Quarto
ciclo
Anno
liturgico B (2011-2012)
Tempo
di Quaresima
4a Domenica
(18 marzo
2012)
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2Cr
36,14-16.19-23; Sal 136; Ef 2,4-10; Gv 3,14-21
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Lo sguardo
della chiesa, lungo tutta la liturgia quaresimale, è teso alla Pasqua e si
fissa sul Figlio dell’uomo che viene innalzato sulla croce. La liturgia di oggi
sfrutta dei punti di osservazione privilegiati. La prima lettura, tratta dal
secondo libro delle Cronache, si conclude con l’invito ai deportati in
Babilonia a salire a Gerusalemme e tornare a godere dell’alleanza che Dio
rinnova loro. Questa pagina conclude la terza parte, denominata Scritti, della Bibbia ebraica; è
l’ultima pagina della Bibbia secondo la disposizione del canone ebraico. La
liturgia collega il salire a
Gerusalemme, così tipico della tensione dell’anima e della storia degli ebrei,
con il salire di Gesù alla città
santa per la sua Pasqua, per l’esaltazione
sulla croce, argomento del suo colloquio con Nicodemo. L’alleanza di Dio
con il popolo è rivisitata con l’immagine dell’offerta della salvezza in Gesù
da parte del Padre che “ha tanto amato il
mondo da dare il Figlio unigenito”, come proclama il canto al vangelo.
Nel suo
colloquio con Nicodemo Gesù introduce il paragone del serpente di bronzo,
secondo la narrazione di Numeri 21,4-9, con l’affermazione: “Nessuno è mai salito al cielo fuorché il
Figlio dell’uomo che è disceso dal cielo” (Gv
3,13). Come il serpente di bronzo innalzato nel deserto recava guarigione a
coloro che l’avessero guardato, così sarà di Gesù quando sarà innalzato sulla
croce. Gesù sta istruendo Nicodemo; lo sta introducendo al mistero di Dio, al
mistero dell’immenso amore di Dio per l’uomo che in Gesù riceve il suo sigillo
definitivo, ultima e ultimativa rivelazione di Dio. La forza del ragionamento
di Gesù sta in un particolare: l’altezza, il fatto che per dare salvezza Gesù
debba essere innalzato. Questo particolare nasconde la modalità della
rivelazione di Dio e costituisce perciò per l’uomo l’accesso a quella
rivelazione. È da quell’altezza che ci viene la vita eterna, perché da
quell’altezza si rivela in tutto il suo splendore l’amore del Padre per l’uomo
e l’intimità del Figlio con Lui che di quello splendore è il testimone per
eccellenza. Perché quell’altezza? Di cosa parla quell’altezza?
Spesso gli
antichi crocifissi, al posto dell’iscrizione di condanna (in latino, INRI= Gesù nazareno re dei giudei) portavano il titolo ‘re
della gloria’. È la gloria di un amore che manifesta la sua radice dall’alto
proprio quando dal basso viene vilipeso e calpestato. È la gloria di un amore
che rimane libero nel suo dono proprio quando è rifiutato e negletto. Ma, come
dice Gesù: “nessuno è mai salito al cielo fuorché il Figlio dell’uomo che è
disceso dal cielo”. Da interpretare oramai: non si può salire al cielo se non
discendendo. L’innalzamento della croce mostra la reale discesa di Dio fino
all’uomo, fino a consegnarsi all’uomo, fino a star sottomesso all’uomo che lo
tradisce e lo calpesta. E proprio perché custodisce la sua divinità nell’essere
calpestato, rivela tutta la potenza di un’umanità che è irraggiamento dello
splendore di Dio, un’umanità che tutta si muove nell’amore perché sia vinto
l’odio, perché il mondo torni ancora a risplendere della presenza di Dio. Così
anche per noi non esiste altro modo di salire a Dio se non quello di
discendere, di stare sottomessi perché risplenda l’amore di Dio. Quando s.
