirati fuori dalle tenebrose segrete in cui erano racchiusi. Del resto, anche il Battista è presentato da Giovanni come testimone della luce, testimone della luce vera che viene nel mondo, luce che è vita per gli uomini, luce nella quale tutto era stato creato e che il cammino del pentimento torna a far splendere nel cuore.

Quando Paolo esorta i credenti: “State sempre lieti, pregate incessantemente, in ogni cosa rendete grazie”, illustra la fede nel Signore Gesù come esperienza di letizia. Chi ha percepito l’amore di benevolenza di Dio sul mondo, di cui Gesù è il testimone e il rivelatore, può vivere nella letizia, diventa capace di accogliere il suo Dio nella preghiera e non ha più bisogno di rivendicare nulla perché rende grazie in ogni cosa. Il legame tra queste tre cose è tanto forte che ognuna, praticata in sincerità, fa ottenere anche le altre due: chi vuole rendere grazie in ogni cosa si ritroverà presto guarito e liberato da ogni forma di pretesa e potrà godere dell’intimità che sogna e della gioia a cui anela. Chi prega in sincerità ritroverà la libertà interiore per stare lieto e vivere la vita in eucaristia, in rendimento di grazie. Ma la letizia che fa vivere è quella che germoglia, come dice il profeta Isaia, dall’incontro con colui che scopro essere il mio Salvatore, col quale attraversare dolori e fatiche della vita.

Si può rilevare un altro particolare denso di mistero nel vangelo di Giovanni. Il Battista, rispondendo a coloro che gli chiedono conto della sua identità davanti al popolo, non si dà un nome suo, ma si definisce solo in rapporto al Cristo: ‘voce che grida’, come più avanti si definirà ‘amico dello sposo’. Né la Vergine né lo stesso evangelista vengono chiamati col loro nome, ma solo in rapporto a Cristo: ‘la madre di Gesù’, ‘il discepolo che Gesù amava’. Una grande lezione di santità: le persone più vicine a Cristo sono quelle che lasciano che il Cristo traspaia in loro e proprio questo costituisce la loro identità nella quale leggere e comprendere la loro storia.

 

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Quarto ciclo

Anno liturgico B (2011-2012)

Tempo di Avvento

 

4a Domenica

(18 dicembre 2011)

 

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2Sam 7,1-5.8b-12.14a.16;  Sal 88;  Rm 16,25-27;  Lc 1,26-38

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La liturgia dell’avvento ci ha accompagnato nell’attesa del Signore che viene con le testimonianze dei profeti e di Giovanni Battista. Ci ha introdotti nel mistero dell’amore di Dio, che contempleremo nel Bambino di Betlemme, attraverso immagini straordinarie. Il Signore che viene, lo stesso che verrà alla fine dei tempi, è il padrone che si mette a servire i suoi servi: ci rende partecipi del suo segreto di amore lungo tutto il corso delle nostre vite (prima domenica). È lui il più forte, colui che ha detronizzato il diavolo dal suo potere sugli uomini: con la sua estrema mitezza e umiltà, da ritenersi ancor meno di uno schiavo in modo che il suo amore splendesse senza ombre di alcun tipo, non ha offerto alcun appiglio nella sua umanità al nefasto potere del diavolo (seconda domenica). È lui la luce, che è vita per gli uomini, da liberarci dalla tristizia del diavolo e farci vivere nella letizia di un amore che non si fa calpestare da nulla, aprendo l’anima alla preghiera incessante e alla gratitudine (terza domenica). E oggi, quando ormai il testimone per eccellenza è la stessa Vergine madre sua, tutto si concentra nell’immagine della serva: “Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola”.

Lei è serva perché il desiderio di Dio di abitare in mezzo ai suoi figli finalmente si compia. È serva perché tutto in lei e di lei è spazio di dimora di Dio in mezzo ai suoi figli. È serva dell’amore di Dio che vuole manifestarsi ai suoi figli e anche lei non offre alcun appiglio, nella sua umanità, al potere del diavolo che lavora per chiudere gli uomini all’esperienza dell’amore di Dio.

In lei si realizza quello che l’antifona di ingresso canta: “Stillate dall’alto, o cieli, la vostra rugiada e dalle nubi scenda a noi il Giusto: si apra la terra e germogli il Salvatore” (cf. Is 45,8). Il passo di Isaia è citato secondo la versione latina della Volgata di s. Girolamo che interpreta in chiave messianica l’invocazione del profeta: “le nubi facciano piovere la giustizia ... si apra la terra e produca la salvezza”.

Il Salvatore viene dall’alto, ma contemporaneamente germoglia dalla terra. Vale per la Vergine, la nostra terra, che ha dato alla luce il Salvatore, ma vale per ogni cuore, che comunque è terra feconda del Salvatore. Bisogna che si compia finalmente quello che preghiamo con il Padre Nostro: ‘sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra’. Intendendo: fa’ che facciamo tale esperienza della bontà del tuo amore per noi tutti i giorni finché la terra del nostro cuore diventi tutta cielo, finché il nostro cuore abbia fatto germogliare Colui che del cielo è sovrano e farà vivere in terra come nel cielo.

Il desiderio di Dio di abitare con gli uomini, di prendere dimora fra gli uomini, di farsi dimora degli uomini, finalmente si compie. E la Vergine vi acconsente, acconsente a che il disegno di Dio si compia in tutto il suo splendore. Il suo acconsentire rivela tutta la purità e sincerità del suo cuore: non sa come si realizzerà il disegno di Dio, ma vi acconsente; non sa cosa le sarà richiesto, ma vi acconsente. Nello stesso tempo, rivela tutta l’intimità del suo cuore, che comunque sta dalla parte di Dio, è un tutt’uno con il sentire di Dio, non cerca altro sentire se non quello stesso di Dio. In effetti, quando il sentire interiore è profondo, il rapporto è potente e quando il sentire tocca le radici del cuore, l’intimità è compiuta: nessun estraneo avrà più accesso in quello spazio. Da quell’intimità mai più si allontanerà e permetterà così che la gioia di Dio e dell’umanità si compia. Il prodigio della concezione e della nascita del Figlio, di cui lei sola conosce il mistero, conferma quell’intimità, non la crea. La fede non ci strappa dalla nostra umanità, ma l’avvalora, la compie nella sua dignità e nei suoi aneliti.

Se è Dio che prepara una casa all’uomo, non la può preparare senza l’uomo. Il Bene che Dio vuole all’uomo non può non tendere a che l’uomo lo possa anche godere e come l’uomo può goderlo se non l’accoglie in libertà di cuore? É il mistero stesso dell’apparizione della gloria di Dio. Se Dio apparisse con la sua gloria in modo da piegare l’uomo sconvolgendo l’universo, non sarebbe il vero Dio perché avrebbe bisogno di ‘apparire’ Dio. Ma Dio è Dio perché non ha bisogno di dimostrarlo. E se appare la gloria di Dio è perché l’uomo possa risplendere del suo fulgore. Ma se l’uomo chiude il cuore, luogo da cui unicamente può risplendere quel fulgore, come può vedere la sua gloria? E ancora, se il cuore non coglie la promessa di vita e quel fulgore di gloria nella parola del Signore, come può riconoscere lo stesso Signore nei poveri in cui si confonde?

È il mistero del Natale del Signore, a Betlemme come nei cuori, allora come adesso, ora come in futuro. Possano i nostri cuori riconoscere in quel Bambino, portato dalla Vergine, il Salvatore, nella sua parola la promessa di vita per noi, nelle sue sofferenze i segni del suo amore, nel suo esserci la grazia per noi, capace di diventare la grazia per tutti.

 

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Quarto ciclo

Anno liturgico B (2011-2012)

Tempo di Natale

 

Natale del Signore

(25 dicembre 2011)

 

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Messa della notte: Is 9,1-6; Sal 95; Tt 2,11-14; Lc 2,1-14

Messa dell’aurora: Is 62,11-12; Sal 96; Tt 3,4-7; Lc 2,15-20

Messa del giorno: Is 52,7-10; Sal 97; Eb 1,1-6; Gv 1,1-18

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La liturgia del natale del Signore si distende tradizionalmente su tre formulari di messe (la messa della notte, dell’aurora e del giorno) che sottolineano i vari aspetti della celebrazione.

La vigilanza, che la liturgia dell’avvento ci aveva insegnato ad assumere davanti al mistero del Signore che viene, ci ha affinato gli sguardi. Ora siamo pronti a vedere ciò che in realtà non è immediatamente visibile. Quale potenza mostra mai un Dio che si fa fragile e inerme bambino? Quali luci in un evento di cui nessuno sembra accorgersi, in una situazione di povertà e di totale discrezione? La liturgia natalizia incastona l’evento del natale di Gesù tra la testimonianza del Padre con l’antifona di ingresso: “Il Signore mi ha detto: Tu sei mio Figlio, io oggi ti ho generato” (Sal 2,7) e la testimonianza dell’apostolo Giovanni: “Il Verbo si è fatto carne e noi abbiamo visto la sua gloria” con l’antifona alla comunione. Gli angeli cantano ai pastori: “Gloria a Dio nel più alto dei cieli e sulla terra pace agli uomini che egli ama”. Da intendersi: la gloria che deriva a Dio dal suo amore per gli uomini, di cui il Figlio è la cifra suprema, si risolve per gli uomini nella condivisione di quell’amore con lui e tra di loro, vera loro pace. Di tutto questo è segno quel Bambino che oggi nasce a Betlemme, fonte di letizia per il mondo.

Della finezza di sguardi parla la colletta della messa nella notte: “concedi a noi, che sulla terra lo contempliamo nei suoi misteri …”, perché non è scontato scorgere in quel Bambino l’apparire della grazia di Dio, della sua bontà e del suo amore, come dichiara Paolo nella seconda lettera a Tito. Sguardi, che la liturgia natalizia focalizza non tanto su di lui come bambino, ma sul mistero che lui condensa e rivela nell’essere bambino. Si premura prima di tutto di collocarlo nella storia dell’elezione di Israele, all’interno delle coordinate temporali dell’impero romano (genealogia di Gesù, figlio di Davide, figlio di Abramo secondo Matteo e racconto della nascita secondo Luca), nella storia della creazione (genealogia di Gesù figlio di Adamo secondo Luca) e oltre, nella dimensione eterna (secondo il prologo di Giovanni). La luce, che rifulge nella notte di Natale, è la luce della gioia e dell’amore eterno di Dio per l’uomo, di cui il mondo è intessuto e da cui è attraversato, la luce della Presenza e della Dimora di Dio in mezzo agli uomini che tutta la Rivelazione testimonia e che ora trova come il suo svelamento e il suo compimento.

La luce non è semplicemente per gli occhi, ma per il cuore. È la luce che si irradia dagli occhi quando il cuore è capace di commuoversi alla percezione della Presenza di Dio che si fa toccabile in quel bambino. È interessante osservare che i salmi responsoriali delle tre messe natalizie fanno parte del gruppo di salmi che la tradizione ebraica proclama in ricevimento del sabato, sacramento della Presenza di Dio in mezzo al suo popolo. Non si tratta solo di acutezza di sguardo, ma anche di commozione del cuore davanti all’amore del Signore che si accompagna a noi secondo le modalità della nostra umanità. A sottolineare la fecondità del realismo dell’amore di Dio che ci viene incontro nella nostra stessa umanità, la liturgia prega con la colletta della messa dell’aurora: “Signore, Dio onnipotente, che ci avvolgi della nuova luce del tuo Verbo fatto uomo, fa’ che risplenda nelle nostre opere il mistero della fede che rifulge nel nostro spirito”, come chiedessimo di vivere la nostra umanità secondo la luce di cui è costituita, essendo fatta a immagine del Figlio di Dio. Il tutto è ripreso ancora nella colletta della messa del giorno: “ O Dio ... fa’ che possiamo condividere la vita divina del tuo Figlio, che oggi ha voluto assumere la nostra natura umana”.

L’esultanza che ne deriva è ben espressa dalla testimonianza degli angeli ai pastori a Betlemme. L’annuncio della gioia tocca gli angeli (messa della notte), a sottolineare che quella gioia è un’offerta, un dono celeste. La formulazione però dell’annuncio è più misterioso di quanto crediamo. Le parole messe in bocca agli angeli sono già frutto di una lunga esperienza di compagnia con quel Figlio, che ora è visto bambino, ma che il racconto evangelico testimonierà essere presso Dio prima della creazione del mondo, essere venuto a rivelare il vero volto di Dio, essere venuto a morire e risorgere per dare la vita agli uomini. E quando proclamano “gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama” esprimono la verità del mistero a lungo contemplato e adorato; si tratta dell’esultanza dell’esperienza dell’amore di Dio per l’uomo. Nel suo amore per l’uomo Dio trova la sua gloria che è appunto lo splendore del suo amore di accondiscendenza per l’uomo (e gli angeli sono coloro che adorano Dio in modo puro perché esultano per un mistero che li trascende: non celebrano Dio per l’amore verso di loro ma verso gli uomini, creature a loro inferiori. Ricorderà poi Gesù che non si può adorare Dio cercando la propria gloria!) e sempre in quell’amore l’uomo trova la sua pace, ritrova il senso e la gioia del vivere, perché di quell’amore è intriso il mondo e di quell’amore respira il cuore dell’uomo.

La letizia dell’annuncio natalizio costituisca il vigore dell’anima e lo spazio di intelligenza del cuore.

Buon Natale a tutti.

 

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Quarto ciclo

Anno liturgico B (2011-2012)

Tempo di Natale

 

Maria ss. Madre di Dio

(1 gennaio 2012)

 

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Nm 6,22-27;  Sal 66;  Gal 4,4-7;  Lc 2,16-21

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Il primo gennaio, capodanno, coincide con l’ottava del Natale. La Chiesa festeggia, da una parte, la gloria della madre nella sua divina maternità venerando la Vergine con il titolo di ‘madre del Cristo e di tutta la chiesa’, come recita la preghiera dopo la comunione espressamente voluta da papa Paolo VI e, dall’altra, la verità dell’incarnazione del Figlio di Dio facendo memoria del rito della circoncisione e dell’imposizione del nome al bambino nell’ottavo giorno. Consacrando poi la giornata all’intercessione per la pace, la chiesa annunzia al mondo che in Cristo è fatta pace tra cielo e terra e che la pace tra gli uomini ne è come il riverbero, lo splendore di benedizione.

Nessuno meglio della Vergine Maria ha potuto vedere l'estensione e la profondità della benedizione che Dio promette di elargire: "Ti benedica il Signore e ti protegga. Il Signore faccia brillare il suo volto su di te e ti sia propizio. Il Signore rivolga su di te il suo volto e ti conceda pace" (Num 6, 24-26). Se la formula di benedizione riportata nel libro dei Numeri concerne Israele, il salmo 66 la estende a tutta l’umanità perché ormai Colui, che del Padre è lo splendore, è nato per noi. In Lui si concentra la pienezza di benedizione, in Lui che è nato nella pienezza dei tempi, come dice l’apostolo. Ciò significa che la Sua benedizione copre tutti i tempi e contemporaneamente ogni genere di tempo, tutto il tempo della vita in tutte le situazioni possibili. Quando il canto al vangelo proclama: “Dio ha parlato ai nostri padri per mezzo dei profeti; oggi, invece, parla a noi per mezzo del Figlio” allude non semplicemente al fatto che Colui che era stato annunciato dai profeti è venuto, ma che in Lui si compiono tutte le possibilità dei tempi.

La colletta, quando prega: “Padre buono, che in Maria, vergine e madre, benedetta fra tutte le donne, hai stabilito la dimora del tuo Verbo fatto uomo tra noi…”, riprende la dichiarazione di Giovanni: “E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi” (Gv 1,14). Ma anche la promessa di Gesù ai discepoli: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14,23). La benedizione di Dio per l’uomo consiste proprio nel suo dimorare fra noi, in noi. L’aspetto straordinario, sconvolgente, dell’amore di Dio per l’uomo, che però spesso nemmeno siamo più capaci di percepire, è dato dal fatto che possiamo essere accolti in quella stessa intimità di vita e di relazione che esiste tra il Padre e il Figlio e che ci è fatto dono di quella stessa intimità. Sembra strano, ma soltanto da dentro quella intimità possiamo sperare di compiere la volontà del Padre nella nostra vita e sentirci avvolti dalla sua benedizione. Se prima non si gusta la volontà di benevolenza di Dio nei nostri confronti, che si esprime nella benedizione che è il Cristo per noi, come poter arrivare alla gioia dell’osservanza dei comandamenti e ad essere operatori di pace? Se non capiamo come Cristo non antepose nulla all’amore per noi, come possiamo noi non anteporre nulla all’amore per Cristo e ritrovarci amati dal Padre, che nel suo Figlio ha posto tutta la sua compiacenza? Il mistero della benedizione di Dio sull’uomo sta tutto qui e tutta la vita della Vergine, come il suo parto prodigioso, è lì a dimostrarlo.

Gli angeli, apparendo ai pastori, annunciano “Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini di buona volontà” (tradotto anche: ‘agli uomini che egli ama’). Il significato più veritiero di questa lode sta nell’affermare che, se gli uomini vogliono vedere il volto sorridente di Dio nei loro confronti, vogliono essere accolti dallo splendore del suo sguardo benevolo e compiaciuto, come descrive il libro dei Numeri, devono compiacersi di quel Figlio, in quel Figlio, sul quale si concentra tutta la benevolenza assoluta di Dio. E non in quel Figlio eterno, ma in quel Figlio fatto uomo, che ha preso carne, che conosce il nostro patire, che condivide le nostre aspirazioni, i nostri sentimenti. Quel Figlio è il Volto sorridente del Padre, quel Figlio è la benedizione invocata sull’umanità, quel Figlio è il nome pronunciato e posto sull’umanità perché l’uomo e Dio riconoscano la mutua appartenenza. È quello che la vergine Maria proclama nella sua divina maternità, come le icone del Natale sottolineano. La Vergine non è rappresentata china sul proprio bambino, ma rivolta ai pastori e al mondo a proclamare che quel ‘figlio’ è la benedizione per loro.

Benedizione, che possiamo ripetere a ciascuno e su ciascuno intendendo:

- che tu possa sentirti dentro confini di benevolenza, possa sentire alleata la vita e Padre tuo il tuo Dio

- che il volto del Signore si riveli al tuo cuore e faccia brillare il tuo volto del suo splendore

- possa fare esperienza del Suo perdono, del Suo farsi grazia a te e sentirti fortificato, imprendibile, per il legame di intimità che ti nasconde nella Sua pace. E così apparterrai al Suo amore, non desiderando altro se non di attrarre a questo amore tutto e tutti finché ci si possa riposare insieme nella Sua benedizione.

La realtà dell’incarnazione comporta anche la variabile tempo. Ogni cosa ha il suo tempo, ogni cosa ha bisogno del suo tempo.  Anche la Vergine Maria ha avuto bisogno di tempo per ‘assuefarsi’ all’agire di Dio. Il brano evangelico la descrive come colei che “serbava tutte queste cose meditandole nel suo cuore”. Evidentemente perché anche per lei la realtà non svelava il suo mistero di colpo. I due verbi, serbava e meditando significano più direttamente: teneva se stessa e queste cose insieme in cuore, facendole rimbalzare l'una sull'altra in modo da ottenerne una visione d'insieme. Sono termini che illustrano il metodo di lettura delle Scritture: una parola si illumina con un'altra parola ed il senso che ne scaturisce si riverbera nel cuore aprendo la parola al cuore ed il cuore alla parola. E non se ne tralascia nessuna: tutte queste cose del testo sono sia le parole udite (dall'angelo, dai profeti, dai pastori) sia gli eventi successi; non si cerca solo quella 'adatta' a me, ma ci si 'adatta' a loro tutte, insieme. Non si preferisce un tempo (il tempo della gioia, del godimento), ma si tengono insieme tutti i tempi (anche il tempo del dubbio, dell’afflizione). Allora, poco a poco, anche al nostro cuore si svelerà quella ‘benedizione’ che Dio ha posto sull’umanità e la vita torna a risplendere della presenza del nostro Dio.

Un poema natalizio di s. Efrem canta: “Sia benedetto Colui che ha consegnato la nostra anima, che l’ha adornata e se ne è fatta la fidanzata! Sia benedetto Colui che ha fatto del nostro corpo una tenda per la sua Invisibilità! Sia benedetto Colui che nella nostra lingua ha tradotto i suoi segreti!... Gloria a Colui che non ha mai bisogno che noi lo ringraziamo. Ma che ha bisogno di tenerci per cari, che ha sete di amarci e che chiede che noi gli diamo perché Lui possa darci ancora di più”. Possano i nostri cuori percepire quei segreti e scoprire le radici della letizia in questo mondo.

 

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Quarto ciclo

Anno liturgico B (2011-2012)

Tempo di Natale

 

Epifania del Signore

(6 gennaio 2012)

 

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Is 60,1-6;  Sal 71;  Ef 3,2-3a.5-6;  Mt 2,1-12

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Epifania vuol dire manifestazione. La festa di oggi, secondo l’antica formulazione della liturgia, ingloba tre momenti della manifestazione del Signore: la manifestazione di Gesù alle genti con la venuta dei magi; la manifestazione del Signore all’inizio della sua carriera messianica con il battesimo al fiume Giordano; la manifestazione del Signore con il primo miracolo alle nozze di Cana.

L’antifona di ingresso della messa si richiama al libro del profeta Malachia, l’ultimo libro dell’Antico Testamento: “È venuto il Signore nostro re: nelle sue mani è il regno, la potenza e la gloria”. Quale visione singolare: un bambino è proclamato ‘sovrano, potente e glorioso’! La proclamazione comporta qualcosa di radicalmente nuovo per gli occhi umani o, se vogliamo, comporta la visione di una realtà con occhi radicalmente nuovi. Stessa ‘novità’ che sta dietro la proclamazione di Gesù come re nei vangeli (soltanto durante la sua passione Gesù accetta il titolo di re) e particolarmente come re della gloria (titolo che fornisce, da una parte, la ragione della condanna sul patibolo della croce e, dall’altra, per la visione di fede dei credenti, la ragione dell’amore di Dio per l’uomo che proprio sulla croce risplende). È in ragione di quella ‘novità’ che la manifestazione di Gesù può conquistare le genti e può convincere Israele. Quando la colletta fa pregare: “O Dio, che in questo giorno, con la guida della stella, hai rivelato alle genti il tuo unico Figlio, conduci benigno anche noi, che ti abbiamo conosciuto per la fede, a contemplare la grandezza della tua gloria”, guida i credenti alla percezione di quella ‘novità’ e li predispone a cogliere e a vivere dello splendore di quell’amore, che costituisce ormai la ragione di senso del vivere nella storia.

La visione dei popoli che si ritrovano a Gerusalemme, ripresa anche dal salmo 71 e celebrata dal salmo 87 (Il Signore scriverà nel libro dei popoli: “Là costui è nato”. E danzando canteranno: “Sono in te tutte le mie sorgenti”), mostra come ormai non esiste più motivo di distinzione tra gli uomini perché la loro dignità deriva da un’unica radice. Paolo ricorda agli Efesini che il mistero ora rivelato concerne tutti gli uomini, che sono chiamati a godere della stessa eredità, a formare un unico corpo, a vivere della stessa promessa di vita. Davanti a Dio sussiste un’unica famiglia umana, destinataria e portatrice allo stesso tempo del Suo amore. Se il Signore, come dice il salmo 71, interviene a favore del povero e del debole, categorie che attraversano la diversità dei popoli e si riferiscono all’umanità di tutti, significa che chi calpesta il povero e il debole ferisce la propria dignità umana e non rispetta l’immagine di quel Figlio che si è confuso con l’umanità di tutti. Davanti a quel Figlio, Bambino, adorato dalle genti – dice il salmo, eco del pensiero di Dio: chiunque tu sia, da qualunque paese provenga, qualsiasi sia stata la tua storia, a qualsiasi cultura appartenga, da qualsiasi parte proceda, sappi che qui sei nato, di qui trai vita e qui conducono i tuoi desideri perché qui si compiono i miei progetti: nel mio Figlio! Non è evidentemente una forma di imposizione spirituale all'umanità. Non si tratta di contrapporre una visione ad altra visione, una fede ad altra fede. Si tratta di imparare a stupirsi a tal punto dei pensieri di Dio per l'umanità che la modalità stessa di vivere e testimoniare quella visione diventa divina. Per questo l'amore è l'ultima parola convincente, sebbene non sia la parola più potente. La debolezza di Dio è più forte della forza degli uomini e la stoltezza di Dio è più sapiente della sapienza degli uomini: per questo a tutti gli uomini, di ieri, come di oggi e di domani, a tutti spetta questa eredità, che è il Figlio di Dio fatto uomo.

I magi sono la figura della manifestazione di Dio alle genti; portando i loro doni, si aprono al mistero di Dio (con l’oro riconoscono la regalità misteriosa di quel ‘bambino nato per noi’, con l’incenso riconoscono la sua divinità, con la mirra la sua umanità pronta a soffrire la passione per la nostra salvezza) e permettono al loro cuore di vedere la gloria di Dio, tanto che fanno ritorno a casa per altra strada. Come a dire: chi si apre all’adorazione di Dio riscopre la casa propria in altro modo, con altro sguardo, sotto altri orizzonti.

Ciò induce a due osservazioni: 1) se il Messia è promesso alle genti, di che cosa siamo noi credenti debitori al mondo? Siamo debitori proprio della conoscenza del Signore. E questo debito pende sulla nostra testa. Qui si ricollega la responsabilità della testimonianza dei credenti di fronte al mondo; 2) se il Messia è promesso alle genti, vuol dire che fin tanto che tutte le genti non l’hanno conosciuto, la nostra stessa conoscenza del Messia è manchevole, resta limitata. Come in un’amicizia: fin tanto che non ho trovato qualcuno che voglia bene a me, io non potrò scoprire quello che sono in verità, quello che porto e di cui sono capace. Così è con Dio. Fin tanto che tutti non l’hanno conosciuto, Dio non ha ancora avuto modo di manifestarsi in tutta la sua ricchezza. Attendere questa manifestazione, nel cuore di tutti, rende umili e adoranti e risponde al comandamento dell’amore verso tutti, anche verso i nemici, finché la gloria di Dio si manifesti compiutamente.

Quanto al mistero della trasformazione dell’acqua in vino alle nozze di Cana (cfr. Gv 2,1-10), simbolo delle nozze del Signore Gesù con l’umanità nostra, anche questo ha a che vedere con la manifestazione della gloria di Dio nella nostra vita.  Potremmo chiederci: quando siamo acqua e quando siamo vino? Passare dall’essere acqua al diventare vino significa passare dalla volontà di osservanza del comandamento al gusto del frutto che il comandamento comporta. La promessa nascosta in ogni parola di Dio è questa: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14,23). Come a dire: ogni comandamento ha un’ispirazione; senza cogliere tale ispirazione non potremo mai gustare la promessa che è nascosta dentro ogni comandamento, la promessa della conoscenza cordiale del Signore, la promessa del gusto della sua compagnia. Come in un rapporto d’amore. Non basta fare delle cose, neanche farle per l’altro; se non si coglie l’ispirazione che muove il cuore ad agire, se non si coglie l’effetto che il nostro agire ha sul cuore dell’altro, se non ci viene rimandata la gioia dell’altro che coglie il movimento del nostro cuore, si resta acqua. Il vino invece, dice la Scrittura, rallegra il cuore dell’uomo. E nel gustare quel vino, il cuore si apre alla conoscenza della gloria del Signore: proprio quello che i magi hanno sperimentato, che gli apostoli hanno testimoniato, di cui i credenti in Cristo sono debitori al mondo. Nel Cristo divinità e umanità sono inscindibilmente unite, Dio finalmente risplende nell’uomo e l’uomo risplende del suo Dio. E se tutto diventerà più svelato con la morte e risurrezione di Gesù, già però se ne può intravedere il mistero fin dalla sua nascita dalla Vergine Maria, almeno per coloro che gli si avvicinano con stupore e sanno vedere nelle parole e negli eventi che lo riguardano gli indizi della sua gloria.

 

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Quarto ciclo

Anno liturgico B (2011-2012)

Tempo di Natale

 

Battesimo del Signore

(8 gennaio 2012)

 

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Is 55,1-11;  Sal: Is 12,2-6;  1Gv 5,1-9;  Mc 1,7-11

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Il mistero del battesimo di Gesù faceva parte della celebrazione della festa dell’Epifania. L’antifona al Benedictus della liturgia delle ore lo ricordava stupendamente: “Oggi la Chiesa, lavata dalla colpa nel fiume Giordano, si unisce a Cristo, suo Sposo; accorrono i magi con doni alle nozze regali e l’acqua cambiata in vino rallegra la mensa”.

Il venire di Gesù al Giordano a farsi battezzare dà inizio alla sua vita pubblica, avvia il compimento di quello per cui è stato mandato: la salvezza degli uomini. Si tratta di una volontà precisa, è arrivata la sua ora. Il primo gesto di Gesù, nel compiere la sua missione, è quello di stare solidale con i peccatori. Lui, l’Innocente, l’Agnello che toglie i peccati del mondo, è in fila con i peccatori per ricevere il battesimo di penitenza di Giovanni. Lui non ha bisogno del battesimo. Perché allora viene a farsi battezzare? Viene per celebrare il suo sposalizio: nella sua umanità oramai è lavata tutta l’umanità, che può stare unita a Lui e godere, come Lui, di quello Spirito che come colomba si posa sul suo capo, capo del suo corpo che siamo noi. Nessuno può ancora vedere lo Spirito però; solo Gesù, uscendo dalle acque, lo può vedere perché ne è ripieno ed anche Giovanni, che con quel battesimo dato a Gesù finisce la sua opera di battezzatore per lasciare posto a Lui, al Suo nuovo battesimo, il battesimo nello Spirito. Si potrà vedere allorquando, compiuta la sua missione, avendo patito per gli uomini, morto e risorto, lo effonderà come lingue di fuoco sugli apostoli. Vedere lo Spirito Santo significa poter penetrare nei cieli ormai aperti, significa aver sperimentato in tutta la sua potenza quel compiacimento che la voce proclama da parte di Dio su Gesù.

Al momento del battesimo di Gesù gli astanti sentono solo la voce: “Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento”. È la funzione della parola di Dio che dà testimonianza al Figlio, come dirà lo stesso Gesù: “Voi scrutate le Scritture credendo di avere in esse la vita eterna: sono proprio esse che danno testimonianza di me” (Gv 5,39). E la testimonianza sta tutta in quel ‘Figlio, l’amato’ da scoprire, da accogliere, da incontrare, da incollarvisi. Ci sono altri due passi nelle Scritture dove si parla del ‘figlio, l’amato’: a proposito del figlio di Abramo, Isacco, in Gen 22,2, quando Dio chiede ad Abramo il sacrificio del figlio prediletto; e ancora nella parabola dei vignaioli assassini, in Mc 12,6, quando il padrone della vigna pensa al suo figlio prediletto da mandare ai vignaioli che non vogliono consegnare il raccolto e che poi lo mettono a morte. Se quell’aggettivo ‘l’amato, il prediletto’ rivela la radicalità della fede di Abramo che davanti al suo Dio accetta di sacrificare il suo cuore, rivela a maggior ragione la radicalità dell’amore di Dio per l’umanità essendo disposto a mandare il suo Figlio a coloro che ne faranno scempio.

Ma i pensieri del Signore sovrastano i nostri pensieri …. L’aggiunta “in te ho posto il mio compiacimento” rivela tutta la profondità del mistero. Si può tradurre: ‘in te il mio Amore è perfetto’, nel senso che tutto l’Amore del Padre è per il Figlio e tutto l’Amore del Figlio è per il Padre. Ma attenzione: ‘in te’, non è più solo rivolto al Figlio nella sua divinità, ma al Figlio, Dio fatto uomo. In quel Figlio, Dio-uomo, l’Amore del Padre è perfetto perché in Lui si può contemplare  tutta l’estensione e la profondità di quell’Amore che realizza compiutamente il suo sogno sulla creazione e sull’umanità. Così, in quel ‘perfetto’ è già compreso anche tutto quello che la nostra umanità, unita a quella del Signore Gesù, compirà, secondo il senso di quel che dirà san Paolo: “Perciò sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa” (Col 1,24).

Ma si può anche tradurre: ‘in te la mia volontà si compie, perfetta’. E la volontà di Dio non è che l’amore per l’uomo ed in Gesù questo amore risplende nella sua radicalità e totalità. E se noi stiamo in Cristo, allora anche in noi la volontà del Padre si compie, perfetta, perché anche in noi il Suo amore risplenderà. Come dice Giovanni di Gesù: è lui il più forte, colui che ha detronizzato il diavolo dal suo potere sugli uomini; con la sua estrema mitezza e umiltà, da ritenersi ancor meno di uno schiavo in modo che il suo amore splendesse senza ombre di alcun tipo, non ha offerto alcun appiglio nella sua umanità al nefasto potere del diavolo. Di questa forza siamo resi partecipi proprio per far risplendere il suo amore che deriva dall’essere mossi e guidati dallo Spirito di cui Gesù è ricolmo e che ci ha effuso nella Pentecoste. È la forza, come dice s. Francesco di Assisi a proposito della perfezione o della santità, di “avere lo Spirito del Signore e la sua santa operazione”, pieno compimento del nostro battesimo.

 

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Quarto ciclo

Anno liturgico B (2011-2012)

Tempo Ordinario

 

2a Domenica

(15 gennaio 2012)

 

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1Sam 3,3b-10.19;  Sal 39;  1Cor 6,13c-15a.17-20;  Gv 1,35-42

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La liturgia del tempo ordinario, in tutti e tre i cicli, comporta la lettura dei sinottici, ma l’inizio è sempre riservato a brani del capitolo primo di Giovanni con il riconoscimento di Gesù da parte del Battista al Giordano, la scoperta del Messia da parte dei discepoli e la manifestazione di Gesù a Cana. Tutti i testi evangelici che si leggeranno nell’anno non faranno che dare storia a quella rivelazione degli inizi perché chiunque ascolti si ritrovi nella stessa dinamica vissuta dai discepoli.

Oggi viene letto il brano della scoperta del Messia da parte di Andrea e dell’altro discepolo, non nominato, che da sempre è stato riconosciuto in Giovanni, autore del vangelo. In effetti, si tratta di ricordi personali dell’evangelista a proposito di un’esperienza che l’ha segnato per tutta la vita, come quando uno si innamora per davvero. Avviene raramente nella vita di fare un incontro che ti cambia totalmente e Giovanni racconta proprio l’incontro che l’ha trasformato completamente, con una precisione di particolari che sono direttamente proporzionali all’intensità dell’esperienza.

Giovanni, nel prologo del suo vangelo, dichiara: “e noi vedemmo la sua gloria” (Gv 1,14). Ha incominciato a essere afferrato da quella gloria proprio in quel giorno, alle quattro del pomeriggio, quando, su invito del suo maestro, il Battista, va da Gesù con Andrea. Non va dimenticato che il verbo greco tradotto con dimorare (“Maestro, dove dimori?”) è lo stesso verbo che Gesù userà con insistenza nel discorso dell’ultima Cena a proposito della vite e dei tralci quando dirà: “rimanete nel mio amore” (cfr Gv 15). È come se Gesù rispondesse ancora alla domanda dei suoi discepoli: “dove dimori?” e dicesse: siete venuti da me, avete visto dove io dimoro (nell’amore del Padre) e così voi, ora, rimanete nel mio stesso amore. È a questa esperienza che Giovanni allude quando annota: “andarono dunque e videro dove egli dimorava”. Il racconto ha il sapore di un’intera vita; ha la potenza, non di un ricordo, ma di una radice, di un principio, di una fonte che continua a sgorgare e che ha sconvolto tutta la sua vita.

Non solo, ma la carica emotiva di quella scoperta è rivelata in tutta la sua forza proprio nell’ultima cena allorquando Gesù, con il paragone della vite e dei tralci, innesta i suoi discepoli nel segreto del Padre, coinvolti nella stessa intimità di Gesù con il Padre. In quel contesto Gesù non chiamerà più servi i suoi discepoli, ma amici, partecipi dei suoi segreti. Sarà l’esito della sequela di Gesù, come dell’ascolto, attento e orante, della Parola.

Le condizioni che permettono al cuore di condividere quei segreti sono indicate dalla prima lettura e dal salmo responsoriale. La prontezza di Samuele a rispondere rivela la libertà di cuore nell’obbedienza, che è la porta di accesso alla visione. Dio non si sottrae mai alla mediazione umana: Giovanni Battista media per Giovanni ed Andrea, Eli per Samuele. Accogliere il mistero di questa mediazione significa custodire una libertà e una purità di cuore nei confronti di Dio. Detto con le parole del salmo 39: non vengo a fare una certa cosa, di cui ho ascoltato l’invito e che condivido, ma vengo perché sono con te e poi farò quello che mi si chiederà. È l’apertura di cuore che conta, non la disponibilità ad un certo progetto. Il brano però fa intravedere la drammaticità che comporta l’apertura di cuore. La prima rivelazione che il giovane Samuele riceve riguarda la condanna della casa di Eli, suo maestro e padre nella fede, come potremmo chiamarlo. Non vorrebbe rivelarla ma non è nemmeno disposto a mentire. La prontezza di obbedienza che gli ha ottenuto la visita di Dio gli ottiene anche la sincerità con Eli e la pace del cuore, nella totale fiducia in Dio.

Quando la colletta prega: “O Dio … fa’ che non lasciamo cadere a vuoto nessuna tua parola” sull’esempio del giovane Samuele, non si riferisce in generale alle parole che ascoltiamo quotidianamente leggendo le Scritture, ma a quelle parole che parlano al nostro cuore, capaci di imprimere una direzione alla nostra vita, fonte di gioia e di lotta per la nostra vita, dandoci orizzonti di senso e di esperienza significativi. Proprio quello che il salmo commenta, in riferimento al Messia: “Nel rotolo del libro su di me è scritto di fare la tua volontà: mio Dio, questo io desidero; la tua legge è nel mio intimo”! Non si tratta di una volontà di comando, ma di benevolenza. Si tratta, come per Gesù, di accogliere lungo l’arco della propria vita la volontà di bene di Dio per i suoi figli in modo da mostrarne lo splendore al di sopra di tutto. Quando Gesù, invitandoci a rimanere in lui, a dimorare in lui, ci associa alla sua esperienza nel fare la volontà del Padre, vuole indurci a vivere la vita in modo da mostrare quanto è grande l’amore di Dio per i suoi figli. Avere la sua legge nell’intimo significa preferire la comunione con i suoi figli a qualsiasi altra cosa. Ed è quello che la liturgia eucaristica vuole ottenere quando ci fa invocare lo Spirito Santo dopo la consacrazione: formare un cuor solo e un’anima sola.

Per i discepoli di Gesù, seguire il Signore significa andare con il Signore, semplicemente stando con lui, in tutte le vicende della vita. Perché il frutto dell’obbedienza è proprio la visione, come dice Andrea: abbiamo trovato il Messia, ragione della nostra gioia e del desiderio che anche ad altri quella gioia si estenda.

Seguire Gesù comporta il desiderio di vivere con lui e come lui, così come Gesù stesso dichiarerà poco prima di subire la passione: “Padre, voglio che quelli che mi hai dato siano anch’essi con me dove sono io, perché contemplino la mia gloria” (Gv 17,24). Quando Gesù sceglierà i dodici, secondo il racconto di Mc 3,14, la motivazione sarà: “perché stessero con lui e per mandarli a predicare”. Sarà lo stare con Gesù che permetterà di vedere la sua gloria, vale a dire lo splendore dell’amore che Dio riversa sugli uomini. E non è senza ragione che i discepoli sono presentati in coppia: Gesù non sarà maestro di individui isolati, ma costituirà una nuova comunità. Non si potrà conoscere Gesù che a partire da una fraternità condivisa perché il suo compito è proprio quello di “riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi” (Gv 11,53).

Così, dall’esperienza del vivere con Gesù scaturisce immediatamente il desiderio di aprire la stessa possibilità ad altri che con noi condividono la ricerca della vita. Quando Andrea comunica a suo fratello Simon Pietro la scoperta: “Abbiamo trovato il Messia”, è come se dicesse: quello che i nostri cuori desiderano, quello che abbiamo sempre sognato, che abbiamo aspettato, è proprio lui; vieni anche tu! È l’inizio dell’apostolato: trasmettere a qualcuno il fascino della gloria del Signore e fare in modo che questo stesso fascino e questa stessa gloria risplendano anche per lui.

 

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Quarto ciclo

Anno liturgico B (2011-2012)

Tempo Ordinario

 

4a Domenica

(29 gennaio 2012)

 

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Dt 18,15-20;  Sal 94;  1Cor 7,32-35;  Mc 1,21-28

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Il libro del Deuteronomio finisce con l’annotazione: “Non è più sorto in Israele un profeta come Mosè, che il Signore conosceva faccia a faccia”. Di Mosè, a differenza degli altri profeti, la Torà dà questa testimonianza: «Ascoltate le mie parole! Se ci sarà un vostro profeta, io, il Signore, in visione a lui mi rivelerò, in sogno parlerò con lui. Non così per il mio servo Mosè: egli è l’uomo di fiducia in tutta la mia casa. Bocca a bocca parlo con lui, in visione e non per enigmi, ed egli contempla l’immagine del Signore» (Nm 12,6-7).

La speranza messianica ebraica, originata dalla promessa di Mosè che Dio avrebbe continuato a guidare il popolo con l’invio di un “profeta pari a me. A lui darete ascolto”, è stata ripresa dalla prima comunità cristiana incentrandola sulla figura di Gesù, nuovo Mosè, che annuncia e porta a compimento il regno dei cieli (cfr At 3,22-23). Non per nulla i vangeli iniziano al Giordano, collegandosi idealmente alla fine del libro del Deuteronomio e all’inizio del libro di Giosuè. Di Gesù il vangelo di Giovanni dirà: “Perché la Legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo. Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato” (Gv 1,17-18).

Nelle parole di Mosè risuona potente l’ingiunzione: “a lui darete ascolto”. Il ritornello responsoriale la riprende parafrasando il salmo 94: “ascoltate oggi la voce del Signore”, con l’attenzione già volta a quel profeta che nel vangelo proclamerà con autorità nuova la parola del Signore. Un primo particolare salta agli occhi. Non si può ascoltare la parola del Signore se non si riconosce la sua voce. Come in un rapporto di amicizia o di amore: la gioia è data dal sentire la voce dell’amico e da dentro quella gioia si ascoltano poi le parole che l’amico ci dice. Ascoltare la voce del Signore allude prima di tutto alla storia d’amore nella quale ci si trova inglobati; allude a quell’alleanza dei cuori che si vive nel profondo e che permette l’apertura di animo e di intelligenza ad accogliere le parole che ci verranno dette.

A lui darete ascolto” sembra anche che riecheggi nella voce che sigilla la visione della trasfigurazione di Gesù sul Tabor: “Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!” (Mc 9,7). Marco sembra alludere proprio a quel testo del Deuteronomio e comunque la sottolineatura nel brano odierno di un Gesù che ‘parla con autorità’ e ‘ha potere sui demoni’ si rivela nella sua ragione specifica e nella sua potenza se la colleghiamo a quella rivelazione. È tipicamente l’autorità non di chi parla a nome proprio, per quanto grande sia, ma l’autorità di chi ha tutto il potere e la capacità di svelare il volto di Dio, di rivelare i segreti di Dio. E chi conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare? (cf. Lc 10,22). Ha anche potere sui demoni nel senso di sottrarre alla loro influenza gli uomini e di rimetterli nella luce di Dio. In questo si rivela il suo potere di guarigione, che porterà alla rivelazione del suo potere di rimettere i peccati, cosa che svelerà definitivamente, in lui, come Dio si sia appressato all’uomo. È la novità che suscita stupore, sbalordimento, esultanza, perché il male è vinto e l’uomo ritorna nella signoria di Dio che vuole gli uomini commensali al suo amore e alla sua gioia.

Del resto è caratteristico che Marco abbini regolarmente la predicazione di Gesù al suo potere di scacciare i demoni, abbinamento che risulterà ancora alla fine del vangelo quando Gesù invierà i discepoli a predicare in tutto il mondo dando loro il potere di cacciare i demoni. Credo che meglio non si possa sottolineare la novità e la potenza del vangelo che sottrae l’uomo dalla dipendenza del male per renderlo libero nella comunione con Dio. Ma questa rivelazione non sarà svelata se non attraverso il passaggio pasquale di Gesù. È forse questa la ragione per cui Gesù, di fronte al riconoscimento della sua grandezza da parte dei demoni, ingiunge a questi con forza di tacere. L’uomo della sinagoga di Cafarnao dichiara: “io so chi tu sei: il santo di Dio!” (Mc 1,24); “tu sei il Figlio di Dio” (Mc 3,11) dicevano gli spiriti immondi; e l’indemoniato di Gerasa, in terra pagana: “Gesù, Figlio del Dio Altissimo” (Mc 5,7). Dopo il capitolo quinto, Marco narra ancora miracoli e guarigioni, ma i demoni non parlano più. E sarà Gesù a subire, in un certo senso, l’attacco dei demoni, ma proprio quell’attacco (la sua passione e morte) svelerà al mondo intero il suo segreto: Dio ama e tocca gli uomini a tal punto da sanarne le radici, da rinnovarli come figli di Dio, non più schiavi dei demoni, ormai vinti. La vittoria di Dio, però, non corrisponde a quanto gli uomini si sarebbero sognati e forse per questo Gesù, fin tanto che non ha mostrato fino in fondo quale fosse la via di Dio, non ha voluto riconoscimenti di sorta.

Così, presentare Gesù come profeta, il cui insegnamento è nuovo, diverso rispetto a quello degli scribi, porta allusione al mistero dell’intimità tra lui e il Padre che sul Tabor la voce dalla nube rivela: “Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!” (Mc 9,7). Gesù introduce poco a poco i suoi ascoltatori a questo segreto, nel quale tutta la Scrittura si riassume. Ascoltare le parole di quel profeta significa intuire e percepire quel segreto di intimità con il Padre che tanto ama il mondo da mandare il suo Figlio, tanto che in ogni parola da lui pronunciata, in ogni azione da lui compiuta, si apre l’accesso anche per noi all’intimità da lui goduta. Dire poi che Gesù ha il potere di guarirci, di scacciare dal nostro cuore i demoni, equivale a illustrare il mistero dell’accondiscendenza di Dio per gli uomini da farli partecipi dei suoi segreti, da condividere con loro la gioia del suo amore sempre e comunque. Quello che la colletta mette bene in evidenza collegando la verità della salvezza alla gioia che la esprime: “… rendici forti nella professione della fede, perché in parole e opere proclamiamo la verità e testimoniamo la beatitudine di coloro che a te si affidano”, nella realtà del passaggio pasquale nostro insieme a Gesù lungo le prove della vita.

 

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Quarto ciclo

Anno liturgico B (2011-2012)

Tempo Ordinario

 

5a Domenica

(5 febbraio 2012)

 

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Gb 7,1-4. 6-7;  Sal 146;  1Cor 9,16-19.22-23;  Mc 1, 29-39

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La liturgia proclama il brano di vangelo di oggi da un’angolatura particolare. Considerando la figura di Gesù che guarisce e scaccia i demoni, ne vuole mostrare la radice di autorità con il canto al vangelo, l’urgenza dell’opera con il brano di Giobbe e scava nei cuori lo spazio adatto alla supplica con la colletta. Se il potere del male atterra gli uomini, il potere di Gesù atterra il male e rende gli uomini liberi in solidarietà con lui e fra di loro.

Il canto al vangelo “Cristo ha preso le nostre infermità e si è caricato delle nostre malattie” è ripreso da Mt 8,17 e costituisce la traduzione letterale dall’ebraico di Is 53,4, passo che appartiene al quarto canto del Servo. Matteo fa una rilettura dell’operato di Gesù a partire da una theologia crucis e fonda l’autorità di Gesù nello scacciare i demoni proprio sulla vittoria contro di loro sulla croce. Introdurre il brano di Marco con questa rivelazione profetica significa sottolineare da dove viene la potenza di Gesù, significa invitare a leggere la sua opera, i suoi miracoli, in funzione di quella rivelazione. Dietro l’agire di Gesù, sta un segreto da cogliere. Il miracolo delle guarigioni e la cacciata dei demoni non sottolineano tanto il potere divino di Gesù, ma l’accondiscendenza di Dio, la prossimità di Dio in Gesù all’uomo. E questa dimostrazione è in funzione dello svelamento del segreto di Dio per l’uomo, della rivelazione del suo immenso amore al mondo tramite il Figlio, che ci riporta alla comunione con lui strappandoci dal male.

L’urgenza di questa rivelazione è accentuata dal fatto che l’uomo versa in condizioni di oppressione e di angoscia, di cui il brano di Giobbe mostra tutta la drammaticità. Giobbe non ha accettato la devota spiegazione del dolore che i suoi amici gli hanno dato prendendo le difese di Dio. Giobbe protesta la sua innocenza e si sfoga con il suo Dio. Potremmo riassumere il suo intervento così: non si può comprendere la vita dell’uomo a partire da leggi supreme, ma solo da dentro un rapporto. Non è vero che il tormento dell’uomo rispecchi la giustizia di Dio, come sostengono i suoi amici, ricusati però da Dio stesso alla fine del libro; è vero invece che la giustizia di Dio rimane imperscrutabile ma che lui è accessibile all’uomo e suo salvatore.

Nel dramma, la cosa non è affatto scontata e proprio per rispondere all’angoscia dell’uomo viene descritta l’ansia di Gesù di raggiungere tutti, particolare che imprime una forte accelerazione di movimento a ciò che viene raccontato nel vangelo di oggi. Si tratta di un doppio movimento: una tensione verso tutti, ma anche una tensione per arrivare a Gerusalemme; una tensione per l’allargamento della sua predicazione, ma contemporaneamente la tensione per lo svelamento del suo segreto. In quell’ansia di Gesù, nel suo doppio significato di raggiungere tutti e che tutto il suo segreto si sveli, sta racchiusa l’urgenza della missione della chiesa in tutti i tempi.

Marco sottolinea anche la ricerca di solitudine da parte di Gesù ed è caratteristico che l’evangelista collochi la preghiera di Gesù in rapporto alla sua ansia di raggiungere tutti e di svelare tutto il suo segreto. La preghiera non ha forse a che fare con il desiderio di comunione con gli uomini da parte di Dio prima ancora che essere espressione del desiderio degli uomini di stare in compagnia di Dio? Se gli uomini non percepissero l’eco di quel desiderio di Dio, potrebbero mai pregare davvero? Potrebbero mai essere solidali con i loro fratelli e farsi raggiungere dal Suo amore tanto da essere rinnovati totalmente? Il fatto poi che Gesù si ritiri da solo a pregare esprime proprio l’immensità del desiderio di Dio per l'uomo e quando i discepoli gli annunciano che lo cercano, non torna ma va altrove perché tutti deve raggiungere. E si può leggere anche così: Gesù deve percorrere tutta la terra del nostro cuore; se in qualche parte siamo stati guariti, altre parti attendono la guarigione, fino a che tutto in noi possa risplendere del suo amore salvatore.

La colletta mostra che in Gesù Dio si appressa all’uomo, gli uomini sono liberati dalle loro oppressioni e imparano a vivere solidali, abitati dalla speranza: “ ... rendici puri e forti nelle prove, perché sull'esempio di Cristo impariamo a condividere con i fratelli il mistero del dolore, illuminati dalla speranza che ci salva”. La potenza della supplica deriva dall’intensità della coscienza del male che ci ferisce insieme al desiderio di guarigione che ci attrae al Signore Gesù, solidali in umanità con tutti. La preghiera si risolve nel desiderio di sperimentare l’amore salvatore di Dio, non però nel senso di essere preservati dagli effetti dell’azione dei demoni (il male non scompare e non scomparirà dalla scena del mondo) ma nel senso di non essere più asserviti ai loro scopi perversi. A tal punto che, proprio quando il male sembrerà prevalere, come con il Signore Gesù in croce, esso sarà definitivamente vinto perché svuotato del suo scopo perverso, cioè quello di dividere gli uomini da Dio e tra di loro.

 

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Quarto ciclo

Anno liturgico B (2011-2012)

Tempo Ordinario

 

6a Domenica

(12 febbraio 2012)

 

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Lv 13,1-2.45-46;  Sal 31;  1Cor 10,31-11,1;  Mc 1,40-45

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Beato l'uomo a cui è tolta la colpa e coperto il peccato. Beato l’uomo a cui Dio non imputa il delitto e nel cui spirito non è inganno ... Confesserò al Signore le mie iniquità e tu hai tolto la mia colpa e il mio peccato” cantiamo nel salmo responsoriale, subito dopo la lettura del libro del Levitico che sancisce il terribile statuto del lebbroso: “Il lebbroso colpito da piaghe porterà vesti strappate e il capo scoperto; velato fino al labbro superiore, andrà gridando: ‘Impuro! Impuro! Sarà impuro finché durerà in lui il male; è impuro, se ne starà solo, abiterà fuori dell’accampamento” (Lev 13,45-46). Oltre il peso sociale dell’esclusione, la lebbra comportava l’esclusione dal culto, dall’accesso alla santità di Dio che la Legge definiva in termini di partecipazione alla vita del popolo santo e al culto del vero Dio.

La colletta ci fa pregare: “Risanaci, o Padre, dal peccato che ci divide e dalle discriminazioni che ci avviliscono”. Dividere e avvilire sono le due caratteristiche della malattia della lebbra. Chi ne era affetto era allontanato dal consorzio degli uomini perché impuro, capace cioè di contagiare col suo male. Quando il Signore Gesù si presenta, nella sua Passione, come uomo dei dolori, verranno ricordate le parole del profeta, accorate ma tremende: “Non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per poterci piacere. Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia ...” (Is 53,2-3). Sono le parole confacenti a un lebbroso. Il Signore si è addossato i nostri mali da portarne tutto l'orrore, come un lebbroso. Forse, anche per questo, la compassione di certi santi verso i lebbrosi è stata prepotente. Pensiamo al bacio del lebbroso da parte di s. Francesco d'Assisi, evento che testimonia la rivelazione del Volto di Dio al cuore di Francesco. E quando lo stesso Gesù dovrà convincere Giovanni Battista che lui è il Messia atteso, gli dirà che i lebbrosi sono purificati (cfr. Mt 11,5).

I nostri peccati hanno lo stesso destino della lebbra: insidiano la fraternità, irrigidiscono i rapporti, contaminano il cuore da renderlo inaccessibile al cuore degli altri, separano ed opprimono, impediscono al Volto di Dio di risplendere. Per questo il peccato è orribile: rende la vita paurosa e temibile.

La guarigione del lebbroso da parte di Gesù non è semplicemente uno tra i tanti casi di guarigione miracolosa, proprio per questa carica simbolica della lebbra come peccato. Intanto non si tratta propriamente di guarigione, ma di purificazione. La guarigione del corpo allude alla purificazione del cuore che fa tornare a splendere i rapporti di fraternità, di comunione e ridà accesso al mistero di Dio. Gesù non guarisce semplicemente un malato, ma modifica radicalmente la sua condizione interiore restituendolo ad una vita santa. La vita santa, quella in rapporto alla santità di Dio goduto nel suo desiderio di comunione con noi, non è più definita secondo i termini della legge. La discriminante tra santo e non santo si sposta e i confini sono radicalmente cambiati perché Dio si è fatto prossimo a noi nella sua compassione, come proclama il canto al vangelo: “Un grande profeta è sorto tra noi, e Dio ha visitato il suo popolo” (Lc 7,16). Il nesso guarigione/purificazione, da leggere in rapporto alla beatitudine: “beati i puri di cuore perché vedranno Dio”, acquista la luminosità della tenerezza di Dio che libera e ci rende capaci a nostra volta di tenerezza luminosa per l’uomo.

Nel racconto parallelo di Matteo, Gesù guarisce il lebbroso subito dopo la discesa dal monte delle beatitudini, dove con forza aveva proclamato il suo Regno. E le beatitudini sono la rivelazione della fraternità in Dio, quando veniamo guidati dallo Spirito Santo. Guarire dalla lebbra vuol dire ricevere la rivelazione che è giunto a noi il regno di Dio, vuol dire che possiamo tornare a non avere paura di Dio e del prossimo, vuol dire ritornare a vivere in umiltà e mitezza, in libertà e gratuità, toccati da Dio.

L’annotazione ‘ne ebbe compassione’ non esprime semplicemente un moto dell’animo di Gesù, ma più profondamente quello che è il sentire di Dio per l’uomo perché la forma verbale usata, nel Nuovo Testamento, si usa solo nei confronti di Gesù e del Padre. Esprime la qualità divina del sentire: il Figlio si comporta come Dio stesso. Ormai la purità, con Gesù, diventa lo spazio luminoso che torna a risplendere per rapporti fraterni e pacifici, dove il Padre è visto nel suo amore per noi. Ad occupare l’atmosfera del cuore non c’è più l’immondezza dei demoni, ma lo splendore del Figlio di Dio che permette all’umanità di compiersi finalmente e glorificare così il Padre.

Se il lebbroso supplica: “Se vuoi, puoi purificarmi”, Gesù risponde perentorio: “Lo voglio, sii purificato!”. Nella sua decisione non va letta soltanto la compassione per un uomo malato e avvilito, ma l’ansia di riportare il regno di Dio nel cuore dell’uomo, la fretta e l’ardore di mostrare come l’amore di Dio che raggiunge i cuori fa risplendere in modo nuovo l’umanità che li sostanzia. Nel suo volere va letto il desiderio di compiere il disegno del Padre, di riscattare gli uomini non semplicemente dalle malattie, ma dal peccato, di cui la malattia della lebbra era il segno per eccellenza.

Quando il lebbroso, nonostante il tono severo dell’ingiunzione di Gesù, non riesce a frenare il bisogno di annunciare a tutti e insistentemente la sua guarigione, il testo annota: “si mise a proclamare e a divulgare il fatto”. In realtà però il testo dice semplicemente: “divulgare la parola”. È la parola di Gesù diventata per lui fatto. Non si annunciano semplicemente parole, ma fatti che rivelano la potenza della parola. Quello che parla ai cuori sarà sempre la Parola, capace di operare in chi ascolta le stesse cose meravigliose di cui porta testimonianza chi annuncia e che ha scoperto nel movimento di compassione di Dio che è arrivato fino a lui.

 

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Quarto ciclo

Anno liturgico B (2011-2012)

Tempo Ordinario

 

7a Domenica

(19 febbraio 2012)

 

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Is 43,18-19.21-22.24b-25;  Sal 40;  2Cor 1,18-22;  Mc 2,1-12

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Non è usuale nei vangeli che coloro i quali si appressano a Gesù per ottenere qualcosa tacciano. Di quell’uomo, calato dall’alto davanti a Gesù in una barella improvvisata, si sa solo che era malato. Né lui né i suoi amici proferiscono verbo, né prima né dopo. Con forte determinazione viene posto semplicemente davanti a Gesù. Il comportamento di Gesù è strano, un comportamento che spiazza. La liturgia di oggi sa però collocarlo molto bene e mette in bocca a quell’uomo, simbolo di noi tutti, le parole del salmo 12, che servono da antifona di ingresso: “Confido, Signore, nella tua misericordia. Gioisca il mio cuore nella tua salvezza, canti al Signore che mi ha beneficato”. Le prime parole del salmo invocano: “Fino a quando, Signore, continuerai a dimenticarmi? Fino a quando mi nasconderai il tuo volto?...”. La situazione dell’uomo è ben descritta, come del resto l’intervento di Dio.

Tutto il racconto si fonda sull’annotazione: “Gesù, vedendo la loro fede, disse al paralitico: Figlio, ti sono perdonati i tuoi peccati”. Evidentemente l’evangelista vuole attirare l’attenzione dell’ascoltatore oltre l’apparenza. È chiaro che il paralitico è stato portato per ottenere il miracolo della guarigione e tutta la scena è costruita sulla decisione dei suoi amici di arrivare allo scopo, fino a scoperchiare il tetto pur di far arrivare il loro protetto davanti a Gesù. Ma Gesù non risponde subito a quell’urgenza. Ne rivela invece un’altra, inaspettatamente, e di questa parla la fede che Gesù aveva notato. Noi però non riusciamo a cogliere quello che si è scatenato a partire da ciò che Gesù ha visto e che ha permesso anche a lui di mostrarsi nella sua verità.

Se ci si rifà al brano di Is 43, al quale la liturgia accosta il miracolo del paralitico, possiamo cogliere meglio il segreto di quella scena. Il profeta presenta il Signore nel suo amore per Israele: “Il popolo che io ho plasmato per me … Io, io cancello i tuoi misfatti per amore di me stesso, e non ricordo più i tuoi peccati”. Tutto il capitolo è attraversato dalle manifestazioni di un affetto intenso e intramontabile di Dio per il suo popolo  - Dio che dice al suo popolo: sei prezioso ai miei occhi, sei degno di stima, io ti amo, io sono con te! -. Questo amore si esprime proprio nel cancellare i peccati, nel non ricordare le colpe.

Non si vuol dire però che il suo amore è tanto grande da dimenticare i peccati, ma che il fatto di non ricordarli è il segno che quell’amore ci raggiunge e ci rapisce nella sua dinamica di vita. In effetti, quando il testo parla di un popolo che ha plasmato intende il popolo che ha riconciliato e che continuamente conquista al suo amore. L’antica versione greca della LXX traduce il passo sopra citato enfatizzando questo significato: “Io sono, Io sono, proprio colui che cancella le tue trasgressioni”. Almeno per quello che l’uomo può cogliere, Dio è semplicemente e totalmente il Dio che è dalla parte dell’uomo, il Dio che ama l’uomo al punto da non stancarsi mai di lui. Dio non ha bisogno di riconciliarsi con l’uomo; è l’uomo che si deve riconciliare con Dio. Dio non può avere la sua gioia se non nel vedere l’uomo riconciliato con sé. Questo spiega la corsa di Dio verso l’umanità, di cui tutte le Scritture parlano e che il canto al vangelo sottolinea: “Il Signore mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione”. E Gesù, davanti al paralitico guarito, agisce proprio nell’ottica del ‘Dio che plasma il suo popolo’.

Nel salmo responsoriale, il primo versetto canta: “Beato l’uomo che ha cura del debole, nel giorno della sventura il Signore lo libera”, che l’antica versione greca rende con: “Beato colui che ha intelligenza del povero e del misero”. Il debole non è solo il fratello malato e bisognoso, che dovrà essere portato da noi sul lettuccio fino a Gesù; ma è proprio il Figlio dell'uomo, che ha sacrificato ogni potere e grandezza per invitare tutti e ciascuno alla comunione con lui, che non abbandona pur quando è abbandonato, che non si rifiuta pur quando è rifiutato, che non si stanca di plasmare l’uomo. Se di quell'Uomo abbiamo premura, non subiremo il male perché non c'è sventura che possa separarci da lui e dai nostri fratelli. A questo mira l’azione di Dio che vuol plasmare l’uomo in Cristo.

Del resto fa cogliere bene il senso del brano la colletta: “Dio della libertà e della pace, che nel perdono dei peccati ci doni il segno della creazione nuova, fa’ che tutta la nostra vita riconciliata nel tuo amore diventi lode e annunzio della tua misericordia”. Effettivamente la novità di Gesù consiste proprio nel collegare il suo potere di guarigione con il perdono dei peccati. Ma noi siamo così distanti dal senso della santità di Dio che una tale sovrabbondanza di grazia non ci scompone più di tanto! Eppure tutto l’agire di Gesù ci richiamerà a questo, fino a riempire di stupore il nostro cuore quando ci invaderà la grazia e la potenza del suo perdono sanante e ristoratore.

È poi caratteristico che siano altri a portare il malato davanti a Gesù; altri, evidentemente, che tenevano al malato e che, una volta visto esaudito il loro desiderio, si sottraggono. Come non vedere in questi portatori la funzione provvidenziale dei fratelli nel nostro cammino di fede, nella nostra scoperta di Gesù? Sono lì a richiamarci la dimensione ecclesiale del nostro vivere la fede e nella fede; sono lì a sottolineare la provvidenza divina nella nostra vita. Di qui la responsabilità di comportarci da fratelli, per non far venir meno la rivelazione del Volto di Dio a nessuno.

 

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Quarto ciclo

Anno liturgico B (2011-2012)

Tempo di Quaresima

 

1a Domenica

(26 febbraio 2012)

 

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Gn 9,8-15;  Sal 24;  1Pt 3,18-22;  Mc 1,12-15

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L’antica colletta della prima domenica di quaresima fa pregare: “O Dio, nostro Padre, con la celebrazione di questa quaresima, segno sacramentale della nostra conversione, concedi a noi tuoi fedeli di crescere nella conoscenza del mistero di Cristo e di testimoniarlo con una degna condotta di vita”. Fin dall’inizio del cammino, tutto è orientato a quel Signore Gesù, che per noi ‘patì, morì, fu sepolto, risuscitò effondendo su di noi il suo Spirito’.

La liturgia pone davanti agli occhi il brano delle tentazioni di Gesù nel deserto, come a sottolineare l’aspetto drammatico della vita in Dio. Tanto più se consideriamo che il brano delle tentazioni, assai sintetico in Marco, più narrativo in Matteo e Luca, è strettamente collegato al battesimo di Gesù. É come se la ragione della tentazione fosse fatta consistere nella verifica esistenziale dell’affermazione risuonata al battesimo nel Giordano: “Tu sei il Figlio mio, l’amato; in te ho posto il mio compiacimento” (Mc 1,11).

Tutte le letture di oggi insistono sul medesimo scenario interiore che noi percepiamo così sfumato da risultare irriconoscibile. Noi facciamo fatica a leggere le tentazioni e le prove della nostra vita in un’ottica positiva, nell’ottica dello Spirito. In effetti, la tentazione non deriva primariamente dal peccato, come fosse una semplice eredità del peccato. Se così fosse, Gesù non sarebbe stato tentato perché non aveva peccato; Adamo non sarebbe stato tentato perché godeva ancora della comunione con Dio. La tentazione ha a che fare con la promessa di Dio della vita abbondante nella comunione con lui, nella crescita di una relazione fino a farla maturare in tutta la potenzialità di amore e di gioia che comporta, fino a condividere quell’amore e quella gioia con tutti, nonostante la fatica e l’afflizione che costituiscono come lo sfondo dal quale emerge appunto lo splendore dell’amore.

Con la prima lettura viene sottolineato il fatto che le tentazioni sono da leggere nella trama dell’alleanza che Dio non ritirerà più da noi. Il diluvio diventa ormai la figura del battesimo, allorquando l’alleanza di Dio con i suoi figli sarà compiutamente espressa in quel Gesù che muore, giusto per gli ingiusti, per attirarci a Dio. E se Pietro, nella sua prima lettera, ricorda il Cristo morto per noi, lo nomina nel contesto delle tentazioni che accompagnano la vita dei credenti (“Se questa infatti è la volontà di Dio, è meglio soffrire operando il bene che facendo il male, perché anche Cristo è morto …”, 1Pt 3,17-18). Ciò significa che, se vogliamo attraversare indenni le tentazioni (“Non trionfino su di me i miei nemici”), la prima cosa da percepire è proprio l’alleanza di Dio con noi, tanto da far proclamare al salmo: “Tutti i sentieri del Signore sono amore e fedeltà per chi custodisce la sua alleanza e i suoi precetti … Il Signore si confida con chi lo teme: gli fa conoscere la sua alleanza” (Sal 24,2.10.14).

Rispetto a Gesù, le tentazioni sono tese a confermarlo dalla parte di Dio anche nella scelta delle modalità con cui rivelare la potente salvezza divina, senza cedere ad alcun altro tipo di gloria, umana o mondana, che l'avrebbe asservito al diavolo. Gesù, come Messia, serve Dio senza che in lui si possa trovare qualcosa che appartenga a questo mondo. Se il mondo è tutto ciò che si oppone all’amore del Padre e mortifica l’uomo, Gesù non è proprio di questo mondo e quindi in lui non si trova nulla che abbia a che fare con la gloria del mondo e del diavolo che ne dispone. Gesù ha vinto il mondo perché il demonio non ha trovato in lui nulla che gli appartenesse (cfr. Gv 14,30). La vita sua, quindi, che sgorgava totalmente dal Padre, la ridà a noi con il suo Spirito perché anche la nostra vita, non custodendo più pegni del demonio, possa manifestare l’amore di Dio al mondo.

Marco sottolinea poi che Gesù “stava con le bestie selvatiche e gli angeli lo servivano”. È l’allusione al paradiso ritrovato, come descritto da Gn 1,28 e profeticamente preannunciato da Is 11,6-9. Richiama tutta la tensione quaresimale della chiesa, consapevole che quel paradiso sarà accessibile a partire dalla gloria che risplende dalla croce. In quella tensione trovano posto tutte le pratiche tipiche della quaresima: preghiera, digiuno, elemosina.

Se la chiesa, nella quaresima, invita a patire un po’ la fame (digiuno di cibo, elemosina di beni, preghiera come bisogno di verità) è perché, come dice la preghiera dopo la comunione: “Il pane del cielo che ci hai dato ... ci insegni ad aver fame di Cristo”. È il desiderio di crescere nella conoscenza del suo mistero, che è anche rivelazione del mistero dei nostri cuori. E tale desiderio corrisponde a quello che domandiamo nella preghiera sulle offerte: “Si rinnovi, Signore, la nostra vita e col tuo aiuto si ispiri sempre più al sacrificio, che santifica l’inizio della quaresima, tempo favorevole per la nostra salvezza”. Come a dire: il rinnovamento di vita che domandiamo si innesta nella capacità di vivere la vita in modo sacro, di vedere la vita diventando percettivi del mistero di Dio e del suo amore per l’uomo che l’intesse e che in Gesù risplende. Preghiamo di venire innestati e trascinati in quel dinamismo di rivelazione dell’amore di Dio per gli uomini, che si è compiuto in Cristo e che attende di compiersi nel mondo. Il senso della testimonianza dei discepoli di Cristo nel mondo sta tutto qui. La forza di questa testimonianza non è in funzione della grandezza delle opere ma della potenza di quel dinamismo di amore che pacifica e rende solidali i cuori.

Gesù inizia la sua predicazione proclamando: “Convertitevi e credete al vangelo”. Ma qual è il vangelo annunziato da Gesù se non la rivelazione dello splendore dell’amore del Padre per gli uomini, come poi la conclusione del cammino quaresimale, nella celebrazione della Pasqua, farà scoprire? E la novità evangelica, perenne novità divina per l’uomo, novità che risulterà sempre tale rispetto a tutto ciò che il mondo può produrre, è proprio quella di mostrare lo splendore dell’amore di Dio nell’umanità. Nell’umanità risplende la presenza di Dio. Le opere quaresimali sono opere penitenziali solo quando e se portano a liberare il cuore da ogni intralcio perché il dinamismo di questa rivelazione del Figlio di Dio si esprima anche in me, nella mia umanità, e possa così far risplendere la presenza del suo amore in questo mondo. Il digiuno libera il cuore dall’asservire il mondo al corpo e al suo piacere; l’elemosina libera il cuore dalla prevaricazione contro gli altri imparando a stare solidali in umanità; la preghiera libera il cuore dall’illusione del mondo per volerlo trasfigurato dalla luce di Dio.

Buon cammino quaresimale a tutti.

 

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Quarto ciclo

Anno liturgico B (2011-2012)

Tempo di Quaresima

 

2a Domenica

(4 marzo 2012)

 

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Gn 22,1-2.9a.10-13.15-18; Sal 115; Rm 8,31b-34; Mc 9,2-10

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La colletta del martedì della prima settimana di quaresima definiva bene il senso della conversione: “Volgi il tuo sguardo, Padre misericordioso, a questa tua famiglia e fa che superando ogni forma di egoismo risplenda ai tuoi occhi per il desiderio di te”. Oggi, la liturgia, facendoci contemplare il volto di Gesù risplendente di luce luminosissima, un volto bellissimo, rende ragione del desiderio che abita il nostro cuore e canta con l’antifona di ingresso: “Di te dice il mio cuore: ‘Cercate il suo volto’. Il tuo volto io cerco o Signore”.

A differenza però di quello che ci attenderemmo, la liturgia non insiste sulla visione del volto di Gesù trasfigurato, ma sulla tensione che quella rivelazione comporta. La colletta sottolinea, ad esempio: “O Dio, Padre buono, che non hai risparmiato il tuo Figlio unigenito, ma lo hai dato per noi peccatori …”. Nel brano della Genesi, che riporta il dramma di Abramo per il sacrificio del figlio Isacco, leggiamo: “Giuro per me stesso, oracolo del Signore: perché tu hai fatto questo e non hai risparmiato tuo figlio, il tuo unigenito …”. Stessa sottolineatura nel grido dell’apostolo: “Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi, non ci donerà forse ogni cosa insieme a lui?”.

Non solo, ma la gloria che la liturgia declina non si riferisce alla bellezza del volto di Gesù, ma all’amore del Padre che in lui rifulge e dalla cui sorgente deriva tutto lo splendore che si manifesta nella persona di Gesù. Da una parte, è come se gli occhi umani fossero resi capaci di vedere l’oltre della figura di Gesù, quell’oltre che pesca nella incommensurabile bellezza e profondità divina, a noi nascosta, ma per noi vitale. Dall’altra, nulla si svolge secondo la nostra immaginazione. Se i pittori di icone non si fossero sprofondati nella contemplazione del brano evangelico, non avrebbero mai dipinto la scena con i discepoli atterrati, come scaraventati a terra, spaventati, di fronte a un Gesù splendente di luce che fuoriesce dalle profondità divine e che bagna con la sua luce tutto il mondo. Pietro proclama che per lui era bello stare lì, ma il testo continua dicendo che era come fuori di sé dallo spavento. Compaiono, accanto a Gesù, Elia e Mosè in atto di conversare con lui, ma, come specifica l’evangelista Luca, il tema della conversazione era la morte di Gesù. Perché questi accostamenti drammatici?

Nel vangelo di Marco il brano della trasfigurazione sul Tabor è posto al centro del suo tessuto narrativo. Gesù era appena stato riconosciuto da Pietro come Figlio di Dio, ma contemporaneamente aveva svelato il suo esito messianico, che cioè avrebbe dovuto soffrire molto, essere ucciso e risuscitare. Non solo, ma aveva ricordato ai discepoli che, se quella era la via del Maestro, non si immaginassero di seguire un’altra via: “Se qualcuno vuol venire dietro di me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce…”. I discepoli Pietro, Giacomo e Giovanni sono gli stessi che vedranno di Gesù il volto sanguinante, teso e stravolto dalla sofferenza, al Getsemani. I discepoli hanno visto il volto trasfigurato di Gesù sul Tabor perché imparassero a riconoscerlo nella sofferenza della passione, quando hanno dovuto rimirare non l’oltre, ma come l’al di qua della figura, non il volto trasfigurato, ma il volto sfigurato. I vangeli e la tradizione tengono collegate le due esperienze. Quale il senso?

Lo illustra assai bene Leone Magno nella sua omelia LI : “Una tale trasformazione tendeva principalmente a rimuovere dal cuore dei discepoli lo scandalo della croce, sicché l'umiliazione della passione, volontariamente accettata, non venisse a turbare la fede di chi aveva contemplato l'eminente dignità, seppur nascosta, del Cristo. Intanto, secondo un disegno altrettanto previdente, era dato fondamento alla speranza della santa Chiesa, nel senso che tutto il corpo di Cristo veniva a conoscere quale trasformazione avrebbe ricevuto in dono e le singole membra potevano scambiarsi la promessa di compartecipazione all'onore che risplendeva nel loro capo”.

Come Dio promette ad Abramo, sarà il dono del Figlio da parte di Dio all'umanità che costituirà la fonte di ogni benedizione, per tutti, per sempre. Non si pensi però che il dono del Figlio all'umanità da parte del Padre sia in funzione semplicemente di un riscatto, di un sacrificio espiatorio. Il valore del dono è in funzione della grandezza dell'amore e se il Figlio testimonia questo amore fino alla morte non è per essere vittima sacrificale, ma solo per la fedeltà all'amore che non viene meno nemmeno davanti all'oltraggio e all'ingiustizia. Ed è nella corrente di questo dono che i discepoli di Gesù sono chiamati a lasciarsi trascinare, fruitori in ciò di quel “vedere il regno di Dio venire con potenza” (Mc 9,1), che introduce proprio il racconto della trasfigurazione.

Qui si comprende allora il cammino quaresimale, che è lotta perché sia superata ogni forma di egoismo e il cuore viva del desiderio del Cristo. Egoismo è tutto ciò che ci impedisce di essere toccati dall’amore di Dio, tutto ciò che si sovrappone al desiderio del Cristo rinnegandolo e, di conseguenza, rinnegando il nostro stesso cuore e dividendoci dai fratelli.

Con la liturgia di oggi, nell’insieme delle sfumature con cui presenta il mistero della trasfigurazione, incontriamo Dio come un amante così implicato nella vita da non rifuggirla mai, da assicurarcela sempre, in totale abbondanza. Se su Gesù risiede tutta la compiacenza del Padre, come dice la voce a sigillo della visione sul Tabor, è perché lui farà vedere l’amore del Padre per gli uomini con tale radicalità e assolutezza da implicare tutta la sua vita fino alla morte, morte che segnerà proprio il trionfo dell’amore come sorgente di vita per chiunque lo riconoscerà. Il dramma nostro invece è dato dal fatto che neppure davanti a Lui ci lasciamo convincere che l’amore di Dio è per noi, che l’amore suo è vita vera per noi, che l’amore diventi vita vissuta. Vorremmo che Dio con il suo amore ci beatificasse senza dover spendere la vita in amore per tutti perché il Suo amore risplenda. Quale stoltezza! Il cammino quaresimale, con l’invito alla conversione, punta proprio a renderci permeabili dall’amore di Dio in Gesù che si fa radice di vita, misura di vita.

Cercare di ascoltare Gesù, di seguirlo mettendo in pratica le sue parole, è come entrare anche noi nella stessa compiacenza che gode da parte del Padre, compiacenza che in altro non consiste se non nel godimento di una vita che è diventata espressione di amore, tanto che non si vuole altra vita se non quella che provenga e conduca ad un amore capace di far risplendere il volto degli uomini. Ma se si vede risplendere quella luce, allora Dio è con noi, il mondo può risplendere della sua presenza.

 

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Quarto ciclo

Anno liturgico B (2011-2012)

Tempo di Quaresima

 

3a Domenica

(11 marzo 2012)

 

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Es 20,1-17;  Sal 18;  1Cor 1,22-25;  Gv 2,13-25

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I miei occhi sono sempre rivolti al Signore…” canta l’antifona di ingresso. È un invito a cogliere il senso della liturgia a partire da quella prospettiva. I nostri occhi sono rivolti al Signore per cercare in ogni evento la traccia del suo passaggio al fine di seguirlo e poterlo conoscere; per cercare in ogni pensiero la scintilla divina che attiri a lui e apra uno spazio di visione del suo volto. Il fatto che i nostri occhi siano rivolti al Signore esprime la tensione del cuore che non si perde nelle cose, ma delle cose cerca il senso; che non si confonde con i suoi pensieri, ma li apre al sogno che racchiudono per compierli in verità.

Il canto al vangelo “Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito” (Gv 3,16) segnala l’esperienza che siamo chiamati a fare. Se nelle parole o nei comandamenti che Dio ci rivolge noi non riusciamo a percepire la sua tensione di amore nei nostri confronti, non riusciamo a cogliere il Dono di Sé, quel ‘suo far grazia di sé a noi’, come potremo osservarli con gioia? E se non percepiamo che tutte le sue parole, tutti i suoi comandamenti, sono espressione di quel Dono di Sé che nel Figlio Gesù il Padre ci fa, come potremo aprirci alla sua gioia? Come potremo vivere la nostra umanità in modo che risplenda di quell’amore divino di cui tutti i comandamenti parlano?

Nel brano dell’Esodo, dove viene presentata la serie dei dieci comandamenti, delle dieci parole, Dio inizia il suo discorso dicendo: “Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile”. Parla da dentro un legame già noto, già riconosciuto, da dentro un’alleanza che ha già fatto conoscere al popolo l’amore suo di benevolenza. Ed è da dentro quell’esperienza che le parole risuonano e possono arrivare al cuore. Appena quell’esperienza si affievolisce, le parole si stemperano e il cuore fatica a riconoscerle vere, presto le abbandonerà. Ma se quell’esperienza si mantiene forte (e qui dovrebbe appuntarsi tutto lo sforzo del coltivare il proprio cuore, come il cammino quaresimale suggerisce), allora avverrà quello che celebra il salmo responsoriale: “La legge del Signore è perfetta, rinfranca l’anima; la testimonianza del Signore è stabile, rende saggio il semplice …”. Da interpretare in senso intensivo e dinamico: Dio che è integro, rende integri; Dio che è verità, rende veritieri; Dio che è rettitudine, rende retti. Con la conseguenza di trovare forza perché integri, saggezza perché veritieri, gioia perché retti e in ciò partecipare alla stessa vita di Dio.

A quell’esperienza alludeva la costruzione del tempio. Là si andava per rinnovare quell’esperienza. Ma Gesù, che di quell’esperienza rappresenta la testimonianza più vivida, freme al vedere come ormai il tempio non risponda più allo scopo, consapevole, da parte di Dio, che è venuto il tempo di indicare il nuovo tempio, quello definitivo, non costruito dalle mani dell’uomo, dove la presenza di Dio in mezzo al suo popolo potesse risplendere con un sigillo di radicalità e di definitività non più passibile di cambiamenti. Gesù scaccia dal tempio venditori e cambiavalute a sottolineare la rivelazione che di lì a poco porterà: il nuovo tempio sarà il suo stesso corpo, dove non c’è mercato di sorta perché nulla è richiesto all’uomo se non l’accoglienza dell’offerta del Suo amore, sigillato dalla sua morte gloriosa, come dichiarerà l’evangelista Giovanni. È caratteristico il fatto che l’espressione di Gesù: “Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere” (Gv 2,19) sia ripresa come accusa e scherno ai piedi della croce: “Ehi, tu che distruggi il tempio e lo ricostruisci in tre giorni, salva te stesso scendendo dalla croce!” (Mc 15,29). Sarà l’ultima richiesta di segno: scendere dalla croce! Ogni richiesta di segno nell’ottica della potenza rivela la cecità del cuore di fronte all’agire di Dio. Gesù non scenderà dalla croce per convincere: se l’amore non convince, non c’è potenza che lo possa ottenere. La conseguenza sarà che il luogo della presenza di Dio nel mondo oramai è l’umanità: Dio risplende nell’umanità. E tutti i comandamenti sono in funzione di far risplendere quella umanità. L’amore di Dio per l’uomo è così radicale da far rivelare la Sua gloria solo a partire da e dentro l’umanità. Qui è racchiuso tutto il mistero dell’amore di Dio e della salvezza dell’uomo.

In tal senso si comprende allora come il cuore dell’uomo sia il luogo dell’adorazione del Dio vero, perché da lì può risplendere l’umanità. Le azioni buone provengono dallo splendore del cuore e lo splendore del cuore proviene dal riconoscimento dell’amore di Dio per noi. Solo così il nostro cuore non è più luogo di mercato, dove prevalgono interessi e contraffazioni. Non è cosa così agevole da vivere, come suggerisce Paolo illustrando il dramma del Crocifisso per l’uomo che patisce scandalo e stoltezza. Ma se l’uomo fa fede all’amore di Dio che in Gesù splende nella sua umanità, vilipesa e gloriosa, allora riuscirà ad abbandonare anche quella miriade di presunzioni e rivendicazioni che lo tormentano nella vita e che rendono i rapporti così difficili, impedendo all’umanità di risplendere. Per questo dico al mio cuore: “i miei occhi sono sempre rivolti al Signore…”.

 

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Quarto ciclo

Anno liturgico B (2011-2012)

Tempo di Quaresima

 

4a Domenica

(18 marzo 2012)

 

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2Cr 36,14-16.19-23;  Sal 136;  Ef 2,4-10;  Gv 3,14-21

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Lo sguardo della chiesa, lungo tutta la liturgia quaresimale, è teso alla Pasqua e si fissa sul Figlio dell’uomo che viene innalzato sulla croce. La liturgia di oggi sfrutta dei punti di osservazione privilegiati. La prima lettura, tratta dal secondo libro delle Cronache, si conclude con l’invito ai deportati in Babilonia a salire a Gerusalemme e tornare a godere dell’alleanza che Dio rinnova loro. Questa pagina conclude la terza parte, denominata Scritti, della Bibbia ebraica; è l’ultima pagina della Bibbia secondo la disposizione del canone ebraico. La liturgia collega il salire a Gerusalemme, così tipico della tensione dell’anima e della storia degli ebrei, con il salire di Gesù alla città santa per la sua Pasqua, per l’esaltazione sulla croce, argomento del suo colloquio con Nicodemo. L’alleanza di Dio con il popolo è rivisitata con l’immagine dell’offerta della salvezza in Gesù da parte del Padre che “ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito”, come proclama il canto al vangelo.

Nel suo colloquio con Nicodemo Gesù introduce il paragone del serpente di bronzo, secondo la narrazione di Numeri 21,4-9, con l’affermazione: “Nessuno è mai salito al cielo fuorché il Figlio dell’uomo che è disceso dal cielo” (Gv 3,13). Come il serpente di bronzo innalzato nel deserto recava guarigione a coloro che l’avessero guardato, così sarà di Gesù quando sarà innalzato sulla croce. Gesù sta istruendo Nicodemo; lo sta introducendo al mistero di Dio, al mistero dell’immenso amore di Dio per l’uomo che in Gesù riceve il suo sigillo definitivo, ultima e ultimativa rivelazione di Dio. La forza del ragionamento di Gesù sta in un particolare: l’altezza, il fatto che per dare salvezza Gesù debba essere innalzato. Questo particolare nasconde la modalità della rivelazione di Dio e costituisce perciò per l’uomo l’accesso a quella rivelazione. È da quell’altezza che ci viene la vita eterna, perché da quell’altezza si rivela in tutto il suo splendore l’amore del Padre per l’uomo e l’intimità del Figlio con Lui che di quello splendore è il testimone per eccellenza. Perché quell’altezza? Di cosa parla quell’altezza?

Spesso gli antichi crocifissi, al posto dell’iscrizione di condanna (in latino, INRI= Gesù nazareno re dei giudei) portavano il titolo ‘re della gloria’. È la gloria di un amore che manifesta la sua radice dall’alto proprio quando dal basso viene vilipeso e calpestato. È la gloria di un amore che rimane libero nel suo dono proprio quando è rifiutato e negletto. Ma, come dice Gesù: “nessuno è mai salito al cielo fuorché il Figlio dell’uomo che è disceso dal cielo”. Da interpretare oramai: non si può salire al cielo se non discendendo. L’innalzamento della croce mostra la reale discesa di Dio fino all’uomo, fino a consegnarsi all’uomo, fino a star sottomesso all’uomo che lo tradisce e lo calpesta. E proprio perché custodisce la sua divinità nell’essere calpestato, rivela tutta la potenza di un’umanità che è irraggiamento dello splendore di Dio, un’umanità che tutta si muove nell’amore perché sia vinto l’odio, perché il mondo torni ancora a risplendere della presenza di Dio. Così anche per noi non esiste altro modo di salire a Dio se non quello di discendere, di stare sottomessi perché risplenda l’amore di Dio. Quando s. Francesco di Assisi parla di perfetta letizia allude proprio a questo mistero.

La rivelazione dell’umanità come luogo dello splendore di Dio in questo mondo non può che venire dall’alto. Quello che Giovanni chiama ‘dall’alto’, Paolo, nella sua lettera agli Efesini, chiama ‘per grazia’. ‘Dall’alto’ e ‘per grazia’ rivelano il fatto che in Gesù Dio ha fatto grazia di Sé, ha fatto dono di Sé all’uomo e in quel dono l’uomo può ritrovare la potenza della sua umanità. In tal senso acquista particolare risonanza l’altra espressione che usa l’evangelista Giovanni: “Chi opera la verità viene alla luce”. Operare la verità è un’espressione semita che si riferisce al fatto di mettere in pratica i comandamenti. Ma la sfumatura essenziale di significato risulta ormai questa: i comandamenti non sono causa di meriti, ma autorivelazione di Dio che partecipano, all’uomo che li accoglie, la Sua stessa vita, che è amore per noi. Ciò significa che i comandamenti ci aiutano a ritrovare quella ‘umanità’, rivelata dal Signore Gesù, che costituisce la vocazione dell’uomo e che in Gesù riceve il suo sigillo. Se Dio risplende nell’umanità perché sta sottomesso all’uomo fino a farsi calpestare senza lasciarsi distrarre dal suo amore di benevolenza, anche l’uomo vedrà lo splendore di Dio se sta sottomesso ai suoi fratelli senza lasciarsi vincolare da ingiustizie o malvagità. Ma dovrà avere lo sguardo fisso su Colui che di quell’amore, ferito e appassionato, è il testimone per eccellenza, in umanità.

Se Gesù si premura di ricordare a Nicodemo e ai suoi discepoli che il Figlio dell’uomo deve essere innalzato, vuol dire che si tratta di un evento che non risponde alle nostre attese, che noi non avremmo mai immaginato perché comporta la rivelazione di un segreto di Dio. E non solo di un segreto nel senso che ci fa conoscere qualcosa che fino ad allora non era noto, ma di un segreto nel senso che caratterizza l’intima vita di Dio e quindi caratterizzerà l’intima vita dei suoi figli. Se Gesù deve essere innalzato, deve morire in croce, non è solo in ragione del peccato dell’uomo, ma della manifestazione del segreto della vita divina che a tutti verrà comunicata in modo da vivere di quella pienezza che appartiene solo a Dio. Gesù è l’Agnello immolato fin dalla fondazione del mondo, come suggerisce il testo dell’Apocalisse 13,8 letto secondo la volgata (“in libro vitae Agni, qui occisus est ab origine mundi”). Il mistero adombrato dalla Parola di Dio è che la sofferenza non è legata al peccato, ma al dono dell’essere da parte di Dio, alla creazione stessa e quindi alla natura della stessa vita trinitaria che Gesù è venuto a svelarci e a comunicarci perché ne diventiamo partecipi e possiamo così non subire più la morte. Se Dio conosce le nostre sofferenze non è solo perché le vede in noi, ma perché le sente sue e la salvezza che ci dona è proprio quella di farci vivere quella sofferenza in quell’abisso di amore che costituisce la rivelazione suprema della realtà di Dio. Gesù è proprio la prova e la misura dell’amore di Dio per noi e come suonano vere le parole di Paolo ai Romani 8,35.39: “chi ci separerà dall’amore di Cristo? ... Io sono persuaso che né morte né vita ... né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio in Cristo Gesù, nostro Signore”!

 

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Quarto ciclo

Anno liturgico B (2011-2012)

Tempo di Quaresima

 

5a Domenica

(25 marzo 2012)

 

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Ger 31,31-34;  Sal 50;  Eb 5,7-9;  Gv 12,20-33

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Gesù era stato accolto a Betania con la tenerissima e misteriosa unzione di Maria; era appena entrato trionfante in Gerusalemme; la notizia della risurrezione di Lazzaro correva sulla bocca di tutti e tutti accorrevano per vedere l’uno e l’altro. Era prossima la festa di pasqua. Un gruppo di Greci, cioè pagani simpatizzanti, vicini alla religione ebraica, chiede a Filippo: “vogliamo vedere Gesù”. Con tale richiesta il vangelo introduce l’ora del Figlio dell’uomo perché vedere Gesù vuol dire vedere il Salvatore, vedere il Dio che salva.

È caratteristica la posizione di Filippo, originario della Galilea, ‘terra delle genti’. Poco più avanti, nel racconto, sarà lui a chiedere a Gesù: “Signore, mostraci il Padre e ci basta” (Gv 14,8). La sua presenza sembra aver a che fare con la rivelazione del Padre. Perché la morte di Gesù in croce è vista, da Giovanni, nel segno della rivelazione del Padre, del suo amore all’uomo. Il “vogliamo vedere Gesù”, introducendo l’ora del Figlio dell’uomo, manifesta la rivelazione del Padre che nel suo Figlio Unigenito fa vedere il suo volto d’amore.

Gesù, commentando la richiesta dei pagani di vederlo e parlando della sua morte, svela la gloria del Padre che con lui condivide. Siamo di fronte al segreto di Dio che si apre allo sguardo dei suoi figli. “Adesso l’anima mia è turbata; che cosa dirò? Padre, salvami da quest’ora? Ma proprio per questo sono giunto a quest’ora! Padre, glorifica il tuo nome”. Il vangelo di Giovanni non parla dell’angoscia del Getsemani. Qui la lascia intravedere, eco delle parole dei salmi 6,3 e 41,6-7: “trema tutta l’anima mia”, “in me si rattrista l’anima mia”. L’intensità dell’angoscia di Gesù, condivisa dal Padre, raccoglie in un punto supremo la sua umanità che si abbandona al Padre nel suo amore per gli uomini. È questo amore condiviso con il Padre e con gli uomini che permetterà a Gesù di attirare tutti alla salvezza e scacciare il principe di questo mondo, vale a dire dare la vita nella morte, ricevere la vita nella morte. Quando Gesù, al culmine della sua angoscia, prega: “Padre, glorifica il tuo nome” manifesta tutta la sua intimità con il Padre, tanto che chiede al Padre di far splendere l’amore suo in lui in tutta la sua potenza, perché il nome del Padre è proprio Gesù, il volto visibile del Padre.

Il destino dei suoi discepoli sarà identico al suo, come annuncia il canto al vangelo: “Se uno mi vuole servire, mi segua, dice il Signore, e dove sono io, là sarà anche il mio servitore”. Ma non vuol dire: io soffro, anche voi soffrirete; io sono ripudiato dal mondo, anche voi lo sarete; io muoio sulla croce, anche voi avrete la vostra croce. Dice piuttosto: io sono nell’amore del Padre, anche voi lo sarete; io sono il testimone del suo amore in questo mondo, anche voi lo sarete; io risplendo della gloria dell’amore del Padre, anche voi risplenderete dello stesso amore; per questo amore, per la rivelazione di questo amore, perché questo amore porti vita a tutti sono venuto al mondo e così sarà di voi, se state con me. E dicendo ‘quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me’, allude evidentemente alla sua morte in croce, ma anche al destino dei suoi discepoli perché anche per loro varrà la stessa dinamica di salvezza: quando saranno elevati con il loro Signore crocifisso, quando cioè subiranno il martirio per Lui, sotto qualsiasi forma avvenga, allora risplenderà la loro vita, allora gli uomini capiranno cosa i loro cuori portavano dentro e si sentiranno attratti dal loro stesso amore.

La domanda della liturgia è: come accedere a questa visione di Gesù Salvatore? Ce lo rivela il profeta Geremia: “Porrò la mia legge dentro di loro, la scriverò sul loro cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo. Non dovranno più istruirsi l’un l’altro dicendo: ‘Conoscete il Signore’, perché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande – oracolo del Signore -, poiché io perdonerò la loro iniquità e non ricorderò più il loro peccato”. “Tutti mi conosceranno”; “perché io perdonerò la loro iniquità”: ecco i due passaggi nevralgici. Quel perché dice la condizione e il tempo del conoscere. Possiamo conoscere Dio solo sperimentando il suo perdono. E possiamo venire perdonati solo riconoscendo di essere peccatori. Più forte è la coscienza del nostro essere peccatori, più profonda sarà l’esperienza del perdono e più rigenerante l’incontro con il Signore, finalmente conosciuto nel suo amore per noi. E per non cadere nell’illusione sentimentale di sentirsi peccatori, senza averne la coscienza in verità, basta riferirsi alle nostre reazioni di fronte all’ingiustizia e alla violenza che ci arrivano addosso dai fratelli. Se davvero abbiamo coscienza di essere peccatori, non rivendicheremo nulla, non ci offenderemo, non resteremo oppressi, perché non vogliamo perdere l’esperienza di quell’amore che costituisce il vero tesoro di vita del nostro cuore. Allora l’alleanza conclusa da Dio con noi è scritta davvero sul nostro cuore. Allora resteremo innalzati con il nostro Signore, crocifisso, e la salvezza, mentre tiene saldi noi, attirerà anche i nostri fratelli.

A tale esperienza allude il cuore puro che domandiamo a Dio con il salmo responsoriale, confermata dall’espressione della lettera agli Ebrei: “Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì”. È lo splendore dell’obbedienza dell’amore nel quale troviamo vita noi e confermiamo la vita di tutti, stando uniti al Signore Gesù.

 

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Quarto ciclo

Anno liturgico B (2011-2012)

Tempo di Quaresima

 

DOMENICA DELLE PALME E DELLA

PASSIONE DEL SIGNORE

(1 aprile 2012)

 

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Vangelo dell’ingresso a Gerusalemme:  Mc 11,1-10

Is 50,4-7;  Sal21;  Fil 2,6-11;  Mc 14,1 - 15,47

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La liturgia della domenica delle palme si compone di due momenti ben distinti: con la processione accompagniamo festosi l'ingresso di Gesù in Gerusalemme e con la lettura solenne della passione del Signore entriamo, commossi, nel mistero dell'Ora del Figlio dell'uomo.

L’acclamazione della folla è la stessa che ogni giorno cantiamo nel Sanctus della Messa, aggiungendo le nostre voci a quelle di tutti coloro che riconoscono in Colui che viene (nella celebrazione eucaristica, sotto il segno del pane e del vino) il Figlio di Davide, il compimento di tutte le promesse.

Durante la processione viene cantato il salmo 23: “ ... alzatevi, porte antiche ed entri il re della gloria. Chi è questo re della gloria? Il Signore forte e potente, il Signore potente in battaglia”. Il nostro re della gloria è il Signore crocifisso, quello sopra il cui capo, come si può notare in molte raffigurazioni antiche del Crocifisso, viene riportato non l'iscrizione di condanna I.N.R.I, ma il titolo re della gloria. È la gloria dello splendore dell’amore del Padre per i suoi figli che in Gesù rifulge e di cui l’umanità sarà portatrice nel suo Spirito. Si aprano allora le porte dei cuori per accogliere il loro re della gloria, per accogliere il re della loro gloria, perché l’amore di cui Gesù è il Testimone costituisce la radice della nostra dignità e l’accessibilità alla conoscenza del vero Dio.

Ciò che però colpisce nel racconto di quell’evento è la solitudine di Gesù. Nessuno si accorge di quello che in realtà sta avvenendo. L’evangelista lo fa rimarcare, ma come da fuori campo: la risurrezione di Lazzaro ha scatenato gli eventi della passione di Gesù, alla quale volontariamente si consegna. Di ciò Gesù è consapevole, ma lui solo.

Anche a Betania, il giorno prima, nessuno si era accorto di ciò che si andava preparando. Soltanto una donna, nella tenerezza del suo amore, intuisce il segreto di Gesù. Ungergli i piedi con unguento preziosissimo (se la stima di Giuda è realistica, il costo ammonterebbe più o meno allo stipendio di un anno per un operaio) risponde al desiderio di accompagnare Gesù nella sua solitudine. Quel profumo rivela la morte imminente, che nessuno è pronto ad accettare, ma anche tutto l'amore che quella morte significa ed esprime. I Padri antichi hanno visto in quel profumo versato su Gesù il pentimento dei nostri cuori, pentimento che si allarga ed impregna tutto perché l'amore che Gesù ha testimoniato con la sua passione non resti estraneo a niente di noi e perché niente di noi resista a tale amore. Quando s. Paolo, rivolgendosi ai suoi fedeli, li chiama profumo di Cristo, allude proprio a questa tenerezza che ha conquistato il cuore - così si può chiamare il pentimento per i nostri peccati!

La liturgia, conclusa la processione, cambia registro. Invita alla compassione, alla compagnia, amorosa e partecipante, con l'uomo dei dolori, con l'uomo umiliato e obbediente, vilipeso e condannato, dato per noi perché noi avessimo la vita. Il senso della lettura della passione, celebrata in forma solenne, è proprio quello di introdurci nel mistero di Colui che viene, umiliato e obbediente fino alla morte e alla morte di croce, suscitandoci sentimenti di intima compassione e di riverente amore, sentimenti che ci accompagneranno lungo tutti i riti della settimana santa.

E se la colletta ci propone Gesù come modello, non é per suggerirci un modello di umanità sofferente, ma per indicarci fino a punto possiamo vivere la vocazione all’umanità, di cui lui svela la bellezza nel suo stare fedele alla comunione con Dio, dalla parte degli uomini e alla comunione con gli uomini, dalla parte di Dio. E la sua bellezza traspare proprio nel momento in cui, sfigurato dal dolore e calpestato, non rinnega l’alleanza di Dio ed apre, per lui e per tutti, la promessa di una vita inattaccabile dalla morte. È la sua bellezza a generare speranza, quella di cui il mondo oggi, come sempre, ha tremendamente ed urgentemente bisogno.

Il salmo 21, ripreso nella liturgia del Venerdì santo, sembra illustrare molti dettagli della passione di Gesù. La Chiesa ha sempre letto questo salmo con negli occhi il racconto evangelico della passione e nella mente l’inno di Paolo nella sua lettera ai Filippesi dove l’amore di Dio per l’uomo è descritto nei termini di un abbassamento incondizionato fino a umiliare “se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce”. Il racconto della passione illustra nei dettagli storici accaduti a Gesù quel mistero di abbassamento che rivela la possibilità divina dell’umanità nella sua glorificazione presso il Padre. Ciò che l’antico Adamo aveva proditoriamente creduto possibile, cioè il ‘farsi Dio’ in modo indipendente da Dio, trovando la morte, Gesù lo vive nella modalità radicalmente inversa, cioè in termini di abbassamento e radicale dipendenza, trovando la vita e partecipandola agli uomini: “E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me” (Gv 12,32).

 

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Quarto ciclo

Anno liturgico B (2011-2012)

Tempo di Pasqua

 

Pasqua di Risurrezione del Signore

(8 aprile 2012)

 

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At 10, 34a. 37-43;  Sal 117;  Col 3, 1-4;  Gv 20, 1-9

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Il giovedì santo la chiesa aveva posto a suggello della celebrazione del triduo pasquale l’affermazione del vangelo di Giovanni: “Dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine” (Gv 13,1). Certamente non vuol significare solo che Gesù starà fedele al suo amore fino alla morte, ma più precisamente che va incontro alla morte perché si sveli in tutto il suo splendore l’amore che lo muove rispetto al Padre e a tutti noi. Nella stessa celebrazione, con l’istituzione dell’eucaristia e la lavanda dei piedi, l’amore era definito nel suo mistero di dono (“questo è il mio corpo, che è per voi”) e di servizio (“Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri”). La posta in gioco è ‘aver parte con lui’. Accogliere il servizio di Gesù e non praticarlo al fratello significa non riconoscere quel ‘corpo, che è per noi’, tanto il mistero dell’amore parla di Dio e dell’uomo insieme.

È lo stesso Gesù a svelarne la ragione profonda: “ ... viene il principe del mondo; contro di me non può nulla, ma bisogna che il mondo sappia che io amo il Padre, e come il Padre mi ha comandato, così io agisco” (Gv 14,31). L’espressione ‘contro di me non può nulla’ andrebbe resa letteralmente: “in me non ha nulla”. La sottolineatura non riguarda la forza di Gesù, ma l’innocenza, la sua pura comunione con il Padre e con gli uomini, la sua imprendibilità all’illusione demoniaca per cui non viene meno all’amore proprio quando è calpestato. Qui si comprende il dramma della debolezza di Dio più forte della forza degli uomini. Per avvicinare i cuori degli uomini Dio ha messo da parte la sua potenza preferendo la debolezza (cf. Fil 2,8 ). La debolezza di Dio non svela solo l'immensità dell'amore suo per l'uomo, ma pure il desiderio profondo dell'uomo, il bisogno dell'uomo per essere tale, compiuto nella sua umanità. E il mistero scaturisce proprio qui: l'uomo, per scoprire la sua umanità, non può non guardare a questa debolezza di Dio. Tutto ciò che è fuori da tale debolezza, risulterà illusione e causerà ulteriore sofferenza, ma sorda, tragica, insensata, che porterà divisione e non comunione, che porterà rabbia e non riposo.

La celebrazione della passione del Signore ha rivelato l’intimità e la tenacia dell’amore di Gesù per gli uomini colte nel mistero della sua obbedienza al Padre. L’obbedienza del Figlio di Dio, che non gli ha fatto preferire nulla a noi, nemmeno la sua gloria divina, in ciò condividendo con il Padre e lo Spirito Santo la passione d’amore per noi uomini, suoi figli, induce noi a non preferire nulla a Lui, e in ciò condividendo la sua obbedienza all’amore senza ricercare altra contropartita. Di qui scaturisce quella salvezza che risana i cuori e li abilita alla vita in Dio, alla vita non più soggetta alla morte, cioè non più dominata da tutto ciò che attiene alla morte, causata dall’accoglimento dell’illusione demoniaca.

Il mistero dell’amore, però, per quanto desiderabile, non è affatto scontato. Senza il sigillo della risurrezione di Gesù non sarebbe stato colto e non avrebbe potuto essere immesso nel mondo. Le donne, i discepoli, la domenica di Pasqua, attendono o corrono al sepolcro per trovare un morto; l’unico orizzonte possibile è avere il corpo del loro amato Signore. Se l’esperienza della risurrezione di Gesù era del tutto inconcepibile per i discepoli, ciò significa che anche l’esperienza del suo amore sino alla fine non poteva essere colto.

Il primo giorno, il giorno uno della settimana, dischiude un tempo completamente diverso, un tempo nel quale tutto ciò che è stato compiuto fino ad ora si rivela come novità. Il primo personaggio che ci conduce alla soglia di questa novità è Maria Maddalena. A differenza dei sinottici, Giovanni non aveva menzionato per la circostanza della sepoltura la presenza delle donne. La mistura di mirra e aloe era stata portata da Nicodemo e Giuseppe di Arimatea. I sinottici narrano dell’arrivo al sepolcro, all’alba, delle donne con gli oli per completare l’unzione del corpo di Gesù. Giovanni sorvola su tutto questo. Parla solo di Maria Maddalena e l’accento è posto sulla motivazione profonda, interiore, della sua presenza al sepolcro. Essa vive un’angoscia personale, un sentimento di assenza irrimediabile; per lei oramai il Signore è l’Assente; non può sentirlo che così. Per prima vede la pietra del sepolcro tolta via e corre ad avvertire i discepoli: “Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove lo hanno posto”. Dall’angoscia dell’assenza passa all’angoscia dell’incertezza. Ma Giovanni parla della pietra tolta via dal sepolcro per sottolineare, in questo Giorno della Risurrezione, che viene tolto l’ultimo impedimento alla ‘vista’, alla ‘visione’, come poi il brano dirà a proposito di Giovanni entrato nel sepolcro.

L’episodio dei due discepoli che corrono al sepolcro lo conferma in una tensione crescente per giungere, alla fine, alle straordinarie parole: “Allora entrò anche l’altro discepolo …e vide e credette”. È come una richiesta che viene sussurrata al cuore dei possibili lettori del vangelo, la richiesta di avanzare nella conoscenza del mistero, di salire fino all’intelligenza della risurrezione che viene svelata poco a poco: “Vide e credette”.

La letizia pasquale che, poco a poco, invade e conquista i discepoli e che scaturisce dall’esperienza dell’incontro con lui, vivo, capace di far vincere ogni paura, ha anche a che fare con i tre doni che Gesù conferisce: la gioia, la pace e la libertà. Ma se andiamo a vedere, quei tre doni, tipicamente pasquali, uniti all’esperienza dell’incontro con lui, il Vivente, ci partecipano la sua stessa vita e ci consentono di vivere come lui, vale a dire ci porteranno a poter dire di noi: ‘e lo amarono sino alla fine’, ‘amarono i loro fratelli sino alla fine’. L’augurio pasquale più bello!

Comunque sia spiegato l’evento, è chiaro che la risurrezione di Gesù era del tutto inconcepibile per i suoi discepoli. L’esperienza della tomba vuota situa ormai l’intelligenza del mistero di Dio in una luce assolutamente particolare e apre all’uomo l’accesso di un tempo eterno in cui situare la storia e gli eventi, attraversati così dallo splendore del corpo glorioso di Cristo, in attesa che quello splendore riempia gli occhi e investa il cuore.

L’augurio della gioia pasquale allude proprio al dono di quella luce che inonda gli occhi e il cuore per farci vivere nella presenza del Signore che ci trascina nel regno del Padre suo.

Il Signore è risorto! È davvero risorto!

 

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Quarto ciclo

Anno liturgico B (2011-2012)

Tempo di Pasqua

 

2a Domenica

(15 aprile 2012)

 

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At 4,32-35;  Sal 117;  1Gv 5,1-6;  Gv 20,19-31

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Per tutta l’ottava di Pasqua la chiesa ha cantato: “Questo è il giorno fatto dal Signore, rallegriamoci ed esultiamo”. Il vangelo di Giovanni, che inizia con l’allusione ai sei giorni della creazione, quando deve introdurre il racconto della risurrezione, dice: “Il primo giorno della settimana”. Il giorno della risurrezione è l’eterno che percorre il tempo, la possibilità di vivere il temporale nella luce dell’eterno, nella presenza di Colui che ha promesso di essere con noi fino alla fine del mondo. I racconti delle apparizioni del Risorto ci introducono nella luce di questo Giorno che ci accompagna, confermandoci nella grazia della rivelazione dell’immenso amore del Signore per noi.

Il sigillo di quella rivelazione è la pace che Gesù Risorto ci offre. Si tratta della pace messianica, quella che racchiude tutti i doni di Dio rendendoceli disponibili. Gesù la proclama e la offre definendola in rapporto a tre cose:

1) in rapporto alle sue piaghe. Mentre dà la sua pace mostra le mani e il costato. Quella pace ci deriva dalle sue piaghe e le sue piaghe ci confermano che il Signore risorto è il Gesù che ha patito, tanto la sua passione e morte ha fatto risplendere l’amore di Dio per gli uomini. Sarà così anche per i suoi discepoli: è la condizione della condivisione della rivelazione del vangelo. La gioia della presenza del Signore risalterà proprio là dove il discepolo è chiamato al martirio in qualunque prova della vita.

2) in rapporto alla missione: “Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi”. Non si tratta semplicemente del fatto che i discepoli sono inviati ad annunciare al mondo la buona notizia, ma del fatto che l’annunceranno nella stessa modalità nella quale Gesù l’ha annunciato e cioè che come Gesù non dice e non fa se non quello che sente e vede fare dal Padre (cf. Gv 5,19), così i discepoli nei confronti del loro Maestro.

3) in rapporto allo Spirito Santo, di cui Gesù ci ha ottenuto l’effusione sulla croce. L’opera dello Spirito è la riconciliazione con Dio ed energia di comunione. Se Luca, nella prima lettura, descrive la prima comunità cristiana con un cuor solo e un’anima sola, non tratteggia un idillio, ma ne rivela la tensione dinamica, la tensione di una vita nella fede del Risorto, che diventa radice di umanità nuova, la cui cifra è appunto la comunione. Come dice Giovanni nella sua prima lettera, è la vittoria della fede sul mondo: la comunione con tutti perché niente ci appartiene e con tutti possiamo condividere la gioia della presenza del Signore. Nel canone eucaristico, quando si invoca la discesa dello Spirito Santo sulla comunità dei credenti, è per essere abilitati a vivere ‘un cuor solo e un’anima sola’, in tutta fraternità.

Come si può partecipare allora al dono della pace da parte del Risorto? L’episodio di Tommaso risponde a tale domanda. Quando Tommaso protesta la sua incredulità non è per mancanza di fede, ma perché si è trovato così coinvolto nella vicenda di Gesù, al quale aveva aderito con tutto il cuore (Tommaso non è un pavido, un insicuro; le altre due volte che il vangelo di Giovanni parla di Tommaso ce lo presenta come un uomo generoso, pronto ad andare a morire con Gesù) che non vuole illudersi. Il suo dubbio procede da un cuore che ha preso molto sul serio la vicenda di Gesù. Quando Gesù, ricomparendo, gli dice di mettere la mano nel costato e nelle cicatrici, non ha bisogno di ricredersi, di scusarsi: è tutto teso a quel Signore che ha sempre voluto seguire e che ora riconosce per davvero "mio Signore e mio Dio", la più solenne professione di fede dei vangeli, compimento della promessa di Dio al suo popolo: “Io sarò il loro Dio ed essi il mio popolo” (Ger 31,33; 24,7; 32,38; Ez 11,20; 14,11; 37,23; Zac 8,8). In quel mio c'è tutto l'anelito del suo cuore, la sua esperienza di lui; in quel Signore e Dio c'è tutta la rivelazione di Gesù al suo cuore. Con quella professione di fede gli scende in cuore la pace che Gesù aveva offerto comparendo davanti ai suoi discepoli.

Nella vicenda terrena di Gesù, la pace sigilla l'inizio e la fine, rivelazione e dono del Dio misericordioso verso gli uomini. Al presepio di Betlemme gli angeli annunciano la pace; nel discorso all'ultima cena, Gesù promette la sua pace; dopo la risurrezione Gesù dona la sua pace e con la nostra professione di fede quella pace scende nel cuore e ne occupa le sorgenti. Quella pace è a prova di ogni tipo di male perché si colloca così profondamente alle radici dei cuori che non può essere rapita da niente e da nessuno. Quella pace ci è riofferta nella celebrazione eucaristica quando, prima della comunione, il sacerdote prega per tutti: “Signore Gesù Cristo, che hai detto ai tuoi apostoli: ‘Vi lascio la mia pace, vi do la mia pace’, non guardare ai nostri peccati, ma alla fede della tua Chiesa, e donale unità e pace secondo la tua volontà”.

Gesù poi aggiunge: “Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto”. Forse l’allusione è allo stesso autore del vangelo di cui si dice che vide e credette quando visitò la tomba vuota pur senza aver visto il Signore (cf. Gv 20,8). Noi tutti che veniamo dopo gli apostoli e che crediamo alla loro testimonianza, non vediamo il Signore eppure crediamo e lo amiamo (cf. 1Pt 1,8). È la beatitudine della fede che si risolve in visione e non della visione che porta alla fede. Non penso che Gesù voglia dire che si deve credere e basta, senza vedere, quasi che fosse riservato un premio speciale alla fede. È tipico invece della fede aprire gli occhi alla visione. Solo che la visione non precede, non può servire di giustificazione alla fede. Sarà la fede a introdurre alla visione. Questo promette la beatitudine di Gesù.

 

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Quarto ciclo

Anno liturgico B (2011-2012)

Tempo di Pasqua

 

3a Domenica

(22 aprile 2012)

 

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At 3,13-15.17-19;  Sal 4;  1Gv 2,1-5a;  Lc 24,35-48

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I racconti della risurrezione non mirano soltanto a mostrare la verità della risurrezione di Gesù, verità che non apparteneva all’orizzonte mentale dei discepoli, ma anche ad aprire l’intelligenza delle Scritture, che con la risurrezione di Gesù acquista tutt’altra densità e definitività.

Il canto al vangelo di questa domenica esprime bene la condizione interiore che prelude al riconoscimento del Risorto sia per gli apostoli che per noi: “Signore Gesù, facci comprendere le Scritture; arde il nostro cuore mentre ci parli” (cf. Lc 24, 32). È la confessione dei due discepoli di Emmaus che, dopo aver riconosciuto il Risorto nello spezzare il pane, si confidano i sentimenti profondi del cuore. Quando, nella preghiera dopo la comunione, la chiesa fa pregare: “Guarda con bontà, o Signore, il tuo popolo, che hai rinnovato con i sacramenti pasquali, e guidalo alla gloria incorruttibile della risurrezione”, non intende fare professione di fede nella risurrezione della carne, come la proclamiamo nel Credo, ma più specificamente allude alla possibilità di vivere in compagnia di Gesù Risorto (“Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”, Mt 28,20).

Luca sottolinea la ‘corporeità’ del Cristo risorto ma subito dopo mostra come quella stessa corporeità verrà sottratta allo sguardo dei discepoli con l’ascensione al cielo.  In effetti Gesù, per mostrare la veridicità del suo corpo glorioso, mangia perfino una porzione di pesce arrostito davanti ai discepoli esterrefatti. L’annotazione sembra avere una valenza eucaristica. Il corpo glorioso ingloba nella sua dimensione ciò che di per sé appartiene a un’altra. Pur fatte le debite distinzioni, è appunto il mistero dell’eucaristia. Quando l’uomo mangia il pane eucaristico, non è lui a inglobare il corpo di Cristo, ma è il Corpo di Cristo che assimila l’uomo che lo mangia. È il Vivente che assume in lui noi vivi, ma ancora soggetti alla corruzione, fino a portarci alla sua dimensione, fino a farci vivere dello splendore dell’amore che viene da Dio.

È assolutamente significativo che solo di Gesù Risorto si dica che “allora aprì loro la mente per comprendere le Scritture” (Lc 24,45), quando tutto ciò che lo riguardava fu portato a compimento. Gesù apre le Scritture (corrisponde all’esperienza dei due discepoli di Emmaus che ascoltavano il pellegrino spiegare le Scritture) e contemporaneamente apre la mente a comprenderle. Il doppio movimento di apertura è ascritto al Risorto perché con la risurrezione si compie il suo mistero, di cui tutte le Scritture parlano, mistero che noi possiamo cogliere tramite lo Spirito suo che ci ha effuso e che ci rende testimoni suoi. Tre sono gli aspetti che si concatenano nella testimonianza dei discepoli:

1) anzitutto il riferimento alle Scritture, senza le quali non è possibile riconoscere il mistero della morte e risurrezione del Cristo, nel quale prende senso la stessa creazione e trova il suo punto di incandescenza quel movimento di rivelazione di Dio al suo popolo per la sua liberazione;

2) il Gesù che ha patito è lo stesso che è risorto; le sue cicatrici non esprimono semplicemente la cronaca della sua storia umana, ma rivelano tutto il mistero dell’amore eterno di Dio per l’uomo, tanto che per noi, in fondo, si tratterà di arrivare a cogliere come le sofferenze subite, le cicatrici nel corpo del Cristo, non esprimono soltanto il prezzo, ma la gloria dell’amore. E come è stato per il Signore Gesù, lo sarà anche per i suoi discepoli. Le sofferenze subite, come le cicatrici nel corpo del Cristo, non esprimeranno più il prezzo dell’amore, ma solo la gloria dell’amore. Ed è necessario che prezzo e gloria si riferiscano allo stesso corpo, alla stessa persona, agli stessi eventi, finalmente assolutamente aperti all’intelligenza dei cuori.

3) l’annuncio della risurrezione è teso alla conversione e al perdono dei peccati.

 

E qui si innesta la questione dell’intelligenza delle Scritture. Ce lo richiama l’apostolo Pietro nel suo discorso alla folla dopo la guarigione miracolosa del paralitico alla porta Bella del tempio, come riportato nella prima lettura. Il punto essenziale del suo discorso non è costituito dal fatto di ricordare che il miracolo è avvenuto nel nome di Gesù risorto, di cui lui e gli altri apostoli sono testimoni, ma nel fatto di legare il pentimento e la conversione al riconoscimento dell’agire di Dio in quell’Uomo che è stato rinnegato, condannato, messo a morte e ora glorificato. Nel riconoscere che Gesù è stato condannato e messo a morte c’è tutta l’ammissione di colpevolezza nei confronti di Dio di cui si è disprezzato l’amore e perciò il cuore si addolora profondamente (risuona allora con tutt’altro significato il versetto: “Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto”, Gv 19,37), ma per aprirsi al riconoscimento che l’amore di Dio è davvero grande e poter dire, davanti al ‘crocifisso’: questi è davvero il re della gloria, il testimone dello splendore dell’amore di Dio che salva e nella cui energia anche noi possiamo ora vivere. Guardando con dolore e tenerezza a Colui che è stato trafitto possiamo specchiarci e ritrovare la nostra verità: di uomini peccatori, che non hanno voluto tener in conto l’alleanza di Dio, che hanno disprezzato il suo amore e contemporaneamente di uomini redenti, che finalmente vedono l’amore di Dio riversarsi su di loro e fornire loro nuove coordinate di esistenza.        In funzione di tale intima percezione, per provocarla e per convalidarla, la chiesa legge le Scritture, le proclama in tutte le sue liturgie, le vive come guida alla partecipazione della potenza della risurrezione.

Le preghiere della liturgia di oggi (colletta, offerte, dopo comunione) sottolineano la tensione all’eternità, tipica della risurrezione. È l’eterno che aspira il temporale, è l’apertura all’eterno che lascia intravedere il senso della nostra storia, letta nell’ottica della rivelazione delle Scritture, con lo sguardo fisso al Cristo, nell’annuncio per il mondo che in lui la pace è ormai godibile.

 

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Quarto ciclo

Anno liturgico B (2011-2012)

Tempo di Pasqua

 

4a Domenica

(29 aprile 2012)

 

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At 4,8-12;  Sal 117;  1Gv 3,1-2;  Gv 10,11-18

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La confessione del Risorto come del Vivente, di Colui sul quale la morte non ha più potere, in questo periodo pasquale, comporta due verità strettamente collegate: anzitutto la realtà che Gesù e il Padre siano una cosa sola e poi che Gesù sia il Redentore, cioè Colui che introduce l'umanità alla piena comunione con Dio. La figura del 'buon pastore', come risalta dal brano evangelico odierno, prende tutto il suo spessore se si collega a queste due verità.

Nella colletta preghiamo: "... raduna gli uomini dispersi nell'unità di una sola famiglia". Se il buon pastore è il Vivente, vuol dire che può dare la vita a tutti e Lui solo è capace di darla. L'unità di una sola famiglia deriva da quell'Unico, il Primogenito, che è stato inviato per radunare i figli di Dio dispersi, di cui Pietro dice: "In nessun altro c'è salvezza; non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale sia stabilito che possiamo essere salvati". Ma l'opera del Figlio non è che il compimento del desiderio del Padre: vedere i figli di Dio, dispersi, radunati in una sola famiglia. E se gli uomini si possono considerare uniti in una sola famiglia non è per la natura comune, ma per il volere divino, per la grazia di partecipare tutti alla stessa vita divina. Ogni altro titolo di unità tra gli uomini finirebbe per causare una ancor più grande divisione perché sancirebbe il predominio dell'ideologia sulla santità.

Interessante, a questo riguardo, l'affermazione della prima lettera di s. Giovanni: "Carissimi, noi fin d'ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo come egli è". Si potrebbe intendere così: ancora non abbiamo versato il nostro sangue per l'unità della famiglia umana e quindi non conosciamo ancora nella sua pienezza e radicalità la qualità dell'essere figli di Dio, che ci rende simili al Figlio che di questa pienezza e radicalità è il testimone per eccellenza. Ma quando Lui si sarà manifestato nell'amore che, uniti al Figlio, ci consuma nella stessa opera sua del 'radunare i figli di Dio dispersi', allora scopriremo cosa significa essere simili a Lui, perché saremo una cosa sola con Lui e con il Padre. È la richiesta del canone eucaristico dopo la consacrazione: “dona la pienezza dello Spirito Santo perché diventiamo in Cristo un solo corpo e un solo spirito”. Diventare un solo corpo e un solo spirito, tra tutti, in Cristo, significa vivere in pienezza il desiderio di Dio della comunione con gli uomini. Significa far parte del gregge di Cristo che per questo è venuto, ha parlato, ha operato, ha patito, è morto ed è risorto. Se Cristo è il buon pastore lo è perché non delude nell'offrirci la possibilità di vivere questa comunione in pienezza.

Tra l'altro, risulta essere un buon criterio di discernimento del bene vedere se, nel nostro agire, ci muoviamo nel nome del Signore, vale a dire se custodiamo l'unità della famiglia di Dio, come dice il salmo 117 "benedetto colui che viene nel nome del Signore".

Potessimo, anche noi, di fronte ad ogni tipo di ingiustizia, di afflizione, di oppressione, interiore e esteriore, dire con Gesù: "Per questo il Padre mi ama: perché io offro la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie, ma la offro da me stesso"! Significherebbe diventare collaboratori con Dio alla sua opera di salvezza, quella di 'radunare' i figli di Dio dispersi; significherebbe non permettere che il nostro cuore ceda alla divisione con qualche fratello scavando fossati o respingendolo lontano da noi, perché in tal caso daremmo più importanza all'agire di un uomo che all'agire di Dio e ci sottrarremmo alla comunione con Lui che non ha altro desiderio se non quello di attrarre alla sua comunione tutti i suoi figli.

L’amore del Padre si rivela in Gesù perché Gesù lascia che quell’amore, che in Lui riposa pieno, si espanda e conquisti tutti fino a far vivere tutti di quello stesso amore. Quando dice che il buon pastore conosce le sue pecore e le sue pecore conoscono lui allude al fatto che l’amore per loro, frutto dell’amore del Padre che su di lui riposa, è la ragione stessa della sua vita, la ragione che non permette a nessun’altra di avere voce nel suo cuore. E le pecore possono conoscere lui perché conoscono questo suo amore, che rivela loro la bontà di Dio per loro. Ma tale è la dinamica di ogni amore: conosco se dò la vita, solo se metto a disposizione dell’altro la mia vita potrò conoscerlo perché la conoscenza proviene e conduce all’amore. Non solo, ma che per noi uomini l’esperienza dell’amore risulta possibile a condizione di percepirlo come dono di vita, vita di Dio per noi e vita di noi per il prossimo. Gesù è Colui che dal punto di vista di Dio ci rivela qual è la dinamica dell’amore e dal punto di vista dell’uomo ne svela la profondità e la densità. L’amore ha sempre a che fare con la vita di Dio, con il mistero di Dio. Non è detto semplicemente che Gesù dà la vita a, ma per le pecore. Così, se non percepisco il suo dono per, non potrò viverlo riferito a me, perché lo vivrei in senso egoistico, come se l’amore di Dio servisse semplicemente a far star bene me, bisognoso di amore. Il mistero dell’amore è dato dal rimando al mistero di Dio che vuole tutti gli uomini salvi; è dato dal fatto che Gesù è il Signore di tutti (cfr At 10,36). Per questo Gesù parla di altre pecore che non sono del suo ovile; tutte lui deve condurre, per fare un solo gregge. La dinamica dell’amore è essenzialmente ‘universale’.

Quando dice che può dare la vita e riprenderla e che questo è il comando del Padre suo allude al fatto che dà se stesso senza arrogarsi nessun altro diritto che non sia quello di testimoniare l’amore del Padre agli uomini e così la vita che vive è vita eterna, perennemente vitale, capace di attraversare ogni movimento di morte. E questo corrisponde al volere di Dio per l’uomo, che è chiamato comando. Quando in effetti la riprende, con la sua risurrezione, è per darla a tutti coloro che in lui vedono il mistero della fedeltà di Dio all’uomo, è per far prevalere il volere del Padre che vuole la vita per gli uomini. E perciò noi possiamo avere la vita in abbondanza, cioè la vita secondo quella stessa dinamica di amore di Colui che ce l’ha data. Vale lo stesso effetto anche per noi: per accrescere la vita, occorre darla. Non semplicemente darla a qualcuno, ma darla perché l’amore di Dio per gli uomini torni a risplendere e l’opera di Dio in Gesù si faccia sperimentabile e abbordabile per l’umanità, nostra e degli altri.

 

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Quarto ciclo

Anno liturgico B (2011-2012)

Tempo di Pasqua

 

5a Domenica

(6 maggio 2012)

 

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At 9,26-31;  Sal 21;  1Gv 3,18-24;  Gv 15,1-8

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La porta di accesso più immediata per entrare nel mistero che Gesù vuole illustrare con l’immagine della vite è data dal collegamento del canto al vangelo (“Rimanete in me e io in voi, dice il Signore; chi rimane in me porta molto frutto”) con il passo di 1Gv 3,24: “Chi osserva i suoi comandamenti rimane in Dio e Dio in lui. In questo conosciamo che egli rimane in noi: dallo Spirito che ci ha dato”. Il frutto di cui parla Gesù è collegato allo Spirito Santo, di cui l’apostolo Paolo elenca le operazioni: “Il frutto dello Spirito invece è amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé” (Gal 5,22). Essere in Cristo significa avere lo stesso suo Spirito, agire secondo il suo Spirito.

Ritorniamo all’immagine della vite che intesse tutto il cap. 15 del vangelo di Giovanni. Gesù siede con gli apostoli per la sua ultima cena; ha appena lavato loro i piedi, ha svelato l’imminente tradimento, ha conversato sulla rivelazione del Padre e sull’invio dello Spirito Santo. Dicendosi vite vera mostra agli apostoli la profondità del legame che li unisce e offre una chiave di lettura del mistero della vita sua e della sua persona, indicando contemporaneamente a quale dignità di vita chiama i suoi discepoli.

L’immagine della vite ha risonanze profondissime nelle Scritture, soprattutto in rapporto alle premure di Dio per il suo popolo. Si possono leggere i passi di Os 10,1, Is 5,1-7, Ger 2,21. In particolare, però, la vite ricorre nelle parabole di Gesù: nella parabola degli operai inviati alla vigna (Mt 20,1-16), nella parabola dei due figli invitati ad andare a lavorare nella vigna (Mt 21,28-30) e, con accenti assolutamente evocativi, nella parabola dei vignaioli assassini (Mt 21,33-42) dove l’amore di Dio per il suo popolo appare proprio folle.

La vite, per il vino che se ne ricava pestando gli acini e facendo fermentare il mosto, richiama il sacrificio pasquale di Gesù; il vino, frutto della vite, richiama il sangue, il mistero eucaristico, lo Spirito Santo, il regno di Dio.

Gesù parla anzitutto di potatura. In greco, potare, purificare, essere puro o mondo, sono significati che si rapportano alla stessa radice. Gesù spiega: “Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato”. La parola di Gesù, quella che si è trasformata in vita nostra, che ci ha comunicato il suo Spirito, ha il potere di rendere puri. Che significa? Accogliere la parola di Gesù significa accogliere la rivelazione della manifestazione dell’amore di Dio per l’uomo che lo vuole in comunione con sé perché possa vivere in verità la sua vocazione all’umanità. Gli apostoli incominciano a comprendere che in Gesù sta il segreto di Dio per l’uomo e, nello stesso tempo, il segreto del loro cuore che anela a Dio. Il segreto di Dio ha così sempre a che fare con la vocazione dell’uomo.

La potatura mira a ottenere più frutto.  Ma qual è il frutto di cui si parla? Si vedrà meglio nel seguito del brano che verrà letto domenica prossima, ma già si intravede da oggi. Il frutto è che il Padre sia glorificato, cioè che l’amore tra gli uomini risplenda a tal punto da rivelarlo Padre di tutti. Gesù è colui che rivela il mistero di Dio in tutta la sua bellezza per l’amore agli uomini che lo divora, fedele in questo all’amore del Padre fino alla fine: sia all’amore del Padre che in lui aveva posto tutto il suo compiacimento sia all’amore per il Padre nella fedeltà alla sua volontà di benevolenza per gli uomini. Partecipare a tutta la bellezza di quell’amore significa dimorare in Gesù, come l’immagine della vite sottolinea. E si dimora quando non si attingono altrove motivazioni di vita e di azione, in nessuna circostanza, cioè quando lo Spirito del Signore agisce e muove il nostro cuore in tutto ciò che sente e che fa, in tutta intimità.

È interessante costatare che Gesù porta il suo frutto proprio quando è innalzato sulla croce: “Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me” (Gv 12,32). Gesù, attirando tutti a Sé, realizza il desiderio di comunione di Dio con gli uomini. Ma lo stesso frutto viene moltiplicato nei discepoli perché porteranno frutto, mostrando il loro amore vicendevole, proprio attirando a Cristo che di quell'amore è la causa. Così l'amore al prossimo da parte dei discepoli di Cristo non rivela in primo luogo la generosità degli uomini, ma la loro fede sincera, l'attaccamento al loro Signore, la condivisione di un'intimità di vita e di affetti, nello Spirito, capace di vivere un'umanità trasfigurata. Proprio come abbiamo chiesto nella colletta: “ ...perché, amandoci gli uni gli altri di sincero amore, diventiamo primizie di umanità nuova e portiamo frutti di santità e di pace”. La santità si riferisce al fatto di “avere lo Spirito del Signore e la sua santa operazione”, come dice s. Francesco d'Assisi e la pace riguarda la ritrovata comunione con Dio, in Cristo, che si espande e dilaga su tutto, senza più avanzare rivendicazioni di sorta che ne limiterebbero lo splendore e la portata. Ma come poter sognare di vivere questa realtà se non rimanendo in Cristo, sempre, comunque, a tutti i costi; se non operando perché le sue parole rimangano in noi, sempre, comunque, a tutti i costi?

Aggiungo ancora un aspetto rispetto al portar frutto che riguarda anche l’intelligenza delle Scritture che vengono colte nella loro capacità di rivelare al nostro cuore il mistero di Dio nella sua volontà di salvezza per l’uomo. Il segreto delle Scritture è il segreto di Dio, che ha sempre a che fare con la vocazione dell’uomo, come sopra dicevo. E il frutto per l’uomo sta proprio nel vivere secondo quel segreto, nella potenza che quel segreto comunica. Non si tratta tanto di venire a conoscenza di qualche dato di verità, ma di venir sopraffatti dalla rivelazione di un segreto che ti abilita a un’esperienza, capace per sua stessa natura, data la sua radice dall’alto, di indirizzarsi a tutti, di condividerla a tutti.

 

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Quarto ciclo

Anno liturgico B (2011-2012)

Tempo di Pasqua

 

6a Domenica

(13 maggio 2012)

 

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At 10, 25-27. 34-35. 44-48;  Sal 97;  1Gv 4, 7-10;  Gv 15, 9-17

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Commentando l’immagine della vite e dei tralci Gesù svela il suo segreto. Intesse il suo discorso su tre come: “Come il Padre ha amato me…  come io ho osservato i comandamenti del Padre mio… come io ho amato voi” (vv. 9,10,12). A dire il vero, le frasi di Gesù suonano piuttosto strane. Non ha molto senso infatti dire che uno è amico se fa ciò che gli comanda l’altro oppure unire l’amare al fatto di essere comandati. In questo intensissimo brano, dagli accenti estremamente confidenziali, si aprono continuamente nuovi livelli di comprensione a seconda di come le varie espressioni sono tenute insieme. La complessità è intenzionale perché la densità di ciò che viene rivelato è tale da doverla accostare da più punti e l’ascoltatore o il lettore è condotto, per accostamenti successivi, a entrare sempre più nel profondo.

Gesù intesse il suo discorso su tre ‘come’: “Come il Padre ha amato me…  come io ho osservato i comandamenti del Padre mio… come io vi ho amati” (vv. 9,10,12). Sgombriamo subito il campo da un equivoco. Il ‘come’ non ha valore di paragone, quasi Gesù volesse additarci lui come esempio in modo da raggiungere l’uguaglianza di intensità con lui nell’amore. Sarebbe oltremodo presuntuoso per noi uomini. Non esprime uguaglianza, ma ragion d’essere, identità di movimento, natura del movimento. Gesù riferisce tutto al Padre, come se dicesse: tutta la compiacenza che il Padre ha posto su di me (si pensi al battesimo e alla trasfigurazione) io l’ho posta su di voi. Voi, in me, siete chiamati a entrare sotto questa compiacenza e a goderne i benefici. Tale compiacenza dura dall’eternità e lungo tutta la storia.

Che significato dunque ha quel come? Dice almeno tre cose:

1) allude alla radice dall’alto. È Dio che ha dato a noi il suo Figlio, lui ci ha amati per primo. L’amore scaturisce dal Padre, rivela il suo desiderio di comunione con gli uomini, di cui Gesù è il Testimone ed il Compimento per eccellenza;

2) si riferisce ad una specifica dinamica, all’orientamento preciso di un movimento che caratterizza l’azione di Dio Padre e del suo Figlio nei confronti degli uomini: il Figlio è stato inviato, ha patito ed è morto e risorto per riunire i figli di Dio dispersi;

3) rivela una potenza, quella dello Spirito, che indica non solo la forza dell’amore ma anche la condizione in cui si dà l’amore, cioè nello Spirito.

L’aspetto di rivelazione delle parole di Gesù è da cogliere anche nel fatto che tale dinamica di amore corrisponde all’intima struttura del cuore dell’uomo. Un uomo, amando così, come Gesù dice, vive secondo la vocazione all’umanità che il nostro essere uomini e donne comporta. Per questo Gesù potrà dire che la gioia che tale dinamica ottiene non potrà essere rapita da nessuno perché si situa ad un livello di profondità dove nessuno ha accesso, nemmeno i demoni e costituisce l’eredità della vita. E l’uomo scoprirà che le radici di quella gioia appartengono a Dio, di cui imparerà a condividere i sentimenti.

Sono delineati come tre livelli concentrici di realtà: tra il Padre e Gesù, tra Gesù e noi, tra di noi. Il comandamento dell’amore vicendevole pesca nell’intimità di amore del Padre per il Figlio e del Figlio per noi. Fa da perno la persona del Figlio, inviato dal Padre, che si dà a noi nel suo amore salvatore. Come dice Giovanni nella sua prima lettera: “In questo si è manifestato l’amore di Dio in noi: Dio ha mandato nel mondo il suo Figlio unigenito, perché noi avessimo la vita per mezzo di lui” (1Gv 4,9). Gesù annuncia la condizione per goderne i benefici: “Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore”. Ma i comandamenti del Padre sono la salvezza dell’uomo, veicolano la partecipazione alla sua compiacenza in funzione di una comunione nell’amore e questo è il senso della nostra storia. Chi non coglie questa dimensione troverà senza senso o troppo dura la vita perché non riposa in un’intimità (è la sfumatura di significato del termine ‘rimanere’). Osservare i comandamenti comporta il vedere l’amore di Dio costituire la radice di vita, comporta l’opzione di vivere secondo questa radice, fonte della nostra gioia e dignità. Ma questo non si limita a me solo, come se Dio riempisse il mio bisogno di amore e quindi potessi starmene sazio. Per questo Gesù subito dopo parla del ‘dare la vita’. La dinamica dell’amore è tale che si estende a tutti o si perde, nel senso che non è possibile limitare a qualcuno l’amore e negarlo ad altri. Non sarebbe più un amore ‘come’ quello di Gesù. E l’estensione a tutti ha una concretezza che ne qualifica la verità: “Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati”. L’amore a tutti comporta il trascinare tutti dentro quell’amore vicendevole che è tipico dell’esperienza di comunione con Gesù, rivelatore dell’amore del Padre. Tanto che Gesù può riassumere i comandamenti in uno solo: l’amore vicendevole, che deriva dall’intimità di vita con il proprio Dio Salvatore. Se alla fine non si parla più di comandamenti, ma di un solo comandamento, vuol dire che quel comandamento non solo riassume tutti gli altri, ma di tutti mostra lo scopo unico, il sigillo di autenticità e di vigore. L’amore vicendevole è direttamente dipendente dall’esperienza dell’amore salvatore del Signore. Non si accede all’amore per entusiasmo, ma per intima compassione, goduta e condivisa.

La partecipazione alla dinamica dell’amore avviene per la conoscenza dei segreti di Dio che Gesù svela ai suoi discepoli in amicizia. Gesù definisce l’amicizia come la condivisione dei suoi segreti. Ma nel parlare di Gesù, si conosce solo dopo aver osservato i comandamenti; eppure, si possono davvero osservare solo se si diventa amici. Ciò vuol dire che l’amore deriva in primo luogo dall’esperienza dell’incontro con il Signore, dall’accoglierci perdonati e guariti e non dipende dalle qualità umane; si alimenta con il rimanere in lui, con il tessere continuamente le sue parole con i nostri pensieri, con l’affondare i nostri desideri nella sua promessa di vita per noi. In secondo luogo, l’amore fa vivere dello stesso desiderio di Dio. In terzo luogo, fa vivere dello e nello stesso Spirito di Gesù, di cui è detto: “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici”. Dare la propria vita non comporta tanto il morire per l’altro, ma il mettere a disposizione la propria vita per l’altro di modo che la propria vita diventi per l’altro alimento, calore, rifugio, riposo, senza alcun limite, perché si realizza la promessa: “se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14,23).

Se davvero questa è la nostra fede, come non darne annunzio a tutto il mondo, come canta l’antifona di ingresso: “con voce di giubilo date il grande annunzio, fatelo giungere ai confini del mondo: il Signore ha liberato il suo popolo”?

 

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Quarto ciclo

Anno liturgico B (2011-2012)

Tempo di Pasqua

 

Ascensione

(20 maggio 2012)

 

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At 1,1-11;  Sal 46;  Ef 4,1-13;  Mc 16,15-20

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Nella liturgia feriale della sesta settimana dopo Pasqua la Chiesa medita sul mistero dell’Ascensione. Ieri, il brano evangelico terminava con le parole: “Sono uscito dal Padre e sono venuto nel mondo; lascio di nuovo il mondo e vado al Padre” (Gv 16,28). L’antifona di ingresso della festa di oggi riporta l’esortazione degli angeli agli apostoli: “perché fissate nel cielo lo sguardo? Come l’avete visto salire al cielo, così il Signore ritornerà” (At 1,11). In gioco è l’orientamento degli sguardi: dove guardare? Se Gesù è l’Emmanuele, il Dio-con-noi, allora le parole che concludono il vangelo di Matteo: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,20) danno il senso dell’ascensione, evento che chiude le apparizioni pasquali.

Gesù aveva cercato di esporre ai discepoli il mistero che lo riguardava nei nostri confronti durante l’ultima cena. Li aveva avvertiti che non avrebbero più potuto vederlo ma che dopo un po’ di tempo l’avrebbero rivisto con grande gioia. Generalmente noi interpretiamo: Gesù sarebbe morto ma poi sarebbe risorto e i discepoli l’avrebbero visto di nuovo. Ma il significato delle parole di Gesù è più misterioso e si capiscono meglio con l’evento della sua ascensione. In realtà Gesù non dice semplicemente che da risorto sarebbe apparso loro. Se così fosse, noi, che veniamo dopo gli apostoli, alla testimonianza dei quali prestiamo fede che il Signore è risorto ma senza vederlo, non potremmo godere della promessa di Gesù: quando l’avrebbero rivisto sarebbero stati colmi di gioia. Gesù allude invece al fatto che la sua presenza è sperimentabile dai nostri cuori perché presente in noi e in mezzo a noi, tanto che il cielo, dove dirigere gli sguardi, oramai non è in alto, ma dentro. Dire che il Signore ritornerà significa alludere alla manifestazione della presenza del Signore in noi allorquando tutto parlerà di lui al nostro cuore. Il tempo della nostra storia è ormai il tempo della testimonianza di lui che man mano conquista noi e si svela al mondo, per il quale siamo inviati in missione.

In effetti, tutti i passi di Matteo, Marco, Luca e Atti, che ricordano l'evento dell'ascensione di Gesù, hanno per contesto la missione alle genti con l'assicurazione della presenza costante del Signore. Quando Gesù, nell'ultima cena, aveva ricordato il suo ritorno al Padre, aveva causato negli apostoli una grande tristezza. Ora che gli apostoli lo vedono sparire in cielo senza poterlo più rivedere provano una grande gioia. Evidentemente il mistero vissuto dagli apostoli era d’altra natura rispetto a quello che immaginiamo. I discepoli hanno visto il fatto materiale dell’ascendere di Gesù al cielo (il testo usa il verbo greco βλέπω, vedere) ma hanno anche intravisto la portata mistica del fenomeno (il testo usa il verbo θεάομαι, contemplare). Ciò significa che lo sparire di Gesù dalla loro vista permetteva di coglierlo presente nei loro cuori. Nella percezione degli apostoli l’ascensione è colta come un dono di presenza, come un’interiorizzazione di rapporto, che non solo non perde nulla della sua realtà con la sottrazione della fisicità di Gesù, ma acquista profondità e intensità insospettate. Se potessi riassumere con mie parole la sensazione degli apostoli, direi che si è trattato dell’esperienza di una gioia assolutamente dinamica, capace di allargare i confini del cuore e le energie corrispondenti in maniera illimitata. Resta sottolineato sia una dimensione di azione, in rapporto diretto con la missione alle genti, sia una dimensione di essere, in rapporto all’esperienza della presenza potente di Gesù in loro e con loro. Proprio qui si innesta l’enunciato di fede: Gesù è alla destra del Padre, cioè nell’atteggiamento di Colui al quale è stato dato ogni potere in cielo e in terra per ottenerci la salvezza. Da tale considerazione deriva la nostra speranza e tutta la nostra fiducia, tanto che possiamo contemplarci, nel suo amore, vicini a Dio, assunti in Dio anche noi, legati a Lui, Lui la vite e noi i tralci, Lui il capo e noi le membra.

Nel racconto di Marco ciò che colpisce è una specie di forza potente che muove tutto: il cuore degli apostoli come l’insieme del mondo e lo stesso desiderio di Dio per l’uomo. In quel correre alla predicazione non va visto solo lo zelo degli apostoli, ma anche l’attesa degli uomini e il desiderio di Dio. Così la presenza potente di Gesù accanto ai suoi non va vista nella capacità di fare miracoli, come farebbe supporre l’annotazione dell’evangelista nel finale del suo vangelo; va vista piuttosto in riferimento alla predicazione, vale a dire alla capacità che ha di riempire il cuore, che parla a tutti della sua presenza viva, senza che il mondo lo possa soffocare. La molla segreta di tale capacità è lo stesso desiderio di salvezza che Dio nutre nei riguardi degli uomini e che si comunica ai discepoli per raggiungere tutto il mondo.

Se la presenza del Signore è assicurata nel mondo, lo si deve al fatto che precisamente qui, nel mondo, continua la sua opera, così come nel mondo continua la rivelazione dell’amore del Padre, tanto a livello interiore che ecclesiale, nell’attesa che anche al mondo sia dato ciò che è dato ai discepoli. I discepoli diventano testimoni non semplicemente di Gesù, ma testimoni/collaboratori della sua opera di salvezza. Il dono dello Spirito Santo ha attinenza proprio a quella dinamica di predicazione per la conversione e il perdono dei peccati.

È una verità che risalta anche da un dettaglio riferito da Luca in At 1,6-8. Il regno di Dio non viene in modo da attirare l'attenzione, vale a dire: non si vedrà; nessuno potrà dire: è qui, è là. È inutile che pensiate di vedere il regno di Dio nella storia; i tempi e i modi di questa venuta gloriosa solo Dio li conosce, la cosa non vi riguarda. Ma voi “avrete forza dallo Spirito Santo … e mi sarete testimoni”. Quello che vi riguarda è che siate agiti dalla potenza dello Spirito Santo per essermi testimoni.

Gli apostoli sono i testimoni della salvezza operata da Gesù, non gli amministratori; favoriscono in ogni modo l’opera della salvezza, non ne sono mai i detentori. L’invio dello Spirito da parte di Gesù li assicura dell’accesso alla salvezza, per sé e per tutti, nella storia.

 

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Quarto ciclo

Anno liturgico B (2011-2012)

Tempo di Pasqua

 

Pentecoste

(27 maggio 2012)

 

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At 2,1-11;  Sal 103;  Gal 5, 16-25;  Gv 15, 26-27; 16, 12-15

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“O fuoco la cui venuta è parola, il cui silenzio è luce! Fuoco che fissi i cuori nell’azione di grazie” canta s. Efrem e la liturgia di oggi, con il canto al vangelo, proclama: “Vieni, santo Spirito, riempi i cuori dei tuoi fedeli e accendi in essi il fuoco del tuo amore”.

Nella settimana che precede la festa, la chiesa ha fatto pregare: “Venga su di noi, o Padre la potenza dello Spirito Santo perché aderiamo pienamente alla tua volontà per testimoniarla con amore di figli” (colletta lunedì) e “Venga, o Padre, il tuo Spirito e ci trasformi interiormente con i suoi doni; crei in noi un cuore nuovo perché possiamo piacere a te e cooperare alla tua volontà” (colletta giovedì).

L’invocazione allo Spirito Santo è finalizzata all’adesione alla volontà di Dio. Perché e cosa significa questo? Ce lo rivela Gesù nel vangelo: “manderò a voi lo Spirito di verità: egli vi guiderà a tutta la verità… dirà tutto ciò che avrà udito” (Gv 16,13). Lo Spirito, che Gesù effonde dalla croce e la sera di Pasqua, svelerà al nostro cuore il colloquio eterno tra il Padre e il Figlio a proposito della salvezza dell’uomo, il colloquio tra il Padre e il Figlio che vive la sua umanità nell’amore per gli uomini. Tutto questo ‘colloquio’ lo Spirito ha udito e ce ne renderà partecipi. Così conosceremo la verità, vale a dire la grandezza dell’amore di Dio per l’uomo, che in Gesù si è fatto evidente, a noi accessibile, per la fede in lui. Ci farà gustare la promessa di Gesù: “Vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi” (Gv 15,15).

Il fuoco esprime appunto la cifra di quel colloquio, la condivisione di un segreto capace di far ardere il cuore. Significa poter conoscere il mistero del Signore Gesù in tutta la potenza di rivelazione dell’amore di Dio per l’uomo, nella condivisione del suo segreto. Qui si collega la responsabilità della testimonianza, che non sarà più vissuta tanto come impegno o dovere ma come sovrabbondanza, sigillo di uno splendore.

Oltre al fuoco, l’immagine caratteristica della Pentecoste è quella delle lingue. Il miracolo di pentecoste possiamo esprimerlo così: i vari idiomi si unificano in un’unica lingua, la diversità si apre alla comunione e tutti comprendono la stessa cosa. Ciò che accomuna, comunque, è solo l’opera di Dio riconosciuto nel suo amore per gli uomini. Tutti mantengono la proprietà dei rispettivi linguaggi, ma tutti esprimono l’identica cosa: i cuori parlano oramai un’unica lingua, a differenza dell’esperimento della torre di Babele, quando gli uomini parlavano l’unica lingua del dominatore di turno in ordine al sogno di grandezza di qualche potente, ma i cuori erano schiavizzati, zittiti nella loro lingua. É il miracolo operato nei cuori dallo Spirito quando li convince a muoversi nella carità, aprendo la diversità alla comunione e facendo esperienza che così viene proclamato l’amore di Dio che riempie i cuori. Riconoscere, assecondare, favorire tale dinamica, significa aver ricevuto e agire nella potenza dello Spirito Santo. E lo Spirito Santo non può che condurre alla conoscenza del mistero del Signore Gesù che dell’amore di Dio per gli uomini è il testimone per eccellenza.

L’unità dell’opera di Dio si manifesta in quei frutti di cui Paolo attribuisce l’azione allo Spirito: “Il frutto dello Spirito, invece, è amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé; contro queste cose non c’è Legge” (Gal 5,22). Perché quei frutti parlano dello Spirito, se lo Spirito è dato in ordine alla missione nel mondo? Lo Spirito investe l’universo irradiando dal centro delle persone; opera nel mondo a partire dalla trasfigurazione delle persone. I frutti alludono alla realizzazione della vocazione all’umanità che scaturisce dalla comunione con Dio, di cui Gesù ci fa partecipi nel suo Spirito e che si riversa, in solidarietà con i suoi sentimenti, su tutti gli uomini, destinatari come noi del suo amore misericordioso. La funzione perciò dello Spirito è quella di farci ritrovare in Gesù, di renderci appartenenti a Gesù ( “Io sono la vite, voi i tralci” ... “rimanete in me”) in quella umanità ormai aperta alla comunione con Dio, solidale con lui e con gli uomini. Appena il cuore viene liberato dalle sue illusioni di potenza o presunzioni di potere, torna a godere della sua umanità compiendone gli aneliti e ritrovandosi solidale con tutti, in Gesù.

La missione alla quale lo Spirito Santo abilita i discepoli risponde proprio allo scopo dell'unità degli uomini. In un doppio significato: primo, si tratta di una missione di annuncio perché il dono dell'esperienza della fede non riguarda me o te, ma riguarda me per arrivare a te, riguarda te per arrivare a me, riguarda noi per arrivare a tutti. Il Signore Gesù appartiene a tutti gli uomini perché per tutti gli uomini è nato, morto e risorto. Anche in questo va letto il mistero dell'unità dei figli di Dio dispersi che costituisce lo scopo dell'agire di Dio, in Cristo, per mezzo dello Spirito Santo. E secondo, si tratta di una missione che rende capaci di mostrare il mistero, cioè che abilita i discepoli a far vedere con la loro vita lo splendore del Cristo, nel quale tutti possono trovare pace e unità. I frutti dello Spirito riguardano proprio il passaggio dal permanere semplici individui, centrati su se stessi, al diventare persone, soggetti di comunione, mossi appunto da quello Spirito che della comunione fa la sua opera specifica. E questo rivela ai cuori le meraviglie di Dio, apre i cuori a riconoscere il Volto del Dio Vivente.

 

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Quarto ciclo

Anno liturgico B (2011-2012)

Solennità e feste

 

Ss. Trinità

(3 giugno 2012)

 

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Dt 4,32-34.39-40;  Sal 32;  Rm 8,14-17;  Mt 28,16-20

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La liturgia oggi celebra la confessione della fede in Dio Padre, Figlio e Spirito Santo. Ora, la confessione della fede non esprime semplicemente la convinzione dei credenti in certi dati di verità, ma più propriamente esprime l’esperienza che ha permesso la formulazione di quei dati. Il principio della proclamazione del Credo nella liturgia, come di tutte le formule di confessione della fede, si radica nella grande esperienza religiosa del popolo di Israele: Dio non è un oggetto di conoscenza, ma un Soggetto di relazione. Non si arriva a Dio per via speculativa, ma dentro una storia di salvezza, accogliendo l’iniziativa di Dio. Dire “io credo” significa prima di tutto dire: benedico colui che ha fatto questo e questo per me, accetto di rispondere all’alleanza che ha voluto offrirmi, sono suo servo, erede delle sue promesse e fruitore del suo regno. La proclamazione delle Scritture come la celebrazione liturgica sono percepite come memoriale dell’iniziativa di Dio per l’uomo, il quale è chiamato a riconoscere l’amore di Dio per lui nella sua storia che diventa sacra, storia di salvezza.

La difficoltà per noi nasce dal fatto che la verità goduta nelle Scritture e proclamata nella Chiesa non è ancora fatta nostra. Quando Mosè, come riporta la prima lettura, alla fine della sua vita, invita il popolo a ricordare l’esperienza della liberazione dalla schiavitù dell’Egitto e della rivelazione al Sinai, in realtà parla a persone che non hanno vissuto quegli eventi perché sono soltanto i figli di coloro che erano stati spettatori di quei fatti prodigiosi e che erano periti nel deserto. Ma se Dio è intervenuto nella loro storia, allora tutta la loro storia è sacra e potranno vivere la loro vita nell’ottica dell’esperienza dei loro padri fino a che ne sia tutta sostanziata la propria esperienza, da trasmettere a loro volta ai propri figli. È il senso della solidarietà nella fede, della testimonianza ecclesiale della fede nella quale ognuno può trovare la radice di senso e di energia per vivere l’alleanza con Dio, solidale con chi l’ha preceduto e con chi ne è compagno di celebrazione.

L’iniziativa per eccellenza di Dio, quella che giustifica tutte le altre rivelandone l’amore che le ha originate, è l’invio del Figlio che, mentre rivela in tutta verità il volto del Padre, risponde nella sua umanità al suo desiderio di comunione con noi, mettendoci in condizione, con l’effonderci il suo Spirito, di vivere della stessa sua intimità con il Padre. Quando Gesù proclama alla fine del vangelo di Matteo: “A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra… Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”, non si può non sentire l’eco dell’altra promessa che onora la festa di oggi: “Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi mi ama. Chi mi ama sarà amato dal Padre mio e anch'io lo amerò e mi manifesterò a lui … Se uno mi ama, osserverà la mia parola, dice il Signore, e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui” ( Gv 14,21-23). È la promessa solenne di Gesù ai suoi discepoli, il frutto segreto ricercato da chiunque voglia fare il bene e non vuole ripararsi semplicemente dalle sue paure o esibirsi sotto qualsiasi forma: godere dell’intimità con colui che il cuore cerca.

Nella lettera ai Romani Paolo proclama che i figli di Dio (= coloro che conoscono Dio) sono coloro che lo Spirito di Dio guida. Li guida dove? Li guida a e in Colui che è fonte della nostra pace, secondo l’espressione della beatitudine: “beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio” (Mt 5,9). La pace è frutto della comunione con Dio che Gesù ci ottiene, solidali con i sentimenti di Dio per i suoi figli. Essere guidati dallo Spirito significa partecipare alla dinamica di rivelazione di Gesù, inviato per mostrare quanto è grande l’amore di Dio e per raccogliere i figli di Dio dispersi. Tutto ciò che lavora in funzione della testimonianza di quell’amore e in solidarietà con i nostri fratelli, condividendo con loro quell’amore, è frutto dello Spirito Santo, torna a gloria di Dio e ci fa trovare in Cristo.

Ci aiuta a collocarci nel clima interiore adatto a cogliere la qualità del mistero della festa di oggi anche il passo evangelico: “Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza. Tutto è stato dato a me dal Padre mio ...” (cf. Mt 11,25-30). Si tratta forse di uno dei passi più solenni e più intimi del vangelo allorquando Gesù prorompe in un grido di esultanza alla vista dei discepoli che tornano gioiosi dopo aver annunciato il regno di Dio. Tutto deriva dalla benevolenza di Dio per l’uomo. A Lui è piaciuto cercare l’uomo, volerlo compagno del suo amore. In Gesù l’ha trovato e in Lui trova tutti noi. La compiacenza che il Padre ha espresso per Gesù al battesimo e nella trasfigurazione (“Questi è Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento”, Mt 3,17) è onnicomprensiva di tutti i figli degli uomini perché l’amore di Dio risplenda e la gioia dell’amore sia condivisibile tra Dio e l’uomo. Proprio quello che il mistero della Trinità proclama.

 

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Quarto ciclo

Anno liturgico B (2011-2012)

Solennità e feste

 

Ss. Corpo e Sangue di Cristo

(10 giugno 2012)

 

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Es 24, 3-8;  Sal 115;  Eb 9, 11-15;  Mc 14, 12-16. 22-26

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L’origine di questa festa, propria dell’Occidente latino, va messa in rapporto con il possente risveglio della devozione eucaristica che dal secolo XII in poi si sviluppò, accentuando particolarmente la presenza reale di Cristo nel sacramento e quindi la sua adorazione. Furono le visioni di Giuliana di Cornillon, monaca agostiniana di Liegi, ad avere un influsso decisivo nell’introduzione della festività, che per la prima volta si celebrò nella diocesi di Liegi nel 1247. Urbano IV, già arcidiacono di Liegi e confessore di Giuliana, la prescrisse per tutta la Chiesa nel 1264.

Parafrasando il Padre Nostro, s. Francesco così commenta l'invocazione 'dacci oggi il nostro pane quotidiano': “Il nostro pane quotidiano, il tuo Figlio diletto, il Signore nostro Gesù Cristo, dà a noi oggi: in memoria, comprensione e reverenza dell'amore che egli ebbe per noi e di tutto quello che per noi disse, fece e patì” ( FF 271). E nella sua prima ammonizione, tutta dedicata al mistero del Corpo del Signore,  scrive stupendamente: "Per cui lo Spirito del Signore, che abita nei suoi fedeli, è lui che riceve il santissimo corpo e il sangue del Signore. ... Ecco, ogni giorno egli si umilia, come quando dalla sede regale discese nel grembo della Vergine; ogni giorno egli stesso viene a noi in apparenza umile; ogni giorno discende dal seno del Padre sull'altare nelle mani del sacerdote. E come ai santi apostoli si mostrò nella vera carne, così anche ora si mostra a noi nel pane consacrato. E come essi con gli occhi del loro corpo vedevano soltanto la carne di lui, ma, contemplandolo con gli occhi dello spirito, credevano che egli era lo stesso Dio, così anche noi, vedendo pane e vino con gli occhi del corpo, dobbiamo vedere e credere fermamente che questo è il suo santissimo corpo e sangue vivo e vero. E in tale maniera il Signore è sempre presente con i suoi fedeli ..." (FF 143-145).

Il mistero dell’Eucaristia è celebrato coralmente dagli inni di s. Tommaso d’Aquino (Pange lingua, Lauda Sion) e soprattutto dai tre prefazi, ai quali mi rifaccio per suggerire qualche porta di accesso allo splendore di questa festa.

Il primo si incentra sul memoriale del sacrificio: viene celebrato il mistero d’amore di Dio per l’uomo, che nel sacramento continuamente si ripresenta perché ognuno vi possa essere immesso e in esso rimanere.

Il secondo celebra l’eucaristia come vincolo di unità e perfezione: “in questo grande mistero tu nutri e santifichi i tuoi fedeli, perché una sola fede illumini e una sola carità riunisca l’umanità diffusa su tutta la terra. E noi ci accostiamo a questo sacro convito, perché l’effusione del tuo Spirito ci trasformi a immagine della tua gloria”. È il mistero della santità come mistero di fraternità realizzata, a immagine della Trinità. La vita eterna che il sacramento ci procura è la vita nello Spirito che ci fa vivere un cuor solo e un’anima sola, nella lode di Dio; un assaggio di paradiso.

Il terzo celebra l’eucaristia come pegno di risurrezione: “nell’eucaristia, testamento del suo amore, egli si fa cibo e bevanda spirituale per il nostro viaggio verso la Pasqua eterna. Con questo pegno della risurrezione finale partecipiamo nella speranza alla mensa gloriosa del tuo regno”. È la celebrazione del mistero del Regno. Il principio di fondo, illustrato dai Padri nella spiegazione della preghiera del Padre nostro, è semplice: su quello che sarà e che non verrà mai meno va orientata la nostra esistenza. Accedere alla mensa del Corpo e Sangue di Cristo vuol dunque dire imparare a percepire ciò che soddisfa il cuore dell’uomo e a vivere del Dono di Dio, fino a che la verità di questo appaia finalmente al nostro cuore in tutto il suo splendore.

Tre sono i verbi significativi che ricorrono nei prefazi: “… a te per primo si offrì vittima di salvezza”, “in questo grande mistero tu nutri e santifichi”. “Si offrì” vuol dire ‘non si tirò indietro’, ‘non preferì nulla all’amore che lo consumava dentro’, ‘svelò tutta la sua passione d’amore per il Padre e per gli uomini’. In quell’offrirsi non è accentuato tanto la natura riparatrice del suo sacrificio quanto lo splendore dell’amore del Padre che tanto ha amato gli uomini da dare quel suo Figlio unigenito, su cui era posto tutto il suo compiacimento. Il nutrire (il suo Corpo si fa pane di vita, il suo Sangue bevanda di salvezza) allude al fatto che comunica la forza del suo amore che risana e vivifica, rendendoci capaci di percorrere la via per il Regno. Il santificare (è lo Spirito Santo che in noi assume il Corpo e il Sangue di Cristo, rendendoci un tutt’uno con quel Corpo – si veda la prima ammonizione di s. Francesco di Assisi) allude alla potenza di trasfigurazione dello Spirito che ci fa vivere in Cristo e di Cristo fino a che tutto di noi parli di Lui. La cosa straordinaria è che la tensione del santificare non mira che al mistero della fraternità, l’unico segno inequivocabile della presenza di Dio, dello splendore della sua gloria. Quando preghiamo che ci trasformi a immagine della sua gloria, in effetti, chiediamo di poter essere immessi nel mistero d’amore della Trinità da cui deriva la fraternità tra gli uomini. Il segno più eloquente di quell’amore e dello spazio nuovo di fraternità che ne deriva per gli uomini è la dicitura ‘re della gloria’ posta sul capo del Crocifisso.

Se ci domandiamo qual è la virtù specifica dell'Eucarestia, a cosa tende, non possiamo non rispondere con s. Agostino: "La virtù propria di questo nutrimento è quello di produrre l'unità, affinché, ridotti ad essere il corpo di Cristo, divenuti sue membra, siamo ciò che riceviamo" (Disc. 272). L'amen che rispondiamo al 'corpo di Cristo' proferito dal sacerdote al momento della comunione eucaristica ha proprio questo significato: sì, riconosco di far parte di quel Corpo e accetto di vivere in modo da non ferire mai l'unità di quel corpo. È il mistero della comunione con Dio e tra gli uomini diventato lo scopo supremo dell'agire del cuore. Come dice l'orazione sulle offerte: "Concedi benigno alla tua Chiesa, o Padre, i doni dell'unità e della pace, misticamente significati nelle offerte che ti presentiamo".

 

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Quarto ciclo

Anno liturgico B (2011-2012)

Tempo Ordinario

 

11a Domenica

(17 giugno 2012)

 

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Ez 17,22-24;  Sal 91;  2Cor 5,6-10;  Mc 4, 26-34

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Le due parabole rispondono alle domande: perché l’inizio del Regno è così insignificante? Dove si rivela l’evidenza del Regno? Sarà mai possibile la vittoria del Regno? E se le leggiamo nei passi paralleli di Mt 13 scopriamo che la prospettiva con cui le parabole sono raccontate assimila il Regno al diventare ‘familiari’ di Dio. Le parabole sono precedute infatti dalla constatazione di Gesù: “Ma egli rispose loro: «Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?». Girando lo sguardo su quelli che erano seduti attorno a lui, disse: «Ecco mia madre e i miei fratelli! Perché chi fa la volontà di Dio, costui per me è fratello, sorella e madre»” (Mc 3,33-35). Come a dire: lasciare che il Regno cresca significa entrare a far parte dei familiari di Dio, venir messi a parte dei segreti di Dio e condividere i suoi sentimenti per i suoi figli. Come dirà s. Paolo: “ … eredi di Dio, coeredi di Cristo” (Rm 8,17).

Le parabole sono costruite sul contrasto tra il seme e il frutto, tra il seme piccolissimo e la pianta grande. Sottolineano la potenza del seme e l'esito certo finale. La parabola del seme non insiste tanto sulla sua piccolezza, ma sulla potenza che possiede nonostante la sua piccolezza. Il paragone del seme vale anche per la fede: “se aveste fede quanto un granellino di senapa ...” (Lc 17,6). Non da intendere: basta che abbiate almeno un pochino di fede. Piuttosto: aveste fede autentica, grande come un minutissimo seme di senape. I semi di senapa sono così minuti che se si mettono sul palmo della mano e si gira la mano come per rovesciarli per terra, nemmeno cadono giù. Il paragone è basato sulla potenza che il seme racchiude. E quando questa potenza si dispiega cresce a dismisura e diventa un albero e tutti gli uccelli del cielo (intesi dalla tradizione: i popoli pagani, i pensieri malvagi, tutti i pensieri dell’uomo) vengono a nidificare sui suoi rami, cioè sono attratti e lì trovano riposo. Tale potenza appartiene al seme, non a noi: questo è il motivo profondo della fiducia del cuore rispetto al peso della vita, al peso dei malvagi nella vita. Non importa se abbiamo una fede grande o piccola, basta che sia genuina e questa ha la potenza di fare miracoli, cioè di trasformare tutto il nostro cuore fino a che ogni desiderio e pensiero che vi si trova si riunisca e trovi riposo e compimento nel Signore Gesù.

Come viene cantato al vangelo: “Il seme è la parola di Dio, il seminatore è Cristo: chiunque trova lui, ha la vita eterna”, la parola del Signore ha così potenza che basta accoglierne una in verità che sarà capace di riunificare tutto di noi attorno, su e dentro di essa. Così, davanti al dramma del male che ci accompagna, resta la fiducia ancora più grande della potenza della parola di Dio, di quel Verbo, fatto uomo, accolto in cuore e capace di portare tutto a Lui e in Lui, come s. Paolo nella sua lettera ai Corinzi proclama: “sempre pieni di fiducia … siamo pieni di fiducia”.

L’aspetto singolare dell’immagine della pianta che cresce fino a permettere agli uccelli di nidificare è il capovolgimento di prospettiva rispetto al suo uso profetico tradizionale. Come nel brano di Ezechiele, l’immagine indicava i due potenti regni antagonisti del Medio Oriente antico, Egitto e Assiria, che assoggettavano tutti i popoli ma che verranno umiliati dal Signore per la loro arroganza. Nell’intelligenza evangelica l’immagine perde tutto il sapore di ‘potenza’ mondana e si applica al regno di Dio che cresce a tal punto da attirare tutte le nazioni. L’inizio è insignificante, la modalità di crescita nascosta, ma l’esito fecondo.

Luca aggiunge, all’immagine del seme, quella del lievito, per mostrare come l’evidenza del Regno non riguardi una cosa o l’altra. Del ‘regno’ non si può dire: eccolo qui, eccolo là. Riguarda l’insieme del mondo, della vita, dei rapporti, dell’agire e del sentire, dell’essere e del fare. Girolamo spiega come il lievito sia la conoscenza del mistero del Figlio di Dio fatto uomo per noi, la gioia della scoperta del Figlio di Dio come tesoro e perla preziosa tanto da investire tutte le proprie energie in quel cammino di scoperta e da cedere ogni altro bene in vista di ottenere e di condividere con tutti quel tesoro. Quel Verbo, seminato nella terra del nostro cuore, deve crescere e attirare tutto a sé.

 

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Quarto ciclo

Anno liturgico B (2011-2012)

Solennità e feste

 

Natività di s. Giovanni Battista

(24 giugno 2012)

 

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Is 49, 1-6; Sal 138; At 13, 22-26; Lc 1, 57-66. 80

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Giovanni Battista è l'unico santo di cui la Chiesa festeggia, come per Gesù e la Vergine Maria, la nascita in questo mondo. La festa dei santi commemora il giorno della loro 'nascita' al cielo ossia il giorno della morte. Invece, per il Battista, nella tradizione si danno addirittura tre feste: la festa della sua concezione (23 settembre), la nascita (24 giugno), il martirio o la decollazione (29 agosto). Evidentemente la Chiesa riconosce qualcosa di assolutamente speciale nella figura del Battista, il Precursore, Colui che indica ormai venuto tra gli uomini il Salvatore.

Se consideriamo l'iconostasi nelle chiese di rito bizantino troviamo il Signore Gesù al centro, mentre alla sua destra è rappresentata la Vergine e alla sua sinistra Giovanni Battista, prima degli angeli Michele e Gabriele e degli apostoli Pietro e Paolo. Perché? Spiegano i Padri che il nome Giovanni significa  'il Signore fa grazia' : indica il dono fatto ai genitori con  questa nascita, il dono dello Spirito che riempie Giovanni fin dal seno della madre, il dono accordato ai figli di Israele di essere ricondotti al Signore loro Dio tramite la sua predicazione, il dono della grazia fatto al mondo intero tenendo conto che in Giovanni usciamo dal cerchio  della semplice discendenza carnale di Abramo ed entriamo in quello che la Promessa aveva di universale : "e in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra" (Gen 12,3). Il nome di Giovanni allude a tutta la grazia dell'economia del Vangelo che lui avrebbe annunciato, indicando la presenza nel mondo dell’Agnello, del Figlio di Dio, per il quale fu donata al mondo questa grazia, come richiama l’evangelista Giovanni nel prologo del suo vangelo.

La definizione più espressiva del mistero della sua nascita l’ascoltiamo dalla bocca di suo padre, Zaccaria, il quale, sciolto dai vincoli che l’avevano imprigionato per la sua incredulità all’annuncio dell’angelo, proclama a gran voce: “E tu, bambino, sarai chiamato profeta dell'Altissimo perché andrai innanzi al Signore a preparargli le strade, per dare al suo popolo la conoscenza della salvezza nella remissione dei suoi peccati. Grazie alla tenerezza e misericordia del nostro Dio, ci visiterà un sole che sorge dall’alto” (Lc 1,76-78). ‘Dare al popolo la conoscenza della salvezza’: non si tratta solo di ‘far sapere’ che il Salvatore è venuto, che Dio ha fatto visita al suo popolo. La conoscenza di Dio non si risolve semplicemente nella conoscenza di certi eventi, ma nella conoscenza del senso della nostra storia con Dio, della nostra vita e delle nostre persone. Si tratta di una conoscenza che ‘impegna’ la vita come risposta alla rivelazione di senso del nostro destino in una storia più grande di noi. La straordinaria ‘potenza’ di questa conoscenza si vede dalla vita stessa del Battista, che però non viene narrata dai vangeli ma che noi vediamo riassumersi nella forza trascinante della sua predicazione potente: ‘il regno dei cieli è vicino, convertitevi!’. La sua persona stessa si era fatta eco vivente di quella ‘Parola fatta carne’ di cui si era rallegrato fin nel seno materno quando Maria, che portava in grembo Gesù, saluta sua mamma. Nel deserto, quando predica, lui è la voce, ma la Parola è un altro. E la grandezza di Giovanni, elogiata da Gesù, sarà proprio quella di dar voce alla Parola, di prestare la lampada alla Luce.

E Gesù, quando Giovanni si avvede che non si muove come lui si sarebbe aspettato e gli manda a dire se si deve aspettare qualcun altro, pone la firma in calce alla vita ed alla persona del Battista con l'affermazione 'beato chi non si scandalizza di me'. Effettivamente, conferma Gesù, Giovanni Battista è il più grande fra i nati di donna. Nell'ordine della grandezza della rivelazione di Dio, il Battista non è più solo un profeta, il cui compito è quello di annunciare. Lui è più che un profeta perché ha indicato presente fra gli uomini Colui di cui tutti gli altri profeti avevano annunciato il mistero e la venuta. Ma Colui che doveva mostrare l'estensione e la profondità di tale mistero è Gesù, il più piccolo nel Regno dei Cieli, che risulta più grande di Giovanni Battista. Gesù, l'Inviato, Colui che “pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio ...” (Fil 2,6-8), proprio per la sua 'piccolezza' ha mostrato tutta la grandezza dell'amore di Dio per l'uomo facendone vedere il suo vero Volto. Ma il Volto di Dio lo vedono coloro che non si scandalizzano della sua 'piccolezza' quando, ormai sfigurato sulla croce, allorché nemmeno d'uomo aveva più l'aspetto, accolgono tutto il mistero di Dio nel suo amore agli uomini, vedono cioè la sua scelta di essere Dio per gli uomini, non di sembrarlo soltanto. Ilario di Poitiers così commenta: “Il Signore manifesta tutta la gloria di Giovani dicendo che lui era più che un profeta perché a lui solo fu permesso sia di annunciare che di vedere il Cristo. E come si può pensare che non conoscesse il Cristo uno che è stato inviato con la potenza di un angelo a preparare la sua venuta e che tra i nati da donna è il più grande profeta che sia mai sorto? Però con questa eccezione che colui che è più piccolo di lui e cioè colui che viene interrogato, al quale non si crede, al quale neppure le sue opere danno credito, questi è più grande nel regno dei cieli” (Commento al vangelo di Matteo, 11,6).

Quando l’evangelista Giovanni, nel suo prologo, risale alla storia eterna dell’amore di Dio per gli uomini: “In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio…”, per arrivare ad annunciare: “E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre, pieno di grazia e di verità” (Gv 1,1.14), il Battista è il primo testimone di quella gloria che via via apparirà anche agli apostoli, a tutti i discepoli e ai seguaci loro, fino a noi, fino alla fine del mondo. La sua testimonianza è ancora tesa a dissipare le incertezze, i dubbi: ‘io non sono…’. Il Battista non è né il Messia né Elia né il Profeta. Condivide con la gente l’attesa del Messia, senza poter specificare oltre ma avrà la capacità profetica di riconoscerlo presente nel mondo. Toccherà allo stesso Messia dire poi chi sia, mostrarsi nel suo mistero; sarà Lui ad amministrare appunto il battesimo in Spirito, mentre il Battista, con il suo battesimo di acqua, ne prepara solamente la manifestazione. Ma è esattamente il suo titolo di grandezza, per il quale la Chiesa lo celebra al di sopra degli angeli e dei santi.

 

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Quarto ciclo

Anno liturgico B (2011-2012)

Tempo Ordinario

 

13a Domenica

(1 luglio 2012)

 

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Sap 1,13-15; 2,23-24; Sal 29; 2 Cor 8,7.9.13-15; Mc 5,21-43

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Il brano evangelico di oggi riporta due miracoli di Gesù, uno incastonato nell’altro. Ambedue i richiedenti, la prima nel segreto del suo cuore, il secondo con l’insistenza aperta, cercano un contatto con Gesù: l’emorroissa, credendo che se riuscirà a toccare anche solo il vestito di Gesù, potrà essere guarita; il capo della sinagoga, credendo che se Gesù toccherà sua figlia questa guarirà. In gioco è la fede in Gesù come la rivelazione del mistero della sua persona.

Se entriamo nel brano evangelico attraverso la porta della prima lettura e del canto al vangelo, tutto acquista un sapore diverso. I primi due capitoli del libro della Sapienza oppongono l’agire di Dio per la vita e la scelta degli empi per la morte. Il ragionamento degli empi è introdotto con le parole: “Dicono fra loro sragionando” e si conclude con l’annotazione: “Hanno pensato così, ma si sono sbagliati; la loro malizia li ha accecati. Non conoscono i misteriosi segreti di Dio ...”. I segreti di Dio però non sono semplicemente quelli che vengono enunciati nel brano della Sapienza: la ricompensa del giusto e l’immortalità dell’uomo. Un particolare è assolutamente illuminante. Il ragionamento degli empi è ripreso nel vangelo di Matteo alla crocifissione di Gesù quando i capi: “... facendosi beffe di lui dicevano: ‘Ha salvato gli altri e non può salvare se stesso! È il re d’Israele; scenda ora dalla croce e crederemo in lui. Ha confidato in Dio, lo liberi lui, ora, se gli vuol bene”(Mt 27,42-43). I segreti di Dio riguardano quel Figlio, venuto perché gli uomini abbiano la vita e la vita in abbondanza. Come dice il canto al vangelo: “Il salvatore nostro Gesù Cristo ha vinto la morte e ha fatto risplendere la vita per mezzo del Vangelo” (2Tm 1,10). Qui Paolo, alla fine della sua vita, nell’imminenza del martirio, sintetizza il senso del vangelo nello splendore della vita che il Signore Gesù ha fatto scaturire per l’uomo riscattandolo dalla morte. A dire il vero, il testo greco non riporta ‘ha vinto’, ma, in contrapposizione al ‘fece risplendere’, dice con più precisione ‘ha reso inefficace la morte’, vale a dire ha svigorito la morte di tutto il suo potere, potendola ormai patire senza subirne la condanna. Ha lo stesso valore dell’espressione: satana gli viene contro con tutto il suo potere ma non trovando nulla di suo in lui non lo può distogliere dal suo compito di mostrare quanto è grande l’amore di Dio per gli uomini e quanto lui ama il Padre (cf. Gv 14,30-31). È vinta definitivamente l’invidia del diavolo e il cuore dell’uomo può tornare a splendere dell’amore di Dio che conferisce la vita.

I miracoli, narrati nel brano di oggi con tale intensità da assumere valenze simboliche precise, alludono alla ‘potenza’ del Figlio, testimone dell’amore di Dio per l’uomo, amore che farà risplendere proprio nel suo essere innalzato sulla croce, quando il potere della morte sarà esautorato. I miracoli sono l’occasione di rivelazione del Figlio di Dio, rivelazione che necessita, per esplicitare la sua potenza nel cuore dell’uomo, della fede.

L’emorroissa, la donna che per la sua malattia era dichiarata immonda (cf. Lev 15,25-27), nella calca generale, è l’unica a toccare Gesù. Gesù se ne accorge perché chi lo tocca nella fede permette alla sua potenza salvatrice di operare. Così lui che è il Santo santifica, lui che è il Salvatore salva, lui che è il Potente soccorre e guarisce. Chi non ha vivo il senso della propria immondezza, della propria miseria, non ha fede sufficiente per ottenere salvezza. Il particolare del mantello (o della frangia, come nel passo parallelo di Matteo) ha fatto pensare al vestito del Verbo che sono le parole della Scrittura. Ci si può accalcare attorno alla Scrittura, ma non succede nulla, come non successe nulla alla folla dei discepoli che pressava il Maestro lungo la strada. Se però ci si accosta anche a una sola parola con fede, allora ne scaturisce la potenza che racchiudeva e l’anima è guarita. E la parola come il suo corpo sono lì (pensiamo alla celebrazione eucaristica) proprio nell’attesa di lasciar uscire la potenza che racchiudono e rivelare l’amore per cui è stata proferita ed è stata inviata. Gesù resta nell’attesa di dirci: la tua fede ti ha salvato, va’ in pace e sii guarito dal tuo male!

Se pensiamo ora alla fede del capo della sinagoga, ne possiamo intuire la grandezza allorquando i messaggeri da casa gli mandano a dire che tutto è inutile: sua figlia è morta. Lui aveva insistito con Gesù perché venisse presto a casa sua: temeva l’irreparabile. Gesù acconsente, ma in un certo senso se la prende comoda. Tutto l’episodio dell’emorroissa, agli occhi del capo della sinagoga, deve essere suonato come una terribile perdita di tempo prezioso, come un penoso dover sostare. Ma Gesù conduce la scena e conduce anche il suo cuore e lo invita a continuare a credere. Di lui non viene riferito più nulla perché l’essenziale è stato detto: ha continuato a credere. Per quella fede Gesù ha operato, Gesù si è manifestato. Quella fede Gesù ha nutrito. E se alla fine comanda di non divulgare il fatto vuol dire che solo nella e alla fede Gesù può apparire per quello che è. Se Pietro, come del resto tutti i discepoli, trova indigeribili le parole di Gesù, ma dice: “Tu hai parole di vita eterna” (cf. Gv 6,68), vuol dire che il suo cuore sta comunque con lui nell’attesa che lui stesso gli sveli il senso di ciò che ora non comprende o che fraintende. Di quella fede abbiamo bisogno.

 

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Quarto ciclo

Anno liturgico B (2011-2012)

Tempo Ordinario

 

14a Domenica

(8 luglio 2012)

 

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Ez 2,2-5;  Sal 122;  2Cor 12,7-10;  Mc 6,1-6

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I brani scritturistici oggi parlano di occasioni mancate, le antifone e le preghiere parlano invece di occasioni godute e degli effetti della salvezza accolta. L'antifona di ingresso celebra la misericordia di Dio e l'esperienza che tutti gli uomini possono farne dovunque e sempre; la colletta fa pregare perché possiamo riconoscere la gloria dell'amore di Dio nell'umiliazione del Figlio e la sua potenza di consolazione e salvezza nella nostra infermità; alle offerte si prega di poter agire come il Figlio di Dio, nella dinamica di quell'amore che non viene mai meno e di cui ci è fatto dono; all'orazione dopo la comunione si suggella ogni richiesta precedente con la capacità di vivere in gratitudine perché ricolmi dei benefici del Signore, inattaccabili dalla ruggine dei nostri peccati e dalle vicende del mondo.

La meraviglia di Gesù fotografa bene l’atteggiamento dei nostri cuori: “E si meravigliava della loro incredulità”. Da dove proveniva nei suoi concittadini una tale diffidenza nei suoi confronti? Luca sembra suggerire che non abbiano accolto di buon grado il ricordo della preferenza dei pagani da parte di Dio (la vedova di Zarepta di Sidone al tempo del profeta Elia e Naaman il siro ai tempi di Eliseo) e così contrastano la predicazione di Gesù gelosi dei doni di Dio. Per Luca l’esito negativo della prima predicazione di Gesù a Nazaret è la prefigurazione del rifiuto finale di Gesù e della sua morte in croce. Ma Matteo sembra suggerire altro perché il passo di oggi fa da contrappunto alla scelta di Gesù di chiamare sua madre e suoi fratelli i suoi discepoli ai quali “è dato conoscere i misteri del regno dei cieli” (Mt 13,11) con la proclamazione delle parabole del regno. Alla fine però gli ascoltatori non comprendono e Matteo li definisce come coloro che non vogliono essere familiari di Dio, esattamente come i concittadini di Gesù che lo rifiutano.

Qui si inserisce la parola rivolta al profeta Ezechiele nella prima lettura: “Ascoltino o non ascoltino – dal momento che sono una genia di ribelli -, sapranno almeno che un profeta si trova in mezzo a loro”. Il popolo rifiuterà il profeta, ma la presenza del profeta illustra la premura di Dio per il suo popolo. E tutti sapranno che il profeta è in mezzo a loro, non per l’insegnamento che impartisce, ma per la sua testimonianza dell’amore del Padre quando lo uccideranno. Quello che i suoi concittadini non hanno fatto, il salmo responsoriale ce lo mostra come atteggiamento da tenere: “A te alzo i miei occhi … Come gli occhi di una schiava alla mano della sua padrona, così i nostri occhi al Signore nostro Dio, finché abbia pietà di noi”.

L’episodio della predicazione di Gesù a Nazaret illustra bene la premura di Dio. La scena è racchiusa da due identici sentimenti di valore diametralmente opposto. Si apre con la meraviglia, sospettosa, diffidente, che si tramuta poi in ostilità da parte degli ascoltatori presenti nella sinagoga e si chiude con la meraviglia, dispiaciuta, di Gesù che si vede costretto a fuggire. Marco conclude: “E si meravigliava della loro incredulità”. Una meraviglia, quella di Gesù, però, che non si tramuta in ostilità con la sua fuga, bensì in tenacia e immaginazione per creare nuove occasioni, fino alla fine, come il resto del racconto evangelico proverà, perché i cuori finalmente si aprano all’amore del Padre testimoniato da lui e dalla sua attività ovunque.

Noi non ci accorgiamo che spesso la nostra incredulità nasconde una cattiva idea di Dio. A dire il vero non si tratta realmente di una mancanza di fede, ma di diffidenza, di riserva mentale. Come per i concittadini di Gesù descritti da Luca 4,16-31: gli ascoltatori della sinagoga si sentono offesi quando Gesù ricorda loro che Dio non ha disdegnato i pagani come se questa preferenza comportasse un’accusa ai suoi figli. Così è per noi: è vero che ci accorgiamo che Gesù insegna cose belle, cose degne della massima stima, ma essere disposti ad accoglierlo e seguirlo nella sua rivelazione di Dio e nel suo servizio agli uomini non ci è agevole.

La liturgia ci invita allora a cogliere il nodo essenziale della vita: la salvezza è data dalla potenza di Dio, ma ha bisogno di essere accolta con fede, senza riserve mentali. Il problema più o meno può essere posto così: perché la grazia non compie tutto ciò che promette? Pensiamo al perdono che domandiamo a Dio per i nostri peccati. Perché, pur chiedendolo sinceramente e ottenendolo, non agisce in profondità da trasformarci completamente? Forse che Dio vincola il suo perdono? Non sarebbe morto per noi! Pensiamo alla richiesta di una virtù: “Signore, fammi umile”. Perché dopo la richiesta restiamo ancora in preda all'orgoglio e all'egoismo? Forse che Dio è geloso dei suoi doni? Non ci avrebbe dato il suo Figlio! Ecco dunque la meraviglia di Gesù: la nostra incredulità.

Dio non si stanca però della nostra incredulità perché sa che il nostro cuore ha bisogno di tempo per cedere, per arrendersi, per sciogliere le sue paure, le sue resistenze, le sue ambiguità. L'importante è non lasciare mai il Signore, lasciarsi sempre riaccostare da lui tanto che, come dice la colletta: “sappiamo riconoscere la tua gloria nell’umiliazione del tuo Figlio e nella nostra infermità umana sperimentiamo la potenza della sua risurrezione”. Il movimento suggerito dalla preghiera è appunto quello di imparare a vedere la gloria, cioè lo splendore dell’amore del Padre per gli uomini, proprio nell’umiliazione del Figlio che si consegna agli uomini perché sappiano quanto lui ama il Padre e quanto è grande il suo amore per noi. Il che significa riconoscersi dentro una provvidenza di bene per noi stando solidale con i sentimenti di Dio, in favore dei fratelli. Così facendo, potremo sperimentare la potenza della vita che viene da Dio accogliendo in pace le infermità e le afflizioni della nostra storia perché non ci allontanano dalla comunione con Colui che il nostro cuore cerca e di cui potente è la salvezza.

 

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Quarto ciclo

Anno liturgico B (2011-2012)

Tempo Ordinario

 

15a Domenica

(15 luglio 2012)

 

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Am 7,12-15;  Sal 84;  Ef 1,3-14;  Mc 6,7-13

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Possiamo guardare oggi alla parola del Signore attraverso la bellissima colletta che interpreta gli aneliti profondi dei cuori: “Donaci, o Padre, di non avere nulla di più caro del tuo Figlio, che rivela al mondo il mistero del tuo amore e la vera dignità dell’uomo; colmaci del tuo Spirito, perché lo annunziamo ai fratelli con la fede e con le opere”.

È il desiderio che il Volto del Signore si riveli nel suo splendore al nostro come al cuore di tutti. E questo splendore è lo splendore dell'amore per noi, fonte della nostra dignità, allorquando un uomo si sente degno di essere amato perché è uomo e non perché è intelligente, ricco, bravo, ecc. È dalla percezione di questa realtà gustata nel cuore che sale l’inno di s. Paolo al Signore: “Benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo. In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo ...” (Ef 1,3). Si tratta di una benedizione larga, onnicomprensiva, oltre la quale non c’è più nulla di significativo per il cuore. È la stessa benedizione che Gesù ci insegna con la preghiera del Padre nostro, benedizione nella quale poter comprendere tutta la nostra vita, la storia dei nostri fratelli, la nostra storia comune. La missione che Gesù affiderà ai suoi apostoli mira a rendere percepibile, a far gustare ai cuori quella benedizione perché si radichino in essa e non possano più vivere se non a partire da e dentro di essa.

Nella tenuta dell’apostolo, secondo la descrizione di Marco, si può ravvisare l’allusione alla tenuta da viaggio del popolo all’uscita dall’Egitto raccontata in Es 12,11. Gli apostoli guidano il nuovo esodo con l’annuncio del Regno di Dio che in Gesù si manifesta. Ogni annuncio nella Chiesa ha così un sapore pasquale: comporta l’esodo dall’Egitto e l’accoglienza del regno di Dio, dentro l’esperienza della manifestazione della potenza di salvezza di Dio. Il gesto dello scuotere la polvere dai piedi, quando non dovessero accogliere l’annuncio, - gesto che era comune al pio israelita quando saliva in pellegrinaggio a Gerusalemme proveniente da territori pagani e non voleva contaminare il sacro suolo d’Israele -, assume anche questo significato: la pace che non avete raccolto voi, non ha lasciato noi; avete la possibilità di rifiutarla, ma non avete il potere di fermarla perché sarà rivolta ad altri; e se resta a noi, se è condivisa da altri, è perché prima o poi la possiate desiderare anche voi; non temete, sarà sempre vostra eredità. La forza dell’annuncio evangelico sta in questo potere della pace di Dio che raggiunge tutti. La responsabilità dei discepoli sta appunto nel far vedere la loro vita confermata da quella pace perché possa apparire davvero desiderabile.

Quella pace ha un volto misterioso, invisibile, che riluce, ma nel nostro cuore, ed è il volto del Signore Gesù. Ma ha anche un volto visibile, costatabile, amabile, che è quello della fraternità condivisa. Che cosa possono insegnare gli apostoli agli uomini se semplicemente ripetono le parole del Signore? Le ripeteranno, sì, ma con potenza, con la potenza di coloro che possono mostrare come siano diventate efficaci per il loro cuore. E l’efficacia appare dalla fraternità condivisa. Ecco perché sono mandati ad annunciare la Buona Novella non da soli, ma a due a due. È la stessa rivelazione del Padre Nostro, allorquando la fraternità vissuta (‘venga il tuo regno’, venga cioè lo Spirito del Signore a renderci un corpo solo e un’anima sola, così come preghiamo anche nel canone eucaristico) rivela a tutti il volto di Dio come Padre, rivela il suo amore per gli uomini. E come ottenere questo senza la preghiera: "Donaci, o Padre, di non avere nulla di più caro del tuo Figlio", lui che ha rivelato in tutto il suo splendore l'amore di Dio per gli uomini e la grandezza della vocazione dell'uomo? Credo sia assai significativo che la Chiesa vincoli l’intelligenza della verità al fatto di percepirla capace di interferire con le radici del nostro cuore (‘donaci di non avere nulla di più caro’), dentro cioè la possibilità di un’esperienza che renda la verità amabile e rigenerante.

Nel salmo responsoriale si canta: “Misericordia e verità si incontreranno, giustizia e pace si baceranno”. L’amore di misericordia di Dio per l’uomo tocca chi è disposto a non vivere nell’illusione, a vedere il suo peccato, a riconoscersi debitore di verità presso Dio, così che la santità di Dio, lo splendore del suo amore per noi, si risolva in desiderio di pace con tutti, in solidarietà con l’umanità di tutti. Siamo chiamati proprio a essere profeti, annunciatori di quella pace che guarisce e ristora, da viverla come il tesoro più prezioso del cuore e la rivelazione della bellezza del volto di Dio, in Gesù.

 

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Quarto ciclo

Anno liturgico B (2011-2012)

Tempo Ordinario

 

16a Domenica

(22 luglio 2012)

 

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Ger 23,1-6;  Sal 22;  Ef 2,13-18;  Mc 6,30-34

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L’immagine che fa da sfondo a tutta la liturgia di oggi è quella del pastore. Nel brano di Geremia Dio rimprovera i cattivi pastori perché non hanno cura delle sue pecore e promette che lui stesso si incaricherà di pascere le sue pecore. Il salmo responsoriale riprende quella promessa di Dio e la mostra compiuta nell’anima: “Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla”. Il brano di vangelo, a sua volta, mostra in Gesù colui che adempie quel desiderio di Dio tanto che diventa lui stesso il ‘buon pastore’.

Il vangelo annota che Gesù davanti alla moltitudine ‘ebbe compassione di loro, perché erano come pecore che non hanno pastore’. Il brano fa parte del racconto della missione degli apostoli, racconto che era iniziato proprio con l’annotazione che Gesù ‘sentì compassione’ (cfr Mt 9,36) e si chiude con l’annuncio eucaristico, simboleggiato dal miracolo della moltiplicazione dei pani, introdotto con la commozione di Gesù davanti alle folle. La compassione di Gesù per l’umanità è alla radice della sua missione sia come rivelatore del Padre che come salvatore. In essa prendono senso e valore tutti i suoi gesti e le sue parole, come anche tutte le parole e le opere di Dio lungo la storia sacra.

Per il nostro cuore è estremamente importante riuscire a percepire almeno gli echi di quella compassione. E se Gesù prova compassione è perché sa che può dire: “Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro” (Mt 11,28). E ancora perché sa che il cuore dell'uomo cerca il ristoro e se non lo trova è perché si illude di trovarlo fuori di Lui. Così quando, mosso dalla sua compassione, Gesù invita i discepoli a pregare perché il Padre mandi operai nella sua messe, fa pregare non solo perché mandi tanti operai, ma soprattutto perché ne mandi di quelli che si muoveranno spinti dalla stessa sua compassione. Gli operai che lavorassero in questa messe immensa, senza essere il riflesso di questo amore e di questa compassione, non favorirebbero il ristoro del cuore degli uomini. Ma come diventare il riflesso dell' amore e della compassione di Dio per gli uomini senza la preghiera? Per questo Gesù fa pregare, trattiene in disparte gli apostoli, li tiene in sua compagnia.

Un particolare del brano apre orizzonti insospettati. Quando Gesù invita in disparte gli apostoli, lo fa perché si riposino un poco. L’accenno al riposarsi è misterioso. Si tratta dello stesso termine che ricorre nell’affermazione di Gesù: “Venite a me … e io vi darò ristoro... e troverete ristoro”. Quel ‘ristoro/riposo’ corrisponde al movimento della sua compassione che viene incontro all’uomo perché l’uomo, agitato, tormentato, sfinito, finalmente si riposi. Ma esso pesca nel riposo di Dio il settimo giorno della creazione, riposo che viene ripreso dal salmo responsoriale. Gli antichi rabbini hanno pensato che vi fu un atto di creazione anche il settimo giorno: “Che cosa è stato creato il settimo giorno? La ‘menuchà’, la tranquillità, la serenità, la pace e il riposo” (Cfr Gen Rabbà, 10, 9). È lo stato in cui non vi è contesa né lotta, né paura né diffidenza; è felicità, pace e armonia; vita nel mondo futuro, vita eterna. Quando nel salmo si proclama: “Il Signore è il mio pastore, non manco di nulla; su pascoli erbosi mi fa riposare, ad acque tranquille mi conduce” (Sal 23,1-2) si allude proprio alle acque di ‘menuchoth’. Stessa allusione che troviamo nelle parole del Signore Gesù quando dice ai suoi discepoli: “Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero” (Mt 11,28-31). Vi darò ristoro = vi farò riposare; sarò la vostra felicità, pace, riposo. L’umiltà/mitezza che lo definisce costituisce la cifra della luce della santità di Dio che si riversa sul mondo e che abilita a quello sguardo capace di cogliere il mondo nel suo insieme.

È singolare che Gesù inviti i discepoli a starsene in disparte, a cercare un luogo solitario per riposare e che contemporaneamente si trovino davanti una folla numerosa della quale Gesù ha compassione. Quando i discepoli annunceranno il regno di Dio non faranno che far arrivare ai cuori l'eco di quella 'compassione', di quella 'profonda commozione' di Gesù, buon pastore, mandato a riunire i figli di Dio dispersi. L'annuncio che non provenga dalla condivisione, dalla solidarietà con quella 'compassione' sarà piatto e ripetitivo e non toccherà i cuori. D'altra parte, se i discepoli non impareranno a starsene in disparte con il loro Signore, non sentiranno la profondità di quella 'compassione' e non potranno annunciare 'con potenza' il regno di Dio. La vivacità, la vitalità, nel senso che porta vita, della parola di Dio trova qui le sue radici. D’altronde è la stessa dinamica dei doni di Dio, della stessa elezione del popolo, dei discepoli, dei ministri nella chiesa. Essere scelti dal Signore non è in funzione di un privilegio, ma di una intimità per farsi eco presso tutti di quella 'compassione' che tutti raggiunge, perché non si dà pace finché uno solo resti escluso.

Inviando gli apostoli in missione, Gesù li aveva forniti delle stesse sue prerogative: ‘scacciare i demoni, guarire ogni malattia e infermità’. Nessuno può proclamare la verità della vita a titolo proprio, come nessuno può procurare ristoro al cuore degli uomini a titolo proprio. La verità e il ristoro che essa procura procedono dall'alto, esprimono la compassione di Dio che raggiunge il cuore degli uomini, in Cristo. E se il discepolo non lascia intravedere chiaramente tale rimando, non è un 'chiamato', un 'inviato', lavora per la sua gloria e non potrà sanare nessuno. Così avverrà quando dirà agli apostoli di dare da mangiare a una folla sterminata, tema della liturgia di domenica prossima.

 

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Quarto ciclo

Anno liturgico B (2011-2012)

Tempo Ordinario

 

17a Domenica

(29 luglio 2012)

 

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2Re4,42-44;  Sal 144;  Ef 4,1-6;  Gv 6,1-15

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Lo stesso miracolo della moltiplicazione dei pani è narrato anche dai sinottici (Mt 14,13-21; Mc 6,30-44; Lc 9,10-17) ma la liturgia, invece che seguire il testo di Marco, normalmente seguito nel corso dell’anno, preferisce il racconto di Giovanni. Il testo di Giovanni non solo narra il miracolo, ma ne svela il suo contenuto simbolico e lo commenta con un lungo discorso di Gesù, discorso che la liturgia riprenderà per esteso nelle domeniche successive.

La rivelazione di Gesù che l’evangelista vuole presentare è ottenuta sovrapponendo il racconto del miracolo con la trama della storia di Israele e la celebrazione liturgica dell’eucaristia della chiesa. La moltiplicazione dei pani per sfamare la gente è un gesto messianico e la folla sente giusto, anche se interpreta male. Era dovere del Messia assicurare il pane al popolo e in ciò si allude alla figura di Davide (cfr. 2Sam 6,19). Di fronte alla richiesta di carne da parte del popolo in un clima di rivolta generale, Mosè si chiede davanti a Dio: “Da dove prenderò la carne da dare a tutto questo popolo?” (Nm 11,13), espressione che Gesù stesso riprende. Il regno messianico era presentato nei libri sapienziali sotto l’immagine di un banchetto al quale la Sapienza invitava tutti: “Avvicinatevi a me, voi che mi desiderate, e saziatevi dei miei frutti ... Quanti si nutrono di me avranno ancora fame e quanti bevono di me avranno ancora sete” (Sir 24,19.21); “Venite, mangiate il mio pane, bevete il vino che io ho preparato” (Sap 9,5). D’altra parte, tutto il contesto allude alla celebrazione dell’eucaristia, di cui il miracolo è simbolo. Il racconto non ha il sapore di un semplice ricordo, ma la potenza di un ‘memoriale’ che si rinnova e partecipa la grazia che racchiude, grazia che arriva fino a noi che leggiamo o ascoltiamo. Non va dimenticato che Giovanni non racconta l’istituzione dell’eucaristia che ci dà la vita del Figlio, essendo l’argomento di tutto il suo vangelo. Il suo cap. 6 ne illumina il mistero.

La figura del buon pastore, applicata a Gesù, si arricchisce di nuove sfumature. Possiamo accostarci al brano seguendo tre piste differenti: dal punto di vista dei personaggi, dell’avvenimento e dell’esito finale. Consideriamo i personaggi in gioco: la folla, gli apostoli, Gesù. La folla cercava Gesù, si spostava secondo i suoi spostamenti, lo tallonava. Aveva visto i prodigi di guarigioni che Gesù aveva compiuti e, come dice il canto al vangelo di oggi, aveva pensato: “Un grande profeta è sorto tra noi, e Dio ha visitato il suo popolo”. Quando si accorge del miracolo della moltiplicazione dei pani, ne coglie il valore simbolico e si entusiasma e vuole proclamare Gesù re pensando “Finalmente i nostri guai sono finiti. Ecco chi ci libererà e stabilirà il regno di Israele”. Ma alla fine, quella stessa folla resterà delusa e abbandonerà quel Gesù di cui si era entusiasmata. Perché è così difficile per l’uomo entrare nel progetto di Dio e accogliere la Sua grazia? Seguire il Signore è diverso che desiderare il Signore. Rammentando un altro passo del vangelo, potremmo dire che effettivamente troviamo se cerchiamo ma non troveremo quello che cerchiamo. Se la grazia è grazia, vuol dire che non è semplicemente in funzione dei nostri desideri, sebbene sia proprio la grazia a colmare davvero i nostri desideri. Gli apostoli nella scena agiscono da intermediari. Sono ‘strumenti’ perché la compassione del Signore raggiunga tutti e tutti siano sfamati. C’è l’allusione al compito dei ministri della chiesa: spezzare il pane della Parola per l’intelligenza della fede. E poi c’è Gesù. Sale sul monte (non dimentichiamo che nel vangelo di Giovanni non si fa cenno al discorso delle beatitudini sulla montagna), sfama la folla (moltiplica i pani, non li crea. Da ricordare l’episodio della tentazione di Gesù nel deserto dove appunto è tentato di trasformare le pietre in pani per dimostrare a tutti che lui è il Messia) ma alla fine resta solo, deve, è costretto a star solo per non compromettere la sua missione. Solitudine che sarà accentuata drammaticamente dall’abbandono dei discepoli dopo il suo lungo discorso in chiave eucaristica a commento del miracolo.

Se consideriamo l’avvenimento, molti particolari proiettano una luce speciale. Siamo nel deserto, prossimi alla festa della Pasqua, in un luogo con tanta erba, in occasione di un pasto, con una disposizione particolare dei partecipanti (a gruppi di cento e cinquanta). Sono tutte allusioni all’organizzazione del popolo nel deserto secondo i racconti del Pentateuco, specialmente in occasione della conclusione dell’Alleanza tra Dio e il suo popolo. È lui, Gesù, come ribadirà nel suo discorso, il vero Pane disceso dal cielo che nutre e dà la vita, che ristora e dà riposo, nel quale celebrare la definitiva Alleanza tra Dio e il suo popolo. Gli accenni al raccogliere gli avanzi valgono a sottolineare la sovrabbondanza di grazia di questa alleanza, data a tutti, oltre la quale non c’è nulla di significativo che possa colmare i desideri degli uomini. I verbi usati per descrivere il miracolo (prese, benedisse, spezzò e diede) sono i verbi caratteristici della celebrazione eucaristica.

L’esito però è drammatico. Tutti mangiano, tutti si entusiasmano ma nessuno in realtà capisce e nessuno sa vedere l’opera di Dio. Gesù si darà da fare per cercare di far capire, ma invano. Gli uomini potranno capire, ma dopo che avranno rimirato Colui che hanno trafitto. Quel pane mangiato diventerà pane di vita solo quando parlerà di quella passione d’amore di Dio per l’uomo. L’ amore di Dio per l’uomo non lavora mai secondo il registro della potenza, così caro agli uomini, i quali vorrebbero soddisfare i loro desideri servendosi di Dio, invece che aprire i loro desideri a Dio e accoglierne la grazia. In realtà, tutta la difficoltà per il cuore degli uomini nei confronti di Dio risiede qui. Gesù sa bene questo e pur cercando in ogni modo di aprire la mente degli ascoltatori, nelle varie occasioni, sa di dover andare a Gerusalemme, dove la verità del Suo amore per gli uomini si farà splendente da conquistare finalmente i cuori e infiammarli dello stesso amore.

 

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Quarto ciclo

Anno liturgico B (2011-2012)

Tempo Ordinario

 

18a Domenica

(5 agosto 2012)

 

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Es 16,2-4.12-15;  Sal 77;  Ef 4,17.20-24;  Gv 6,24-35

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Domenica scorsa era stata letta la pericope del racconto del miracolo della moltiplicazione dei pani, mentre oggi e nelle domeniche successive viene letto il seguito del brano nel quale Gesù, a più riprese, in un colloquio serrato ed esigente con la folla che aveva assistito al miracolo, tenta di dar conto del mistero della sua persona. È tipico di Giovanni formulare la verità su Gesù attraverso un dialogo che, mentre allude all’esperienza della storia dell’alleanza di Israele con Dio, fa emergere gli aneliti e i sogni dei cuori. Il colloquio al pozzo di Giacobbe con la donna samaritana ne è un esempio.

Al centro della pericope di oggi sta una grande questione: come decifrare i segni di Dio. Tutti avevano visto il miracolo, si erano entusiasmati di quel profeta straordinario e taumaturgo, ma alla fine tutti l’abbandonano. Perché? Perché non sono riusciti a vedere? Che cosa è mancato loro?

L’esperienza del popolo di Israele è ben descritta dal salmo 77, vera griglia di lettura del miracolo della manna nel deserto, là dove si proclama: “Ciò che abbiamo visto e conosciuto e i nostri padri ci hanno raccontato, diremo alla generazione futura: le lodi del Signore, la sua potenza e le meraviglie che egli ha compiuto”. Hanno visto certi eventi, certi fatti straordinari, ma l’oggetto del loro racconto è altro: loro vogliono raccontare le meraviglie del Signore. Dicono la storia, ma raccontano Dio. Non si sono solo sfamati mangiando la manna, ne hanno colto il valore di segno: Dio li guidava, adempiva le sue promesse, restava fedele al suo amore per loro. Dal fatto si passa ad una storia, ad una relazione che mi ha costituito in essere e dà senso alle mie fatiche e ai miei drammi, che fa la mia storia.

La folla che aveva seguito Gesù vedendo il miracolo che aveva compiuto, non ha fatto questo passaggio nei suoi confronti. Ha preferito, delusa, giudicare il futuro a partire dal passato, l’inatteso a partire dall’atteso. Si è impedita di accedere al futuro come tempo di Dio. Ha esigito di portare Dio nella sua testa piuttosto che di aprire a Dio la propria testa. Ha preferito avere qualcosa che Qualcuno. Ora, se la folla, nonostante il fascino iniziale, non ha fatto quel passaggio, vuol dire che non è un passaggio scontato. Quando Gesù, per avvalorare le sue parole, risponde alla folla che su di lui il Padre ha posto il suo sigillo, dobbiamo rammentare le parole solenni, decisive e assolute con cui Giovanni presenta la singolarità di Gesù rispetto alle attese dei cuori: “Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato” (Gv 1,18).

A me pare che due siano le domande di fondo della folla. Recependo il valore dell’invito di Gesù, la folla anzitutto chiede: quali opere compiere? Ma Gesù fa notare: la domanda vera non è quali opere, ma quale opera di Dio va compiuta. Come a dire: le opere non coinvolgono la radice di senso, di intelligibilità della vita. Il cuore non troverà il compimento dei suoi desideri nelle opere. La gente capisce che Gesù si attribuisce un compito che viene da Dio e chiede di venire istruita su ciò che è gradito a Dio. La particolarità della risposta di Gesù, imprevedibile per l’immaginario interiore della folla, sta nel fatto che Gesù non indica alcuna nuova legge o comandamento da attuare. Un’opera sola ricerca Dio: credere in Colui che egli ha mandato, perché è Colui che dà la vita al mondo. Credere a Dio significa accogliere il suo amore per l’uomo, manifestato nel Figlio, al punto da non poter vivere che di quell’amore, che dentro quell’amore, che dà senso a tutte le opere che posso intraprendere. Non sono però le opere a precedere, ma l’amore di cui queste si nutrono. E senza questa esperienza le opere non porteranno gioia e non si risolveranno in conoscenza amorosa di Dio e in tenerezza per il prossimo. La domanda della folla “che cosa dobbiamo compiere per fare le opere di Dio?” potrebbe essere resa: “Come vivere in concreto il comando dell’amore?”, tenendo presente che l’unica possibilità per l’uomo resta quella offerta da Gesù: l’unione con lui comunica la vita di Dio, che è amore, al mondo.

La risposta di Gesù sembra aver fatto breccia nella folla, ma la seconda domanda rivela di nuovo la lontananza: quale segno tu compi perché ti possiamo credere? In realtà la domanda vera sarebbe un’altra: chi può essere segno? E come riconoscerlo? L’apertura al mistero di Dio comporta sempre la disponibilità ad accogliere quello che da Dio proviene. Ora, il Figlio dell’uomo è proprio colui che discende dal cielo (e l’unico segno valevole sarà la passione-morte-risurrezione) e perciò conosce i segreti di Dio. Accogliere il Figlio come Inviato significa accogliere la storia dell’amore di Dio per l’uomo; significa radicare in quell’amore l’intelligibilità della nostra vita e avere la vita, quella che dura per la vita eterna, cioè quella che, custodita dalla potenza dell’amore di Dio per noi, risulta insopprimibile e inattaccabile. A questo punto però il pane non è più qualcosa, non si riferisce più a un prodigio: riguarda la sua persona, riguarda il prodigio dell’amore di Dio che nel Figlio fa grazia di sé agli uomini perché gli uomini possano, nel Figlio, fare grazia di loro a tutti e così far splendere la signoria di Dio nel mondo, ormai trasfigurato nello Spirito. Qui si intravede tutta la rischiosità e la radicalità del passaggio: dare fiducia al Signore, all’amore del Signore, consegnandosi a quel Figlio che promette libertà, verità e vita, al punto da vivere secondo quello che l’antifona alla comunione rivela: “Ci hai mandato, Signore, un pane dal cielo, un pane che porta in sé ogni dolcezza e soddisfa ogni desiderio”.

La folla rivela molto bene i desideri che portiamo in cuore, senza però trovare soddisfazione: l’urgenza etica per una qualità di vita accettabile, l’apertura al mistero di Dio che si manifesta, la fame del pane della vita. Il seguito del brano illustrerà sempre più precisamente il senso del mistero della persona di Gesù come risposta a quei desideri.

 

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Quarto ciclo

Anno liturgico B (2011-2012)

Tempo Ordinario

 

19a Domenica

(12 agosto 2012)

 

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1Re 19,4-8;  Sal 33;  Ef 4,30-5,2;  Gv 6,41-51

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Tutto il lungo discorso eucaristico di Gesù narrato nel cap. 6 di Giovanni può essere letto come l’illustrazione della difficoltà per l’uomo di cogliere e accogliere i segreti di Dio. Gesù si premura di spiegare, di convincere, ma pochi cuori si apriranno alla sua rivelazione. Eppure gli ascoltatori, nelle loro interrogazioni, dimostrano di cogliere nel segno, sebbene non sappiano poi tirare le giuste conclusioni. Davanti all’offerta di un pane speciale da parte di Gesù, tutti chiedono: ‘dacci allora questo pane!’. Come la samaritana al pozzo, quando Gesù le parla di un’acqua speciale, chiede di averla. Forse, la richiesta, qui come là, nasconde una punta di ironia: sarebbe bello avere l’acqua, avere il pane, in modo da non avere più sete o fame, in modo da non fare più fatica a procurarsi il nutrimento, ma evidentemente non è possibile; chi promette quelle cose è un imbonitore e basta. Tuttavia, il desiderio del cuore è pur sempre quello e resta profondamente vero: il cuore cerca davvero un’acqua e un pane speciali, che ristorino, che rigenerino, che fortifichino, che facciano gustare la vita.

Davanti alla difficoltà di riconoscere la sua provenienza divina, Gesù esorta: ‘non mormorate. Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato …’. S. Agostino, commentando questi versetti, ha un’intuizione geniale. Osserva che se siamo attirati dal Padre, questo non vuol dire che siamo attirati per forza. E cita un verso del poeta Virgilio: “trahit sua quemque voluptas” (Egloghe 2). Vale a dire: ognuno è attratto dal suo piacere. È come se dicessimo a Dio: fa, Signore, che io trovi in te la mia felicità e tu mi darai i desideri del mio cuore (cfr. sal 37,4: “cerca la gioia nel Signore, esaudirà i desideri del tuo cuore”). In verità il testo del salmo non dice semplicemente che Dio soddisferà i desideri del nostro cuore, ma che farà nascere i desideri del nostro cuore, il nostro cuore vorrà ciò che forma la sua felicità. In questo verremo ammaestrati da Dio, perché saremo attirati là dove il piacere del nostro cuore ci spinge. Gesù poi cita il profeta Geremia: “tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande, dice il Signore; poiché io perdonerò la loro iniquità e non mi ricorderò più del loro peccato” (Ger 31,33-34). Ora, proprio nel Cristo siamo accolti nel perdono di Dio che ci consente di vederlo, di scoprirlo cioè nella sua verità di amore per noi. Quando Gesù proclama che lui è il pane di vita, dice essenzialmente che lui ci comunica quell’amore di Dio che è radice di vita e che ci permette di conoscere ‘direttamente’ Dio accogliendoci senza riserve nel suo perdono. Proprio questo è ciò che la folla desiderava nel profondo del suo cuore, ma alla fine si trova impossibilitata ad accettare perché non si riconosce adatta al mistero di Dio.

Come sempre nel vangelo di Giovanni, ma in particolare in questo dialogo, le espressioni hanno un valore intensivo. Tutto può suonare in una certa ovvietà, materiale o religiosa, eppure tutto può avere sfumature insospettate. I verbi usati: discendere, mangiare, vedere, credere, imparare, hanno tutti risonanze, scritturistiche e interiori, impensabili. Gesù cerca di illustrare il mistero che costituisce la sua persona come il segreto di Dio svelato agli uomini che, pur immensamente desiderabile, non è facilmente ricevibile. Perché? La reazione della gente al fatto che Gesù si presenti come il pane della vita è rivelatrice. Di per sé la gente non rifiuta l’equiparazione di Gesù al pane di vita; rifiuta l’affermazione che lui discenda dal cielo. Loro ne conoscono la sua origine: conoscono la famiglia, la provenienza (cf. Mt 13,55; Mc 6,3; Lc 4,22; Gv 7,15). Come può dire di venire dal cielo? Forse c’è l’allusione alla credenza che del Messia non si potesse sapere l’origine oppure, velatamente, potrebbe esserci un’allusione alla nascita verginale di Gesù. Il fatto comunque è che la rivelazione definitiva di Dio è ormai l’umanità di Gesù, tanto che mangiare la carne del Figlio dell’uomo significa assimilare il Figlio di Dio fino a vivere di lui. Non è possibile che l’uomo non desideri la presenza del Signore e il suo amore e proprio quando gli viene rivelato che quel desiderio può essere soddisfatto fa resistenza. Perché i cuori non riescono a vedere?

Forse la risposta va cercata proprio in quel movimento di discesa che caratterizza l’agire di Dio. Il ‘discendere dal cielo’ non indica semplicemente la provenienza di Gesù; indica piuttosto il movimento dell’abbassarsi di Dio per comunicare il suo amore e far vivere. Gli uomini non amano abbassarsi, benché vogliano la vita e desiderino l’amore e quindi pensano sempre in termini di grandezza mondana, dove il potente prevale sul debole, dove l’alto la spunta sul basso, dove l’affermazione di sé presuppone l’innalzamento. Gesù, quando parla di innalzamento, allude sempre al suo essere innalzato sulla croce, là dove risplende l’amore di Dio per l’uomo.

Il brano della lettera agli Efesini, che leggiamo tutte le settimane nell’ora di compieta, al mercoledì, lo illustra meravigliosamente: “Siate invece benevoli gli uni verso gli altri, misericordiosi, perdonandovi a vicenda come Dio ha perdonato a voi in Cristo. Fatevi dunque imitatori di Dio, quali figli carissimi, e camminate nella carità, nel modo in cui anche Cristo ci ha amato e ha dato se stesso per noi, offrendosi a Dio in sacrificio di soave odore”. Quello che qui è reso “perdonandovi a vicenda”, in greco è un verbo altamente significativo. Non si tratta dell’usuale ‘perdonarsi’, ma di un verbo che alla lettera si dovrebbe rendere “facendovi grazia gli uni gli altri come Dio ha fatto grazia di sé in Cristo a voi. Diventate quindi imitatori di Dio”. Come lui ha fatto dono di sé agli uomini in Cristo, così noi siamo chiamati a fare dono di noi agli altri in Cristo. Ora, tutta la difficoltà per l’uomo deriva proprio dal fatto che invece di accogliere la grazia ne cerca una a sua misura. Ma non esiste altra grazia se non quella, da parte di Dio, del  suo ‘far grazia di Sé’ a noi, in benevolenza e misericordia, nel Cristo. Qui è racchiusa tutta l’abbondanza di vita che una rivelazione siffatta promette. La frase di Paolo in effetti continua: “se anche voi perdonerete”, cioè farete grazia di voi a tutti in Cristo, per indicare che, se il segreto di Dio è racchiuso in quella rivelazione, pure il nostro cuore trova in quel segreto le radici dei suoi sogni per sé e per il mondo. Aprire il cuore al credere significa approdare alla percezione di quella grazia, grazia che apre alla bellezza di un amore gustato e condiviso, nell’accondiscendere a quel movimento di abbassamento perché risplenda in questo mondo l’amore di Dio. La fede è proprio a servizio dello splendore di quell’amore che ‘discende dall’alto’ e di cui il pane eucaristico è simbolo perfetto.

 

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Quarto ciclo

Anno liturgico B (2011-2012)

Solennità

 

Assunzione della Beata Vergine Maria

(15 agosto 2012)

 

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Ap 11,19a; 12,1-6a.10ab;  Sal 44;  1Cor 15,20-27a;  Lc 1,39-56

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In un inno anonimo del VII secolo, la prima esclamazione degli angeli nei riguardi della Vergine suona: “Ave, nutrimento della gioia degli uomini”, mentre gli antichi testi agiografici parlano della Vergine in rapporto ai fedeli come della Regina, della Madre del Signore, della loro sorella.       

La festa di oggi modula la devozione alla Vergine su due registri: la gioia come radice di speranza per l’umanità e la sua intercessione universale. Nella sua lettera ai Corinzi Paolo ricorda il dato della fede nella risurrezione. E tratteggia tutto il corso della storia fino alla fine del mondo nel senso di una rivelazione progressiva, anche se misteriosa e drammatica, della signoria di Cristo che prevarrà su tutto. Noi siamo nel tempo della sottomissione a Cristo di tutti i nemici di Dio, morte compresa. Il regno di Cristo coincide con la riduzione a nulla di ogni potere della morte. La cosa va vista nel suo succedersi temporale in ciascuno di noi oltre che nella storia. Tutta l'ascesi e la lotta interiore non sono altro che l'espressione di questo potere di Cristo che riduce a nulla il potere della morte che ci assilla e ci impasta.

Ora, nella Vergine Maria, tutto questo non è più in fieri, non ha più spazi o dinamiche da conquistare. È compiuto. E siccome è compiuto, può essere consegnata a Dio Padre, fulgida di tutto lo splendore che la salvezza operata da Dio comporta. Il disegno di Dio in tutto il suo amore per l'uomo, dalla creazione alla glorificazione finale nel suo Regno, solo questa nostra sorella, la Vergine, l'ha potuto godere compiutamente. Oggi, festa dell'assunzione, ella lo sa e può dichiarare: ora so per esperienza tutto l'amore che Dio ha portato all'umanità, che ha portato a me perché sia vivibile da tutti e quindi posso glorificarlo compiutamente. E proprio perché la sua lode per Dio è piena, allora anche l'esultanza del suo cuore è piena e la sua intercessione potente. Quando i credenti guardano alla Vergine gloriosa, assunta in cielo, non possono non considerarla, come canta il prefazio: "primizia e immagine della Chiesa … un segno di consolazione e di sicura speranza". In lei possono magnificare l'amore di Dio per l'uomo, la grandezza della salvezza operata da Dio che anche in noi si dispiegherà a suo tempo, come in lei, che per noi intercede. E a lei rivolti, fiduciosi possiamo pregarla, come le antiche comunità cristiane: "Sotto la tua protezione troviamo rifugio, santa Madre di Dio: non disprezzare le suppliche di noi che siamo nella prova, e liberaci da ogni pericolo, o Vergine gloriosa e benedetta".

Da dove deriva alla Vergine tutta la sua gloria? L’elogio alla madre da parte della donna che ascoltava affascinata Gesù: “Beato il grembo che ti ha portato e il seno che ti ha allattato!” è trasformato da Gesù nell’elogio ai discepoli: “Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano!” (Lc 11,27-28). Gesù sembra spostare l'attenzione sui discepoli, ma in realtà definisce esattamente in che cosa consiste la beatitudine di sua madre. Come i Padri sottolineano spesso: prima di essere madre fisicamente di Gesù, Maria lo è spiritualmente, perché il suo cuore ascolta e osserva la Parola, l'ha sempre ascoltata e osservata. Se però colleghiamo il commento di Gesù all’espressione pronunciata da Elisabetta nel saluto alla Vergine: “Beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto”, ci viene svelato un altro aspetto fondamentale. Ascoltare e osservare la Parola non è semplicemente un mettere in pratica quello che Dio dice. È assai di più. Significa permettere alla promessa di Dio racchiusa nella sua parola di compiersi, di rivelarsi finalmente al cuore e al mondo. Significa acconsentire al desiderio di Dio di compiersi, significa fare in modo che il desiderio che Dio ha di incontrare l'uomo finalmente trovi compimento. Ora, da dove deriva la vita all'uomo se non da un incontro d'amore? Sia in senso fisico, un figlio, sia nel senso di procurare vitalità, gioia di vivere, visione di speranza, forza ed energia. Più questo consenso da parte dell'uomo è totale, più la vita che deriva da Dio è fluente e incontenibile. Vince la morte. Per sempre.

In quel “ha creduto” è indicata tutta la disponibilità della Vergine all’azione di Dio (“Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola”) dove il proprio essere è vissuto come risposta al desiderio di Dio, come spazio di compimento all’agire di Dio. Nell’ “adempimento” è adombrata la generazione del Verbo che in lei prende forma. Accogliere il Verbo nella propria umanità significa ritrovarsi nel mistero di Dio Trinità, che è amore comunicato; significa far risplendere l’amore di Dio nel mondo e compiere la propria umanità permettendole di far trasparire la divina Presenza. La grazia di questa 'maternità' spirituale è estesa a tutti i credenti: tutti possono ereditare la beatitudine che deriva dall'ascoltare e osservare la Parola. Nella dinamica dell’obbedienza della fede, l’ascolto della Parola equivale alla fin fine ad accogliere e generare in noi il Verbo, di cui risplendono tutte le parole della Scrittura.

Ora, la vera meraviglia di Dio per gli uomini è proprio il dono del Figlio, che di quell’umanità che ci costituisce svela i confini e le sorgenti divine. Chi, più della Vergine, ha goduto tutta la potenza di splendore di questo dono per l’umanità? Così l’intercessione della Vergine va nella direzione dell’invocazione della preghiera ‘sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra’, interpretata ‘si compia il tuo amore  finché la terra diventi tutta cielo’: nulla rimanga inaccessibile all’amore di Dio che si dispiega potente. Lei, la serva del Signore, terra come noi, ma totalmente disponibile all’agire di Dio, è diventata tutta cielo. Intercede perché anche la nostra umanità, in ciascuno e in tutti, si allarghi agli spazi e alle profondità della sua stessa umanità, nella comunione con il suo Dio.

 

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Quarto ciclo

Anno liturgico B (2011-2012)

Tempo Ordinario

 

20a Domenica

(19 agosto 2012)

 

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Pr 9,1-6;  Sal 33;  Ef 5,15-20;  Gv 6,51-58

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Continua la proclamazione del cap. 6 di Giovanni. Ma oggi la liturgia ci addita una particolare finestra di luce per cogliere il senso del discorso-rivelazione di Gesù. ‘Non siate scemi’, ci ripetono la prima e la seconda lettura: “abbandonate l’inesperienza” (Pro 9,6); “non siate sconsiderati” (Ef 5,17). L’intelligenza della vita! Appare desiderabile, chi non la vuole? Non è segreta, non è inaccessibile, non è complicata, non richiede studi particolari. Eppure, non è proprio a portata di mano. E nonostante tutto, il cuore la gradirebbe sempre.

In particolare, la lettera agli Efesini sottolinea il punto esatto dove cercarla. Si tratta di essere ‘intelligenti di Dio’; si tratta di essere ‘intelligenti della volontà di Dio’. Non pensiamo però che si tratti prima di tutto di scoprire cosa Dio vuole da noi; piuttosto, di scoprire quanto bene Dio ci vuole, tutto il Bene che sta nascosto nelle sue parole, nelle sue iniziative, nel suo Figlio che per noi si fa cibo e bevanda di vita. Per questo Paolo parla di imparare a essere ‘pieni di Spirito Santo’ e indica tre vie: la preghiera, il rendimento di grazie, lo stare sottomessi gli uni agli altri. “…siate ricolmi dello Spirito, intrattenendovi fra voi con salmi, inni, canti spirituali, cantando e inneggiando al Signore con il vostro cuore, rendendo continuamente grazie per ogni cosa a Dio Padre, nel nome del Signore nostro Gesù Cristo. Nel timore di Cristo, siate sottomessi gli uni agli altri” (Ef 5,18-21). Purtroppo le edizioni moderne della Bibbia suddividono la frase, che in greco è unica e suona così: "...rendendo continuamente grazie per ogni cosa a Dio Padre, nel nome del Signore nostro Gesù Cristo, sottomettendosi  gli uni agli altri nel timore di Cristo". Il dono dello Spirito è il contenuto della preghiera nel senso di imparare a percepire la volontà di Bene di Dio per noi; il rendere grazie esprime l’esperienza della percezione di quel Bene per noi e lo stare sottomessi indica il radicamento di quel Bene nel cuore da risultare il tesoro più prezioso. Ma tra il rendere grazie e lo stare sottomessi c'è tutto il tragitto del cammino da fare. Se si rende grazie senza stare sottomessi si è boriosi; se si è sottomessi senza rendere grazie si è servili. Invece, il segno che un cuore adora sinceramente il suo Dio è proprio il fatto di rendere continuamente (= sempre, in ogni circostanza, comunque) grazie e di stare sottomessi (ai propri fratelli, ma anche alla vita in generale) portando pazienza con il tempo, le cose, le circostanze, il nostro cuore e i nostri difetti.

Dalla prospettiva di questa ‘intelligenza di Dio’, le parole di Gesù suonano con tutt’altro accento. A conclusione del suo discorso, Gesù riassume in tre passaggi la rivelazione della volontà di Bene di Dio per l’uomo che in Lui si compie: avere la vita, dimorare in lui, vivere per lui. Tutte realtà che solamente coloro che accettano di mangiare la carne del Figlio dell’uomo possono ereditare. Espressione più forte Gesù non poteva usare: ‘chi mangia la mia carne…’. Tuttavia la rivelazione non è assurda. Nel capitolo precedente, Gesù aveva discusso con i farisei a proposito delle Scritture: “Voi scrutate le Scritture pensando di avere in esse la vita eterna: sono proprio esse che danno testimonianza di me. Ma voi non volete venire a me per avere vita” (Gv 5,39-40). Si leggono le Scritture per avere la vita. Ma le Scritture non parlano proprio di Gesù, del Figlio dell’uomo che sigilla definitivamente la volontà di Bene di Dio per l’uomo? Leggere le Scritture è come un mangiare, mangiare per avere la vita, per vivere in modo desiderabile e bello. Ma se le Scritture parlano di Gesù, allora leggerle è come un mangiare Gesù, per avere la vita, perché, dice ancora Giovanni: “Questa è la vita eterna: che conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo” (Gv 17,3). Offrendo come cibo il suo stesso Corpo, con l’eucaristia, Gesù non fa che radicalizzare la rivelazione delle Scritture.

Come una parola mangiata resta nel nostro cuore, così chi mangia il Corpo del Signore dimora in Lui. Sarà la logica della similitudine della vite (cfr Gv 15): lui dimora in me e io in lui, fino a poter dire con s. Paolo: “non vivo più io, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20). Quando mangiamo il pane eucaristico, in realtà non siamo noi a mangiare il Corpo di Gesù, ma è Lui ad assimilarci al suo Corpo, ad assumerci in Sé. Come fa dire a Gesù una bella preghiera di Lorenzo Scupoli (1530-1610): “Io voglio da te, che niente voglia, niente intenda, niente veda fuori di me e della mia volontà, acciocché io in te tutto voglia, pensi, intenda e veda in modo che il tuo niente assorto nell’abisso della mia infinità, in quella si converta, così tu sarai in me pienamente felice e beata, e io in te tutto contento”. E’ la consumazione di quella ‘vita in Cristo’ in cui consiste lo scopo della comunione eucaristica e a cui tende ogni sforzo ascetico e l’anelito di ogni preghiera.

Dimorare allude alla dinamica di un amore che diventa radice di vita, che si fa vita di amore partecipando alla stessa potenza di amore che qualifica la vita del Figlio dell’uomo, splendore dell’amore di Dio. La preghiera dopo la comunione della messa di oggi lo ricorda molto bene: “O Dio, che in questo sacramento ci hai fatti partecipi della vita del Cristo, trasformaci a immagine del tuo Figlio, perché diventiamo coeredi della sua gloria nel cielo”. Diventare partecipi della vita del Cristo significa somigliargli, rivestirsi dei suoi sentimenti, vivere della sua stessa umanità sulla quale risplende, imperitura, la gloria dell’amore di Dio per gli uomini. Significa incarnare la Presenza di Dio in mezzo al suo popolo. Perché, per la nostra stoltezza, non ritenerci ‘degni’ dell’offerta di Dio, del suo mistero? E così, se l’uomo vuole la vita e dimora nella vita, non può non viverla che in forza e per estendere a tutti quell’amore che gli si è rivelato in quel Gesù, che ha accolto nel suo cuore come la parola definitiva di Dio per l’uomo, sigillo di Bene e di Verità, principio di vita vera che riempie il suo desiderio.

 

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Quarto ciclo

Anno liturgico B (2011-2012)

Tempo Ordinario

 

21a Domenica

(26 agosto 2012)

 

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Gs 24,1-2a.15-17.18b;  Sal 33;  Ef 5,21-32;  Gv 6,60-69

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Siamo giunti alla stretta finale. La moltitudine dei discepoli è sul punto di abbandonare Gesù, tanto da indurlo a rivolgersi anche ai Dodici, ai suoi più fidati: “Volete andarvene anche voi?”. Come renderci conto di cosa comporta questa accorata domanda? Nella colletta preghiamo: “O Dio nostra salvezza, che in Cristo tua parola eterna ci dai la rivelazione piena del tuo amore ...”. È la verità che usualmente noi credenti in Cristo confessiamo, ma siamo disposti ad accoglierla in tutta la sua densità? L’uomo può scandalizzarsi di Dio; facilmente l’uomo si scandalizza di Dio. Non è facile spiegare perché avviene, ma avviene facilmente.

La celebrazione di oggi ci fa sapere che la confessione della verità del Signore è vincolata a due domande specifiche. Prima di tutto alla domanda di Giosuè: “Chi volete servire?”. Il popolo d’Israele era ormai penetrato nella Terra promessa, dopo la liberazione dalla schiavitù dell’Egitto e la tortuosa peregrinazione nel deserto. Nessuno di coloro che in età adulta avevano lasciato l’Egitto, nemmeno Mosè, la loro guida, ad eccezione di Giosuè, era entrato nella Terra promessa. Si tratta ora di impostare la vita nella nuova condizione di libertà. Chi si deve servire? Nel linguaggio della Scrittura servire Dio allude a un rapporto gioioso e liberatorio che esalta le energie dell’anima sottraendola alle schiavitù quotidiane e all’oppressione del male. Quale dio servire? È la scelta del cuore dell’uomo, sebbene spesso la scelta risulti come obbligata dall’inerzia stessa della vita: prendi quello che risulta più comodo o più facile o più conveniente o più interessato. Ma il servizio funziona in ragione della continuamente reiterata libertà di scelta per la verità.

Molto bella la presa di posizione del popolo, dopo la confessione di fede di Giosuè e della sua famiglia: “Perciò anche noi serviremo il Signore, perché Egli è il nostro Dio”. ‘Nostro’ non tanto perché lo scegliamo noi, ma perché Lui ha mostrato il suo favore a noi, perché Lui ha fatto questo e questo per noi. In quel ‘anche noi’ non c’è solo il riconoscimento della fede dei padri, ma soprattutto il riconoscimento dell’agire di Dio per i nostri padri, per noi. Verità ripresa da un versetto del salmo responsoriale: ‘il Signore è vicino a chi lo serve’, cioè il Signore è riconosciuto vicino da chi lo accoglie nella sua fatica del vivere, senza scandalizzarsi.

E poi alla domanda di Gesù: “Volete andarvene anche voi?”. Non c’è nessun esito scontato nella vita. Di fronte all’incomprensione dei suoi discepoli Gesù non riduce il Dono di Dio, non banalizza il suo mistero. Svela i vari aspetti del suo mistero, ma il mistero resta. Questo significa che la rivelazione di Dio non comporta una semplificazione del suo mistero, ma più semplicemente la sua maggiore prossimità. La tensione del cuore non va puntata sul contenuto del mistero, spesso inafferrabile, ma sul dinamismo che lo caratterizza: ‘Dio ha tanto amato gli uomini da dare il suo Figlio unigenito…”. Ciò che è da cogliere è questa intenzione di Dio, che va diritta al cuore. E quando spunta l’incomprensione tra Dio e i suoi figli, nel dramma della vita, vale unicamente la risposta di Pietro: “Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio”. Pietro non si esprime in merito al discorso che Gesù ha fatto, ostico anche per lui, ma si esprime in merito al senso della Sua persona per il suo cuore perché intuisce che da qui viene la vita.

Un particolare misterioso ne illustra tutto il dramma. Il brano finisce con l’allusione al tradimento di Giuda, nonostante che la scelta di Giuda sia stata fatta dallo stesso Gesù. Ecco la questione: se è Dio ad attirare gli uomini, allora in che cosa gli uomini sono responsabili del loro rifiuto? È Dio a scegliere, sì, ma la sua scelta non comporta automatismi, perché fidarsi di Dio significa fidarsi dello spazio di libertà in cui ci pone. Lo spazio di libertà è in funzione della possibilità dell’incontro, gioia di Dio e dell’uomo insieme. Così la fede esprime l’umano nella sua radicalità quando, per compiersi, si scopre fondato e attratto da un oltre che lo sorpassa, benché gli appartenga. La scelta di Dio non comporta perciò l’esito scontato. È il dramma che segna tanto Dio (che resta solo, se abbandonato da noi) come pure noi, che restiamo soli senza di Lui, incapaci come siamo a realizzare la nostra stessa vocazione umana. L’amore di Dio però non viene meno tanto che quei discepoli, che ora abbandonano Gesù perché il suo discorso è troppo duro, saranno gli stessi che, guardando a Colui che hanno trafitto, potranno ricredersi e convertirsi e finalmente avere la vita, cosa sempre possibile per tutti noi. Perché l’uomo non si condanni alla solitudine, restando in balia delle sue ossessioni, è invitato a vivere nell’alleanza offertaci da Dio, in Cristo, e non a condizionare l’alleanza ai suoi scopi, che comportano il rifiuto di quelli di Dio. Ma negli scopi di Dio sta appunto l’offerta di vita eterna, che non può provenire da noi stessi. È lo stesso spazio del dramma che si trasforma nello spazio di una vita piena, intrisa di gioia inattaccabile, allorché Dio e l’uomo si incontrano, esperienza sempre misteriosa e imprevedibile.

 

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Quarto ciclo

Anno liturgico B (2011-2012)

Tempo Ordinario

 

22a Domenica

(2 settembre 2012)

 

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Dt 4,1-2.6-8;  Sal 14;  Gc 1,17-18.21b-22.27;  Mc 7,1-8.14-15.21-23

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Si riprende la narrazione del vangelo di Marco là dove era stata interrotta per far posto al lungo cap. 6 di Giovanni delle domeniche precedenti. Torna in scena il gruppo dei farisei. L’oggetto del contendere riguarda la tradizione degli antichi, cioè quel complesso di norme che garantivano la ‘santità’ della vita che ad ogni pio ebreo stava a cuore. Se confrontiamo il passo di Marco con il corrispondente passo di Matteo 15,1-20, notiamo che la risposta di Gesù non riguarda né l’approvazione o meno di quelle norme né la loro abolizione, ma la radice di senso che comportano e che spesso gli uomini stravolgono.

Possiamo entrare nel movimento di rivelazione che il brano comporta con l’invito della lettera di Giacomo: “Accogliete con docilità la Parola che è stata piantata in voi e può portarvi alla salvezza” (Gc 1,21). Giacomo sta ragionando sul fatto che l’ira dell’uomo non compie la giustizia di Dio e perciò invita ad accogliere in mitezza la Parola che ha il potere di salvarci lasciando da parte ogni impurità e malizia. La contrapposizione si gioca tra l’ira e la mitezza, tra la ricerca di potere sull’uomo da parte dell’uomo e la beatitudine evangelica dei miti che erediteranno la terra. I Padri hanno sempre interpretato la terra come la terra del cuore, secondo l’annotazione di Gn 2,15: “Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse [=ne coltivasse il suolo] e lo custodisse”, assunta come immagine del cuore.

Quando, nella prima lettura, si parla della legge di Dio in termini di saggezza/intelligenza per chi l’accoglie, si allude proprio alla possibilità per il cuore di godere del possesso della sua terra, si allude al coltivare e al custodire in santità la terra del cuore perché se ne compiano gli aneliti profondi, santità che equivale a preferire la compagnia di Dio e la sua giustizia. Lo ripeterà san Paolo indicando nel Cristo crocifisso la potenza e la sapienza di Dio perché “ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini” (1Cor 1,25). E lo ripete il salmo 14 che traccia la vivibilità dei comandi del Signore che permettono il possesso e il godimento del cuore. In effetti,  il salmo 14 riassume la sincerità del cuore davanti a Dio nell’agire con giustizia e nel parlare lealmente, cioè nel non danneggiare il prossimo, noi stessi compresi, né coi fatti né con la lingua (quello che i nostri Padri chiamavano: non ferire mai la coscienza del prossimo, né coi fatti né con le parole né con i pensieri né con i sentimenti). Questo vale assai di più di qualsiasi pratica umana, pur grandiosa, perché in questo risplende la vicinanza di Dio.

Per questo, nel libro del Deuteronomio Mosè avverte: “Ora, Israele, ascolta le leggi e le norme che io vi insegno, affinché le mettiate in pratica, perché viviate ed entriate in possesso della terra che il Signore, Dio dei vostri padri, sta per darvi. Non aggiungerete nulla a ciò che io vi comando e non ne toglierete nulla; ma osserverete i comandi del Signore, vostro Dio, che io vi prescrivo”. Come Gesù fa ben risaltare nel brano evangelico di oggi, il guaio proviene dal fatto che la nostra pratica proviene spesso, non dal comandamento di Dio, ma da tradizioni, atteggiamenti, pensieri, imposizioni, obblighi, impegni, esclusivamente ‘umani’, che comunque non hanno a che vedere con il vero e proprio comandamento di Dio. Così, la promessa di trovare la vita ed entrare in possesso della terra del cuore, cioè gustare il mistero del regno dei cieli svelato dal Signore Gesù Cristo, non si compie mai. Quella promessa è abbinata solo alla pratica del comandamento di Dio, non ad altro. Ora, il comandamento di Dio tocca sempre il cuore, mentre la tradizione umana, spesso, non ha nulla a che vedere con il cuore. Tutto il discorso di Gesù verte appunto sulla contrapposizione: comandamento di Dio/tradizione umana (“Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini”) e, di conseguenza, sulla purità o meno del cuore.

Ben a proposito, rispetto al comandamento di Dio, la Scrittura dice: non aggiungere, né togliere. Siamo accusati di non mettere in pratica il comandamento non solo quando ci rifiutiamo di eseguirlo, ma anche quando preferiamo un nostro ‘comandamento’ a quello di Dio. Se è abbastanza facile capire quando ci rifiutiamo di compiere un comandamento, non lo è quando in qualche modo ci imponiamo un ‘comandamento’, quando cioè crediamo di fare qualcosa di bene, ma non secondo Dio. La tradizione midrashica ebraica incastona in questo contesto l’occasione del peccato di Adamo ed Eva. Se si leggono attentamente i primi capitoli della Genesi si noterà l’aggiunta di Eva al comandamento di Dio. Dio dice: “…dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, nel giorno in cui tu ne mangerai, certamente dovrai morire”. Ma Eva al serpente risponde: “…del frutto dell’albero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: Non dovete mangiarne e non lo dovete toccare, altrimenti morirete”. Eva aveva provato a toccare il frutto proibito, ma non era successo niente. Quindi conclude: allora Dio non ha detto il vero, ha ragione il serpente. Allora posso mangiare per avere la conoscenza…! Ed incontra la morte. Basta pensare alla trama dei ricatti affettivi che facciamo valere vicendevolmente per capire quanto sia pernicioso aggiungere al comandamento di Dio!

L’atteggiamento, davanti al comandamento, è quello invocato nella colletta: “O Dio, nostro Padre, ... suscita in noi l’amore per te e ravviva la nostra fede”, per cui, davanti alla parola di Dio, siamo invitati subito a metterla in pratica al fine di cogliere la rivelazione di Dio che si svela al nostro cuore. Il primo moto è affettivo, non intellettivo, nel senso che prima devo poter cogliere l’intenzione segreta di Dio che a me si rivolge fidandomi del suo amore. È per questo che, continuando la lettura del brano del Deuteronomio, al v. 9, si proclama: “Ma bada a te e guardati bene dal dimenticare le cose che i tuoi occhi hanno visto, non ti sfuggano dal cuore, per tutto il tempo della tua vita”. L’accento è così posto sul fatto di ‘far memoria delle parole che si sono viste’ (il testo dovrebbe essere tradotto infatti più letteralmente: ‘guardati bene dal dimenticare le parole che i tuoi occhi hanno visto’). L’accento cade sulla sincerità del cuore che si trova dentro una storia d’amore che lo precede e l’accompagna e a cui risponde e non sulla sua generosità. Cosa significa ‘vedere’ le parole? Significa aver accolto la parola ed essere avanzati in quella realizzazione di umanità che fa risplendere la prossimità di Dio, preferire cioè la compagnia di Dio e la sua giustizia.

 

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Quarto ciclo

Anno liturgico B (2011-2012)

Tempo Ordinario

 

23a Domenica

(9 settembre 2012)

 

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Is 35,4-7a;  Sal 145;  Gc 2,1-5;  Mc 7,31-37

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Gesù non ha mai predicato ai pagani, ma ha attraversato le loro terre ed ha compiuto alcuni miracoli a favore di persone pagane. Il brano di vangelo di oggi riporta appunto il secondo di questi miracoli in terra pagana, la guarigione di un sordomuto. I gesti e le parole di Gesù hanno un’alta valenza simbolica perché toccare gli orecchi e la lingua sono diventati gesti battesimali.

Rispetto al mistero di Dio e della vita siamo come sordomuti: né sappiamo ascoltare né parlare ‘bene’. Potremmo chiederci: di quale parola abbiamo bisogno? Nelle preghiere quaresimali, ad es. quella di s. Efrem, domandiamo di venir liberati dalla parola vana, dalla parola vuota. La prima preghiera che la Chiesa fa pronunciare ogni mattina, al sorgere del sole, ripresa dal salmo 50, v. 17, proclama: “Signore, apri le mie labbra e la mia bocca proclami la tua lode”. Ed è significativo che la lode sia contrapposta al sacrificio nel senso che il Signore non vuole il sacrificio, ma la lode di un cuore contrito che torna al suo Signore, pentito e desideroso della sua comunione. Nei riti battesimali dell’apertura e della rinuncia a satana, quando, la vigilia del battesimo, al candidato venivano toccati orecchi e bocca perché diventassero capaci di ascoltare e parlare dei misteri di Dio, la Chiesa si riferisce ai battezzandi come a bambini piccoli che imparano a parlare. E quale parola si suggerisce loro di dire? “Padre nostro” e non: padre mio, rinunciando così ad ogni dipendenza nei confronti di qualsiasi altro padre terreno e carnale, cioè al diavolo.

Il miracolo di Gesù narrato nel vangelo fa risaltare la dinamica che la guarigione comporta. Si tratta di miracoli di apertura. Gesù non è un mago, sebbene taumaturgo; non pronuncia parole magiche, ma semplicemente la parola effatà, cioè apriti. La sordità comporta spesso anche il disturbo della parola. Non si tratta però solo di rivelare la potenza di guarigione di Gesù, ma di far convergere il cuore, nella fede, verso la rivelazione del mistero della Persona di Gesù in rapporto alla grandezza dell’amore di Dio per gli uomini. Ciò verso cui il sordomuto è invitato a volgersi è proprio Gesù perché possa vivere la sua vita nell’alleanza con Dio che si è fatto suo prossimo. La lode delle persone guarite allude a questo tipo di apertura del cuore.

Il miracolo è segno dei tempi messianici ormai compiuti in Gesù. Ce lo rivela la risposta di Gesù ai messaggeri di Giovanni Battista che gli manda a dire: “Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?”. Gesù risponde con citazioni dal profeta Isaia: “Andate e riferite a Giovanni ciò che udite e vedete: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono …” (Mt 11,5). E aggiunge: “E beato è colui che non trova in me motivo di scandalo”. Il che significa che ciò che l’uomo si aspetta da Dio non corrisponde a ciò che Dio è in verità. E ciò che Dio è in verità, cioè amore per noi, lo rivela solo Colui che appunto è stato inviato a svelare a tutti la grandezza del suo amore. È il segreto messianico, che si svelerà a suo tempo, ma che ora deve essere taciuto perché il miracolo parla solo della potenza di quel taumaturgo e non è ancora capace di rivelare la grandezza dell’amore del Signore come avverrà sulla croce e con la risurrezione.

Due particolari risultano significativi. La lode finale in bocca alla gente che aveva visto il miracolo suona: “Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti”. Quando Dio, alla fine della creazione secondo il racconto della Genesi, contempla ciò che ha fatto, esclama: “Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona” (Gen 1,31). L’espressione della gente rivela che siamo in presenza ormai della nuova creazione, quella dei tempi messianici, quando Dio rinnova ogni cosa ridando a ciascuna cosa il suo splendore eterno perché tutto torni a proclamare la gloria del suo amore.

Il secondo particolare è dato dalla particolare espressione con cui viene designato il sordomuto: un sordo che parlava confusamente. E quando viene guarito si dice che parlava correttamente, distintamente. Ora la confusione del linguaggio è la conseguenza della stoltezza degli uomini che vogliono competere con Dio per il dominio della terra, come ben si vede nell’episodio della torre di Babele. Rinunciando alla gloria di Dio gli uomini si troveranno estranei tra di loro tanto da non capirsi più. La guarigione avviene il giorno di Pentecoste quando la comprensione è data nonostante la diversità delle lingue e la comprensione si baserà proprio sul fatto che tutti riconosceranno le meraviglie di Dio, ciascuno nella sua lingua. Una volta che gli orecchi possono ascoltare la Parola, la lingua sarà libera di glorificare Dio perché in quella parola, sanante, è riconosciuta la Presenza del Signore, presenza che non ci sarà mai più tolta e che unifica tutti.

Il salmo 145 che viene proclamato oggi può essere letto come la descrizione dell’umanità che attende la salvezza, il compimento cioè della promessa di vita, di bene, di felicità, inscritta nel suo intimo e la cui nostalgia è acuita dalle ferite e dalle oppressioni del peccato simboleggiato dalle varie malattie elencate. E la salvezza riguarda tutti, perché in Gesù, che ha tolto il muro di separazione (cf Ef 2,13-18), non c’è più giudeo e pagano, trovando tutti la stessa consolazione e stessa lode nello stesso amore di Dio.

 

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Quarto ciclo

Anno liturgico B (2011-2012)

Tempo Ordinario

 

24a Domenica

(16 settembre 2012)

 

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Is 50,5-9a;  Sal 114;  Gc 2,14-18;  Mc 8,27-35

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Con il brano di vangelo proclamato oggi siamo al centro della narrazione di Marco. L’evangelista presenta Gesù nel suo viaggio verso Gerusalemme. Aveva operato segni straordinari e il suo dire, il suo raccontare in parabole, aveva catturato il cuore di tanti. Era giunto il momento di traghettare i discepoli ad una comprensione più profonda e veritiera della sua persona. La domanda a proposito della sua identità sottende la stessa problematica di Giovanni Battista: è lui o dobbiamo aspettare un altro? “La gente, chi dice che io sia?”; “Ma voi, chi dite che io sia?”. La gente pensa che lui sia stato mandato a preparare la via al Messia (Erode pensava che Gesù fosse il Battista redivivo, i discepoli in generale pensavano che fosse l’Elia che doveva venire o uno dei profeti, come Geremia, il modello profetico più consono alla figura di Gesù) mentre Pietro confessa invece che proprio lui è il Messia.  Gesù prende così sul serio la risposta di Pietro che apertamente svela il suo futuro di passione, annunciato dal terzo canto del Servo del Signore secondo il testo di Isaia della prima lettura.

Marco per tre volte riporta l’annuncio della passione di Gesù: 8,31/9,31/10,33. Tutte e tre le volte Gesù si trova per strada (qui per Cesarea, la seconda volta per Cafarnao e la terza per Gerusalemme) e sempre l’annuncio è accompagnato da una sua istruzione ai discepoli, tanto che l’annuncio va colto proprio a partire dalla rivelazione che comporta quell’istruzione.

Da notare subito: il testo sottolinea che Gesù insegnava che doveva soffrire molto. I due termini indicano che l’uomo non avrebbe mai potuto arrivare al mistero della persona di Gesù dal basso; vi si giunge per rivelazione, dall’alto. Non solo, ma che “dall’alto” corrisponde allo “star dietro” a Gesù. In effetti, il rimprovero di Gesù a Pietro che, rifiutando la sua rivelazione, vuole mettersi davanti a lui, collega i due movimenti: “Va’ dietro a me, Satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini”.  Gesù riprende la testimonianza di Es 33,20-23, là dove Dio dice a Mosè che potrà vederlo solo di spalle. Il che significa: solo accettando di camminare per dove Dio indica lo si potrà vedere in verità. E ancora: solo disponendoci a praticare la sua parola si può scoprire la verità della promessa di vita che la sua parola comporta. Solo stando dietro il Maestro si potrà scoprire il Volto di Dio in verità nel suo amore per gli uomini.

Quando Gesù invita i discepoli a rinnegare se stessi, prendere la croce e seguirlo, non fa che estendere a tutti il rimprovero rivolto a Pietro. Potremmo intendere le cose così. Pietro, nel rimproverare Gesù, aveva probabilmente temuto per sé. Se Gesù, il Messia, avesse dovuto subire tutti quei tormenti, certamente sarebbe svanito il prestigio dell’essere ‘compagno’ del Messia. E allora che ne sarebbe stato di lui? Il ‘rinnegare se stessi’ vale in rapporto al mistero di Dio che in Gesù si fa prossimo agli uomini per la potenza del suo amore tanto da far scaturire la vita proprio là dove gli uomini mai la cercherebbero. Se gli uomini pensano in prospettiva mondana come potranno vedere i segreti di Dio? La rinuncia a ogni prospettiva mondana è la condizione per accogliere il mistero di Gesù che sulla croce rivela lo splendore dell’amore, motivo di ogni rinuncia a qualsiasi cosa che non sia collegabile o derivante da quell’amore. D’altronde qui risiede tutta la dignità della vita. Ma, per quanto desiderabile, come resta velata ai nostri occhi! Siamo sempre nella condizione di dover essere istruiti dall’alto per afferrare la verità dell’umanità di Gesù consegnata agli uomini e scoprire vero per noi e per tutti lo splendore dell’amore. Così il portare la croce non si riferisce primariamente alla fatica del vivere, ma alla condizione perché la fatica del vivere risulti fruttuosa: la rinuncia ad ogni prospettiva mondana ci apre alla rivelazione dell’amore di Dio nella nostra vita, amore che possiamo cogliere in tutto il suo splendore proprio nella croce di Gesù. Seguire Gesù significa essere partecipi di questa rivelazione fino a viverla nel concreto della propria vita per dare spazio alla stessa dinamica di amore.

Come sottolinea la preghiera dopo la comunione: ‘La potenza di questo sacramento, o Padre, ci pervada corpo e anima, perché non prevalga in noi il nostro sentimento, ma l’azione del tuo santo Spirito’. Nella consapevolezza che l’azione dello Spirito induce a vivere in pienezza quella vocazione all’umanità che resta inscritta nei nostri cuori. E sarà proprio la potenza della visione del Signore trafitto che diventerà fonte di vita perché apre alla conoscenza dell’amore.

È per quella visione e dentro quella potenza che san Paolo, nella sua lettera ai Galati, ripresa dal canto al vangelo, proclama: “Quanto a me non ci sia altro vanto che nella croce del Signore, per mezzo della quale il mondo per me è stato crocifisso, come io per il mondo” (Gal 6,14). Come a dire: rispetto a quell’amore, rivelato dall’alto e colto nel seguire il Signore Gesù, di cui ho avuto la visione nel guardarlo trafitto in croce, non c’è nulla nel mondo che meriti la preferenza e non c’è nulla in me che può trovare adeguato compimento a partire dal mondo. La preghiera della chiesa tende a rendere vivace per il nostro cuore tale verità.

 

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Quarto ciclo

Anno liturgico B (2011-2012)

Tempo Ordinario

 

25a Domenica

(23 settembre 2012)

 

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Sap 2,12.17-20;  Sal 53,  Gc 3,16-4,3,  Mc 9,30-37

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Come sottolinea il canto al vangelo: “Dio ci ha chiamati mediante il Vangelo, per entrare in possesso della gloria del Signore nostro Gesù Cristo” e la colletta: “donaci la sapienza che viene dall’alto”, la liturgia oggi ci predispone al desiderio della gloria attraverso il gusto di una sapienza speciale. Se gli uomini vogliono grandezza, allora bisogna sapere che la grandezza consiste nell’accogliere i piccoli. Ma qual è il mistero che ci viene svelato?

Il brano di oggi ripresenta per la seconda volta l’insegnamento (‘insegnava infatti ai suoi discepoli’) di Gesù sulla sua passione. Per tre volte Marco riporta la parola di Gesù sulla sua passione (cfr Mc 8,31; 9,31; 10,32) e tutte e tre le volte Gesù accompagna la sua predizione con una istruzione particolare. La rivelazione non va colta solo in rapporto al fatto che Gesù parla della sua passione, cosa che evidentemente usciva dagli schemi mentali dei discepoli, ma anche in rapporto all’istruzione che l’accompagna.

L’incomprensione dei discepoli è svelata proprio dall’oggetto del loro discutere (in effetti, non si tratta semplicemente del loro parlarsi, ma della contesa della discussione, come esprime il verbo che usa Gesù quando fa loro la domanda): “Per la via infatti avevano discusso tra loro chi fosse più grande”. Gesù non rimprovera direttamente il loro desiderio di grandezza; si limita ad indicare la via di grandezza gradita a Dio: “Se uno vuole essere il primo, sia l' ultimo di tutti e il servitore di tutti”. E poi, prendendo un bambino, aggiunge: “Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato”. Voler essere il primo significa voler essere come colui che è il Primo (“Io vi dico, tra i nati di donna non c’è nessuno più grande di Giovanni, e il più piccolo nel regno di Dio è più grande di lui”, Lc 7,28), il quale si è fatto servo di tutti fino a morire sulla croce, perché tutti potessero conoscere quanto è grande l’amore di Dio per gli uomini. Gesù parla della grandezza per il regno dei cieli, che è grandezza di rivelazione dell’amore di Dio per gli uomini. Essere ultimo non significa essere dietro a tutti gli altri, ma solo servo di  tutti perché l’amore di Dio risplenda e questo comporta che non ci sia cosa o persona più significative per il nostro cuore da indurlo a preferirle contro l’amore di Dio. Con il corollario evidente, anche se assolutamente mai scontato: non c’è grandezza vera se non nel preferire tutti a noi stessi perché solo così l’amore di Dio splende. E ciò significa che la nostra umanità vivrà della gloria del Signore.

Voler essere il primo significa voler essere ritrovato in colui che è il Primo, il quale di sé dice: “Io, il Signore, sono il primo e io stesso sono con gli ultimi” (Is 41,4), che riprende la proclamazione del nome di Dio in Es 3,14: “Io sono colui che sono”, intendendo: Io sono là dove voi mi invocherete, mi conoscerete per quello che sono quando invocandomi io dirò. Eccomi!, come lo stesso profeta Isaia testimonia: “Pertanto il mio popolo conoscerà il mio nome, comprenderà in quel giorno che io dicevo: Eccomi!” (Is 52,6). Quando Gesù vorrà descriversi, non potrà che dire: “Eppure io sto in mezzo a voi come colui che serve” (Lc 22,27) e non potrà che scegliere come immagine simbolica del mistero della sua persona il cingersi con l’asciugatoio e lavare i piedi ai discepoli, come racconta Giovanni 13. Il mistero del regno dei cieli passa di lì.

Per comprendere il riferimento ai bambini bisogna rifarsi al passo parallelo di Mt 18,1-5, dove Gesù, prima di invitare ad accogliere i bambini, fissa la condizione interiore di conversione che permette di coglierne il mistero: “Perciò chiunque si farà piccolo come questo bambino, costui è il più grande nel regno dei cieli”. Ma la traduzione ‘si farà piccolo’ è fuorviante rispetto al contesto di rivelazione dell’annuncio della passione. In effetti, il testo comporta il verbo ‘umiliare’ e la traduzione sarebbe: ‘chi umilierà se stesso come un bambino’. Il significato è più diretto rispetto all’annuncio della passione, perché Gesù è proprio colui che ha umiliato se stesso, facendo risplendere, nella sua umiliazione, tutta la potenza dell’amore di Dio per gli uomini e questo è motivo della sua grandezza. Allora il riferimento al bambino può essere compreso sia nel senso della confidenza verso il Padre sia nel senso della debolezza estrema patita e diventata luogo di gloria. A tal punto, che Gesù si confonde con ogni ‘bambino’, cioè con ogni uomo nella sua debolezza, tanto che chi onora un uomo nella sua debolezza onora lo stesso Signore Gesù e chi onora il Signore Gesù onora il Padre. I segreti di Dio sono ravvisabili in questa ‘equazione’, svelata nella sua bellezza dal Signore che per noi ha patito, è morto ed è risuscitato.

Se Giacomo, nella sua lettera, parla di una sapienza che viene dall’alto, indicandola come “pura, pacifica, mite, arrendevole, piena di misericordia e di buoni frutti, senza parzialità, senza ipocrisia”, allude proprio a quella rivelazione che ha conquistato il cuore e che lo muove con la potenza del suo dinamismo. E quando, nella preghiera dopo la comunione, domandiamo che ‘la redenzione operata da questi misteri trasformi tutta la nostra vita’, in realtà preghiamo perché il nostro cuore si apra a quella rivelazione e ne sia conquistato.

 

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Quarto ciclo

Anno liturgico B (2011-2012)

Tempo Ordinario

 

26a Domenica

(30 settembre 2012)

 

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Nm 11,25-29;  Sal 18;  Gc 5,1-6;  Mc 9,38-43.45.47-48

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Le letture di oggi evidenziano una strana realtà dei credenti: si può essere gelosi dei doni di Dio! Giosuè, il servitore fedele di Mosè, non accetta che lo spirito di profezia possa essere donato al di fuori dell’autorità del suo maestro e i discepoli di Gesù non accettano che il dono di scacciare i demoni possa essere esercitato al di fuori della loro cerchia. Dio invece è liberale e libero nell’elargire i suoi doni, non è vincolato a nulla e da nulla. L’unica condizione richiesta è che il dono sia attribuito a Dio; il che vuol dire, a livello della dinamica spirituale, che il dono a uno è elargito in funzione di tutti, che il dono fatto a ciascuno agisce nel senso di dare a tutti la comunione con Dio. Presso Dio, la gelosia degli uomini per i suoi doni rivela l’incomprensione totale dell’agire di Dio, l’incapacità di riconoscere la dinamica dell’agire di Dio.

Il discorso di Gesù però va oltre e allude ad un aspetto misterioso della vita. Rispetto a chi non ha ancora fede in lui Gesù dice: “Chiunque infatti vi darà da bere un bicchiere d’acqua nel mio nome perché siete di Cristo, in verità io vi dico che non perderà la sua ricompensa”. La sottolineatura risulta: chi accoglie voi, accoglie me. Gesù ritiene fatto a sé ogni attenzione o cortesia rivolta ai suoi discepoli. É la benedizione di Gesù su coloro che non lo conoscono, ma ne rispettano l’insegnamento con la gentilezza nei confronti dei suoi discepoli. E potremmo dedurre per tutti in generale: anche un semplice bicchiere d’acqua è degno di ricompensa, se offerto in rettitudine di cuore! L’aspetto misterioso consiste appunto nel fatto che ogni minima cosa, fatta nel nome di Cristo, apre sul mistero del regno dei cieli, che Gesù è venuto ad indicarci presente, fruibile. Per i discepoli di Gesù sembra suoni strano che Dio dia la stessa ricompensa anche a coloro che discepoli non lo sono! Sono così incomparabili il regno dei cieli ed i nostri meriti, che non è pensabile di raggiungere il regno dei cieli con qualche azione straordinaria, strepitosa, sempre immensamente impari allo scopo. La speranza viene dal fatto che nel nome di Gesù ogni minima azione può aprirsi sul regno dei cieli e ciò è accessibile a tutti perché a tutti Gesù rende vicino il Regno.

Ma Gesù si rivolge poi ai discepoli e indica la condizione di fondo che rende possibile quell’apertura misteriosa. “Se la tua mano ti scandalizza, tagliala … Se il tuo piede ti scandalizza, taglialo … Se il tuo occhio ti scandalizza, cavalo: è meglio per te entrare nel regno di Dio con un occhio solo, anziché con due occhi essere gettato nella Geenna …”. Gesù parla in modo duro, ma solo per esprimere la radicalità della possibilità che ci è offerta. Il senso delle sue parole potrebbe essere così interpretato: se l’uomo ha il coraggio di agire seguendo i desideri più profondi del suo cuore, nell’esperienza della fede, allora abbandonerà i desideri superficiali, momentanei, che sono in contrasto con quelli. Posso portare un esempio. Vengo offeso da un fratello? Il mio cuore mi convince di esigere scuse da lui per ristabilire il mio diritto e se il fratello tarda o si rifiuta io resto nella mia offesa. A volte è solo il senso della mia importanza ad essere ferito o la mia vanità o la mia presunzione. Ebbene, se applichiamo gli esempi di Gesù, potremmo spiegare: vuoi ottenere il tuo diritto? Rischi di perderti completamente. La tua importanza ti impedisce (=scandalizza) di entrare nel regno dei cieli? Abbandonala, tagliala via e tu entrerai nel regno. La difesa del tuo diritto ti fa entrare in guerra con il tuo fratello? Lasciala, tagliala via e tu vedrai il regno dei cieli. Oppure: vuoi prevalere sul tuo fratello? Stagli invece sottomesso: scoprirai la grazia del Regno. È l’invito perentorio di Gesù: una strada a metà non esiste. Esiste solo l’incapacità nostra di seguire il Signore fino in fondo, ma questa, una volta riconosciuta, senza ulteriori giustificazioni, senza più contrapposizioni con il prossimo, ci può far entrare nel regno per la via dell’umiltà. E l’aspetto più misterioso della faccenda si rivela nel fatto che quel tagliare via, in realtà, è un pervenire ad una integrità più fondamentale, più armonica, più profonda. L’esempio di un s. Francesco di Assisi è di una eloquenza suprema. Rinunciando completamente ad ogni forma di possesso, non solo dei beni materiali, ma di ogni diritto personale esigito sugli altri, scopre la grazia di una nuova fraternità che ha fatto sognare moltitudini immense e che ancora oggi sa suscitare energie segrete per seguire il Signore e stare in comunione con gli uomini.

I misteri del Regno sono i misteri della conoscenza del Signore Gesù, fuoco e sale della vita. Non per nulla il capitolo 9 di Marco termina con queste parole misteriose: “Ognuno infatti sarà salato con il fuoco. Buona cosa è il sale ... Abbiate sale in voi stessi e siate in pace gli uni con gli altri”. Potremmo interpretare: se vi lascerete convincere a percepire i misteri del Regno come tesoro del vostro cuore (ecco il fuoco) e rinuncerete sia a ogni forma di ambizione e rivalità che di impoverimento di desideri e di tensione spirituale (ecco il sale) , vivrete custoditi e lieti, potrete godere la pace tra voi come sigillo dell’opera di Dio in voi, come frutto del dono dello Spirito Santo e godimento dell’esperienza della conoscenza del vostro Maestro che per voi è venuto, ha patito, è morto ed è risuscitato.

Gli atteggiamenti interiori che rivelano l’esperienza del Regno si riducono così a due: gioire del bene (sia quello fatto da noi che da altri, in qualsiasi condizione) e non ferire mai la coscienza del prossimo, specie dei deboli e dei piccoli. Allora potremo cantare con il salmo responsoriale: “i precetti del Signore fanno gioire il cuore”.

 

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Quarto ciclo

Anno liturgico B (2011-2012)

Tempo Ordinario

 

27a Domenica

(7 ottobre 2012)

 

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Gn 2,18-24;  Sal 127;  Eb 2,9-11;  Mc 10,2-16

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La pagina della Genesi, alla quale si ispira il brano di vangelo di oggi, è densissima di significati. Si tratta del secondo racconto della creazione dove l’uomo non è più considerato come coronamento del cosmo, bensì suo principio. Quando, con l’antifona di ingresso, proclamiamo: “Tutte le cose sono in tuo potere, Signore, e nessuno può resistere al tuo volere”, alludiamo alla parola: “Non è bene che l’uomo sia solo”. Tutte le cose sono date all’uomo, ma in nessuna cosa l’uomo trova il suo compimento, la sua felicità, perché questo non è il volere di Dio per lui. Da notare che Adamo godeva pienamente della pace con Dio, non era ancora venuto il peccato a turbare l’armonia con Dio e con il creato.

Dio è Uno, ma non solo. In questo mistero insondabile del Dio, uno nella natura e tre nelle persone, rivelato da Gesù, si fonda il volere di Dio per l’uomo. È come se Dio dicesse: non è possibile che l’uomo non partecipi alla realtà più bella che mi costituisce, l’amore. Non basta che l’uomo ami Me, suo Creatore, se non può amare anche chi è della sua stessa natura; l’amore che Noi, Padre Figlio Spirito Santo, ci costituisce, voglio che anche l’uomo lo possa vivere al pari di Noi. Ora la donna, che non è tratta, come Adamo e tutte le cose, dalla polvere del suolo, ma dallo stesso Adamo, è plasmata perché l’uomo potesse ‘essere come Dio’, amare come Dio: realizzare la comunione in un’unica natura e tra persone diverse.

Il grido di Adamo: “Questa volta è osso dalle mie ossa, carne dalla mia carne” è il grido di stupore e di gioia che attraversa la storia, il cui eco ogni cuore umano raccoglie e vive nella sua vita. Ma è anche il grido di gioia del Signore Gesù che presenta al Padre la sua Chiesa, nata dal suo costato, sulla croce, luogo e visione di quell’amore che procede dalle profondità insondabili di Dio e che investe tutta la creazione. Come d’altronde è il grido di tenerezza e di gioia di ogni madre davanti alla sua creatura, eco del riconoscimento di Adamo per lei, espressione di quel ‘volere’ di Dio per l’uomo che si compie.

I farisei sembrano intuire che l’insegnamento di Gesù vada contro la Legge. Vogliono che lo dichiari apertamente per aver motivo così di accusarlo. Tutti sapevano che il ripudio era una consuetudine pacificamente accettata e che Mosè aveva avallato con un’indicazione precisa. Il passo della Scrittura corrispondente è Dt 24,1-4. Ma effettivamente non c’è un comandamento, una norma del ripudio in tutta la Scrittura. La legislazione di Mosè intendeva risolvere, a favore della donna, una certa situazione di precarietà. Come se dicesse: so che uno può ripudiare la sua donna, ma non lo faccia alla leggera perché poi non potrà più riprenderla. Ai tempi di Gesù la norma contenuta in quel passo poteva essere interpretata in senso restrittivo (vale solo se la donna abbia commesso adulterio) oppure in senso esteso (vale per qualsiasi motivo). A ragione quindi i farisei rispondono che Mosè ha solo permesso.

Tuttavia Gesù vuole arrivare al cuore del problema. In gioco non c’è l’interpretazione restrittiva o estesa di una norma e neppure la norma stessa, ma il fondamento su cui la norma prende valore. Il valore di riferimento non è la consuetudine, bensì l’agire di Dio che esprime il suo volere quanto all’uomo. E Gesù richiama l’atto della creazione: “Dio li creò maschio e femmina; per questo l'uomo lascerà suo padre e sua madre e i due saranno una carne sola”. Quella ‘benedizione’ di Dio non è mai venuta meno, nonostante i peccati e le fragilità umane. E quella ‘benedizione’ costituisce l’asse di riferimento perenne del valore del matrimonio. Ma se ci chiediamo qual è la ragione sulla quale si infrange la liceità del ripudio, per giunta riconosciuto solo all’uomo nell’ambiente giudaico, allora il riferimento all’agire di Dio acquista un valore anche dal punto di vista del cuore dell’uomo. In realtà Gesù critica la Legge e difende l’onore di Dio in quanto richiama il principio di uguaglianza tra l’uomo e la donna. Tra loro sono diversi i compiti, le modalità di agire, gli spazi e le dinamiche affettive, ma godono della stessa dignità. Nell’amore vige la stessa dignità.

È del resto significativo che il canto al vangelo riprenda un passo della prima lettera di Giovanni: “Se ci amiamo a vicenda, Dio è in noi e la sua carità in noi è perfetta” (il versetto completo suona: Nessuno mai ha visto Dio; se ci amiamo gli uni gli altri, Dio rimane in noi e l’amore di lui è perfetto in noi). Come a suggerire: la dignità dell’amore, che rende l’uomo e la donna di pari valore, deriva dal fatto che solo attraverso l’amore si può fare esperienza di Dio, della sua vicinanza e della sua conoscenza, a pari titolo tra uomo e donna. E quando un uomo e una donna sono consacrati nel loro amore, in gioco è la ‘consumazione’ dell’amore di Dio che si rivela in essi.

Solo la tensione al Regno dei cieli, però, può motivare fino in fondo la decisione di quell’amore. In effetti, la posizione di Gesù è vincolata all’accoglienza del Regno, al fatto di vederlo come Colui che compie il volere di Dio per l’uomo. Il brano è inserito in un contesto preciso, quello della sua sequela, che si chiude con il suo ingresso a Gerusalemme. I suoi discepoli sono come storditi, perché subito dopo Gesù proclama il valore del celibato volontario per il regno dei cieli, l’inciampo delle ricchezze per il sincero servizio del cuore e, per la terza volta, annuncia la sua prossima passione. Così, l’indissolubilità del matrimonio diventa una esigenza del regime messianico insieme a tutto il resto.

Il modo di ragionare e di comportarsi di Gesù è quello della fede. Anche nella pericope seguente sulla sua accoglienza dei bambini. La dignità delle persone non è in funzione del loro valore o importanza personale, ma in funzione della venuta del Regno di Dio, della possibilità cioè di godere dello splendore dell’amore di Dio. Nella vicenda umana il bambino è colui che dalla parte di Dio e dalla parte degli uomini resta ‘carne dalla mia carne e osso dalle mie ossa’, senza ulteriori discriminazioni, perché in comunione di natura. Il bambino è tutto dentro questa comunione di natura e l’augurio di Gesù è che, diventando adulto, si disponga a realizzare personalmente, nel suo volere, quella stessa comunione per trovare felicità. Così, dopo che Gesù aveva annunciato per la seconda volta che avrebbe dovuto patire e morire per essere fedele alla via di Dio e mostrare al mondo il suo amore, ha richiamato i discepoli all’amore vicendevole senza cedere a rivalità o ambizioni, a stare ‘uguali in dignità’ nell’amore tanto tra di loro quanto nei rapporti tra uomo e donna.

 

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Quarto ciclo

Anno liturgico B (2011-2012)

Tempo Ordinario

 

28a Domenica

(14 ottobre 2012)

 

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Sap 7,7-11;  Sal 89;  Eb 4,12-13;  Mc 10,17-30

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Se paragoniamo le figure di Salomone, a cui si ascrive la paternità del libro della Sapienza, da cui è tratta la prima lettura di oggi e quella del giovane ricco che chiede a Gesù come poter avere la vita eterna, comprenderemmo meglio la risposta di Gesù e lo sbigottimento dei discepoli.

Se Salomone prega per ottenere la sapienza vuol dire che la sapienza non è una conquista umana. La sapienza viene dall’alto, procede da una rivelazione accolta come partecipazione alla vita di Dio e diventata energia di vita, radice di comportamento. Il salmo responsoriale lo mostra chiaramente. Parla di ‘saziarsi di grazia’, di ‘manifestazione della gloria di Dio’, di consistenza dell’agire dell’uomo. Grazia, gloria e consistenza, che esprimono la rivelazione dell’amore di Dio per l’uomo, rivelazione che in Gesù si manifesta in tutto il suo splendore. Accogliere Gesù significa accogliere la sapienza di Dio che è splendore di amore per l’uomo. Tutto ciò che ha a che fare con quello splendore nella vita degli uomini parla della sapienza che ha lambito il cuore dell’uomo e lo rende splendente. A paragone con questa sapienza, le ricchezze e ogni altro bene di cui godere nella vita non costituiscono nulla di davvero significativo per il cuore. Salomone lo sa e prega ardentemente per partecipare a quella sapienza.

E se l’antifona di ingresso proclama, eco del salmo 129: “Se consideri le colpe, Signore, Signore chi ti può resistere? Ma con te è il perdono ...” vuol dire che l’uomo non può accedere alla sapienza sulla base dei suoi meriti, non può conoscere la sapienza a partire dal suo buon comportamento; vuol dire che si accede alla sapienza con il riconoscere il bisogno del perdono, che non equivale semplicemente a riconoscere la colpa, ma a riconoscerla davanti a Qualcuno che ci vuol far dono di Sé.

Quando si presenta il giovane ricco, sembra che l’orizzonte della sua richiesta sia molto più limitato. Non è soddisfatto delle sue ricchezze e della sua vita, e per questo corre da Gesù, ma non riesce a distinguere tra i beni il Bene. La vita eterna che mostra di volere è assai diversa da quello che Gesù chiama l’entrare nel regno di Dio. È come se non riuscisse a distinguere il comandamento dalla ispirazione che l’ha dettato. In effetti, un conto è eseguire i comandamenti, un conto è cogliere l’ispirazione segreta dei comandamenti; un conto è praticare il bene, un conto è cogliere il frutto della pratica del bene.

Il dramma dei credenti viene proprio dal fatto che si può praticare il bene e non arrivare mai a gustarne il frutto. La messa in guardia risuona nell’affermazione di Gesù: “Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo”. Si possono fare i comandamenti senza partecipare alle segrete intenzioni per cui Dio ci ha dato quei comandamenti e così non veniamo messi a parte del suo segreto e del desiderio del suo cuore, non diventiamo mai intimi suoi. È per questo motivo che Gesù, desideroso di avere amici che condividono quei segreti, invita il giovane. Non si tratta tanto di lasciare tutto, quanto di venire dietro a Gesù, l’Inviato sul quale riposa tutta la compiacenza del Padre e nel quale anche gli uomini possono gustare la benedizione di quella compiacenza. L’uomo non arriva direttamente al frutto se non stando con il Signore Gesù: è Lui che ci introduce nel Regno, in quella intimità con Dio che sazia il desiderio del nostro cuore.

Il senso della nostra vita si gioca non nel voler fare il bene, ma nel farlo per entrare nel segreto di Dio ed il segreto di Dio che ci rivela il suo amore per noi è proprio quel Figlio che è stato dato per noi. Se entrare nel segreto di Dio è impossibile all’uomo, non lo è per Dio che ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio perché anche noi, in Lui, possiamo godere della sua gioia. In questo senso si capisce bene la tristezza di Gesù davanti al giovane ricco: egli rifiuta l’ingresso ad una gioia che aveva intravisto e di cui si rassegna a non godere più. La conseguenza sarà che i comandamenti eseguiti non saranno mai per lui motivo di intimità e di gioia del cuore. E per questo non può ancora entrare nel Regno, che gli è balenato davanti.

Dalla reazione dei discepoli si deduce che la distanza tra loro e quel giovane non è poi così marcata. Anche i discepoli condividono con quel giovane il suo modo di pensare. La differenza risiede nel fatto che i discepoli sono ‘capaci’ di provare a credere a Gesù, capacità che permetterà al loro cuore, a tempo debito, di condividere i segreti di Dio che in Gesù si manifestano e si compiono lasciandosi conquistare totalmente. Pietro non pretende qualcosa se sottolinea cosa ci guadagneranno nell’aver abbandonato tutto per seguire il loro Maestro; dichiara semplicemente che a loro non è ancora dato di godere il frutto della loro rinuncia. E Gesù gli risponde con la ‘promessa’ che ciò avverrà sicuramente e in abbondanza, a patto che seguano il Maestro fino in fondo, fino a conoscere nell’esperienza del loro cuore, come esprime il canto al vangelo, ‘qual è la speranza della nostra chiamata’.

 

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Quarto ciclo

Anno liturgico B (2011-2012)

Tempo Ordinario

 

29a Domenica

(21 ottobre 2012)

 

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Is 53,2a.3a.10-11;  Sal 32;  Eb 4.14-16;  Mc 10,35-45

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Si possono cogliere le implicazioni profonde delle parole di Gesù se si collocano nel loro contesto appropriato. Gesù sta salendo a Gerusalemme e gli apostoli sono impauriti per la sua decisione. Per la terza volta annuncia la sua passione descrivendola dettagliatamente, parole che la prima lettura riprende con il quarto carme del Servo del Signore nella visione del profeta Isaia. L’annuncio del profeta, però, non va ascoltato nella tragicità degli eventi dolorosi che si intravedono, ma nella logica del salmo 32 che lo commenta, cantato come salmo responsoriale, a partire dal versetto 11: “Ma il disegno del Signore sussiste per sempre, i progetti del suo cuore per tutte le generazioni”. Introducendo il commento alla preghiera del Padre nostro scrive Massimo Confessore: “È probabile che con ‘volontà’ [disegno] di Dio, del Padre, intenda l'ineffabile abbassamento (cfr. Fil 2,7) del Figlio unigenito per la divinizzazione della nostra natura, in ragione della quale ha circoscritto tutti i secoli; e con ‘pensieri’ del suo cuore intenda i principi della Provvidenza e del Giudizio, secondo i quali regola saggiamente la nostra vita presente e quella futura, come differenti generazioni, assegnando a ciascuna il modo conveniente di operare”.

L’abbassamento del Figlio è dunque lo spazio nel quale gli uomini sono collocati per apprendere l’amore del loro Dio, mentre tutti gli eventi della vita sono retti dalla Provvidenza di Dio che ci vuole partecipi del frutto che quell’abbassamento ci ha procurato. Rivelazione, che tutta la liturgia di oggi si premura di sottolineare con la solenne dichiarazione di Gesù: “il Figlio dell’uomo è venuto per servire e dare la propria vita in riscatto per molti”, proclamato dal canto al vangelo. La sofferenza del Figlio dell’uomo nel progetto di Dio per gli uomini, che non vuole lasciare lontani da sé, può essere così intesa: se su di noi è l’amore del Signore, non ci saranno più contese e divisioni tra noi, perché i cuori saranno conquistati alla sua gloria, cioè allo splendore del suo amore, che si rivela nel Cristo che patisce e muore per noi. E se questo è il progetto di Dio, non c’è pensiero ostile o forza contraria che potrà prevalere.

Nel passo di Marco, la richiesta dei due discepoli è seria, non proviene da cuori vanesi o boriosi. È in gioco il senso stesso della loro vita, il senso della loro sequela, il senso di quell’evangelo che li ha toccati profondamente e che nella persona del Maestro ha concentrato le tensioni dei loro cuori. I due discepoli, insieme a Pietro, sono i prescelti per ogni circostanza speciale, dal Tabor al Getsemani. E Gesù riconosce la loro lealtà. Sa che sono disposti a seguirlo fin nella sua passione [di fatto Giacomo morì martire verso l’anno 44 a Gerusalemme, secondo At 12,2, mentre la tradizione che, fondandosi su questo passo, fa martire Giovanni è chiaramente posteriore. Anche in questo risalta la ‘misteriosità’ della parola di Dio: in che senso Giovanni ha bevuto il calice della passione, se non è morto martire?]. Eppure, la loro richiesta è inaccoglibile e non certo per evitare la gelosia degli altri. A cosa mirano dunque le parole di Gesù?

Gesù rifiuta ogni collegamento tra il desiderio di gloria e la sua sequela. Quel nesso è custodito da Dio solo. Non che non esista, ma guai a volerlo perseguire, perché ne scaturirebbe un fraintendimento colossale per i nostri cuori. La ragione profonda credo risieda nel fatto che ad attirare a Gesù è il Padre: “Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato” (Gv 6,44). Essere mossi dal Padre significa condividere l’amore di benevolenza che in quel Figlio ci raggiunge e ci fa riposare. Non si può desiderare altro. Volere altro significa uscire da quella dinamica e fallire il compimento dei desideri del cuore. A questa assolutezza Gesù richiama e rimanda.

Del resto si concatena bene a questa anche l’altra risposta di Gesù all’irritazione dei discepoli contro i due figli di Zebedeo: “…chi vuole diventare grande  tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti. Anche il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti”. Perché voler essere grandi comporta dover servire? Di nuovo si è rimandati al mistero del Padre che attira al Figlio. Servire significa compiere quella ‘volontà di benevolenza’ del Padre nei confronti degli uomini che in Gesù si realizza perfettamente. Compiere la volontà di benevolenza significa far risplendere, comunque, in qualsiasi condizione, quell’amore di Dio per gli uomini in cui si radica la loro dignità e la loro libertà. Si tratta di realizzare una grandezza che sa liberare la dignità degli uomini rivelando loro di essere non soltanto oggetto di amore, ma soggetti di amore. Il servire procura questo riscatto: libera la dignità degli uomini e fa risplendere la presenza del Signore. E se non porta lì, allora vuol dire che il servire messo in atto sa troppo di questo mondo, sul quale esercita il suo potere il diavolo. Quando Gesù chiede ai figli di Zebedeo: ‘potete bere il calice che io bevo?’ è come se chiedesse: potete stare solidali con il desiderio di Dio verso gli uomini e contemporaneamente stare solidali con l’umanità di modo che il suo amore risplenda liberatore per voi stessi come per loro? Questa è la posta in gioco del servire. E questa è la posta in gioco della grandezza secondo Dio, che compie, per noi e per tutti, insieme, le attese dei cuori.

Un’ultima annotazione. Nel brano di Marco, rispetto alla grandezza vale il servizio vicendevole (nel testo: sarà vostro servitore), rispetto al primato vale l’essere ultimi nel senso di essere schiavi di tutti (nel testo: sarà schiavo di tutti). Nell’ultima cena, Gesù si muove non solo come servitore, ma come schiavo e in questo rivela il segreto di Dio per l’uomo. Se l’uomo potesse condividere quel segreto, si troverebbe a muoversi come Gesù e vivrebbe la sua vita nella dinamica di liberare la dignità degli uomini in modo che sia esaltato l’amore di Dio per loro.

 

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Quarto ciclo

Anno liturgico B (2011-2012)

Tempo Ordinario

 

30a Domenica

(28 ottobre 2012)

 

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Ger 31,7-9;  Sal 125;  Eb 5,1-6;  Mc 10,46-52

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La liturgia di oggi comporta accenti assolutamente speciali se si ascoltano i brani con l’emozione di chi viene messo a parte di un segreto a lungo custodito. Possiamo introdurci con il canto al vangelo che riassume l’esperienza dell’apostolo Paolo giunto alla fine della sua vita: “Il Salvatore nostro Gesù Cristo ha vinto la morte e ha fatto risplendere la vita per mezzo del vangelo” (2Tm 1,10). La vita che ha fatto risplendere è quella che pesca nell’amore di Dio per noi tanto profondamente da non subire più alcuna mortificazione della sua energia. Le ragioni di quell’amore pescano così profondamente che nessun’altra ragione ha accesso al cuore.

Ad illustrare quella esperienza, dono del Signore Gesù, mirano le letture di oggi. La prima è tratta dal cap. 31 di Geremia, il capitolo che descrive il compiersi della promessa di Dio per gli esuli a Babilonia, l’arrivo a Sion del Signore con il suo popolo, realizzazione che allude a un’altra promessa, quella di una nuova alleanza, scritta sui cuori, quando Israele corrisponderà con la stessa dedizione all’attaccamento del Signore al suo popolo e tutto sarà riedificato nuovamente. Straordinaria è la descrizione dei sentimenti di Dio: “Ti ho amato di amore eterno … il mio cuore si commuove e sento per lui profonda tenerezza … tutti mi conosceranno … poiché io perdonerò la loro iniquità e non ricorderò più il loro peccato”. Il salmo responsoriale celebra l’esperienza del ritorno dall’esilio e la riconsegna del popolo al suo destino di bene e di felicità, come il Signore aveva promesso. Il racconto evangelico mostra invece di che cosa era foriera la profezia di Geremia, anzitutto dalla parte di Dio e poi dalla parte dell’uomo.

Gesù e Bartimeo sono i personaggi chiave che svelano la natura del segreto di Dio per l’uomo, noto a Gesù, ma avvertito potentemente anche da Bartimeo, sebbene confusamente. Troppo a lungo Bartimeo ha dovuto aspettare, troppo a lungo aveva sperato per indugiare ancora: tutto scoppia, prorompe, perdendo ogni ritegno. E Gesù, che anche lui vive con impazienza ormai la dinamica di rivelazione dell’amore di Dio per gli uomini da non vedere l’ora di arrivare a Gerusalemme, riconosce il suo desiderio, lo risana e lo rende suo compagno di viaggio, partecipe vedente del suo segreto da parte di Dio.

La tensione interiore di Bartimeo si rivela nei due appellativi con cui si rivolge a Gesù: l’uno, ‘Figlio di Davide’, gridato, l’altro, ‘Rabbunì’, sussurrato. Nei vangeli sinottici, soltanto due persone si rivolgono a Gesù con il titolo di ‘Figlio di Davide’: la donna cananea e il cieco di Gerico. Ritroviamo poi subito dopo questo appellativo nel grido festante della folla che accompagna Gesù in Gerusalemme. L’appellativo allude al mistero della persona di Gesù che si sta svelando e che nessuno però coglie. Bartimeo sembra presagirlo. Lo conferma il titolo con il quale si rivolge a Gesù quando gli arriva davanti: “Rabbunì”, evidentemente pronunciato con un tono accorato, a differenza delle grida che gli avevano ottenuto l’attenzione dello stesso Gesù. Questa espressione nasconde un mondo. Solo in un altro passo evangelico risuona quel titolo, sulla bocca di Maria Maddalena quando, nel giardino, si sente chiamare per nome da Gesù subito dopo la sua resurrezione (cfr. Gv 20,16). Immaginiamo il trasporto, l’emozione con cui viene pronunciato! Rivela la natura di un rapporto personale, intimo, con Gesù, di cui ormai ha condiviso vita e sentimenti, verso cui tende con tutta la sua anima. Anche per Bartimeo quell’appellativo nasconde una tensione fortissima dell’anima. E non solo in funzione della guarigione che invoca, ma in funzione dell’orientamento di tutta la sua vita. Tutti i verbi del brano sono intensivi: grida, non semplicemente chiama; ripetutamente grida (tra l’altro, il grido del cieco è diventato il paradigma dell’invocazione della preghiera di Gesù, della preghiera del cuore); getta via il mantello, non semplicemente se lo toglie; balza in piedi, non semplicemente si alza; si rivolge a Gesù da dentro una conoscenza che aveva già lavorato il suo cuore, sebbene non avesse ancora mai potuto vederlo in faccia e appena lo vede, si mette a seguirlo.  E dove Gesù lo porta? A Gerusalemme, perché subito dopo il miracolo, il testo del vangelo prosegue descrivendo l’entrata trionfale di Gesù in Gerusalemme, dove si compie la sua ora. La vista che gli ha ridato, nella visione della fede che ormai abita il cuore, lo porta a vedere in Lui il Regno che si compie, il Paradiso nel quale tutti i discepoli di Cristo sono chiamati ad entrare. E così la figura di questo cieco diventa l’immagine-simbolo della tensione dell’anima e della scoperta di Colui che ormai ha rapito i nostri cuori.

Ma questo è l’esito della nostra preghiera: tornare ad avere il cuore che vede compiersi, svelarsi nella nostra vita il segreto di Dio. In questa prospettiva va letta l’esultanza del credente come ripete l’antifona d’ingresso di oggi, ripresa dal salmo 105: “Gioisca il cuore di chi cerca il Signore. Cercate il Signore e la sua potenza, cercate sempre il suo volto”, perché vi renda complici del suo segreto per l’uomo. Come la versione greca e latina rendono: ‘cercate il Signore e siate fortificati’. Fortificati dalla comunanza di vita con colui che dell’amore per noi ha fatto la ragione della sua umanità. La preghiera è allora la condivisione della fretta che muove Gesù di veder compiersi il segreto di Dio in favore degli uomini, fretta che trascina i discepoli e muove il mondo. Soltanto l’invocazione gridata con tutto il cuore, senza alcun ritegno, come è avvenuto per la donna Cananea (Mc 7, 26) e Bartimeo: “Figlio di Davide, abbi pietà di me” farà vedere la fretta che muove il Signore nel suo appressarsi all’uomo aprendoci il suo segreto e sanando così il nostro cuore, tanto da trascinarci nella sua stessa dinamica perché tutti ne siano lambiti e il mondo risplenda della Sua presenza.

 

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Quarto ciclo

Anno liturgico B (2011-2012)

Solennità e feste

 

Tutti i Santi

(1 novembre 2012)

 

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Ap 7,2-4.9-14;  Sal 23;  1Gv 3,1-3;  Mt 5,1-12a

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Le preghiere e le letture di oggi mostrano in cosa consiste la gioia della santità: godere dello splendore dell’amore di Dio per noi. E tutti gli sguardi si accentrano sulla figura dell’Agnello glorioso e immolato ‘fin dalla fondazione del mondo’ (Ap 13,8). Il mondo è uscito dall’amore di Dio, di esso è intessuto e percorso, di esso parla, ma quanta tenebra ne impedisce la visione! Ebbene, oggi la chiesa mostra al mondo la sua visione: è l’Agnello che attira gli sguardi e gli uomini si ritrovano uniti nella stessa visione e possono risplendere della santità di Dio, che è splendore di amore immolato.

Lo sguardo della Chiesa non è però attirato come da un punto di fuga situato oltre la storia, come si trattasse di riempirsi gli occhi con una visione consolatoria. La sua visione parla di un’esperienza quotidiana; parla di realtà ultima ma vicina, più reale delle cose di tutti i giorni: un mondo che interpella e invita con soave insistenza. Parla al cuore degli aneliti che lo assillano, delle radici che lo costituiscono, delle tensioni che lo lavorano, dei desideri che l’abitano.

Mi piace riandare all’esperienza esaltante degli abitanti di Siena nel 1311 quando l’enorme pala (tre metri per cinque) della Maestà di Duccio da Buoninsegna fu scortata dalla bottega dell’artista alla cattedrale in trionfo, tra gli applausi della cittadinanza e posta sull’altare. La visione di tutti quei santi schierati a destra e a sinistra del trono dove, in Maria, la natura umana viene rivelata come degna dimora dello Spirito, portatrice del Figlio dell’Altissimo, doveva suscitare l’impressione di trovarsi già partecipi della loro compagnia e del loro tripudio. Oggi, forse, non avvertiamo più l’attrazione del cielo allo stesso modo, ma la speranza, di cui era portatrice quell’attrazione, è ancora necessaria per vivere e cogliere il senso della nostra vita.

L’antifona di ingresso e la preghiera dopo la comunione fanno come da cornice alla visione aperta dalle letture della festa di oggi. “Rallegriamoci tutti nel Signore in questa solennità di tutti i santi: con noi gioiscono gli angeli e lodano il Figlio di Dio”. È motivo di gioia la santità perché non può esserci gioia se non a partire da un amore accolto e condiviso. E la santità, come proclamano i beati davanti al trono dell’Agnello, è questo amore accolto e condiviso. Perché anche gli angeli sono implicati nella stessa gioia? E perché tutto si risolve nella lode del Figlio di Dio? La gioia degli angeli esprime il mistero del loro essere in adorazione: adorano un Dio che è pieno di amore per gli uomini, non per loro. L’amore di Dio per gli uomini l’ha indotto a farsi uomo come loro, di modo che l’uomo potesse, nella sua umanità, essere come il Figlio di Dio. Ne scaturisce una conseguenza: se l’amore che gli uomini si portano non parla di questo amore di Dio lodato dagli angeli, allora vuol dire che non si è più capaci di adorazione, cioè della gioia di vedere splendere l’amore di Dio per tutti gli uomini, non si è più figli di Dio. Un amore che non allude all’adorazione di Dio diventa tiranno.

Nella preghiera dopo la comunione diciamo: “... fa’ che raggiungiamo anche noi la pienezza del tuo amore”. Non preghiamo semplicemente per arrivare anche noi in paradiso, ma preghiamo perché quell’amore costituisca l’orizzonte della nostra vita. La proclamazione dei santi, come viene descritta nella prima lettura, non si riferisce ad un futuro dopo la storia, ma esprime la verità della nostra storia, verità che non passerà e riempirà tutto del suo splendore. Ma quello splendore costituisce già il senso della nostra storia, anche se spesso i nostri occhi sono così velati da non accorgercene più. Sarebbe il senso della preghiera: renderci accorti di quella verità.

La lettura della prima lettera di Giovanni parla di noi come dei ‘figli di Dio’, di cui il brano di vangelo, con le beatitudini, mostra la dinamica profonda di vita. Dice Paolo in Rm 8,14: “tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, questi sono figli di Dio”. Se ci chiediamo verso dove ci guida lo Spirito di Dio, non possiamo che rispondere: al Figlio di Dio, il quale ci ha riconciliato con Dio (cf. 2Cor 5,18; Ef 4,32). La santità parla di quel mistero di riconciliazione in atto nella storia, nella carne della propria vita, perché risplenda per tutti la possibilità della visione dell’amore di Dio per l’uomo.

È caratteristico che l’antifona alla comunione, riprendendo la serie delle otto beatitudini proclamate nel vangelo,  le riduca a tre: puri di cuore, operatori di pace, perseguitati a causa della giustizia. La purità di cuore capace di vedere Dio è quella che scaturisce dall’esperienza della compassione, della misericordia, così tipica della santità di un cuore che consola e conforta, che accoglie in benevolenza e solidarietà, che rimanda a tutti quello che lui stesso riceve, cioè il perdono rigenerante del suo Signore, che viene così conosciuto come il Salvatore, come l’Amore che ti sottrae all’abisso. La purità però, intrisa di gioia, è solo quella che si traduce in un agire che porta pace a tutti, che rende capaci i cuori di pace, che si fa dono di pace, capace di far grazia di sé come il Figlio di Dio che fa dono di sé perché l’amore di Dio risplenda. E la pace donata è a prova di persecuzione, perché niente è più caro al cuore di colui che gli ha restituito la dignità di uomo e di figlio di Dio. L’amore a prova di persecuzione procede dal fatto di sentire la mia dignità sullo stesso piano della dignità di tutti. Dire che di questi è il regno di Dio significa proclamare che il cuore dell’uomo non può saziarsi che della verità di quell’amore che giunge sanante e potente, sebbene ora si sia sempre nell’occasione di perderlo di vista, di impedirci di goderlo, di impedire agli altri di farne esperienza. Eppure, così proclama tutta la liturgia di oggi, quella verità è la verità del mondo come dei cuori. È la verità di felicità per il cuore dell’uomo, che intravede nelle beatitudini evangeliche le coordinate precise per non fallirla.

 

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Quarto ciclo

Anno liturgico B (2011-2012)

Solennità e feste

 

Commemorazione di tutti i fedeli defunti

(2 novembre 2012)

 

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Gb 19,1.23-27a;  Sal 26;  Rm 5,5-11;  Gv 6,37-40

Is 25,6a.7-9;  Sal 25;  Rm 8,14-23;  Mt 25,31-46

Sap 3,1-9; Sal 41; Ap 21,15a.6b-7, Mt 5,1-12a

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Se ieri, festa di tutti i santi, la chiesa guardava al mistero dell’amore di Dio per l’uomo dal cielo, oggi, commemorazione di tutti i defunti, lo guarda dalla terra. Ieri, lo sguardo emanava la gioia della lode; oggi, emana la fiducia della supplica. Un versetto lega idealmente le due liturgie più di tutto: “Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro” (Mt 11,28), versetto che costituiva il canto al vangelo della liturgia di ieri e che fa da sfondo a tutta la liturgia di oggi.

L’Apocalisse definisce gli ‘adoratori della bestia’, coloro che rifiutano l’esperienza dell’amore salvatore del Signore, come coloro che “non avranno riposo né giorno né notte” (Ap 14,11). Le letture di oggi invece definiscono i salvati come ‘nel riposo’ di Dio e si prega perché i defunti, coloro che ci hanno preceduto nel regno di Dio, godano il ‘riposo’ di Dio.

Quel ‘riposo’ allude al compimento di un atto di creazione particolare. Nel primo racconto della creazione, nel libro della Genesi, il testo dice che, dopo aver creato tutte le cose: “Dio, nel settimo giorno, portò a compimento il lavoro che aveva fatto”. Se i sei giorni precedenti non sono bastati a completare il lavoro, che cosa allora è stato creato il settimo giorno? La ‘menuchà’, la tranquillità, la serenità, la pace e il riposo”, rispondono gli antichi rabbini (cf. Gen Rabbà, 10, 9). È lo stato in cui non vi è contesa né lotta, né paura né diffidenza; è felicità, pace e armonia; vita del mondo futuro, vita eterna.

Quella che Gesù promette quando dice:“Venite a me, voi tutti, che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro”.

Quella che corrisponde all’invito che il re rivolge a quelli alla sua destra: “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo”. Con il ricevere il regno che è preparato fin dalla fondazione del mondo, finalmente è svelato il senso del mondo, come la risurrezione di Gesù svela il senso della sua vita e della nostra. Ciò che da sempre ha mosso il cuore di Dio ora, finalmente, si vede realizzato. In effetti, il riposo allude anzitutto alla condivisione dei sentimenti di Dio, al riposo dell’amore suo che tanta pena si è dato per convincere e conquistare; è il ristoro che segue l’incontro tra il desiderio di Dio e quello dell’uomo.

La particolarità della liturgia di oggi è data dal fatto che la chiesa supplica il suo Signore perché quel riposo sia partecipato da tutti i suoi figli, che intercede presso di lui per tutti loro, fiduciosa nella misericordia immensa di Dio che si è dato pena per i suoi figli, nessuno escluso. La supplica procede dalla fiducia nella promessa di Dio che vuole con sé i suoi figli, ma anche dal desiderio, pieno di speranza, che finalmente potrà avverarsi, come dice Giobbe: “Dopo che questa mia pelle sarà strappata via, senza la mia carne, vedrò Dio. Io lo vedrò, io stesso, i miei occhi lo contempleranno e non un altro”. Se questo desiderio alberga in ogni cuore, la chiesa supplica perché tutti possano vederlo realizzato, possano sentirlo finalmente come la verità del loro cuore.

E le letture tratte da s. Paolo aggiungono che addirittura la nostra stessa carne rifiorirà incorruttibile, addirittura nella nostra stessa carne sperimenteremo l’amore salvatore del Signore che dà la vita. È l’altra caratteristica della liturgia di oggi: la chiesa professa la sua fede nella risurrezione della carne, la sua speranza nella potenza di Dio che esprimerà la vittoria sulla morte nella nostra stessa carne.

Un ultimo aspetto vorrei sottolineare. La liturgia di oggi suscita un grande senso di solidarietà umana. Non si tratta solo di tenere viva la memoria dei propri cari, ma di fare esperienza di una solidarietà in umanità che gli affetti sanno custodire. È qualcosa che rivela la percezione di una realtà misteriosa, ma potente, coinvolgente, insopprimibile. La radice la ravviso nel brano del giudizio finale narrato da Matteo. Con il suo giudizio il re manifesterà il segreto dell’agire di Dio fin dalla fondazione del mondo, lungo tutta la storia. Manifesterà il segreto sul quale si regge il mondo e che ne costituisce la dignità assoluta: Dio ha voluto farsi solidale con l’umanità a tal punto che chi tocca l’uomo tocca Dio, chi onora l’uomo onora Dio, chi disprezza l’uomo disprezza Dio. Tale segreto rifulge nella vita del Figlio dell’uomo, perché è lui che appare davanti agli occhi di Dio in ogni uomo. In un baleno apparirà tutta la verità dell’uomo e, contemporaneamente, tutta la gloria di Dio, che è gloria di amore per noi. La solidarietà negli affetti parla di questo ‘segreto’ di Dio.

 

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Quarto ciclo

Anno liturgico B (2011-2012)

Tempo Ordinario

 

31a Domenica

(4 novembre 2012)

 

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Dt 6,2-6; Sal 17; Eb 7,23-28; Mc 12,28b-34

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Il brano del vangelo di Marco comporta una particolarità unica nei vangeli. È l’unico passo di tutto il vangelo in cui Gesù si congratula con uno scriba. Quello scriba, che alla fine riceve l’elogio di Gesù: ‘Non sei lontano dal regno di Dio’, aveva assistito alla discussione di Gesù con i sadducei a proposito della risurrezione dei morti. Aveva certamente notato che la forza del ragionamento di Gesù si basava sul fatto che Dio era proclamato Dio dei vivi: “Non avete letto nel libro di Mosè, nel racconto del roveto, come Dio gli parlò dicendo: Io sono il Dio di Abramo, il Dio di Isacco e il Dio di Giacobbe? Non è Dio dei morti ma dei viventi!”. Se Dio è Dio dei vivi, vuol dire allora che la morte non costituisce barriera per Lui; vuol dire che la morte non distrugge la Sua fedeltà che tutto sovrasta. Quando si proclama la verità di Dio, la prima cosa che il cuore enuncia è la realtà di un Dio fedele al suo amore che arriva all’uomo nonostante il suo peccato e la sua miseria, capace di tenere insieme la nostra storia. Dio non è un oggetto di conoscenza, ma un Soggetto di relazione. Non si arriva a Dio per via speculativa, ma dentro una storia di salvezza. Più ci si percepisce dentro quella storia di salvezza e più la proclamazione di Dio è assoluta e coinvolgente. È appunto quel Dio così esperito che chiede di essere amato con tutto il cuore e che fonda la possibilità stessa di amare.

L’espressione del Deuteronomio: “Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, unico è il Signore. Tu amerai il Signore tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze” ricorda che ‘nostro/mio’ ed ‘unico’ stanno sempre insieme. Tale è l’alleanza.  Secondo la bellissima espressione di Origene tale è la dinamica della nostra crescita spirituale: “Magari venisse concessa anche a me l’eredità di Abramo, Isacco, Giacobbe e divenisse mio il mio Dio allo stesso modo che è diventato Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe, in Cristo Gesù, Signore nostro”.

Gesù, rispondendo allo scriba, cita proprio quel passo, che costituisce la confessione di fede del pio israelita, la parte più solenne della preghiera quotidiana di ogni ebreo praticante: “Ascolta, Israele! Il Signore nostro Dio è l’unico Signore; amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza”. Anzitutto: ‘Ascolta’! La Parola di Dio è fondante, la mia esistenza riceve senso da quella Parola, da lì prende vigore il mio cuore. In Dio l’uomo scopre le sue radici. Io sono perché uno mi ha voluto e sarà nella conoscenza di quella ‘volontà di bene’ che potrò aprirmi al mondo mio e di tutti. ‘Il Signore nostro Dio è l’unico’: prima ancora che possa cogliermi nella mia individualità, devo riconoscermi dentro una pluralità, dentro una comunione, dentro una solidarietà. È il mistero dell’alleanza di Dio con noi che mi precede, dentro il quale mi posso raggiungere e riconoscere e accogliere. Prima c’è quello che Dio ha fatto per noi, poi in quel noi posso sentire anche me che vengo raggiunto dall’agire di Dio. Quindi: ‘Tu amerai’, cioè finalmente posso rispondere e godere tutta l’intimità di quella alleanza.

A questo punto il comandamento non è più un imperativo morale, ma la porta di accesso ad un segreto, ad un mistero di cui sono chiamato a divenire partecipe. Noi spesso leggiamo il comandamento dalla parte della paura, del sacrificio, della rinuncia a qualcosa, ma in realtà bisogna imparare a leggerlo dalla parte della passione del cuore, dell’anelito e del desiderio che ci muovono dentro e della possibilità finalmente di viverli compiutamente. Ma come è possibile se non riusciamo a percepirci prima raggiunti da un’offerta, da un’alleanza, da un amore che ci precede? La ‘scoperta’ della fede in Gesù si colloca proprio dentro quella prospettiva. È per questo che lo scriba, trovandosi sulla soglia di quella scoperta, viene elogiato.

Del resto, nella risposta di Gesù viene descritto tutto il movimento di intelligenza delle Scritture, che non può non portare a far condividere con tutti quello che ormai è percepito come il tesoro del cuore, per cui dal primo comandamento si passa direttamente al secondo, quello dell’amore del prossimo. Non però nel senso che l’amore per l’uomo è parallelo, per importanza, all’amore per Dio. Ma nel senso che l’amore per l’uomo non sarà totale che a partire dall’amore per Dio. La fede è sempre all’origine della carità, sebbene sia la carità a verificare la sincerità della fede. Così tutta l’opera spirituale, l’opera che procede dallo Spirito e che è tesa a mostrare il mistero della fraternità come rivelazione della presenza di Dio nel mondo, parte dalla condivisione del segreto di Dio in Gesù, si fa comunione di vita con Lui e diventa fonte di vita per tutti. Prima si fa la scoperta di quel che comporta l’incontro col Signore Gesù: “Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero” (Mt 11,28-30); poi si compie in noi la sua promessa, come viene proclamato nel canto al vangelo: “Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi mi ama. Chi mi ama sarà amato dal Padre mio e anch’io lo amerò e mi manifesterò a lui … Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14,21.23). Consapevoli sempre che “Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete far nulla” (Gv 15,5).

 

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Quarto ciclo

Anno liturgico B (2011-2012)

Tempo Ordinario

 

32a Domenica

(11 novembre 2012)

 

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1Re 17,10-16;  Sal 145;  Eb 9,24-28;  Mc 12,38-44

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I testi della liturgia di oggi suonano strani per il nostro modo di ragionare. Dio ordina al profeta Elia di rifugiarsi a Sarepta, in territorio pagano, perché una vedova provvederà a lui, ma quella donna non ha di che sfamarlo. Il salmo 145 esalta la fedeltà di Dio, ma non è proprio così usuale in questo mondo vedere gli oppressi liberati; i ciechi, gli storpi, i malati, risanati; gli stranieri, gli orfani e le vedove, categorie di persone per eccellenza, nell’antichità, deboli, sostenuti; gli empi, i potenti, gli oppressori, abbattuti. Gesù, che si è messo in posizione di osservazione davanti al tesoro del tempio, elogia una povera vedova per i due spiccioli che vi aveva buttato restando senza più risorse lei per vivere.

Tutta la liturgia di oggi può essere letta come il commento della Chiesa all’elogio che Gesù tributa ad una povera vedova a sua insaputa. La preghiera della vedova è proprio giunta al Signore, come canta l’antifona di ingresso: “La mia preghiera giunga fino a te; tendi, o Signore, l’orecchio alla mia preghiera”. Perché è a pieno titolo ‘familiare’ di Dio, come proclama il canto al vangelo: “Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli”. L’antifona alla comunione ne svela la ragione: “Il Signore è il mio pastore, non manco di nulla ...” Di questa certezza era colmo il suo cuore, certezza che fa dire a Gesù: “In verità io vi dico: questa vedova, così povera, ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri. Tutti infatti hanno gettato parte  del loro superfluo. Lei invece, nella sua miseria, vi ha gettato  tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere”.

Gesù non vuole stabilire una preminenza; solo gli uomini pensano sempre a riconoscersi in termini di importanza (sia essa personale, di merito, di censo, di doti, ecc.). Gesù vuol esaltare un tipo di legame, di attaccamento, di comportamento dei cuori tra Dio e i suoi servi. La vedova, nel dare tutto quello che aveva per vivere, fa affidamento alla promessa di Dio che, nella sua grandezza e generosità, non lascerà mancare il necessario ai suoi servi. Quella donna si fida del suo Dio, con tutto il suo cuore. E come sempre, la promessa di Dio, per rivelarsi nella sua gratuità, non ha bisogno di sfruttare nulla che appartenga all’uomo. Dio in effetti ha soltanto bisogno dello spazio di un cuore che si faccia semplicemente e totalmente accogliente, anche quando le apparenze sembrano giocare a sfavore.

Ma qui, dove si esprime la promessa di Dio? La traduzione potrebbe ingannare. Letteralmente si dovrebbe rendere: “dalla sua mancanza gettò tutto quanto aveva, tutta la sua vita”. Il nostro Dio è un Signore strano: non chiede né poco né tanto né tutto; chiede quello che non hai. Il gesto della vedova, che trae dalla sua mancanza quello che costituiva la sua vita, assume una valenza spirituale paradigmatica. Basta pensare ai comandamenti. Dio ci comanda: “siate miti  … portatori di pace … misericordiosi …”. Uno dà quello che ha, questa è la norma dell’agire tra gli uomini. Con Dio non vale: uno deve dare quello che non ha per averlo anche lui. Così, io, che non sono affatto mite, che non sono affatto in pace, sono richiesto di usare mitezza, di portare pace. Ma come è possibile? Sulla promessa della fedeltà di Dio al suo comandamento. Dare mitezza in nome di Dio a un fratello vuol dire fidarsi totalmente della promessa che farà gustare anche al mio cuore quella mitezza. Ed in questo gusto trovare finalmente la compagnia di colui che il mio cuore ama. Perché se già non lo amassi, come farei a fidarmi? Per questo la vedova è tanto elogiata da Gesù. Il fidarsi del suo Dio rivela il suo amore per lui, per tutte le sue cose , vale a dire il tempio e il suo popolo per cui si portavano le monete al tesoro. Ed in cambio tutta la sua vita resta assicurata, in modo inspiegabile, sulla fedeltà di Dio.

Gregorio Magno, commentando la prontezza dei pescatori a seguire la chiamata di Gesù, riflette sul fatto che a dire il vero quegli uomini avevano ben poco da lasciare essendo poveri. Ma – aggiunge – “ha molto lasciato chi non ha tenuto nulla per sé”. È il senso della fede genuina. Non importa lasciare poco o tanto; l'importante è non conservare nulla per sé, vale a dire fidarsi fino in fondo, lungo tutto il cammino, con tutte le fatiche che comporta, in modo che la grazia dell'incontro possa rivelare tutti i suoi frutti, nel tempo.

La vicenda del profeta Elia e della vedova di Sarepta allude alla medesima realtà. Se la vedova si fida della parola del profeta, il quale si era fidato della parola di Dio, non solo non muore nella sua indigenza, ma con la sua indigenza, offerta, ricostituirà la vita sua e del profeta e del popolo dei credenti in generale. Nessuna offerta di questo tipo ha un valore meramente individuale. Riguarda sempre l’insieme, coinvolgendo insieme Dio ed il suo popolo, per cui la vita in questo mondo risulterà più vivibile e la presenza di Dio più tangibile, per tutti. Il canto al vangelo: ‘beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli’, se letto in rapporto alla vedova, acquista una risonanza più profonda. Lei è di quei poveri nei quali prevale la beatitudine promessa perché la fedeltà di Dio per lei è cosa saputa, vera, tanto da scavare nella sua indigenza la gioia del vivere, proprio perché con il suo Dio. Ma la beatitudine va letta non solo in rapporto al fatto che i poveri in spirito avranno parte al regno dei cieli, ma anche in rapporto al fatto che, se incontreremo questi poveri, avremo toccato il regno dei cieli, il regno dei cieli sarà reso visibile a noi. Così in effetti prega la chiesa dopo la comunione: “La forza dello Spirito Santo, che ci hai comunicato in questi sacramenti, rimanga in noi e trasformi tutta la nostra vita”. Come a dire: lo Spirito del Signore radichi i nostri cuori nello stesso atteggiamento di fede della vedova che ha strappato a Gesù quell’elogio pieno di ammirazione.

 

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Quarto ciclo

Anno liturgico B (2011-2012)

Tempo Ordinario

 

33a Domenica

(18 novembre 2012)

 

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Dn 12,1-3;  Sal 15;  Eb 10,11-14.18;  Mc 13, 24-32

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Il ciclo dell’anno liturgico volge al termine e la chiesa contempla le cose ultime per collocare nella loro vera luce le cose presenti. Il capitolo 13 di Marco mescola in un’unica sequenza gli avvenimenti della morte-risurrezione di Gesù, della distruzione di Gerusalemme, delle tragedie della storia umana, delle prove e del martirio dei credenti, dei segni cosmici alla fine dei tempi, del giudizio finale imminente. Con la predizione della rovina del tempio, avvenuta per opera dei romani nell’anno 70 d.C., mentre i lavori di ricostruzione, iniziati sotto Erode il Grande negli anni 20/19 a.C., si erano conclusi nell’anno 64 d.C., Gesù mette in guardia i suoi discepoli: sappiate sfuggire all’inganno, vegliate! Quell’avvertimento, Vegliate, è l’ultima parola del cap. 13, quella che introduce il racconto della passione di Gesù. Tutto è orientato alla manifestazione della gloria del Signore crocifisso, non semplicemente nel suo aspetto giudicante alla fine dei tempi, ma nel suo aspetto di rivelazione dell’amore del Padre per i suoi figli che costituisce l’unico mistero significativo per il nostro cuore. Così prega la colletta: “donaci il tuo Spirito, perché operosi nella carità attendiamo ogni giorno la manifestazione gloriosa del tuo Figlio”. La stessa immagine suggerisce il canto al vangelo: “Vegliate in ogni momento pregando, perché abbiate la forza di comparire davanti al Figlio dell’uomo” (Lc 21,36), da intendere: possiate essere degni di veder manifestato in voi l’amore del Signore in modo tale da vivere la vostra vita nel segno del suo splendore.

L’antifona di ingresso, che riprende alcuni versetti del cap. 29 del profeta Geremia, offre il contesto di intelligenza per le parole di Gesù: “Dice il Signore: «Io ho progetti di pace e non di sventura; voi mi invocherete e io vi esaudirò, e vi farò tornare da tutti i luoghi dove vi ho dispersi»”. È la testimonianza del profeta fatta recapitare per lettera agli esiliati in Babilonia invitati ad accettare la prova nell’attesa dell’intervento liberatore del Signore, senza cedere a false promesse di falsi profeti per false e presunte liberazioni che non ci saranno. Se Gesù è venuto per mostrare la grandezza dell’amore del Padre e per riunire i figli di Dio dispersi, proprio in questo possiamo vedere i progetti di pace di Dio realizzarsi. L’insistenza sulle prove, sui dolori, sulle tribolazioni, sul martirio, che il linguaggio apocalittico esalta con immagini penetranti, non fa che acuire la vista sull’unicum necessario, mantenere cioè il cuore in quell’amore che da lui discende e che a lui riporta perché tutti possa conquistare, finalmente. Al di fuori di lui, progetto di pace di Dio per l’uomo, quell’amore non si attinge e la tragedia della storia resta solo tragedia, la dispersione resta solo un sogno irrimediabilmente infranto che acuisce la rabbia e la separazione tra gli uomini e appressa semplicemente la fine senza far raggiungere il fine. Per questo, quando la prova incombe, la tentazione assale, lo sconvolgimento irrompe, l’avvertimento che risuona è sempre il medesimo: badate bene, state attenti, vegliate! Non ingannate il vostro cuore, non lasciatevi ingannare!

Perché “chi avrà perseverato fino alla fine sarà salvato” (Mc 13,13). La consolazione scaturisce dalla lucidità della coscienza che Lui “è vicino, è alle porte” per indicarci “il sentiero della vita, gioia piena alla tua presenza” (Sal 15,11). Nel bene e nel male che accade, Lui è vicino, possiamo attenderne la manifestazione al nostro cuore, certi che il futuro si decide sulla fedeltà alla sua parola, certi che il male verrà riscattato. Come diceva Gesù a proposito della malattia di Lazzaro: “questa malattia non porterà alla morte, ma è per la gloria di Dio” (Gv 11,4).

Proprio perché crediamo che l’esito finale sarà la manifestazione gloriosa del regno di Dio, per cui tutti vedranno quanto è grande l’amore di Dio per i suoi figli sia che se ne partecipi nella gioia sia che ce ne si senta dolorosamente privati, ci diamo premura perché anche il nostro agire, nell’oggi che ci è dato, sia teso a rivelare quella manifestazione, a far sì che appaia al nostro cuore, oggi, nel suo splendore, quell’amore che ci è stato riversato nella persona del Figlio dell’uomo. Così, ogni evento della fine non può che ricollegarsi all’evento della morte-risurrezione del Figlio dell’uomo il quale davvero consuma la storia aprendola al suo fine, alla rivelazione di quel progetto di pace. La domanda angosciosa che ci accompagna resta sempre la medesima: ma perché la storia deve contemplare nel suo seno tanto dolore? Perché il Figlio dell’uomo è anche l’uomo dei dolori? Si convince un cuore dell’amore che gli porti se non vede che puoi anche soffrire per lui? E la risposta resta segreta nel cuore di Dio, segreto a cui il cuore attinge quando non si premura d’altro che di condividere il progetto di pace di Dio. Proprio come canta l’antifona alla comunione: “Il mio bene è stare vicino a Dio, nel Signore Dio riporre la mia speranza”. Oppure, come nel ritornello del salmo responsoriale: “Proteggimi, o Dio: in te mi rifugio”. Da intendere: veniamo custoditi proprio dalla manifestazione dell’amore del Signore al nostro cuore, che così ne resta conquistato, in modo tale che quell’amore risulta il segreto vero della nostra umanità, la nostra radice di vita.

 

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Quarto ciclo

Anno liturgico B (2011-2012)

Solennità e feste

 

N.S. Gesù Cristo Re dell’universo

34a Domenica del Tempo Ordinario

(25 novembre 2012)

 

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Dn 7,13-14;  Sal 92;  Ap 1,5-8;  Gv 18,33b-37

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Nella colletta della festa di oggi, ultima domenica dell’anno liturgico, chiediamo di comprendere che servire è regnare. Lo chiediamo perché toccati dallo splendore della regalità di Gesù. Quanti misteri però restano celati in questo riconoscimento! Gesù si proclama re solo davanti a Pilato quando ormai è chiaro l’esito del processo intentato contro di lui: sarà condannato alla crocifissione. L’aveva più volte annunciato e Giovanni, che non parla mai nel suo vangelo della predicazione del regno a differenza dei sinottici, si era fatto premura di punteggiare il suo racconto con quella predizione: “E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell' uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna. Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna” (Gv 3,14-16); “Quando avrete innalzato il Figlio dell' uomo, allora conoscerete che Io Sono e che non faccio nulla da me stesso, ma parlo come il Padre mi ha insegnato” (Gv 8,28); “E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me” (Gv 12,32).

Gesù collega il suo innalzamento alla sua regalità e sulla croce, a condanna eseguita, diventerà il re della gloria, come gli antichi crocifissi riportavano sopra la sua testa. Così apparirà la verità per testimoniare la quale è appunto venuto a noi quel ‘re, crocifisso’.

Gesù abbina il titolo di re alla verità: “Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce”. La regalità di Gesù ha a che fare con la verità. E propriamente, la verità ha a che fare con l’amore. É la proclamazione ferma, sovrana, del brano dell’Apocalisse: “A Colui che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue, che ha fatto di noi un regno, sacerdoti per il suo Dio e Padre…”. A Lui, all’Agnello immolato fin dalla fondazione del mondo, a colui che costituisce l’inizio e la fine, a lui tutti volgeranno gli sguardi perché tutti vanno in cerca della verità che acquieta solo quando si rivela come amore, amore per noi.

Così l’espressione ‘chiunque è dalla verità ascolta la mia voce’ acquista il significato: chiunque vuol compiere in verità i desideri del suo cuore ascolta la mia voce, vale a dire regna con me, serve come me. Servire e regnare si richiamano a vicenda perché ambedue sono in funzione dell’amore che risplende in verità: nel servire è allusa la fedeltà all’alleanza con Dio, mentre nel regnare è allusa la libertà dei cuori liberata da odio e tristezza e perciò sovrana. L’alleanza si traduce in desiderio di fraternità, dove ormai non si tratta più di attirare a me le simpatie del Re, che è già tutto dalla mia parte, ma di condividere con lui i suoi sentimenti verso l’umanità intera. Posso così chiamare mio il mio Re, quando rispetto a tutti sono soltanto servo perché condivido ormai il suo segreto, che è il suo desiderio di comunione con gli uomini che diventa lo scopo supremo dell’agire umano.

C’è però anche un altro aspetto che merita attenzione. La realtà del servire/regnare partecipa delle stesse caratteristiche del regno di cui parla Gesù: “il mio regno non è di questo mondo”. Ciò significa che quell’amore che risplende in verità è destinato a trasfigurare il mondo, ma non proviene da questo mondo né ha qualcosa da rivendicare a questo mondo. Perciò non può modellare su questo mondo la sua realizzazione, non può trovare in questo mondo la giustificazione evidente. Eppure quell’amore esprime la verità del mondo nel senso che lo apre e lo porta al compimento agognato. Così tutti gli amori di questo mondo non sono che ombra di quella carità divina a cui in ultima analisi rimandano, come tutti i poteri di questo mondo sono ombra del potere in verità di Dio sul quale sono misurati. Quando i vari poteri ed i vari amori distolgono da quella carità divina rinnegano le fonti stesse della loro legittimità e diventano causa di tormento, sebbene i cuori non cessino segretamente di anelare sempre, nonostante tutto, a quella carità divina che sola rende ragione dei loro desideri.

Quando, nell’orazione dopo la comunione, preghiamo: “Fa’ che obbediamo con gioia a Cristo, Re dell’universo, per vivere senza fine con lui, nel suo regno glorioso”, domandiamo di imparare ad assumere il servizio all’umanità come condivisione del segreto di Dio perché si manifesti lo splendore di verità del suo amore per noi, in mezzo a noi. E come viverlo senza che i nostri sguardi si volgano con tenerezza a quel ‘re, crocifisso’ per tutti?