Francesco di Assisi parla di perfetta letizia allude proprio a questo mistero.
La
rivelazione dell’umanità come luogo dello splendore di Dio in questo mondo non
può che venire dall’alto. Quello che Giovanni chiama ‘dall’alto’,
Paolo, nella sua lettera agli Efesini, chiama ‘per grazia’. ‘Dall’alto’ e ‘per grazia’ rivelano il fatto che in Gesù Dio
ha fatto grazia di Sé, ha fatto dono di Sé all’uomo e in quel dono l’uomo può
ritrovare la potenza della sua umanità. In tal senso acquista particolare
risonanza l’altra espressione che usa l’evangelista Giovanni: “Chi opera la verità viene alla luce”.
Operare la verità è un’espressione semita che si riferisce al fatto di mettere
in pratica i comandamenti. Ma la sfumatura essenziale di significato risulta
ormai questa: i comandamenti non sono causa di meriti, ma autorivelazione
di Dio che partecipano, all’uomo che li accoglie, la Sua stessa vita, che è
amore per noi. Ciò significa che i comandamenti ci aiutano a ritrovare quella
‘umanità’, rivelata dal Signore Gesù, che costituisce la vocazione dell’uomo e
che in Gesù riceve il suo sigillo. Se Dio risplende nell’umanità perché sta
sottomesso all’uomo fino a farsi calpestare senza lasciarsi distrarre dal suo
amore di benevolenza, anche l’uomo vedrà lo splendore di Dio se sta sottomesso
ai suoi fratelli senza lasciarsi vincolare da ingiustizie o malvagità. Ma dovrà
avere lo sguardo fisso su Colui che di quell’amore, ferito e appassionato, è il
testimone per eccellenza, in umanità.
Se Gesù si
premura di ricordare a Nicodemo e ai suoi discepoli che il Figlio dell’uomo deve essere innalzato, vuol dire che si
tratta di un evento che non risponde alle nostre attese, che noi non avremmo
mai immaginato perché comporta la rivelazione di un segreto di Dio. E non solo
di un segreto nel senso che ci fa conoscere qualcosa che fino ad allora non era
noto, ma di un segreto nel senso che caratterizza l’intima vita di Dio e quindi
caratterizzerà l’intima vita dei suoi figli. Se Gesù deve essere innalzato,
deve morire in croce, non è solo in ragione del peccato dell’uomo, ma della
manifestazione del segreto della vita divina che a tutti verrà comunicata in
modo da vivere di quella pienezza che appartiene solo a Dio. Gesù è l’Agnello
immolato fin dalla fondazione del mondo, come suggerisce il testo dell’Apocalisse
13,8 letto secondo la volgata (“in libro
vitae Agni, qui occisus est
ab origine mundi”). Il mistero adombrato dalla
Parola di Dio è che la sofferenza non è legata al peccato, ma al dono dell’essere
da parte di Dio, alla creazione stessa e quindi alla natura della stessa vita
trinitaria che Gesù è venuto a svelarci e a comunicarci perché ne diventiamo
partecipi e possiamo così non subire più la morte. Se Dio conosce le nostre
sofferenze non è solo perché le vede in noi, ma perché le sente sue e la
salvezza che ci dona è proprio quella di farci vivere quella sofferenza in
quell’abisso di amore che costituisce la rivelazione suprema della realtà di
Dio. Gesù è proprio la prova e la misura dell’amore di Dio per noi e come
suonano vere le parole di Paolo ai Romani 8,35.39: “chi ci separerà dall’amore di Cristo? ... Io sono persuaso che né morte
né vita ... né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio in
Cristo Gesù, nostro Signore”!
§^§^§
I TESTI DELLE LETTURE (dal “Messale
Romano”):
Prima Lettura 2Cr
36,14-16.19-23
Dal secondo libro delle Cronache
In quei
giorni, tutti i capi di Giuda, i sacerdoti e il popolo moltiplicarono le loro
infedeltà, imitando in tutto gli abomini degli altri popoli, e contaminarono il
tempio, che il Signore si era consacrato a Gerusalemme.
Il Signore,
Dio dei loro padri, mandò premurosamente e incessantemente i suoi messaggeri ad
ammonirli, perché aveva compassione del suo popolo e della sua dimora. Ma essi
si beffarono dei messaggeri di Dio, disprezzarono le sue parole e schernirono i
suoi profeti al punto che l’ira del Signore contro il suo popolo raggiunse il
culmine, senza più rimedio. Quindi [i suoi nemici] incendiarono il tempio del
Signore, demolirono le mura di Gerusalemme e diedero alle fiamme tutti i suoi
palazzi e distrussero tutti i suoi oggetti preziosi.
Il re [dei
Caldei] deportò a Babilonia gli scampati alla spada, che divennero schiavi suoi
e dei suoi figli fino all’avvento del regno persiano, attuandosi così la parola
del Signore per bocca di Geremìa: «Finché la terra
non abbia scontato i suoi sabati, essa riposerà per tutto il tempo della
desolazione fino al compiersi di settanta anni».
Nell’anno
primo di Ciro, re di Persia, perché si adempisse la parola del Signore
pronunciata per bocca di Geremìa, il Signore suscitò
lo spirito di Ciro, re di Persia, che fece proclamare per tutto il suo regno,
anche per iscritto: «Così dice Ciro, re di Persia: “Il Signore, Dio del cielo,
mi ha concesso tutti i regni della terra. Egli mi ha incaricato di costruirgli
un tempio a Gerusalemme, che è in Giuda. Chiunque di voi appartiene al suo
popolo, il Signore, suo Dio, sia con lui e salga!”».
Salmo Responsoriale
Dal Salmo 136
Il ricordo di te, Signore, è la
nostra gioia.
Lungo i
fiumi di Babilonia,
là sedevamo
e piangevamo
ricordandoci
di Sion.
Ai salici di
quella terra
appendemmo
le nostre cetre.
Perché là ci
chiedevano parole di canto
coloro che
ci avevano deportato,
allegre
canzoni, i nostri oppressori:
«Cantateci
canti di Sion!».
Come cantare
i canti del Signore
in terra
straniera?
Se mi
dimentico di te, Gerusalemme,
si dimentichi
di me la mia destra.
Mi si
attacchi la lingua al palato
se lascio
cadere il tuo ricordo,
se non
innalzo Gerusalemme
al di sopra
di ogni mia gioia.
Seconda Lettura
Ef 2,4-10
Dalla lettera di san Paolo apostolo
agli Efesìni
Fratelli,
Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amato, da
morti che eravamo per le colpe, ci ha fatto rivivere con Cristo: per grazia
siete salvati.
Con lui ci
ha anche risuscitato e ci ha fatto sedere nei cieli, in Cristo Gesù, per
mostrare nei secoli futuri la straordinaria ricchezza della sua grazia mediante
la sua bontà verso di noi in Cristo Gesù.
Per grazia
infatti siete salvati mediante la fede; e ciò non viene da voi, ma è dono di
Dio; né viene dalle opere, perché nessuno possa vantarsene. Siamo infatti opera
sua, creati in Cristo Gesù per le opere buone, che Dio ha preparato perché in
esse camminassimo.
Vangelo Gv 3,14-21
Dal vangelo secondo Giovanni
In quel
tempo, Gesù disse a Nicodèmo:
«Come Mosè
innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio
dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna.
Dio infatti
ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito perché chiunque crede in
lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il
Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per
mezzo di lui. Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato
condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio.
E il
giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le
tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie. Chiunque infatti fa
il male, odia la luce, e non viene alla luce perché le sue opere non vengano
riprovate. Invece chi fa la verità viene verso la luce, perché appaia
chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio».