Quarto ciclo
Anno liturgico A (2010-2011)
Tempo di Avvento
1a Domenica
(28 novembre 2010)
_________________________________________________
Is
2,1-5; Sal 121; Rm 13,11-14a;
Mt 24,37-44
_________________________________________________
La liturgia, in queste quattro
settimane che precedono il Natale, ruota attorno all’attesa del Salvatore nelle
sue tre venute: la venuta nella carne del Figlio di Dio fatto uomo a Betlemme,
la venuta del Cristo alla fine dei tempi come giudice glorioso e la venuta mistica
del Signore nel cuore di ciascuno che lo accoglie.
La costatazione che la liturgia
sottolinea nella prima domenica di avvento è la seguente: il Signore tarda. La
vita allora come va giocata? Nella sua attesa. Ecco il senso della vigilanza a
cui il vangelo ci richiama fortemente. Si tratta di cogliere la natura di detta
vigilanza, di declinarla nella nostra vita per non fallire lo scopo della vita.
L’avvertimento di Gesù segue
l’annuncio degli eventi drammatici della fine quando tornerà il Figlio
dell’uomo e giudicherà il mondo. L’evangelista Matteo ha già vissuto il dramma
della fine con l’assedio e la caduta di Gerusalemme del 70 d.C. e sa che però
non è ancora la fine. Il tempo della storia che continua, nel dramma, ha per i
credenti un unico scopo: dare testimonianza a Gesù, permettere alla salvezza
operata da Gesù, come dice il canto al vangelo: “Mostraci, Signore, la tua
misericordia e donaci la tua salvezza”, di manifestare la sua potenza nel mondo
fino a che tutti se ne lascino conquistare. È ciò che proclama la visione
escatologica del profeta Isaia con l’invito per tutti i popoli: “Venite, saliamo sul monte del Signore ...
venite, camminiamo nella luce del Signore”. Quella tensione escatologica
non costituisce tanto il finale della storia, ma la dinamica nascosta della
storia, quella che fornisce il criterio di discernimento del valore dell’agire
in questo mondo.
L’avvertimento di Gesù ai suoi
discepoli: “Vegliate dunque” è in
funzione di quella tensione escatologica, come se dicesse: non fate come al
tempo di Noè quando, nonostante fosse avvertita, la gente non si avvide di
nulla; scopritela, avvertitela, viveteci dentro, fatevene la ragione del
vivere. Tanto che il contenuto della vigilanza verrà espresso con le tre
parabole successive delle dieci vergini, dei talenti e del giudizio finale,
indicando così dove far convergere i propri desideri, come giocare la propria
responsabilità e in che cosa vivere il valore della vita. E quando aggiunge: ‘tenetevi pronti’, l’allusione evidente,
come del resto suggeriscono le parabole del padrone che torna dalle nozze, è al
servizio vicendevole perché tutti possano vedere lo splendore del regno.
In questo modo il tempo della nostra
vita, il tempo dell’attesa, si apre al sogno che la colletta descrive: “O Dio,
Padre misericordioso, che per riunire i popoli nel tuo regno hai inviato il tuo
Figlio unigenito, maestro di verità e fonte di riconciliazione, risveglia in
noi uno spirito vigilante, perché camminiamo sulle tue vie di libertà e di
amore fino a contemplarti nell’eterna gloria”. Ecco il sogno, per noi stessi e
per tutti: avere la possibilità concreta di vivere nella benevolenza senza
antagonisti né avversari né tanto meno nemici. È la realizzazione della
vocazione dell’uomo come essere per la comunione. Chi può garantire tale
possibilità è quel Gesù, di cui aspettiamo il Natale.
La vigilanza a cui ci invita la
liturgia è così finalizzata a uno scopo preciso: essere in condizione di
realizzare la vocazione all’umanità che il Signore Gesù vive nel suo splendore
originario. Per questo san Paolo dichiara: “Rivestitevi
invece del Signore Gesù Cristo”, per vivere la storia nella benevolenza,
senza paure, tanto da essere addirittura custoditi da un’armatura di luce (“indossiamo le armi della luce”). Luce,
che consiste nell’assumere il principio della riconciliazione come unico
fondamento dell’agire. Si esercita vigilanza nello spirito quando ci si sforza
di radicarci sempre più autenticamente, sempre più profondamente, sempre più
concretamente, in quella riconciliazione di cui Dio ci ha fatto dono, in
Cristo, in modo da estenderla a tutto in noi e a tutti dovunque. La vigilanza
ha senso nello stare fermi in quell’unico punto: se Dio ha fatto grazia di Sé a
noi, allora anche noi possiamo fare grazia di noi a tutti. E così il mondo
tornerà a risplendere, perché ognuno potrà sperimentare quello che dice il
salmo: “il Signore si confida con chi lo
teme: gli fa conoscere la sua alleanza” (Sal 24,14), da intendere, come del
resto suggerisce lo stesso testo ebraico del versetto: il segreto (o
l’intimità) del Signore, cioè la sua offerta di benevolenza nel dono di Sé che
ci fa, vale per chi ne fa il punto fermo della sua vita e ha posto tutta
l’attesa del suo cuore nel condividerne la gioia con tutti.
Posso ancora aggiungere che nel
mistero della fede, il rivestirsi di Cristo diventa principio e radice di una
nuova umanità, che porta, sì, le ferite del male, ma che dal male risulta
imprendibile, cioè che non si fa più portar via la libertà e l'amore ottenuti.
Allora diventa motivo di preghiera pressante, tipica dell'Avvento,
l'invocazione ‘sorga questo Giorno, finalmente’. Si possa finalmente rivestire
il nostro cuore di quest’armatura di luce, per camminare stabilmente sulla via
della libertà e dell'amore, di cui la venuta di Cristo nella carne è il segno
di speranza per l'umanità e la sua venuta gloriosa alla fine dei tempi è il
sigillo alla nostra storia trasformata ormai in regno di Dio.
§*§*§*§*§*§*§*§*§*§
Quarto ciclo
Anno liturgico A (2010-2011)
Tempo di Avvento
2a Domenica
(5 dicembre 2010)
_________________________________________________
Is
11,1-10; Sal 71; Rm 15,4-9;
Mt 3,1-12
_________________________________________________
Il grido del Battista risuona forte
lungo tutto l’Avvento: “Convertitevi ...
Fate un frutto degno della conversione”. A differenza di Luca, che colloca
gli eventi nella storia pagana, il 15° anno del regno di Tiberio, cioè l’anno
28/29 d.C., Matteo si premura invece di coglierne il significato nella storia
sacra e usa l’espressione ‘in quei giorni’,
che nel linguaggio dell’Antico Testamento non si riferisce al passato ma al
futuro, vale a dire: siamo davanti agli ultimi tempi! In effetti, il Battista è
narrato in funzione di testimonianza per ‘colui che viene dopo’, ‘il più
grande’ e il racconto punta su Gesù, il Messia, di cui il Battista indicherà la
presenza nel mondo. Il particolare che rivela la visione dell’evangelista è
dato dal fatto che qui Matteo presenta la predicazione del Battista per il
battesimo, semplicemente, senza aggiungere ‘per la remissione dei peccati’,
espressione che invece riporterà nelle parole di Gesù all’istituzione
dell’eucaristia in 26,28. Il Battista conferisce un battesimo per la
conversione, mentre Gesù solo realizzerà la promessa della remissione dei
peccati.
La liturgia si premura di illustrare
appunto il mistero della conversione, che si risolve nel godere la grazia
tipica del Messia, cioè quella di gustare il regno di Dio ormai venuto. In
questo caso, conversione non indica tanto cambiamento di mentalità, ma ritorno
incondizionato al Dio dell’alleanza, che cancella i peccati e introduce nella
comunione di vita con lui.
Lo annuncia splendidamente il brano
di Isaia con la visione di una pacificazione universale e con la promessa: “Non agiranno più iniquamente ... perché la
conoscenza del Signore riempirà la terra come le acque ricoprono il mare”
(Is 11,9). Il salmo responsoriale 71 lo conferma e descrive la giustizia di Dio
operante tra gli uomini tanto che tutti benediranno il Signore perché la sua
gloria riempie la terra. Quando il profeta Geremia descriverà il compimento
della nuova alleanza, non farà che indicare la stessa cosa: “Allora io sarò il loro Dio ed essi saranno
il mio popolo. Non dovranno più istruirsi l’un l’altro, dicendo: “Conoscete il
Signore”, perché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande – oracolo
del Signore –, poiché io perdonerò la loro iniquità e non ricorderò più il loro
peccato” (Ger 31,33-34). Tutti mi conosceranno, perché tutti potranno
accogliere il perdono del Signore e si ritroveranno uniti nella misericordia
del Signore che tutti accomuna.
La promessa di bene per gli uomini
da parte di Dio si realizza così. La conversione procede dal fatto che il
nostro cuore custodisce, anche se come sepolta, la coscienza di un’alleanza che
gli è stata offerta da Dio e che Lui non si è mai rimangiata, la coscienza di
una felicità possibile, forse persa, ma sempre desiderabile e, nella speranza,
ancora vivibile. Non è però scontata e per questo la chiesa fa pregare: “Dio
grande e misericordioso, prepara con la tua potenza il nostro cuore a
incontrare il Cristo che viene” (colletta del mercoledì della prima settimana
di avvento). Ma fondamentalmente la conversione è un credere ancora possibile
per il nostro cuore la felicità promessa da Dio, che in Gesù si fa accessibile
e godibile.
E la felicità, di cui il cuore
custodisce l’anelito, non può provenire che da quella nuova umanità fatta
germogliare da Gesù in giustizia-mitezza-pace, di cui parla la colletta di
oggi: “Dio dei viventi, suscita in noi il desiderio di una vera conversione,
perché rinnovati dal tuo Santo Spirito sappiamo attuare in ogni rapporto umano
la giustizia, la mitezza e la pace, che l’incarnazione del tuo Verbo ha fatto
germogliare sulla nostra terra”. Giustizia
nel senso di tornare a sentirci non solo oggetto di amore, ma soggetti degni di
amore; mitezza nel senso di non
lasciarsi più deviare da nulla rispetto allo scopo da perseguire, che è la
fedeltà al bene comunque; pace nel
senso di quel regno di Dio giunto a noi, cercato sopra ogni cosa, che ci
ricolloca nella giustizia e ci induce alla mitezza.
Mi raccontava una sorella in
missione in Cameroun la meraviglia provata davanti alle parole di un anziano
abbandonato che era andata a visitare e curare nella sua capanna: ‘oggi Dio è
venuto a visitarmi’. È la sensazione della vicinanza del regno di Dio a
consolare i cuori. Così, l’invito di Giovanni Battista non si limita a un
sentimento interiore: ‘convertitevi’, ma allude al rinnovamento dell’agire:
‘fate un frutto degno della conversione’. Come a dire: ritornate a fidarvi del
vostro Dio in modo da produrre un sentire e un agire che diano testimonianza
della verità della presenza di Dio in voi.
Il cammino di conversione, che
oscilla continuamente tra le due sponde della pazienza e della consolazione,
tende proprio a ridarci un nuovo modo di percepirci e di percepire, come
proclama Paolo nella lettera ai Romani: “...vi
conceda di avere gli uni verso gli altri gli stessi sentimenti, sull’esempio di
Cristo Gesù”. Sono i sentimenti collegati a giustizia-mitezza-pace, che, se
da una parte esprimono l’esperienza dell’incontro col Signore, dall’altra,
strutturano lo spazio interiore per l’incontro con gli uomini. Sarà il dono per
l’umanità del Natale di Gesù.
§*§*§*§*§*§*§*§*§*§
Quarto ciclo
Anno liturgico A (2010-2011)
Solennità e feste
Immacolata Concezione
(8 dicembre 2010)
_________________________________________________
Gn
3,9-15.20; Sal 97; Ef 1,3-6.11-12; Lc 1,26-38
_________________________________________________
La benedizione che Paolo implora ed
annuncia nell’esordio della sua lettera agli Efesini ha ricoperto e intriso in
modo singolare la Tutta Santa, la Vergine Maria. In lei quella benedizione si
fa così concreta che prende addirittura corpo: da lei nasce il Salvatore, che
costituisce la Benedizione di Dio
sugli uomini, benedizione oltre la quale non c’è nulla di prezioso da
desiderare. La tradizione venera la Vergine come “la madre del creatore di
tutte le cose, colei che ha divinizzato il genere umano e ha divinizzato la
terra, che ha fatto di Dio il figlio dell’uomo e ha reso gli uomini figli di
Dio”.
La benedizione ha raggiunto
l’umanità della Vergine in modo così singolare da renderla tanto ‘umanamente
piena’ da essere degna dimora per il Figlio, come proclama la colletta: “O
Padre, che nell’Immacolata Concezione della Vergine hai preparato una degna
dimora per il tuo Figlio, e in previsione della morte di lui l’hai preservata
da ogni macchia di peccato, concedi anche a noi, per sua intercessione, di
venire incontro a te in santità e purezza di spirito”. La sua umanità, in tutte
le sue fibre, è andata incontro al Signore in santità e purezza di spirito ed è
diventata degna dimora del Figlio. Della sua umanità siamo fatti anche noi,
condividiamo con il suo Figlio la stessa umanità perché anche noi, come è nel
disegno divino della creazione fin dall’inizio, possiamo tornare a far
splendere e a far godere nel mondo la stessa benedizione, la dimora di Dio in
mezzo a noi.
A differenza di noi, la Vergine non
è caduta nell’inganno che tormenta i figli degli uomini, inganno che presenta
il brano della Genesi. Anche lei è stata duramente provata nella sua umanità:
con l’offerta della sua umanità ha permesso all’amore di Dio, nel suo Figlio,
di svelarsi al mondo; ha conosciuto la sofferenza dell’amore con il suo Figlio
e ora accompagna ogni sofferenza umana perché venga aperta all’esperienza
dell’amore. In lei la sofferenza non ha generato ribellione, il dramma non ha
velato la fede, il desiderio non ha compromesso l’amore, l’agire non ha
macchiato la coscienza. E questo perché l’unico rimedio all’inganno è “andare
incontro al Signore”, così tipico dell’anima della Vergine.
L’uomo, invece, si dibatte
nell’inganno: la nostra individualità ce ne certifica la compromissione con la
ribellione e la gelosia, mentre la sofferenza della nostra umanità svela
faticosamente le tracce della nostalgia di Dio. Dio proclama l’inimicizia tra
satana e la donna, simbolo contemporaneamente di Maria e dell’umanità: la
possibilità dell’inganno è sempre reale, ma quell’inimicizia dichiarata da Dio
salvaguarda la nostra umanità, che non può trovare beatitudine nell’inganno e
quindi non potrà compiersi stando dalla parte dell’avversario. Perciò, quando
l’uomo cede all’inganno, trasgredendo la parola del Signore rivolta al suo
cuore, si perde, va in frantumi dentro e non può vivere che in contraddizione.
Se però l’uomo sa ascoltare l’invito
di Dio: “dove sei?”, che
continuamente bussa al suo cuore, superando l’inganno, allora ritorna
all’albero della vita, il Cristo Signore, per vivere nella sua umanità la
dimora di Dio, fonte di beatitudine. La Vergine è proprio colei che di quella
dimora di Dio ha fatto tutto lo scopo della sua vita, tutto il desiderio della
sua umanità. L’esperienza di cui è stata gratificata può diventare, nel suo
Figlio, accessibile a tutti e a ciascuno.
Nel racconto del peccato narrato dal
libro della Genesi si può osservare come le varie creature si pongano nei
confronti di Dio. Quando Dio chiede ad Adamo se abbia trasgredito il suo comando,
lui risponde addossando la colpa ad Eva. Quando Dio si rivolge ad Eva, lei
risponde addossando la colpa al serpente. Ma quando Dio è davanti al serpente,
il serpente tace. Adamo ed Eva rispondono a Dio, pur giustificandosi, perché
hanno nostalgia di Dio. Il serpente sembra non avere alcuna nostalgia: non
semplicemente ha peccato, ma non è proprio d’accordo sul fatto che Dio conceda
i suoi favori agli uomini e resta quindi avversario di Dio. È avversario di Dio
chi è geloso dei beni che Lui riversa sulle sue creature e perciò resta
astioso, astio di cui facciamo le spese noi continuamente. Chi è capace di far
risplendere i doni di Dio solo godendo dell’immenso amore di Dio per gli uomini
è pieno di grazia. E da tale pienezza di grazia non può non derivare il
Salvatore, che è la rivelazione dell’infinito amore di Dio per gli uomini.
Credo voglia dire anche questo la pienezza di grazia della Vergine, dalla quale
nasce Gesù, il Salvatore. Ed è per questo che la tradizione saluta la Vergine
come la gioia dell’universo.
Lei proclama: “Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola”.
Come a dire: Dio solo sia benedetto, si realizzi la sua promessa, si manifesti
in me, finalmente e compiutamente, il suo Bene all’umanità! Proclamandosi serva
del Signore esprime il suo desiderio della dimora di Dio in mezzo agli uomini,
di cui tutto il suo essere è testimonianza e intercessione per l’umanità
intera. Ma esprime anche la preghiera di ogni credente, di ogni discepolo del
Signore: avvenga per me secondo quello che hai stabilito fin dall’eternità, si
compia in me quello che dalla fondazione del mondo hai promesso all’umanità, si
veda realizzato in me quel Regno che nel tuo Figlio hai fatto venire.
La Vergine Immacolata è anche
chiamata Signora nostra. Un passo di
un’omelia di Gregorio Palamas ne spiega la portata: “ ... signora non solo in
quanto libera dalla servitù e partecipe della divina signoria, ma anche perché
fonte e radice della libertà del genere umano, soprattutto dopo il parto,
ineffabile e beato” (Omelia 14). Così, se l’uomo vuole accedere al regno della
libertà, non ha che da guardare a questa sua sorella, al suo mistero, alla sua
storia, alle sue emozioni, ai suoi dolori, al suo amore perché in lei ritrova
tutto il mistero dell’amore di Dio per l’uomo. E non si può vivere l’amore
senza libertà. Il suo avere il Signore con lei è motivo di fiducia per noi di
trovarlo, di essere accompagnati a lui, di stare in sua compagnia. Il Signore è con te diventa, nella
nostra preghiera: “tu, che hai il Signore, supplicalo perché sia anche con noi,
ora e sempre!”.
§*§*§*§*§*§*§*§*§*§
Quarto ciclo
Anno liturgico A (2010-2011)
Tempo di Avvento
3a Domenica
(12 dicembre 2010)
_________________________________________________
Is
35,1-6a.8a.10; Sal 146; Gc 5,7-10;
Mt 11,2-11
_________________________________________________
Insieme all’invito a rallegrarci per
la vicinanza del Natale (“Rallegratevi sempre nel Signore: ve lo ripeto,
rallegratevi, il Signore è vicino” – antifona di ingresso) la liturgia oggi ci
fa prendere coscienza del dubbio che può assillarci: “Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?”. È la
domanda di una vita. Di Giovanni Battista, anzitutto. Tutta la sua vita era
consistita nel predisporre la via a un Altro: ‘bisogna che lui cresca e io diminuisca’. Accoglierne il mistero non
significa però saperne in anticipo l'esito. Significa, più semplicemente, ma
più sinceramente, stare disposto ad accogliere comunque tutta l'esperienza
umana e spirituale che quel mistero comporta nel suo dispiegamento. Così
Giovanni, in carcere, alla fine della vita, riformula la stessa domanda con un
risvolto angosciante: mi sono forse illuso? È lui quel Tu che tutti attendono e
che io sono stato chiamato a svelare al mondo?
Gesù risponde in due tempi alla
domanda del Battista: in un primo tempo, direttamente a lui e in un secondo
tempo, parlando di lui alla gente. La risposta di Gesù è intessuta di citazioni
del profeta Isaia: 29,18; 35,5; 26,19; 61,1. L’aspetto singolare della sua
risposta è che l’unica espressione non desunta dalle Scritture è l’ultima: ‘beato è colui che non trova in me motivo di
scandalo’. Nel vangelo di Matteo, in altre due occasioni si parla di
scandalo a proposito di Gesù: in 13,57, allorché i compatrioti di Nazaret fanno
resistenza all’insegnamento di Gesù e in 26,31, allorché i discepoli restano
scandalizzati nella notte della cattura di Gesù. Sta di fatto che il Messia si
manifesta diversamente da quanto ci si aspetta. E questo vale per i profeti,
per i discepoli di Gesù e per noi tutti. Lo scandalo del Messia povero e
disarmato non finisce mai nella nostra vita.
Se Giovanni sembra avanzare dei
dubbi su Gesù, Gesù però non ha dubbi su Giovanni Battista. Ecco il secondo
tempo della sua risposta. Parla alla gente in termini molto elogiativi di
Giovanni: “Egli è colui del quale sta
scritto: Ecco, dinanzi a te io mando il mio messaggero, davanti a te egli
preparerà la tua via”. Nella tradizione ebraica la composizione del passo
di Malachia 3,1, riferito a Elia, con l’altro passo di Esodo 23,20, riferito al
Messia, ha fatto pensare al ritorno di Elia come preparazione alla venuta del
Messia. Gesù si riferisce proprio a quella tradizione e, sebbene non risponda a
Giovanni con il dirgli: ‘sì, sono io quello che deve venire’, proclama: ‘tu sei
l’Elia che deve venire’. Se Giovanni è il precursore del Messia, allora non ci
saranno dubbi a proposito di Gesù come Messia. In tal modo, Gesù non risponde
solo alla domanda del Battista, ma anche a quella di tutti i suoi discepoli.
L’affermazione: ‘beato è colui che non trova in me motivo di
scandalo’ è la firma apposta da Gesù in calce alla vita ed alla persona del
Battista. Effettivamente, conferma Gesù, Giovanni Battista è il più grande fra
i nati di donna. Commenta Ilario di Poitiers: “Il Signore manifesta tutta la
gloria di Giovani dicendo che lui era più che un profeta perché a lui solo fu
permesso sia di annunciare che di vedere il Cristo. E come si può pensare che
non conoscesse il Cristo uno che è stato inviato con la potenza di un angelo a
preparare la sua venuta e che tra i nati da donna è il più grande profeta che
sia mai sorto? Però con questa eccezione che colui che è più piccolo di lui e
cioè colui che viene interrogato, al quale non si crede, al quale neppure le
sue opere danno credito, questi è più grande nel regno dei cieli”.
Il volto di Dio lo vedono coloro che
non si scandalizzano della sua piccolezza
quando, ormai sfigurato sulla croce, allorché nemmeno d'uomo aveva più
l'aspetto, accolgono tutto il mistero di Dio nel suo amore agli uomini, vedono
cioè la sua scelta di essere Dio per gli uomini, non di sembrarlo soltanto.
La domanda di Giovanni Battista non
è che l'eco dell'angoscia di Gesù al Gethsemani e al Calvario dove la sua piccolezza raggiunge la punta massima,
ma dove si rivela in tutto il suo splendore la grandezza di Dio. E la domanda
del Battista è anche la nostra domanda di credenti che sempre ci troviamo
confrontati, lungo il percorso della nostra vita, con il mistero della scoperta
del vero Volto di Dio. L'esito dell'incontro con Dio non è mai scontato.
L'esperienza che siamo invitati continuamente a fare va sempre al di là di
quello che ci immaginiamo o ci aspettiamo: in gioco è l'incontro con il Dio
Vivente e non con un simulacro di Dio che risulterebbe soltanto la proiezione
delle nostre pretese. Ma tutto questo esige l'entrata nella piccolezza di Dio a
cui risponde, specularmente, la piccolezza
dell'uomo che trova vita, se la perde, che vive se è capace di morire, che si
ritrova libero se rinnega se stesso, ecc., al seguito ‘del più piccolo nel
Regno dei Cieli’, cioè Gesù.
Un’ultima osservazione. L'immagine
di Dio che accarezziamo spesso risponde al desiderio di vendetta: i cattivi
devono sparire, i buoni devono prevalere. Evidentemente, in nome di una
giustizia divina, ma pensata in termini troppo mondani. Le stesse espressioni
profetiche sembrano alludervi: “Ecco il
vostro Dio, giunge la vendetta, la ricompensa divina. Egli viene a salvarvi”
(Is 35,4). Ebbene, qual è la vendetta di Dio? “Oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è Cristo
Signore. Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce,
adagiato in una mangiatoia”: sarà l’annuncio del Natale.
§*§*§*§*§*§*§*§*§*§
Quarto ciclo
Anno liturgico A (2010-2011)
Tempo di Avvento
4a Domenica
(19 dicembre 2010)
_________________________________________________
Is
7,10-14; Sal 23; Rm 1,1-7;
Mt 1,18-24
_________________________________________________
La liturgia di oggi proclama che
l’Emmanuele, il Dio-con-noi, è il segno
di Dio per noi. L’aspetto misterioso dell’evento è descritto con la profezia di
Isaia: “Stillate dall’alto, o cieli, la
vostra rugiada e dalle nubi scenda a noi il Giusto; si apra la terra e germogli
il Salvatore” (Is 45,8), ripresa dall’antifona di ingresso. Il testo è
riportato secondo la versione della Volgata che attualizza messianicamente il
testo ebraico più generico che parla solo di giustizia e di salvezza.
L’allusione più diretta è all’imminente nascita di Gesù dal grembo della
Vergine.
Ma la colletta allarga questa
allusione anche alla terra del nostro cuore invitata a far nascere il Verbo
della vita: “… concedi anche a noi di
accoglierlo e generarlo [= Verbo della vita] nello spirito, con l’ascolto della
tua parola, nell’obbedienza della fede”. Dio, non semplicemente viene vicino a
noi, ma germoglia dalla nostra umanità. Ciò significa che Dio è più intimo a
noi di noi stessi; che Dio costituisce il senso della nostra stessa umanità.
Viene dal cielo e germoglia dalla terra, come segno dell’azione di salvezza di
Dio per l’uomo: “Pertanto il Signore
stesso vi darà un segno. Ecco: la vergine concepirà e partorirà un figlio, che
chiamerà Emmanuele”. All’uomo sarebbe stato impossibile perfino immaginare
un segno di tal genere, benché quel segno compia finalmente i suoi desideri più
profondi. Dio sopravanza sempre la sua creatura, ma nella linea del desiderio
della sua creatura stessa.
La profezia di Isaia riguardava la
continuità della discendenza dinastica davidica nel momento in cui sembrava
dovesse perire. Nell’attacco a Gerusalemme da parte della coalizione
siro-efraimita, agli inizi dell’VIII secolo a.C., il re Acaz si vede costretto
ad appellarsi al potente impero assiro, ma gran parte dei notabili lo hanno
abbandonato. Tra l’altro, Acaz aveva già sacrificato un figlio per propiziarsi
futuro e prosperità, contravvenendo alla legge del Signore. Isaia richiama la
fedeltà della promessa di Dio e annuncia la nascita di un figlio, l’erede al
trono, invitando Acaz alla fiducia. Già la tradizione ebraica, almeno fin dal
II sec. a.C., in quella nascita eccezionale, ancora attesa, ha visto la nascita
verginale del Messia. L’antica tradizione cristiana ha applicato l’oracolo a
Maria, la madre di Gesù, erede per eccellenza della dinastia davidica.
Il nome Emmanuele, come nome di
persona, non è attestato altrove nell’A.T. e porta la promessa di salvezza.
L’aspetto interessante è la ripresa di questo nome nel racconto evangelico di
Matteo a spiegazione del nome di Gesù che verrà imposto al bambino secondo
l’annuncio dell’angelo. L’equivalenza che ne deriva è di questo tipo: il
Dio-con-noi, l’Emmanuele è il nostro Salvatore, Gesù, la salvezza consistendo
nel poter godere nuovamente nella e della comunione con il proprio Dio. Il
perdono dei peccati allude alla piena godibilità della comunione con il proprio
Dio, nella partecipazione alla santità di Dio, che è splendore di amore per gli
uomini.
Nella serie delle testimonianze a
favore del Figlio di Dio che si fa uomo secondo la liturgia dell’avvento,
Giuseppe è l’ultimo testimone e viene chiamato in causa proprio in rapporto
alla profezia di Isaia. Paolo, nel saluto iniziale ai Romani, proclama: “… il vangelo di Dio, che egli aveva promesso
per mezzo dei suoi profeti nelle sacre Scritture e che riguarda il Figlio suo,
nato dal seme di Davide secondo la carne”. Quel Figlio è la buona novella di cui tutte le Scritture
raccontano la promessa e si fa uomo nella linea della discendenza davidica,
discendenza che Giuseppe assicura. Quando l’angelo gli appare, chiama Giuseppe
‘figlio di Davide’. Naturalmente, Giuseppe non ha più nulla della gloria
mondana di una discendenza regale, e tuttavia assicura a Gesù la verità del
titolo ‘Figlio di Davide’, la verità della sua regalità.
Di Giuseppe i vangeli non riportano
alcuna parola; annotano solo i suoi pensieri, le sue decisioni, la sua
obbedienza adorante e la sua premura per la sua sposa e il suo bambino. Entra nella gloria
di Dio, che è splendore di amore per l’uomo, nella consapevolezza soltanto di
permettere al Signore di realizzare le sue promesse d’amore all’umanità.
Giuseppe accoglie: la grazia viene
dall’alto. Ma Giuseppe acconsente nella sua umanità: dalla terra germoglia il
Salvatore. Così si manifesta la gloria del Dio-con-noi, che, mentre rivela la
grandezza del suo amore per l’uomo, rende l’uomo capace di operare in
quell’amore, tanto da indurre tutti a vedere la vicinanza di Dio. La sua vocazione può essere definita come
l’accettazione del compito affidatogli in rapporto al disegno di Dio di
rivelare il Suo Amore agli uomini. E la sua obbedienza si rivela nel fatto di
accettare di svolgere una parte semplicemente a favore della sua sposa, dentro
un disegno più grande di lui, che imparerà a decifrare lungo tutta la sua vita
senza mai essere in primo piano. Così la vocazione di ciascuno di noi, nella
fede, non è che quella di acconsentire a che il disegno di amore di Dio per gli
uomini ci raggiunga e si manifesti e ci abiliti a diventare dei segni
nell’unico Segno che rivela
compiutamente il volto d’amore di Dio, Gesù Cristo, Salvatore.
§*§*§*§*§*§*§*§*§*§
Quarto ciclo
Anno liturgico A (2010-2011)
Tempo di Natale
Natale del Signore
(25 dicembre 2010)
_________________________________________________
Messa
vespertina nella vigilia: Is 62,1-5; Sal 88;
At 13,16-17.22-25; Mt 1,1-25
Messa
della notte: Is
9,1-6; Sal 95; Tt 2,11-14;
Lc 2,1-14
Messa
dell’aurora: Is
62,11-12; Sal 96; Tt 3,4-7;
Lc 2,15-20
Messa
del giorno: Is
52,7-10; Sal 97; Eb 1,1-6;
Gv 1,1-18
_________________________________________________
Se consideriamo lo sviluppo della
liturgia natalizia nei quattro formulari delle Messe, il mistero del Natale
appare in tutto il suo splendore. Una tensione unica percorre la liturgia,
sottolineata dalle collette: Dio si fa uomo perché l’uomo diventi ‘dio’. Ciò significa
che la natura dell’uomo è strutturata sulla vita divina e la liturgia del
natale del Signore appunta lo sguardo sul mistero da dentro tale prospettiva.
L’evento della nascita di Gesù, a
Betlemme, celebrato nella messa della notte, con la successiva adorazione dei
pastori, commemorato nella messa dell’aurora, risulta incastonato dai brani
della genealogia di Gesù (messa vespertina della vigilia) e dal prologo di
Giovanni (messa del giorno).
È come se la liturgia insegnasse ad
affinare gli sguardi. La genealogia di Matteo dice che Gesù, discendente di
Abramo, è inserito nella storia sacra del popolo d’Israele. Lui realizza le
profezie, Lui compie le promesse, Lui è il Messia. Nella genealogia di Luca,
invece, Gesù non risale ad Abramo, ma discende da Dio, assumendo Adamo: viene
svelato il mistero della sua identità di Figlio di Dio, il mistero dell’amore
di Dio nel quale prende origine la creazione dell’uomo e la storia di amore di
Dio con l’umanità.
Con il prologo di Giovanni Gesù è
considerato nella dimensione trinitaria, alle sorgenti della creazione come il
Figlio, sul quale e per mezzo del quale tutto è stato creato, sulla base ormai
della testimonianza apostolica di aver visto lo splendore della gloria di Dio
in quel Figlio, nato, vissuto, morto e risorto per noi: “E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi
abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come del Figlio unigenito che viene
dal Padre, pieno di grazia e di verità”.
Quando nella notte si celebra
l’evento della nascita a Betlemme è da dentro questa prospettiva che gli occhi
guardano. Forse noi non ci rendiamo conto della immensa sproporzione tra la
povertà del segno (un bambino nella mangiatoia) e lo splendore della visione
con la letizia incontenibile che riempie i cuori. Compaiono gli angeli, il
Bambino è riconosciuto e adorato, echeggiano canti celesti, ma la povertà è
totale, il rifiuto incombente, la persecuzione nell'aria, nessuno si appressa
se non i pastori, gli ultimi della società. I pittori di icone della Natività
lo hanno mostrato assai bene: la greppia assomiglia alla tomba, le fasce del
bambino assomigliano alle fasce mortuarie. E poi, non ci sono luci e angeli
attorno alla greppia o alla grotta; questi appaiono ai pastori che vegliano le
loro greggi, annunciano il loro messaggio e spariscono. Alla grotta, davanti al
Bambino, vale solo il racconto dei pastori, e come loro hanno creduto
all'annuncio celeste, così gli altri credono alla loro testimonianza.
Se si rilegge l’episodio del presepe
di Greccio nella vita di s. Francesco di Assisi ci rendiamo conto della logica
di quella visione. “Meditava continuamente le parole del Signore e non perdeva
mai di vista le sue opere. Ma soprattutto l’umiltà dell’incarnazione e la
carità della Passione aveva impresse così profondamente nella sua memoria, che
difficilmente gli riusciva di pensare ad altro… E ogni volta che diceva
‘Bambino di Betlemme’ o ‘Gesù’ passava la lingua sulle labbra, quasi a gustare
e trattenere tutta la dolcezza di quelle parole” (FF 467-470). È il desiderio
di far memoria di Gesù, il desiderio di condividere con lui quello che lui
vive, sente e opera, perché il cuore è pieno di lui, a permettere agli occhi di
vedere, all’anima di gustare. Allora, la semplicità del segno parla, si
spalanca su spazi immensi perché la storia umana si apre sulla storia di Dio
con l’umanità e la letizia non può non spuntare.
Le collette delle Messe delineano la
progressione della comprensione del mistero secondo questa traiettoria:
l’evento sprigiona una tale luce (notte) da investire il nostro agire (aurora)
per partecipare alla stessa vita di Dio (giorno). “O Dio, che hai illuminato
questa santissima notte con lo splendore di Cristo, vera luce del mondo …”
(notte); “Fa’ che risplenda nelle nostre opere il mistero della fede che
rifulge nel nostro spirito” (aurora); “Fa’ che possiamo condividere la vita
divina del tuo Figlio…” (giorno), scopo della nostra gioiosa adorazione.
Un poema natalizio di s. Efrem
canta: “Sia benedetto Colui che ha consegnato la nostra anima, che l’ha
adornata e se ne è fatta la fidanzata! Sia benedetto Colui che ha fatto del
nostro corpo una tenda per la sua Invisibilità! Sia benedetto Colui che nella
nostra lingua ha tradotto i suoi segreti!... Gloria a Colui che non ha mai
bisogno che noi lo ringraziamo. Ma che ha bisogno di tenerci cari, che ha sete
di amarci e che chiede a noi di dare perché Lui possa darci ancora di più”.
Possano i nostri cuori percepire quei segreti e scoprire le radici della
letizia in questo mondo. La letizia dell’annuncio natalizio costituisca il
vigore dell’anima e lo spazio di intelligenza del cuore per la vita propria e
quella di tutti.
Buon Natale a tutti.
§*§*§*§*§*§*§*§*§*§
Quarto ciclo
Anno liturgico A (2010-2011)
Tempo di Natale
Santa Famiglia
(26 dicembre 2010)
_________________________________________________
Sir
3, 3-7.14-17a; Sal 127; Col 3, 12-21;
Mt 2, 13-15.19-23
_________________________________________________
"O Dio, nostro creatore e
Padre, tu hai voluto che il tuo Figlio divenisse membro dell'umana
famiglia": così prega la colletta della festa di oggi. Il mistero della s.
famiglia appartiene alla realtà del mistero dell’Incarnazione. Si appartiene
all’umanità perché si nasce da una donna, ma si diventa ‘umani’ perché accolti
in una famiglia. È il destino della chiamata alla vita, della vocazione umana:
si diventa uomini solo dentro una storia riconosciuta, che ci precede e ci
accompagna, imparando a riconoscere e vivere quella ‘promessa’ di vita che
resta inscritta in noi venendo al mondo sia per i genitori che per i figli. La
famiglia è il luogo di svelamento di quella promessa che viene dall’alto, il
luogo di riferimento esistenziale che segna la natura dei nostri sogni. Non è
il luogo da dove proviene la promessa; è più semplicemente il luogo dove la
promessa diventa nostra, diventa mia.
Si tratta del mistero che io
definirei dell’obbedienza all’amore. Parlo di obbedienza prima che di amore
perché l’amore costituisce l’esito di un’obbedienza confidente. Vale nei
confronti di Dio, ma anche nei confronti degli uomini. È caratteristico che
nella liturgia di oggi come nella liturgia del matrimonio al termine amore si
accompagni il termine onore. Senza la percezione dell’onore dovuto al mistero
che si vive, l’amore non riuscirà a sopravvivere perché divorerà invece di
comunicare vita. Lo dice chiaro il libro del Siracide invitando a onorare il
padre e la madre, a suggello del patto di solidarietà con l’umanità che rende
la vita in questo mondo vivibile. Senza onore non si assicura più quella
‘vivibilità’ perché la vita sarà vissuta nella logica dell’arraffare, che mina
alle radici le ragioni appunto della vivibilità.
Nell’esperienza cristiana l’onore è
vissuto ‘in Cristo’. La lettera di Paolo ai Colossesi descrive la famiglia come
il luogo di esercizio e di visione nella fede, in obbedienza all’unico mistero
che tutti ci riguarda. Paolo parla di ‘sottomissione’ per la moglie, di ‘amore’
per il marito, di ‘obbedienza’ per i figli. Il senso lo si ricava dalle
espressioni precedenti quando Paolo delinea la comunità dei credenti come
eletti di Dio rivestiti dei sentimenti di Cristo, riconciliati, nella pace di
un unico sentire, con la parola di Cristo che tutto regge e pervade. La
‘sottomissione’ della donna non ha nulla a che vedere con la soggezione
all’uomo; si riferisce a quella visione del mistero che appartiene alla donna,
che le colma il cuore e che estende continuamente i confini di quell’ ‘amore’
che è richiesto all’uomo, perché senza di lei l’uomo non saprebbe coglierne la
profondità e la preziosità. La ‘obbedienza’ dei figli in quel contesto non è
che l’appropriazione della tenerezza verso la propria umanità, terreno ideale
per imparare a vedere la ‘promessa’ di vita che si apre davanti a loro. E così
tutti restano immersi in quell’unico mistero di obbedienza che regge e orienta
la loro vita, mistero di cui imparano, insieme, poco a poco, a dipanare i
segreti nel concreto della loro vita. L'avvertimento di Paolo ai Colossesi
"...rivestitevi, come eletti di Dio,
santi e amati, di sentimenti di misericordia ... perdonandovi a vicenda ... e
la pace di Cristo regni nei vostri cuori ..." allude appunto al
mistero di obbedienza. L'obbedienza si fa trasparenza della tenerezza di Dio
che non disdegna di consegnarsi agli uomini perché essi imparino a consegnarsi
vicendevolmente e a Lui. E se l'obbedienza non porta a svelare la tenerezza
vuol dire che non procede dall'adorazione, da una visione, ma solo da una
volontà. E quando tutto procedesse dalla mia volontà, come posso accogliere e
celebrare la salvezza che viene da Dio? Come essere segno e custode del
'segreto' di Dio?
Il vangelo presenta Giuseppe proprio
come il custode del segreto di Dio, nella concretezza e nel dramma della vita
quotidiana, custode della tenerezza di Dio per l'umanità, che per lui si
concentrava nella sua famiglia, luogo di rivelazione di Dio nel mondo e la sua
storia è storia di questa famiglia, storia per questa famiglia. La
realizzazione di sé, come diremmo oggi, passa per l'assunzione di un compito di
grazia che fa dell'obbedienza a Dio, nel cammino di fedeltà all'assolvimento di
tutto ciò che un tal compito comporta nel concreto delle situazioni, la porta
dell'amore. Porta che può essere intravista solo se gli occhi del cuore
'vedono' quanto basta per non tirarsi indietro.
La storia di una famiglia è la
storia di come questo 'segreto' di Dio è accolto, custodito, vissuto. Abbiamo
solo bisogno di 'rivestirci', di divenire cioè consapevoli del dono e compito
di grazia che ci ha riguardati nell'intimo e ci ha resi , nella nostra
piccolezza e nelle situazioni concrete, 'evangelici', cooperatori della gioia
altrui, segni e strumenti di salvezza, come Giuseppe. Non però di quella
salvezza operata da noi, come se il nostro amore bastasse a salvare noi o gli
altri, ma di quella che viene da Dio la cui debolezza è più forte della forza
degli uomini, debolezza la cui eco io sento nel qualificare Gesù 'il nazareno'.
In effetti, l’ultimo versetto del
brano evangelico letto riporta: "...
andò ad abitare in una città chiamata Nazaret, perché si adempisse ciò che era
stato detto dai profeti:«Sarà chiamato Nazareno»". Non è chiaro a
quali passi profetici l'evangelista si richiama, ma è chiara l'allusione al
mistero che quell'aggettivo comporta. Tre sono almeno i significati di
quell'aggettivo. Designa Gesù come proveniente da Nazaret, abitante a Nazaret
con i suoi genitori ai quali, come riporta l'evangelista Luca, stava
sottomesso. E' un'affermazione della sua vita quotidiana, nascosta, in
famiglia. Esprime la concretezza della sua umanità quanto alle radici, agli
affetti, alla crescita. Gesù è uomo non solo perché è nato, ma perché è stato
allevato, nutrito, curato, educato, amato,in una famiglia umana. Nazareno
richiama poi 'nazir' (cfr. Gen 49,26; Gdc 13,5), il consacrato a Dio, il Santo
di Dio. Esprime la natura del compito che è chiamato a compiere: salvare
Israele, salvare l'umanità. E siccome il Salvatore è solo Dio, partecipare al
compito di 'salvare' comporta la pienezza di santità di Dio stesso. Nazareno
richiama anche un altro termine ebraico che vuol dire 'germoglio'. Girolamo
spiega così l'etimologia del nome Nazaret: "Il luogo dove la terra ha
germinato il Salvatore, dove è cresciuto il germoglio giusto, il fiore della
radice di Jesse, si chiama Nazaret, che significa: santità, germoglio, fiore,
ramoscello". E si allude alle profezie di Is 11,1 e Zac 6,12.
Se andiamo a vedere quando Gesù è
chiamato 'nazareno' notiamo che lo chiamano così i demoni (Mc 1,24) i quali lo
sanno 'Santo di Dio'; lo chiamano così anche gli angeli alla risurrezione (Mc
16,6); ma soprattutto l'aggettivo compare nei racconti della passione di
Giovanni, all'arresto e soprattutto sull'iscrizione sopra la croce: Gesù
Nazareno Re dei Giudei (Gv 18,5; 19,19). Tutte sottolineature della realtà
della sua umanità: è proprio quell'uomo che è vissuto a Nazaret, la cui
famiglia è di Nazaret, è proprio lui il Figlio di Dio, morto e risorto per la
nostra salvezza, Lui proprio nel quale abita la pienezza della divinità.
§*§*§*§*§*§*§*§*§*§
Quarto ciclo
Anno liturgico A (2010-2011)
Tempo di Natale
Maria ss. Madre di Dio
(1 gennaio 2011)
_________________________________________________
Nm
6,22-27; Sal 66; Gal 4,4-7;
Lc 2,16-21
_________________________________________________
Il nuovo anno inizia con la
celebrazione dell’ottava del Natale, festa della divina maternità di Maria. È
come un’invocazione di benedizione su tutto l’anno. Dal Padre, che ha benedetto
la Vergine Maria, la quale porta ed ha dato alla luce il Benedetto, discende
per noi ogni benedizione. Se la formula di benedizione riportata nel libro dei
Numeri concerne Israele, il salmo 66 la estende a tutta l’umanità perché ormai
Colui, che del Padre è lo splendore, è nato per noi. In Lui si concentra la
pienezza di benedizione, in Lui che è nato nella pienezza dei tempi, come dice
l’apostolo. Ciò significa che la Sua benedizione copre tutti i tempi e
contemporaneamente ogni genere di tempo, tutto il tempo della vita in tutte le
situazioni possibili.
Quando il canto al vangelo proclama:
“Dio ha parlato ai padri per mezzo dei
profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio”
allude non semplicemente al fatto che Colui che era stato annunciato dai
profeti è venuto, ma che in Lui si compiono tutte le possibilità dei tempi.
Nessuno meglio della Vergine Maria
ha visto l’estensione e la profondità della benedizione di Dio sull’umanità : “Ti benedica il Signore e ti custodisca. Il
Signore faccia risplendere per te il suo volto e ti faccia grazia. Il Signore
rivolga a te il suo volto e ti conceda pace” (Num 6, 24-26). La benedizione
può essere così intesa:
- che tu possa sentirti dentro
confini di benevolenza, possa sentire alleata la vita e Padre tuo il tuo Dio
- che il volto del Signore si riveli
al tuo cuore e faccia brillare il tuo volto del suo splendore
- possa fare esperienza del Suo
perdono, del Suo farsi grazia a te e sentirti fortificato, imprendibile, per il
legame di intimità che ti nasconde nella Sua pace.
E così apparterrai al Suo amore, non
desiderando altro se non di attrarre a questo amore tutto e tutti finché ci si
possa riposare insieme nella Sua benedizione.
“Così
porranno il mio nome e io li benedirò” continua il testo dei Numeri, come a
dire: poni su di te una Sua parola, la sua Parola e lei sarà la tua
benedizione, ti custodirà e ti terrà compatta, dentro un’intimità, alle radici
del cuore.
La colletta, quando prega: “Padre
buono, che in Maria, vergine e madre, benedetta fra tutte le donne, hai
stabilito la dimora del tuo Verbo fatto uomo tra noi…”, riprende la
dichiarazione di Giovanni: “E il Verbo si
fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi” (Gv 1,14). Ma anche la
promessa di Gesù ai discepoli: “Se uno mi
ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e
prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14,23). La benedizione di Dio per
l’uomo consiste proprio nel suo dimorare fra noi, in noi. L’aspetto
straordinario, sconvolgente, dell’amore di Dio per l’uomo, che però spesso
nemmeno siamo più capaci di percepire, è dato dal fatto che possiamo essere
accolti in quella stessa intimità di vita e di relazione che esiste tra il
Padre e il Figlio e che ci è fatto dono di quella stessa intimità. Sembra
strano, ma soltanto da dentro quella intimità possiamo sperare di compiere la
volontà del Padre nella nostra vita e sentirci avvolti dalla sua benedizione.
Se prima non si gusta la volontà di benevolenza di Dio nei nostri confronti,
che si esprime nella benedizione che è il Cristo per noi, come poter arrivare
alla gioia dell’osservanza dei comandamenti? Se non capiamo come Cristo non antepose
nulla all’amore per noi, come possiamo noi non anteporre nulla all’amore per
Cristo e ritrovarci amati dal Padre, che nel suo Figlio ha posto tutta la sua
compiacenza? Il mistero della benedizione di Dio sull’uomo sta tutto qui e
tutta la vita della Vergine, come il suo parto prodigioso, è lì a dimostrarlo.
Gli angeli, apparendo ai pastori,
annunciano “Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini di
buona volontà” (tradotto anche: ‘agli uomini che egli ama’). Il significato più
veritiero di questa lode sta nell’affermare che, se gli uomini vogliono vedere
il volto sorridente di Dio nei loro confronti, vogliono essere accolti dallo
splendore del suo sguardo benevolo e compiaciuto, come descrive il libro dei
Numeri, devono compiacersi di quel Figlio, in quel Figlio, sul quale si
concentra tutta la benevolenza assoluta di Dio. E non in quel Figlio eterno, ma
in quel Figlio fatto uomo, che ha preso carne, che conosce il nostro patire,
che condivide le nostre aspirazioni, i nostri sentimenti. Quel Figlio è il
Volto sorridente del Padre, quel Figlio è la benedizione invocata sull’umanità,
quel Figlio è il nome pronunciato e posto sull’umanità perché l’uomo e Dio
riconoscano la mutua appartenenza. È quello che la Vergine Maria proclama nella
sua divina maternità, come le icone del Natale sottolineano. La Vergine non è
rappresentata china sul proprio bambino, ma rivolta ai pastori e al mondo a
proclamare che quel ‘figlio’ è la benedizione per loro.
La realtà dell’incarnazione comporta
anche la variabile tempo. Ogni cosa ha il suo tempo, ogni cosa ha bisogno del
suo tempo. Anche la Vergine Maria ha avuto bisogno di tempo per ‘assuefarsi’
all’agire di Dio. Il brano evangelico la descrive come colei che “custodiva tutte queste cose meditandole nel
suo cuore”. Evidentemente perché anche per lei la realtà non svelava il suo
mistero di colpo. I due verbi significano più direttamente: teneva se stessa e
queste cose insieme in cuore, facendole rimbalzare l’una sull’altra in modo da
ottenerne una visione d’insieme. Sono termini che illustrano il metodo di
lettura delle Scritture: una parola si illumina con un’altra parola ed il senso
che ne scaturisce si riverbera nel cuore aprendo la parola al cuore ed il cuore
alla parola. E non se ne tralascia nessuna: 'tutte queste cose' del testo sono
sia le parole udite (dall'angelo, dai profeti, dai pastori) sia gli eventi
successi; non si cerca solo quella 'adatta' a me, ma ci si 'adatta' a loro
tutte, insieme. Non si preferisce un tempo (il tempo della gioia, del godimento),
ma si tengono insieme tutti i tempi (anche il tempo del dubbio,
dell’afflizione). Allora, poco a poco, anche al nostro cuore si svelerà quella
‘benedizione’ che Dio ha posto sull’umanità e la vita torna a risplendere della
presenza del nostro Dio.
§*§*§*§*§*§*§*§*§*§
Quarto ciclo
Anno liturgico A (2010-2011)
Tempo di Natale
2a Domenica
(2 gennaio 2011)
_________________________________________________
Sir
24,1-4.8-12; Sal 147; Ef 1,3-6.15-18; Gv 1,1-18
_________________________________________________
Se è vero, come dice il ritornello
del salmo responsoriale, che “il Verbo si è fatto carne e ha posto la sua
dimora in mezzo a noi”, allora l’augurio più bello e convincente, dal punto di
vista della fede, non può essere che quello di Paolo agli Efesini: “…il Dio del
Signore nostro Gesù Cristo, il Padre della gloria, vi dia uno spirito di
sapienza e di rivelazione per una più profonda conoscenza di lui. Possa egli
davvero illuminare gli occhi della vostra mente per farvi comprendere a quale speranza
vi ha chiamati, quale tesoro di gloria racchiude la sua eredità fra i santi”.
Conoscenza, qui, allude all’esperienza degli apostoli che, davanti al mistero
del Figlio di Dio incarnato con il quale hanno vissuto, che l’hanno sentito
parlare, che l’hanno visto all’opera, dal quale sono rimasti sconvolti e
affascinati, dicono: “e noi vedemmo la sua gloria” (Gv 1,14). Da dentro
quell’esperienza, la percezione del mistero dell’amore di Dio per gli uomini,
della benevolenza di Dio che tocca le radici dei cuori con il dono di quel
Figlio, dato per noi, diventa chiarissima, prepotente: la benedizione ormai non
si allontanerà mai più dall’umanità.
Se vogliamo indagare la ragione
profonda di quella percezione, non possiamo che riconoscerla espressa
nell’affermazione: “Dio nessuno l’ha mai visto: proprio il Figlio unigenito,
che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato” (Gv 1,18). Qui risiede tutta la
fierezza e l’umiltà del cristiano di fronte ai suoi fratelli, in cammino e alla
ricerca della stessa verità. Se tutto il creato rimanda al Cristo Signore, a
maggior ragione l’uomo, fatto ad immagine di Lui, che è l’Immagine, lo
splendore del Volto stesso di Dio. Ma se questo è vero, allora tutti i nostri
pensieri rimandano a lui, tutte le nostre aspirazioni, tutti i nostri desideri,
tutti i nostri ideali. Secondo i nostri Padri, la preghiera non è che il luogo
di riconoscimento del Cristo come fondamento dei nostri pensieri. Tutta la
bontà, tutte le virtù che possiamo ottenere non sono che partecipazione ai suoi
sentimenti, alla sua vita, che è vita stessa di Dio.
Il Padre ci ha donato il suo Figlio
ed il Figlio, per mezzo dello Spirito Santo, ci fa dono del potere di diventare
figli a nostra volta: “A quanti però l’hanno accolto, ha dato potere di
diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, i quali non da
sangue, né da volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio sono stati
generati”. Il dono è aperto a tutti, perché non si nasce cristiani, ma lo si
diventa. È il superamento più radicale di ogni distinzione fra gli uomini
basata su etnia, nazione, cultura, ecc. Ricevere il potere di diventare figli
di Dio significa partecipare alla vita stessa del Figlio di Dio; significa
rivestirsi dei suoi sentimenti, nei quali fondare le radici di un’umanità nuova,
trasfigurata, che non si presenta più temibile in nulla per nessuno. Usassimo
questo semplice criterio di discernimento per giudicare la bontà del nostro
agire!
La letizia del Natale rimanda a tale
‘possibilità’, a tale ‘potere’ e qui si radica la speranza per il mondo: la
gloria di Dio può ancora risplendere in mezzo a noi, la vita nel mondo può
ancora tornare amabile, nonostante i drammi e le tragedie, le violenze e gli
egoismi. Siamo sicuri – anche questo è un corollario della nostra fede nel
Signore Gesù – che sempre ci sarà qualcuno che, discepolo del Signore, farà
risplendere l’umanità in questo mondo. E sempre ci sarà qualcuno che,
affascinato da quello splendore, riconoscerà il Signore e tornerà a far
desiderare la conoscenza di lui, come si augura l’apostolo. È l’augurio che
possiamo scambiarci tutti.
§*§*§*§*§*§*§*§*§*§
Quarto ciclo
Anno liturgico A (2010-2011)
Tempo di Natale
Epifania del Signore
(6
gennaio 2011)
_________________________________________________
Is
60,1-6; Sal 71; Ef 3,2-3a.5-6; Mt 2,1-12
_________________________________________________
Epifania vuol dire manifestazione.
La Chiesa oggi festeggia il mistero della triplice manifestazione del Figlio di
Dio fatto uomo per la nostra salvezza: la sua manifestazione alle genti;
l'inizio della sua vita pubblica con il battesimo al fiume Giordano quando
Giovanni Battista lo rivela al popolo d'Israele; il miracolo delle nozze di
Cana quando Gesù compie il suo primo miracolo. Delle tre manifestazioni,
soprattutto la prima costituisce il tema della liturgia odierna.
Come tutti i racconti sulla nascita
e sull'infanzia di Gesù, ciò che viene riferito va letto in contrappunto ai
racconti della sua passione-morte-risurrezione. Nella narrazione dei Magi che
arrivano a Gerusalemme in cerca del re dei Giudei è presentato il conflitto che
opporrà alle autorità ufficiali il vero re e salvatore del suo popolo. Colui
che le guide della nazione si rifiutano di ricevere è adorato dalle nazioni;
Colui che doveva essere noto a coloro che conoscevano le Scritture perché di
lui le Scritture parlano viene rivelato a coloro ai quali, non potendo le
Scritture parlare, parlano gli astri, messaggeri di Dio. Ogni cosa può agire da
messaggero di Dio, se il nostro cuore sa guardare in alto. E tutto alla fine conduce
a lui, il Salvatore, Colui che rivelerà definitivamente e in tutta pienezza,
anche per il nostro cuore, quaggiù o di là, l'infinito amore del Padre per gli
uomini, Colui che compirà in tutta la loro estensione i nostri desideri di
vita, di santità, di comunione.
L’antifona di ingresso della messa
si richiama al libro del profeta Malachia, l’ultimo libro dell’Antico
Testamento: “È venuto il Signore nostro
re: nelle sue mani è il regno, la potenza e la gloria”. Un bambino è
proclamato ‘sovrano, potente e glorioso’! La proclamazione comporta qualcosa di
radicalmente nuovo per gli occhi umani o, se vogliamo, comporta la visione di
una realtà con occhi radicalmente nuovi. Stessa novità che sta dietro la proclamazione nei vangeli di Gesù come re
(soltanto durante la sua passione Gesù accetta il titolo di re) e
particolarmente come re della gloria (titolo che fornisce, da una parte, la
ragione della condanna sul patibolo della croce e, dall’altra, per la visione
di fede dei credenti, la ragione dell’amore di Dio per l’uomo che proprio sulla
croce risplende). È in ragione di quella novità che la manifestazione di Gesù
può conquistare le genti e può convincere Israele. Quando la colletta fa
pregare: “O Dio, che in questo giorno, con la guida della stella, hai rivelato
alle genti il tuo unico Figlio, conduci benigno anche noi, che ti abbiamo
conosciuto per la fede, a contemplare la grandezza della tua gloria”, guida i
credenti alla percezione di quella novità
e li predispone a cogliere e a vivere dello splendore di quell’amore, che
costituisce ormai la ragione di senso del vivere nella storia.
La visione dei popoli che si
ritrovano a Gerusalemme, ripresa anche dal salmo 71 e celebrata dal salmo 87,
mostra come ormai non esiste più motivo di distinzione tra gli uomini perché la
loro dignità deriva da un’unica radice. La dignità degli uomini parla
dell’amore di Dio che si è rivelato in quel Figlio di Dio fatto uomo e che
nella liturgia odierna è adorato da tutte le genti. Quando Paolo ricorda agli
Efesini che il mistero manifestato ora agli uomini è il fatto che i Gentili
sono chiamati, in Cristo Gesù, a partecipare alla stessa eredità di Israele,
rivela che davanti a Dio sussiste un’unica famiglia umana, destinataria e
portatrice allo stesso tempo del Suo amore. Se il Signore, come dice il salmo
71, interviene a favore del povero e del debole, categorie che attraversano la
diversità dei popoli e si riferiscono all’umanità di tutti, significa che chi
calpesta il povero e il debole ferisce la propria dignità umana e non rispetta
l’immagine di quel Figlio che si è confuso con l’umanità di tutti. Davanti a
quel Figlio, bambino, adorato dalle genti – dice il salmo, eco del pensiero di
Dio: chiunque tu sia, da qualunque paese provenga, qualsiasi sia stata la tua
storia, a qualsiasi cultura appartenga, sappi che qui sei nato, di qui trai
vita e qui conducono i tuoi desideri perché qui si compiono i miei progetti:
nel mio Figlio! Non è evidentemente una forma di imposizione spirituale
all'umanità. Si tratta invece di una visione lucida, nella fede, sulla realtà
delle cose e del mondo. Non si tratta di contrapporre una visione ad altra
visione, una fede ad altra fede. Si tratta di imparare a stupirsi a tal punto
dei pensieri di Dio per l'umanità che la modalità stessa di vivere e testimoniare
quella visione non può che essere evangelica,
portatrice della buona novella per l’umanità. Per questo l'amore è l'ultima
parola convincente, sebbene non sia la parola più potente. La debolezza di Dio
è più forte della forza degli uomini e la stoltezza di Dio è più sapiente della
sapienza degli uomini: per questo a tutti gli uomini, di ieri, come di oggi e
di domani, a tutti spetta questa eredità, che è il Figlio di Dio fatto uomo.
I magi sono la figura della
manifestazione di Dio alle genti (con l’oro riconoscono la regalità misteriosa
di quel ‘bambino nato per noi’, con l’incenso riconoscono la sua divinità, con
la mirra la sua umanità pronta a soffrire la passione per la nostra salvezza).
Il loro far ritorno a casa per altra strada allude al fatto che chi si apre
all’adorazione di Dio riscopre la casa propria in altro modo, con altro
sguardo, sotto altri orizzonti. Questo mi induce a due osservazioni: 1) se il
Messia è promesso alle genti, di che cosa siamo noi credenti debitori al mondo?
Siamo debitori proprio della conoscenza del Signore. E questo debito pende
sulla nostra testa: ecco la responsabilità della testimonianza dei credenti di
fronte al mondo; 2) se il Messia è promesso alle genti, vuol dire che fin tanto
che tutte le genti non l’hanno conosciuto, la nostra stessa conoscenza del
Messia è manchevole, resta limitata. Come in un amore: fin tanto che non ho
trovato qualcuno che voglia bene a me, io non potrò scoprire quello che sono in
verità, quello che porto e di cui sono capace. Così è con Dio. Fin tanto che
tutti non l’hanno conosciuto, Dio non ha ancora avuto modo di manifestarsi in
tutta la sua ricchezza. Attendere questa manifestazione, nel cuore di tutti,
rende umili e adoranti e risponde al comandamento dell’amore verso tutti, anche
verso i nemici, finché la gloria di Dio si manifesti compiutamente.
§*§*§*§*§*§*§*§*§*§
Quarto ciclo
Anno liturgico A (2010-2011)
Tempo di Natale
Battesimo del Signore
(9
gennaio 2011)
_________________________________________________
Is 42,1-4.6-7;
Sal 28; At 10,34-38; Mt 3,13-17
_________________________________________________
La liturgia del battesimo di Gesù
chiude il ciclo natalizio. La Chiesa celebra, nel battesimo al fiume Giordano,
la manifestazione di Gesù al suo popolo e il mistero di salvezza che ne deriva,
collegato alla visita dei Magi e al primo miracolo a Cana di Galilea, come
canta l’antifona al Benedictus già risuonata nella festa dell’Epifania:
"Oggi la Chiesa, lavata dalla colpa nel fiume Giordano, si unisce a Cristo
suo Sposo; accorrono i magi con doni alle nozze regali e l'acqua cambiata in
vino rallegra la mensa". Il mistero è contemplato nell’ottica
dell’invocazione: "Dio onnipotente ed eterno, che nel Natale del Redentore
hai fatto di noi una nuova creatura, trasformaci nel Cristo tuo Figlio, che ha
congiunto per sempre a sé la nostra umanità".
L'immagine di fondo è quella delle
nozze: Dio sposa l'umanità. Il mistero d’amore intravisto con la nascita a
Betlemme, rivelato essere l’eredità di tutte le genti con l’adorazione dei
magi, celebrato nella sua gioia messianica alle nozze di Cana e ripresentato ad
ogni celebrazione eucaristica, qui è intuito nel suo percorso di attuazione con
la solidarietà dell’agnello innocente con i peccatori, in attesa che si
realizzi compiutamente con la sua morte-risurrezione. La deduzione immediata
che ne scaturisce è che oramai l'umanità appartiene in proprio a Dio, oramai
l'umanità, pur con tutto il suo carico di ferite e di paure, è carne del Figlio
di Dio, che se l'è assunta nella sua realtà, integralmente. Non si può più
parlare di umanità senza che sia Dio ad esserne implicato. Non si può più
gemere sull'umanità senza aver compassione di Dio.
La liturgia accosta al racconto del
battesimo il brano profetico di Isaia 42. È il testo che Matteo riprende
specificamente reinterpretandolo. “Appena
battezzato, Gesù uscì dall' acqua: ed ecco, si aprirono per lui i cieli ed egli
vide lo Spirito di Dio discendere come una colomba e venire sopra di lui. Ed
ecco una voce dal cielo che diceva: «Questi è il Figlio mio, l’amato:in lui ho
posto il mio compiacimento»”. E quando a Giovanni si presenta Gesù, per
vincere la sua ritrosia gli dice: “Lascia
fare per ora, perché conviene che adempiamo ogni giustizia”.
Questi versetti celano molti
misteri. Perché Gesù parla di ‘ogni giustizia’? Gesù non si attiene
semplicemente alla Legge; il suo comportamento parla di una sovrabbondanza assolutamente gratuita
dal punto di vista della Legge. Non aveva motivo di farsi battezzare, come lo
stesso Giovanni riconosce, perché lui non è peccatore. Ma lui solidarizza con i
peccatori, perché il mistero dell’amore di Dio per i suoi figli appaia in tutto
il suo splendore. Più tardi sarà accusato di stare con i peccatori, di
frequentarli, di essere un mangione e un beone, ma così viene svelata la giustizia di Dio. Se Gesù, secondo la
citazione di Isaia, viene da servo e
da eletto, nella ripresa di Matteo è
ormai il figlio e l’amato, proclamato dalla stessa voce
divina. Se la visione dei cieli aperti e della discesa dello Spirito è riservata
a Gesù, la voce è indirizzata a tutti.
In questa visione di Gesù si può
ravvisare l’autocoscienza della sua intimità con il Padre e della sua realtà
messianica con l’allusione a quella nuova creazione di cui le Scritture sono la
promessa. Come all’inizio della creazione lo
Spirito di Dio aleggiava sulle acque, così ora la discesa sopra di lui
dello Spirito, nella sua umanità, prefigura la nuova creazione. Non si tratta
tanto di vedere una colomba che discende quanto di vedere il planare dello Spirito
come una colomba, al modo di una colomba. Alla sua visione segue la voce, che
conferma per tutti quello che Gesù ha visto, nel senso di invitare tutti a
seguire quel Figlio nella rivelazione dell’amore del Padre per gli uomini.
La voce del Padre è quella di cui
Gesù dirà: “Io sono nel Padre e il Padre
è in me” (Gv 14,10); “Io dico quello
che ho visto presso il Padre” (Gv 8,38); “Io invece lo conosco” (Gv 8,55); “Faccio quello che il Padre mi ha comandato” (Gv 14,31). Le parole
pronunciate dalla voce, invece, sono la ripresa del brano di Isaia 42 riletto
con il testo di Sal 2,7 e di Gn 22,2 dove compaiono i termini figlio e amato. In particolare, amato,
non dice soltanto tutta l'intimità goduta tra il Padre e il Figlio, ma illustra
anche lo sconfinato amore per l'umanità che i due condividono. Amato o unico o preferito fa
pensare ad Abramo, pronto ad immolare il figlio Isacco (Gen 22,2); rimanda al
figlio della parabola dei vignaioli omicidi (Mc 12,6); ha attinenza con “Dio ha tanto amato il mondo da mandare il
suo Figlio unigenito” (Gv 3,16), ha attinenza al mistero dell'amore del
Padre per l'umanità di cui il Figlio è il rivelatore, lui che è il Volto
visibile del suo splendore. È l’amato
perché il Suo Amore di Padre in lui è perfetto nel senso che in lui si compie
perfettamente il Suo volere di benevolenza per l'umanità e lui non ha altro
volere che quello di compierlo perfettamente: “Mio cibo è fare la volontà del Padre” (Gv 4,34). È amato perché non solo il Suo Amore si
volge verso di lui , in lui si posa, ma anche si riposa, sta soddisfatto, ne
ottiene la risposta più piena.
Il risvolto tutto speciale del
mistero allude però a qualcos’altro. Lo sguardo di predilezione del Padre sul
Figlio non concerne più oramai solo la persona del Verbo, ma il Verbo nella sua
umanità, il Capo con le sue membra. La lettura del profeta Isaia riguarda
proprio l’identificazione di Gesù come il servo, l’identificazione del Messia
nella sua natura di servo. Non dimentichiamo che questo brano di Isaia ricorre
nella liturgia del lunedì della settimana santa, a sottolineare la dimensione
pasquale di quell’identificazione. In quella natura di servo siamo noi, nella nostra umanità, ad essere considerati. Non
dobbiamo perciò pensare che lo sguardo di compiacimento del Padre attenda a
posarsi su di noi allorquando saremo capaci di seguire Cristo in una vita
santa; è esattamente il contrario. Potremo impegnarci in una vita santa solo se
sentiremo sulla nostra umanità peccatrice, ferita e piena di paure, questo
sguardo di compiacimento perché Dio ama per primo, perché a Lui apparteniamo,
perché siamo la sua stessa carne. Ed è proprio perché la nostra fede squarcia
l’orizzonte per introdurci in questa visione che possiamo pregare, come citavo
all'inizio: " ... trasformaci nel Cristo tuo Figlio, che ha congiunto per
sempre a sé la nostra umanità".
In questa prospettiva acquista
particolare risonanza la parola di Gesù a Giovanni: “conviene che adempiamo ogni giustizia”. Con la voce del Padre sono
compiute tutte le Scritture perché la frase è costruita con i testi di Gn 22,2,
Is 42 e Sal 2,7, rispettivamente presi dalla Torah, dai Profeti e dai Salmi e,
nello stesso tempo, sono confermate per noi che possiamo fare esperienza della giustizia di Dio che è amore per noi.
§*§*§*§*§*§*§*§*§*§
Quarto ciclo
Anno liturgico A (2010-2011)
Tempo Ordinario
2a Domenica
(16 gennaio 2011)
_________________________________________________
Is
49,3. 5-6; Sal 39; 1Cor 1,1-3;
Gv 1,29-34
_________________________________________________
Il vangelo di Giovanni, a differenza
di Matteo, Marco e Luca, non riferisce direttamente né il battesimo di Gesù né
le tentazioni nel deserto. Preferisce riportare la testimonianza solenne del
Battista: “Ecco l’agnello di Dio, colui
che toglie il peccato del mondo!”, che era stata anticipata del resto già
nel Prologo. Chiaramente l’agnello rimanda al contesto pasquale in cui si
compie la salvezza, là dove il diavolo sarà definitivamente sconfitto. La
chiesa introduce il tempo ordinario dell’anno con la proclamazione, sulla base
appunto della testimonianza del Battista, che l’agnello è il Figlio di Dio.
Tre sono le figure che si
sovrappongono nel tentativo di cogliere la natura di quel profeta particolare
che si presenta a Giovanni in fila con i peccatori: agnello, servo, figlio. La
liturgia combina la proclamazione del Battista con la profezia di Isaia che
parla del servo obbediente scelto per riscattare Israele e divenire luce delle
nazioni. Si tratta del secondo canto del Servo obbediente, testo che viene
proclamato solennemente nella settimana santa, il martedì. Il sentimento che
regge la visione della chiesa in questa liturgia è descritto nell’antifona d’ingresso:
“Tutta la terra ti adori, o Dio, e
inneggi a te: inneggi al tuo nome, o Altissimo” (Sal 65,4), con l’invito,
subito dopo, nel versetto 5: “venite e
vedete le opere di Dio: terribile nel suo agire sugli uomini”. Come a
suggerire: sarà la modalità di agire tipica del Messia, espressa dalla figura
dell’agnello, a rivelare quanto è sconvolgente l’agire di Dio per gli uomini,
ma sconvolgente per l’inenarrabile profondità
del suo amore per noi.
Il brano di Isaia è commentato dal
salmo 39 con il ritornello: ‘Ecco, Signore, io vengo per fare la tua volontà’.
Il servo è il Figlio che ha lo stesso volere del Padre nel suo amore agli
uomini. L’espressione della sua obbedienza a quel volere di amore per gli
uomini si esprime con le parole ‘gli orecchi mi hai aperto’, che la versione
greca, ripresa dalla lettera agli Ebrei 10,5, rende con ‘un corpo mi hai preparato’. L’umanità del Figlio di Dio costituisce
l’obbedienza al volere di amore del Padre per gli uomini, umanità che con il
battesimo al Giordano viene consacrata per diventare luce delle nazioni e
portare salvezza al mondo. Quando il Battista testimonia che Gesù, che ha appena
battezzato, è il Figlio di Dio, svela il segreto di Dio al mondo: in
quell’umanità si giocherà l’amore di Dio agli uomini. Dove la luce di quella
salvezza risplenderà in tutta la sua potenza? Sulla croce, dove il Signore è
innalzato. Là conduce gli sguardi la figura dell’agnello di cui dà
testimonianza il Battista.
Se Gesù prende un corpo, lo prende
non solo per compiere il volere di salvezza di Dio per l’uomo, ma anche per
mettersi in condizioni di compiere quella salvezza in termini di splendore di
amore e di nient’altro. Non c’è ombra di ‘potenza’ nell’amore che Gesù
manifesta nascendo come un bambino, vivendo da uomo, presentandosi al battesimo
come un peccatore e morendo sulla croce; eppure, non c’è potenza più forte di
quell’amore che non si fa vincere da nulla. È l’amore che magnifica il Signore davanti all’uomo e l’uomo davanti a Dio.
E quando il salmo 39 usa
l’espressione ‘sul rotolo del libro’, l’allusione è all’insieme delle Scritture
che di quel segreto parlano. La figura dell’agnello raccoglie tutta la storia
del mondo, come suggerirà il libro dell’Apocalisse, rimandando all’agnello
immolato fin dalla fondazione del mondo (Ap 13,8) e alla luce di Dio e
dell’Agnello nella Gerusalemme celeste (Ap 22,5).
Non va dimenticato che la
proclamazione di Giovanni Battista: “Ecco
l'agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo!” risuona con la
stessa solennità e lo stesso stupore in ogni celebrazione eucaristica prima
della comunione. È diventato l'invito alla mensa del Signore. Come non sentire
qui la parola del salmo sopra riportata: “venite
e vedete le opere di Dio: terribile nel suo agire sugli uomini”?
Per partecipare a quale mistero? Lo
dice bene la preghiera dopo la comunione: "Infondi in noi, o Padre, lo
Spirito del tuo amore, perché nutriti con l'unico pane di vita formiamo un cuor
solo ed un'anima sola". Quello Spirito che Giovanni Battista ha visto
scendere e rimanere su Gesù, quello Spirito che l'ha condotto a dare la sua
vita per noi, quello Spirito che su di noi ha effuso dalla croce, in quello
stesso Spirito noi siamo battezzati, di quello stesso Spirito siamo rivestiti.
È lo Spirito dell'amore del Padre, lo Spirito del Figlio che è prediletto
proprio perché condivide con il Padre lo sconfinato amore per gli uomini per
riunire i quali non esita a mettere in gioco tutta la sua vita. Il compimento
della grazia dello Spirito è proprio quel mistero della fraternità che è
sacramento della paternità di Dio. È caratteristico che nel Canone eucaristico
si invochi due volte lo Spirito Santo: una volta, prima della consacrazione,
per trasformare il pane ed il vino nel Corpo e nel Sangue del Signore e
un'altra volta, dopo la consacrazione, per formare un unico corpo, per vivere
cioè il mistero della fraternità in tutta la sua potenza di rivelazione dell'amore
di Dio. La potenza e profondità della rivelazione dell'amore di Dio in questo
mondo si dispiega dentro il mistero della fraternità, nei cuori che, in Cristo,
Agnello di Dio, conoscono i segreti di Dio tanto da essere perfettamente
solidali con i loro fratelli al punto da portare insieme i loro i peccati,
ormai riconciliati con tutti.
§*§*§*§*§*§*§*§*§*§
Quarto ciclo
Anno liturgico A (2010-2011)
Tempo Ordinario
3a Domenica
(23 gennaio 2011)
_________________________________________________
Is
8,23 -9,3; Sal 26; 1Cor 1,10-13. 17; Mt 4,12-23
_________________________________________________
L’evangelista Matteo fa iniziare la
predicazione di Gesù nel nord della Galilea, territorio di popolazioni miste
perché soggetto a deportazioni e vassallaggi nella storia, situato lungo la via
che i vari conquistatori percorrevano per estendere i loro domini, la via tra
l’Egitto e l’Assiria, i due imperi antagonisti. Il riferimento a Isaia allude
proprio alla conquista assira nel secolo VIII, con la profezia della venuta di
un nuovo re liberatore. La luce che gli abitanti vedranno è la luce di colui
che Giovanni descriverà nel prologo del suo vangelo: “Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo”. Il
salmo responsoriale riprende la stessa immagine: “Il Signore è mia luce e mia salvezza”, con l’allusione al profeta
Isaia che descrive l’intervento salvifico di Dio come un portar fuori alla luce
dal buio di una prigione sotterranea. La liberazione di Dio comporta sempre un
rendere liberi e luminosi i suoi figli.
Matteo colloca la predicazione di
Gesù nella prospettiva di questa luce che
splende, luce che si esprimerà nel discorso della montagna con l’annuncio
delle beatitudini, che segue subito dopo e con le sue opere di guarigione da
ogni sorta di malattie e infermità. Il tono dell’evangelista è particolarmente
solenne quando dice ‘da allora cominciò a
predicare’ perché solo due volte usa questa espressione: qui, per
introdurre il ministero pubblico di Gesù e in 16,21 quando Gesù annuncia per la
prima volta ai discepoli la sua passione.
Risulta forse strano il fatto che
Gesù inizi la sua predicazione con le stesse parole che aveva usato il
Battista: “Convertitevi, perché il regno
dei cieli è vicino”. Ma se con il Battista l’accento era posto sul ‘convertitevi’,
ora con Gesù l’accento cade su ‘il regno dei cieli è vicino’. Come dicesse: se
volete che il regno di Dio diventi vostro, convertitevi, cioè acconsentite alla
visione che scaturisce dalla fede nel Figlio di Dio che è venuto a voi. È
quella visione che fa scaturire il ‘canto nuovo’ che l’antifona di ingresso,
riprendendo il salmo 95, celebra: “Cantate al Signore un canto nuovo, cantate
al Signore da tutta la terra”.
La realtà della vicinanza di quel
regno è tale che può toccare i cuori, che può muoverli a non desiderare altro
se non quel regno. Mi sembra questo il senso della chiamata degli apostoli, che
segue direttamente la proclamazione della vicinanza del regno da parte di Gesù.
Non si tratta tanto di raccontare da parte dell’evangelista la cronaca della
vocazione degli apostoli, ma di mostrare la potenza dell’iniziativa di Dio che
dà corso alla sua opera di salvezza. In effetti, non è la prima volta che quei
discepoli incontrano Gesù. Sappiamo dal vangelo di Giovanni che Andrea era
quello che aveva seguito Gesù, subito dopo il suo battesimo al Giordano, perché
voleva vedere dove abitava e che aveva raccontato l’esperienza a suo fratello
Pietro dicendogli che aveva trovato il Messia. In quell’occasione Simone,
figlio di Giovanni, fratello di Andrea, viene chiamato Pietro, proprio come
riporta Matteo: ‘Simone, chiamato Pietro’.
Gregorio Magno, commentando la
prontezza dei pescatori a seguire la chiamata di Gesù, riflette sul fatto che a
dire il vero quegli uomini avevano ben poco da lasciare essendo poveri. Ma,
aggiunge “ha molto lasciato chi non ha tenuto nulla per sé”. È appunto il senso
della fede genuina. Non importa lasciare poco o tanto; l'importante è non
conservare nulla per sé, vale a dire fidarsi fino in fondo, per tutto il
cammino, con tutte le fatiche che comporta, in modo che la grazia dell'incontro
possa rivelare tutti i suoi frutti, nel tempo.
Non si può non notare il fatto che
gli apostoli non sono stati chiamati semplicemente alla sequela di Gesù, ma
alla sequela di Gesù che è inviato a portare a tutti la salvezza e la
consolazione (vi farò pescatori di uomini).
Seguire Gesù comporta un’esperienza di vita, la condivisione del suo
insegnamento e della sua missione; dice prima di tutto quanto l’intimità di
vita con il Signore sia sconfinata nel senso che non può ripiegarsi su se
stessa, ma continuamente si traduce in condivisione della misericordia di Dio
per l'umanità. L'intimità con Dio comporta sempre una buona dose di sana
angoscia per i propri fratelli e per questo non sta mai ferma: fin dove c'è un uomo, fin dove c'è un livello di umanità non
ancora aperto alla grazia dell'incontro, fin dove c'è una malattia da curare,
l'apostolo, come Gesù, non si dà pace. Più profonda è la pace che viene dalla
grazia dell'incontro, meno pace si dà finché tutti i fratelli possano godere
della stessa grazia. Il senso del guarire ogni
sorta di malattie e di infermità da parte di Gesù in missione, come avverrà
per gli apostoli inviati in missione (imporranno
le mani ai malati e questi guariranno, Mc 16,18), è proprio questo:
condividere la misericordia di Dio per l’umanità.
Un altro particolare poi è
estremamente significativo. Gesù li chiama non semplicemente a seguirlo, ma a mettersi dietro a lui, come poi dirà
Gesù a Pietro quando lo rimprovererà per aver pensato non secondo Dio (cfr. Mt
16,23). Corrisponde a quanto il salmo fa dire al fedele: “Una cosa ho chiesto al Signore, questa sola io cerco: abitare nella
casa del Signore tutti i giorni della mia vita”. Qual è l’unica cosa
necessaria da domandare? Tutto dipende dalla profondità che nei nostri cuori ha
raggiunto la conversione al vangelo del
regno.
§*§*§*§*§*§*§*§*§*§
Quarto ciclo
Anno liturgico A (2010-2011)
Tempo Ordinario
4a Domenica
(30 gennaio 2011)
_________________________________________________
Sof 2,3;
3,12-13; Sal 145; 1Cor 1,26-31; Mt 5,1-12a
_________________________________________________
Con la proclamazione delle
beatitudini Gesù esplicita l’obiettivo della conversione e la natura della sua
sequela. L’uomo aspira alla felicità? Allora Gesù ne traccia le coordinate che
la strutturano perché il cuore dell’uomo non fallisca lo scopo della vita.
Potremmo prima di tutto domandarci:
perché è venuto meno il timbro della gioia nell’esperienza della vita cristiana
in questo mondo? Perché la sequela del Signore sembra suscitare più timore che
felicità? Non ci siamo più premurati di cogliere le beatitudini come porte di
accesso al mistero di Dio che viene a noi e al mistero dei cuori quanto agli
aneliti che li attraversano, limitandoci a vederle come un ideale di perfezione
da perseguire, di fatto però irraggiungibile e perciò ininfluente sulle energie
di vita dei cuori.
La liturgia ce le fa leggere dentro
la prospettiva del ‘regno’, come il salmo responsoriale 145 sottolinea,
esplicitando la profezia di Sofonia: “Il
Signore regna per sempre”. L’espressione corrisponde a quanto proclamerà la
moltitudine dei santi in paradiso: “La
salvezza appartiene al nostro Dio seduto sul trono e all'Agnello” (Ap
7,10). Se l’uomo non può darsi la salvezza, nemmeno può darsi la felicità. Il
salmo lo dichiara a chiare lettere quando nei primi versetti dichiara: “non confidate nei potenti, in un uomo che
non può salvare”, da rendere con più precisione, secondo la versione greca:
‘in un uomo che non ha salvezza’.
La felicità è paradossale. Non la si
prende dove sembra di vederla, ma la si ottiene spesso con ciò che sembra il
contrario. Perché in gioco è la credibilità stessa di Dio che viene incontro
all'uomo, senza però mai poterlo convincere all'evidenza. Nella felicità è in
gioco non semplicemente l'esaudimento di un cuore, ma l'incontro di due, la
comunione di due.
La stessa struttura di proclamazione
delle beatitudini lo rivela. Alla condizione descritta segue una promessa; ciò
significa che non si tratta di conquistare la felicità, ma di attirarla, di
riceverla in dono, di poterci entrare. Ciò che le beatitudini hanno di
paradossale deriva dall'esperienza di un incontro assoluto che pone tutto il
resto in sott'ordine (ecco perché le beatitudini seguono l’incontro con Gesù
che invita alla conversione e alla sua sequela). E tutto il resto sta in
sott'ordine perché è tale la potenza che si sprigiona da quell'incontro che
nulla potrà sostituirsi al suo fascino. La beatitudine che proclama Gesù deriva
dalla comunione con la sua, da quella vita con il Padre e lo Spirito che lo
rende così Figlio da non volere altro per sé se non di vedere tutti immersi
nello stesso amore del Padre. Deriva dalla rivelazione dell'esperienza del
Regno ormai giunto fino a noi, ormai schiuso nella sua inaccessibilità e nel
suo mistero tanto da schiudere ogni evento alla sua realtà. Occorrerà però
attendere che tutto sia compiuto nella vita di Gesù con la sua morte e
risurrezione per intuire tutto lo spessore di quella esperienza e la bellezza
di quella rivelazione.
Le beatitudini sono otto. La prima e
l’ultima comportano la stessa promessa: ‘perché
di essi è il regno dei cieli’ e racchiudono le altre sei. C’è un doppio
movimento nell’elenco delle beatitudini: un movimento di concatenazione e un
movimento circolare. La concatenazione riguarda lo spazio definito dalla
seconda alla settima, mentre il movimento circolare è dato dal ritornare
dell’ottava alla prima per riavviare, a livelli sempre più profondi, la
concatenazione. Se non si coglie il dono di quel ‘regno dei cieli che è venuto
a noi con Gesù’, come poter afferrare la potenza di quella felicità nuova
promessa? In effetti, la felicità è definita nei termini di una appartenenza (‘di essi è il regno dei cieli’),
appartenenza che allude a una comunione di amore ardentemente desiderata e
finalmente goduta. Corrisponde al godimento del regno proclamato nella parabola
profetica del giudizio finale, alla gioia del banchetto messianico, alla
consumazione di un amore che aveva ferito il cuore. Solo che le condizioni che
la permettono sono paradossali: si parla di povertà e di persecuzione. Il
significato mi sembra questo: l’esperienza promessa è nuova rispetto a tutto
ciò che può produrre il mondo. Ma è tale che può portare a compimento tutto ciò
che nel mondo si vuol vivere.
In effetti, le promesse di
compimento rispetto alle condizioni elencate (beati gli afflitti, i miti, gli
affamati della giustizia, i misericordiosi, i puri di cuore, gli operatori di
pace) parlano di qualcosa che i nostri
cuori cercano comunque: essere consolati, godere ciò che ci appartiene, essere
saziati negli aneliti più profondi, essere graziati anche nella nostra
indegnità (=misericordia), essere fatti capaci di vedere, vivere nella
comunione del Padre da figli felici.
Tenuto conto che Gesù parla a cuori
che si stanno aprendo alla rivelazione del regno giunto a loro, la felicità
scaturisce dai passaggi indicati:
se ti affliggi solo per la potenza
del male che ti domina e dal quale vuoi esserne liberato;
se non avrai altro motivo di ira se
non quello di opporti al maligno e così custodirti dolce con tutti; se
cercherai la giustizia al di sopra del tuo interesse;
se condividerai con tutti la
misericordia che avrai gustato nel perdono di Dio;
se sarai così privo di rivendicazioni
e pretese da vedere tutto e tutti nella luce di Dio di cui godrai la presenza;
se seguirai l’opera di Dio che è la
fraternità tra gli uomini,
allora – è la promessa della settima
beatitudine – sarai come il Figlio di Dio che, per essere venuto a testimoniare
quanto è grande l’amore di Dio per gli uomini, non ha preferito se stesso
all’amore che lo divorava e ha accettato di essere consegnato nelle mani degli
uomini.
Se nella persecuzione l’uomo non
perde la sua gioia, allora vuol dire che la potenza del Regno l’ha lambito, che la sua felicità non dipende più dal mondo.
Non avrà più bisogno di cercare altra affermazione di sé perché ha trovato
quella capace di soddisfare l’anelito del suo cuore, che così sarà confermato
nella rinuncia alla brama di ogni bene che non sia espressione di
quell’esperienza. Tanto che si affliggerà ancora più profondamente del male che
in lui si annida e ripercorrerà la concatenazione dei passaggi a livelli sempre
più coinvolgenti, finché tutto in lui splenda della bellezza del Regno.
§*§*§*§*§*§*§*§*§*§
Quarto ciclo
Anno liturgico A (2010-2011)
Tempo Ordinario
5a Domenica
(6 febbraio 2011)
_________________________________________________
Is
58,7-10; Sal 111; 1Cor 2,1-5;
Mt 5,13-16
_________________________________________________
Gesù proclama: “Voi siete il sale della terra… Voi siete la luce del mondo…”. Quel
‘voi’ si riferisce ai discepoli la cui vita esprime la potenza delle
beatitudini che immediatamente prima Gesù aveva proclamato. Si tratta di quei
discepoli che, insultati, perseguitati, sparlati, custodiscono la letizia
dell’incontro con il Signore Gesù, che è diventato per loro ragione di vita e
principio dell’agire. Non per nulla la liturgia fa leggere, abbinato al brano
evangelico di Matteo, un passo del profeta Isaia dove si profetizza l’esistenza
dell’Israele gradito a Dio come una esistenza ricca di misericordia per tutti,
ricca del dono della fraternità a tutti perché segno della comunione realizzata
con Dio, che si è reso presente in mezzo a loro. La luce di cui risplende
l’umanità abitata da Dio è la luce della fraternità condivisa.
La colletta, al di là delle parole
che usa, esprime la consapevolezza della singolarità e dell’eccellenza
dell’esperienza evangelica che Gesù richiama con l’immagine del sale e della
luce. Non si tratta di una possibilità, ma di una grazia: è la grazia di un
incontro, che si è tradotto in comunione di vita. La testimonianza di Gesù si
risolve nel far vedere quanto è grande l’amore del Padre per gli uomini, che
vuole riuniti nella comunione con lui e fra di essi. La forza che realizza tale
comunione è lo Spirito donato da Gesù, Spirito la cui opera precipua è proprio
quella di realizzare un’umanità solidale, in Cristo Gesù. Quando i discepoli,
che hanno condiviso con Gesù il segreto
del Padre, si lasciano travolgere dalla stessa dinamica di rivelazione
dell’amore di Dio per gli uomini, diventano sale della terra e luce del mondo.
Prima di tutto sale. La potenza
dell’immagine risiede nel fatto che il sale dà sapore alle cose ma le cose non
possono dare il sapore al sale. Il che significa: i discepoli sono chiamati a
permeare il mondo con la sapienza del vangelo, ma non servono a nulla se il
mondo permea loro con la sua sapienza. I discepoli, mantenendo il mondo degli
uomini nell’alleanza con il loro Dio, che li vuole in comunione con lui e tra
di loro, tornano a far splendere la Sua presenza tra di loro e rendono la vita
desiderabile e amabile.
Poi luce. Un’antica glossa bizantina
spiega il passo di Matteo così: “Non dice: voi siete luci, ma voi siete luce,
perché essi [discepoli] tutti insieme sono il corpo del Messia che è la luce
del mondo” (cfr. Gv 3,19; 8,12). Diventano luce del mondo nel senso che la
presenza di Dio, resa come visibile nel mondo attraverso il loro agire secondo
le beatitudini, costituisce l’orizzonte di senso della vita. Le beatitudini non
sono se non le strade per le quali si può partecipare alla effusione
nell'universo della carità pura di Dio. È la carità a custodire i cuori
preservandoli dalla corruzione e facendo gustare il sapore genuino della vita
(ecco l'azione del sale) e li illumina aprendoli alla verità e riscaldandoli
(ecco l'azione della luce). Da notare che si può essere sale senza essere
necessariamente luce per il mondo, ma non è possibile essere luce per il mondo
senza essere sale. Ciò significa che si riceve il gusto della vita dal Cristo,
vivendo del Suo Spirito, la cui opera è la fraternità tra gli uomini come
sacramento dell'amore del Padre e così si compie il mistero della nostra
umanità, aprendola all'esperienza dell'amore di Dio. Non si tratta quindi di
far vedere le nostre opere buone, che suonerebbero fesse perché piene di
vanità, ma di far sì che le opere buone siano a vantaggio, per profitto degli
uomini [così si dovrebbe tradurre il ‘davanti agli’ uomini] permettendo loro di
sperimentare l’amore di Dio per loro.
La parola del profeta Isaia illustra
bene le condizioni che permettono al discepolo di essere sale e luce. Vorremmo,
sì, percepirci luminosi, ma non è certamente un fatto scontato, dal momento che
tutti facciamo i conti con la tenebra che oscura il nostro cuore in termini di
chiusura, oppressione, angoscia. “Se
toglierai di mezzo a te l'oppressione, il puntare il dito e il parlare empio
... allora brillerà fra le tenebre la tua luce”. Quando Massimo Confessore
spiega l'invocazione 'non ci indurre in tentazione' nella preghiera del Padre
Nostro, ha l'ardire di precisare: “La
Scrittura rivela infatti con questo come chi non ha perfettamente perdonato a
chi cade e non ha presentato a Dio un cuore privo di tristezza, reso splendente
dalla luce della riconciliazione con il prossimo, non otterrà la grazia dei
beni per cui ha pregato, e, per giusto giudizio, sarà consegnato alla
tentazione e al Maligno. Imparerà così a purificarsi dalle colpe, eliminando le
sue lagnanze contro gli altri …”. Ci dice in sostanza che non subiremo
tentazioni se avremo la capacità, da assimilare poco a poco, di non accusare
nessuno perché allora - continua Isaia – “implorerai
aiuto ed egli dirà: Eccomi!”. Quando il cuore non accusa nessuno, neanche
se stesso, non può cedere all'oppressione, perché il Signore è con lui. Non c'è
sventura o afflizione capace di ferirlo a tal punto da aver bisogno di cercare
la sua giustizia o la sua rivalsa contro qualcuno, distogliendolo dall'intimità
con il suo Signore.
Un’ulteriore considerazione. Siamo
abituati a riferire la luce all’intelligenza. Ma la Scrittura suggerisce un
riferimento diverso. È sempre il profeta Isaia a dire che la luce sorge se si
spezza il pane con l’affamato, se si ha misericordia del prossimo. La luce
viene per l’agire del cuore. All’esercizio dell’intelligenza va abbinato il
calore del cuore, perché è il cuore il luogo della presenza, dell’incontro.
Solo in questo calore l’intelligenza è retta. Quando Matteo dirà: “siate perfetti come è perfetto il Padre
vostro celeste” (5,48), lo dirà in seguito all’invito ad amare i propri
nemici e Luca interpreta: “Siate
misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso” (6,36).
Se Gesù chiede ai discepoli di essere
la luce del mondo, vuol dire che chiede loro di essere il segno della
misericordia di Dio tra gli uomini, come lo è lui stesso. Se la nostra opera
buona non è l’eco della bontà di Dio, non rende Dio più vicino ai cuori, perché
parlerebbe solo di noi e non di lui.
§*§*§*§*§*§*§*§*§*§
Quarto ciclo
Anno liturgico A (2010-2011)
Tempo Ordinario
6a Domenica
(13 febbraio 2011)
_________________________________________________
Sir
15,15-20; Sal 118; 1Cor 2,6-10;
Mt 5,17-37
_________________________________________________
Il senso delle letture di oggi è ben
descritto dall’antica colletta: “O Dio, che hai promesso di essere presente in
coloro che ti amano e con cuore retto e sincero custodiscono la tua parola,
rendici degni di diventare tua stabile dimora”.
Le parole del Signore, i suoi
comandamenti, non sono semplici ingiunzioni o precetti alla cui osservanza è
promessa la nostra beatitudine futura. Sono assai di più, sono rivelazione di
Sé, modalità di partecipazione alla stessa vita divina, spazi di comunione con
lui e con i fratelli, luoghi di intimità.
Lo possiamo percepire
nell’affermazione di Gesù che commenta la proclamazione delle sue beatitudini:
“Non crediate che io sia venuto ad
abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto ad abolire, ma a dare pieno
compimento ... Avete inteso che fu detto agli antichi ... Ma io vi dico
...”. Negli esempi che porta, Gesù mostra la reale intenzione di Dio per l’uomo
quanto all’esigenza della santità della vita perché noi non ci si chiuda nella
menzogna. Non basta evitare di uccidere; Gesù svela la natura omicida dell’ira,
del disprezzo, della ribellione contro il proprio fratello. La preghiera è
gradita a Dio, ma solo a condizione che il cuore l’innalzi dallo spazio di
riconciliazione voluto e cercato con i propri fratelli. Il cuore si sporca non
solo con gli atti compiuti, per esempio, l’adulterio consumato, ma anche con i
desideri cattivi che lo attraversano quando sono trattenuti e fomentati. L’uomo
purtroppo è anche capace di snaturarsi: l’occhio, che dovrebbe aiutarlo a
percepire l’inciampo per non cadere, è esso stesso occasione di caduta quando
serve il desiderio cattivo. Non aiuta l’uomo la verità che ha bisogno di essere
comprovata da continui giuramenti: tutto ciò che non procede dalla semplicità,
viene dal maligno, vale a dire rivela la copertura di menzogna nella quale
viviamo.
Gesù fa vedere la forza della
proclamazione del Siracide: “Se vuoi
osservare i suoi comandamenti, essi ti custodiranno; se hai fiducia in lui,
anche tu vivrai”. Quando la Parola è la nostra dimora, allora anche la
promessa di vita che racchiude ci apparterrà, diventerà il nostro segreto. Con
l’umiltà e la gioia di chi, come dice san Paolo: “Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in
cuore di uomo, Dio le ha preparate per coloro che lo amano”. Proprio come
la colletta pregava: ‘rendici degni di diventare tua stabile dimora’. E si
diventa dimora con il custodire le parole (comandamenti) di Gesù, finché siano
loro a custodire il nostro cuore nella gioia che rilasciano. Come ancora il
Siracide proclama: “I suoi occhi sono su
coloro che lo temono”. È il senso della compagnia di Dio che custodisce,
ristora, infonde coraggio, consola.
Saldi nella fiducia che questo è il
dono di Dio per noi, senza alcun merito da parte nostra, come proclama il canto
al vangelo: “Ti rendo lode, Padre, perché
ai piccoli hai rivelato i misteri del Regno”. Gesù formula questa preghiera
di lode vedendo i discepoli ritornare tutti contenti dalla loro missione di
predicazione e li avverte che la gioia che provano non dipende dalla grandezza
delle opere compiute, ma dal vivere la comunione con Dio che vuole la salvezza
di tutti. Tale principio di comunione non tiene in alcun conto la grandezza
degli uomini, tanto che quando Gesù dovrà svelare il suo destino di Messia
annunciando la sua passione si premurerà di tenere i suoi discepoli al riparo
da quella meschina grandezza, così ambita dagli uomini. La cosa è ribadita nel
brano evangelico di oggi dicendo che gli uomini, davanti a Dio, non saranno
grandi se faranno cose grandi, ma se terranno aperte le cose piccole, ogni cosa
più piccola, al mistero del Regno, alla percezione del Regno. Quello che vale
per le Scritture, vale anche per la nostra vita.
In questa luce, la ‘giustizia
superiore’ alla quale Gesù invita i suoi discepoli non si riferisce ad opere
diverse da quelle comandate in precedenza, come esistesse un’opera maggiore
rispetto a quelle di prima, ma alla capacità di percezione e alla fedeltà
all’intenzione segreta di Dio a cui le opere richieste rimandano. Il
‘compimento’ di cui parla Gesù non allude all’aggiunta di qualcosa, ma alla
radicalità dell’esperienza che rimanda direttamente a Dio e alla sua
rivelazione. Il compimento di Gesù, che risalterà in tutto il suo splendore con
la sua passione e morte, mostra la profondità di provenienza dei comandamenti e
la bellezza della promessa di Dio racchiusa nei comandamenti perché l’uomo
possa finalmente godere della comunione con il suo Dio, dentro un’umanità
solidale, e non semplicemente ‘tenerlo buono’con la propria giustizia, perché
la propria giustizia non fa splendere il cuore.
§*§*§*§*§*§*§*§*§*§
Quarto ciclo
Anno liturgico A (2010-2011)
Tempo Ordinario
7a Domenica
(20 febbraio 2011)
_________________________________________________
Lv
19,1-2.17-18; Sal 102; 1Cor 3,16-23;
Mt 5,38-48
_________________________________________________
Di fronte al brano evangelico di
oggi potremmo domandarci con realismo: i nostri cuori sono davvero all’altezza
delle parole di Gesù? Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo
prossimo e odierai il tuo nemico. Ma io vi dico: amate i vostri nemici ...:
è una parola alla nostra portata? Sembra che le parole
di Gesù alludano a un’eccedenza (se uno ti dà uno
schiaffo sulla guancia destra, tu pórgigli anche
l’altra ... a chi vuole portarti in tribunale e toglierti la tunica, tu lascia
anche il mantello ... se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa
fate di straordinario? ...Voi, dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre
vostro celeste), a un di
più che renderebbe la vita nostra assai più desiderabile, ma frustrante spesso per l’incapacità
di accedervi.
Evidentemente Gesù non ha di mira
semplicemente il buon comportamento, una forma di giustizia basata sul
principio della reciprocità alla quale gli uomini in genere si attengono: io ti
faccio questo se tu mi fai lo stesso. Gesù invita invece alla santità come
comunione di vita con Dio, alla santità come partecipazione all’amore di Dio
per i suoi figli. L’invito allude alla natura stessa del cuore dell’uomo, che
ha una profonda nostalgia di Dio. Non tanto però di Dio in
generale, ma dei comportamenti secondo Dio, comportamenti che strutturano i
sogni del cuore degli uomini. Con l’invito a quell’eccedenza, Gesù non fa che svelare le possibilità del cuore dell’uomo una volta che si lasci toccare
dalla rivelazione del regno dei cieli che in lui si fa manifesto e
partecipabile.
Non c’è scritto da nessuna parte
nell’Antico Testamento di amare il prossimo e odiare il nemico. Quella
espressione non appartiene alla rivelazione di Dio. Al cuore dell’uomo sembrava
di poter interpretare il comandamento di Lv 19,18: Amerai il tuo prossimo come te stesso nel senso di: tu devi amare
il tuo compagno, ma sei dispensato dall’amare il tuo nemico. Gesù ricollega l’amore del prossimo all’imitazione di Dio,
il cui nome, rivelato a Mosè sul Sinai e ripreso dal salmo 102, suona: Misericordioso e pietoso è il Signore, lento all’ira e grande nell’amore. La misericordia è tipica di
Dio. Nell’Antico Testamento l’aggettivo misericordioso è attribuito solo a Dio e mai all’uomo, mentre nel
Nuovo Testamento l’aggettivo perfetto si dice dell’uomo e mai di Dio. Il che
significa che ciò che fa
splendere il cuore dell’uomo è l’amore
pieno di misericordia: esprime la partecipazione alla santità di Dio e la natura della perfezione richiesta all’uomo.
E la perfezione propriamente consiste nell’avere un cuore non diviso, come
ricorda la lettera di Giacomo 1,4-8.
Se consideriamo il passo parallelo
di Luca, con gli esempi che adduce, cogliamo ancora meglio quale sia la natura
della perfezione richiesta all’uomo per godere della rivelazione del regno dei
cieli:
fate del
bene a coloro che vi odiano: agite in
modo che risplenda il bene per coloro che vi odiano;
benedite
coloro che vi maledicono: portate in
pace la maledizione che vi viene dagli uomini senza scadere nella vendetta
delle parole, mantenete il cuore nella pace senza corromperlo con la rabbia di
parole insolenti, non ricambiate con parole irose chi vi ferisce, né in voi
stessi né in presenza d’altri, custodendo l’onore per la persona che l’ha
calpestato;
pregate per
coloro che vi trattano male [che vi
calunniano]: resistete alla tristezza che vi invade quando siete calunniati per
malevolenza e invidia; la preghiera sincera vi custodirà nella carità.
Così la ricompensa di cui parla
Matteo allude all’agire che esprime la gioia del Regno di Dio che ha lambito il
cuore e che rende capace l’uomo di comportarsi non in termini di pura
reciprocità ma in una logica di sovrabbondanza. È la capacità che il
Messia dona ai suoi discepoli, quello che l’antica colletta domanda: possiamo
conoscere ciò che è conforme
alla tua volontà e attuarlo
nelle parole e nelle opere. Da interpretare: possiamo aprire il nostro cuore
alla promessa di vita che la parola del Signore cela e possiamo aprire gli
eventi della nostra vita al Regno che viene.
Se la Legge aveva stabilito quella
che siamo soliti chiamare la legge del taglione nel tentativo di arginare la
sete di vendetta di fronte alle offese, Gesù ricorda di non opporsi nemmeno al
malvagio, nel senso di rispondere al male con il bene perché il male non si
propaghi. Gli esempi hanno un valore simbolico per sottolineare l’eccedenza nel volere il bene comunque
(come racconta Gv 18,22-23, Gesù non ha
offerto l’altra guancia a colui che l’aveva schiaffeggiato di fronte al Sommo
Sacerdote, ma ha custodito comunque il bene; chi ti costringe ad accompagnarlo
per un miglio allude al diritto dei funzionari del re di costringere chiunque
all’aiuto richiesto, come sarà il caso del
cireneo che porterà la croce di Gesù per un tratto di strada e Gesù invita ad
agire non per dovere o sotto costrizione, ma in benevolenza). La finale, che
riassume il senso di tutti gli esempi riportati: Voi, dunque, siate perfetti come è perfetto il
Padre vostro celeste, richiama
proprio la santità di Dio che è amore per tutti i suoi figli, il cui bene precede l’agire
degli uomini e quindi non ne dipende. L’eccedenza a cui allude Gesù ha proprio a che fare con questo Bene di Dio che in
Gesù si comunica all’uomo perché l’uomo non dipenda mai dal male, anche se lo subisce.
La legge potrebbe essere definita come la fatica di arginare il male, mentre l’evangelo
la possibilità di vincerlo. Alla fin fine solo la fiducia in quella
possibilità ci rende capaci di non dar spazio al male.
§*§*§*§*§*§*§*§*§*§
Quarto ciclo
Anno liturgico A (2010-2011)
Tempo Ordinario
8a Domenica
(27 febbraio 2011)
_________________________________________________
Is
49,14-15; Sal 61; 1Cor 4,1-5;
Mt 6,24-34
_________________________________________________
Perché la fiducia in Dio trova
spesso le porte chiuse del nostro cuore? Certo non per cattiveria, non per
incredulità, ma per l’oppressione degli affanni e delle afflizioni della vita.
Il Signore lo sa e in molte occasioni cerca di conquistarci alla fiducia. È
l’argomento delle letture di oggi.
Il brano di Isaia lo dichiara
splendidamente: “Si dimentica forse una
donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere?
Anche se costoro si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai”.
Sono le parole con cui Dio risponde all’angoscia del popolo: “Il Signore mi ha abbandonato, il Signore mi
ha dimenticato”. Il profeta aveva già annunciato il ritorno glorioso degli
esuli nella terra dei padri, ma quando sarebbe avvenuto? Ogni israelita poteva
domandarsi: lo potrò vedere io? In altre parole: è possibile nelle afflizioni
continuare a fidarsi di Dio?
Il brano di vangelo risponde a
questo interrogativo e ne stabilisce come la condizione di fondo: non si possono
servire due padroni, non è salutare preoccuparsi del domani, non serve affatto
preoccuparsi. Sì, ma l’indicazione di Gesù non procede da buone ragioni. Mira
ad altro. Invita i cuori all’esperienza della fede, esperienza che deriva dal
fascino suscitato dal nuovo annuncio evangelico di Gesù, che si presenta come
il Dono di Dio all’uomo. Sarà la sua vita, il suo agire, le sue parole a far
vedere giunto fino a noi il Regno di Dio, a convincerci dell’amore grande del
Padre per i suoi figli di cui cerca la compagnia. Senza la percezione gioiosa
di questa ‘novità’, sarà difficile mantenere la fiducia in Dio quando le
preoccupazioni, d’altronde necessarie, della vita ci assilleranno fino a
soffocarci.
Matteo inserisce le ammonizioni di
Gesù nel contesto di una ritrovata libertà dalle preoccupazioni per un cuore
conquistato dall’annuncio del vangelo tanto da indurlo a focalizzare tutti i
suoi sforzi su di un unico obiettivo: custodire la gioia del vangelo nelle
vicissitudini quotidiane. Luca, invece, inserisce le stesse ammonizioni nel
contesto della testimonianza del discepolo di Gesù di fronte al mondo. L’invito
a non preoccuparsi dei beni della vita diventa l’invito a non avere paura, a
non temere quello che ci può venire dagli uomini perché “al Padre vostro è piaciuto dare a voi il Regno” (Lc 12,32).
Evidentemente, il cuore deve poter essersi già dischiuso a percepire la
bellezza di quel ‘regno’, di cui la Chiesa è allusiva e di cui è la memoria tra
gli uomini e per il quale la fede nel Cristo Signore è porta di accesso. La
narrazione evangelica tende a questo, come del resto tende a questo anche la
celebrazione liturgica.
Quando il canto al vangelo proclama
che “la parola di Dio è viva ed efficace, discerne i sentimenti e i pensieri
del cuore”, nel contesto del brano evangelico odierno significa: non si può a
lungo mescolare ciò che è importante, essenziale, con ciò che è superficiale,
vacuo. Se la parola del Signore tocca il nostro cuore, allora appare subito
evidente che non si può barattare il di più con il di meno. Se voglio la
ricchezza comunque, ciò vuol dire che non voglio il Signore e quindi non mi
interessa la giustizia; se voglio il mio diritto comunque, ciò significa che
non mi sta a cuore il prossimo; se voglio un bene a scapito della giustizia, ciò
significa che non voglio la pace: “Solo
in Dio riposa l’anima mia: da lui la mia speranza”.
Di fronte alle preoccupazioni e alle
vicissitudini della vita, Gesù invita: “Cercate
invece, anzitutto, il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi
saranno date in aggiunta”. È come un invitare a vivere da dentro una
relazione riuscita, quella per cui tutte le cose che cerchiamo trovano la loro
destinazione di fondo. Non agire in questo modo significa vivere a partire
dall’assillo della paura che attanaglia il cuore dell’uomo. Non è solo la paura
di non avere quello che ci è necessario, ma la paura che altri prendano quello
che è nostro, per cui la lotta contro la paura si risolve nella diffidenza
verso tutti e nella lamentela contro la vita.
La scoperta da fare è proprio la
benevolenza di Dio che ha deciso di ‘darci il Regno’ comunque. Il ‘regno’ non
si sostituisce ai beni di questo mondo, che ci sono necessari. Fa’ in modo che
il perseguimento dei beni non ci perverta il cuore, contro noi stessi e contro
il prossimo; fa in modo che i beni raggiungano la loro vera destinazione nel
senso di schiudere il cuore alla gratitudine e alla condivisione perché l’amore
di Dio splenda nel mondo. Non si tratta però di una saggezza umana, forse anche
condivisibile, ma incapace di rispondere al dramma dell’uomo e della storia. Si
tratta del segreto di Dio per l’uomo, che Gesù svela e che partecipa ai cuori
che sono disposti ad accoglierlo, come più avanti nel racconto evangelico dirà:
“Venite a me, voi tutti che siete stanchi
e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate
da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita.
Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero” (Mt 11,28-30).
§*§*§*§*§*§*§*§*§*§
Quarto ciclo
Anno liturgico A (2010-2011)
Tempo Ordinario
9a Domenica
(6 marzo 2011)
_________________________________________________
Dt
11,18.26-28.32; Sal 30; Rm 3,21-25a.28; Mt 7,21-27
_________________________________________________
Con il brano di oggi termina il
grande discorso della montagna, che Matteo sigilla con l’annotazione: “Quando Gesù ebbe terminato questi discorsi,
le folle erano stupite del suo insegnamento: egli infatti insegnava loro come
uno che ha autorità, e non come i loro scribi”.
Il brano di oggi suona come la
conclusione che ha il valore di suggerire l’atteggiamento interiore appropriato
per l’ascolto di tutto il lungo discorso precedente: “Non chiunque mi dice: ‘Signore, Signore’, entrerà nel regno dei cieli,
ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli”. Sono parole che
sentiremo emergere dal fondo del cuore allorquando ci troveremo, insieme a
tutti i nostri fratelli, senza distinzione alcuna, alle porte del regno dei
cieli davanti al Signore giudicante. Verrà svelato il segreto dei cuori, senza
più possibilità di darla a intendere. La parabola del giudizio finale riportata
in Matteo 25 dice la stessa cosa. Quelle parole servono ora come discriminante
per la sincerità del servizio divino di fronte alla parola di Dio che risuona
sulle labbra di Gesù e in tutte le Scritture: si ascolta per fare e si fa per
ascoltare.
Nella tradizione ebraica, nella
quale si inserisce la parabola di Gesù della casa costruita sulla roccia o
sulla sabbia, si spiegava la cosa in questi termini: “Colui le cui opere
superano la sua sapienza, la sua sapienza si mantiene. Ma colui la cui sapienza
supera le sue opere, la sua sapienza non si mantiene” (Detti dei Rabbini, III,
11). Chiunque accoglie la Parola con l’intenzione di metterla in pratica, nel
momento stesso in cui l’accoglie con questa intenzione, è come se l’avesse
messa in pratica. Proprio come sottolinea il libro dell’Esodo: “Faremo e ascolteremo” (Es 24,7) e non
‘ascolteremo e poi faremo’, cosa di per sé più logica. E si aggiunge che quando
le opere dell’uomo superano la sua sapienza, il suo desiderio di sapienza è più grande della sapienza che ha, ed egli
si trova ogni giorno ad accrescere il suo sapere. Ma se la sua sapienza supera
le sue opere, il suo desiderio di sapienza è inferiore alla sapienza che ha, e
così il suo sapere diminuisce costantemente.
Ascoltare per mettere in pratica:
questo è l’atteggiamento adatto all’ascolto della parola di Dio. La si
comprende se ci accetta in anticipo di metterla comunque in pratica; diversamente,
il suo segreto resta velato ai nostri occhi e non alimenterà la vita del nostro
cuore. Siamo salvati per la fede, ma saremo riconosciuti sinceri nella nostra
fede solo per la carità. E la carità, che corrisponde a quella ‘volontà del
Padre’ di cui parla Gesù, è la misericordia verso il prossimo, vera
discriminante dell’autenticità della fede nel Signore Gesù. È interessante
osservare che nella parabola di Gesù l’uomo che costruisce sulla roccia è un
uomo ‘saggio’, mentre chi costruisce sulla sabbia è un uomo ‘stolto’. Sono gli
stessi aggettivi che vengono usati per le dieci vergini, cinque sagge e cinque
stolte. La differenza è data dalla presenza o meno della misericordia verso il
prossimo nel nostro credere al Signore.
Così, resta illuminante il canto al
vangelo come porta di accesso al brano evangelico: “Io sono la vite, voi i tralci, dice il Signore; chi rimane in me, e io
in lui, porta molto frutto” (Gv 15,5). L’esperienza delle fede nel Signore
Gesù è autentica nella misura in cui, restando una cosa sola con lui,
partecipiamo di quella dinamica di carità che l’ha mosso a dare la vita perché
sia riscattata la dignità degli uomini e il mondo creda all’amore del Padre.
Ripetere o cercare di comprendere le sue parole senza partecipare alla dinamica
interiore, vale a dire all’amore che le ha fatte proferire e di cui vivere
nella relazione con i nostri fratelli, vuol dire fallire lo scopo stesso della
fede.
Di questo ci avverte Gesù alla fine
del suo programmatico discorso della montagna, che la gente percepisce nella
sua novità di autorevolezza. Autorevolezza, che sarà sigillata sulla croce,
quando la sapienza dell’uomo verrà meno per far posto alla misteriosa
rivelazione di Dio. Se il cuore non facesse spazio a questa rivelazione (questo
significa, in fondo, ‘faremo e ascolteremo’), vorrebbe dire che l’uomo
pretenderebbe di introdurre Dio nella sua mente, cioè si creerebbe il suo idolo
più grande. Non è l’uomo a salvarsi con il ‘dio’ che adora, ma è Dio che salva
l’uomo se acconsente alla rivelazione del suo amore, che si traduce nella
responsabilità di cura e premura verso i fratelli più deboli perché così è
esaltato l’amore del Signore che salva.
§*§*§*§*§*§*§*§*§*§
Quarto ciclo
Anno liturgico A (2010-2011)
Tempo di Quaresima
1a Domenica
(13 marzo 2011)
_________________________________________________
Gn
2, 7-9; 3, 1-7; Sal 50; Rm 5,12-19; Mt 4, 1-11
_________________________________________________
Introdurre il cammino quaresimale
con il racconto delle tentazioni di Gesù rivela l’intuizione profonda della
Chiesa sul cuore dell’uomo. Ci rendiamo conto che l’urgenza della conversione
non è collocata semplicemente nella lotta tra il bene e il male, ma sul fondale
che rende tale lotta necessaria per la verità e la libertà.
L’esperienza che la prova o la
tentazione sia un evento normale della nuova vita in Cristo non è un dato
acquisito pacificamente dalla nostra coscienza interiore. La prima cosa strana
per noi è il fatto che Gesù sia tentato proprio nel momento in cui registra la
pienezza di Spirito che lo abita. Viene condotto nel deserto per essere tentato
proprio dallo Spirito di cui è ripieno. Il diavolo si servirà, per le sue trame
contro di lui, proprio della dichiarazione della voce udita al battesimo: “Questi è il Figlio
mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento, quando gli sussurrerà negli
orecchi: Se tu sei Figlio di Dio, da intendere: poiché tu sei figlio di Dio, allora ...
La vera lotta non è semplicemente
tra il bene e il male, ma tra Dio e gli idoli, tra la verità e la seduzione.
Non per nulla le collette parlano di vittoria sulle seduzioni del maligno per
crescere nella conoscenza del mistero di Cristo e nella capacità di
testimoniarlo con una degna condotta di vita. Tutto il cammino quaresimale
punta qui.
In rapporto a che cosa la nostra
condotta di vita risulterà degna? Le tentazioni di Gesù ce lo rivelano. Le tre tentazioni corrispondono alle
tre tentazioni del popolo di Israele nel deserto: la fame (manna), la sete
(Massa), il vitello d'oro. Il diavolo lo tenta come Figlio di Dio cercando di
indurlo a dimostrare che lo sia. Se però Gesù cercasse di dimostrarlo, vorrebbe
dire che in realtà dubita e quindi confermerebbe il pensiero del diavolo. Ma
Dio è Dio proprio perché non ha bisogno di dimostrarlo. La tentazione più potente,
però, si gioca a livello del suo essere Messia. È come se il diavolo
insinuasse: non vuoi salvare gli uomini? Quale mezzo più efficace che sfamarli
o strabiliarli planando dolcemente a terra buttandosi giù dal pinnacolo del
tempio!
Se Gesù avesse ceduto, non avrebbe
potuto vedere chiaramente l'intenzione segreta di satana e sarebbe rimasto
inconsapevolmente nella sua orbita. Come se satana dicesse: se tu davvero
dominassi e avessi potere su tutto, gli uomini rimarrebbero abbagliati da
questo splendore e ti seguirebbero. Io sono disposto a cederti questo
splendore, ma tu devi ammettere che sono io a dartelo. Su questo punto preciso
si rivelano le intenzioni segrete dei cuori: o si adora Dio o si idolatra
qualcuno o qualcosa, anche con l’intenzione più nobile possibile.
In rapporto alla prima tentazione
possiamo commentare la risposta di Gesù con l’altra sua affermazione: Cercate invece, anzitutto, il regno di Dio e
la sua [= di Dio] giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta
(Mt 6,33). Ogni bisogno, nobile o ignobile che sia, che non attinga la sua
verità da dentro quella misura suprema del regno di Dio e della misericordia
salvatrice di Dio, risulterà distruttivo. Non esiste un idolo liberatore o
salvatore.
Le parole di satana nella seconda
tentazione sono rivelate in tutta la loro portata nel momento cruciale della
vita di Gesù allorché, appeso in croce, si sente apostrofare: Ha salvato altri e non può salvare se stesso! È il re
d’Israele; scenda ora dalla croce e crederemo in lui. Ha confidato in Dio; lo
liberi lui, ora, se gli vuol bene. Ha detto infatti: Sono Figlio di Dio! (Mt 27, 42-43). Vi sono racchiuse in sintesi tutte e
tre le tentazioni. Nella logica del maligno, di cui gli uomini fanno le spese
nella loro vita, veramente Gesù non può salvare se stesso (non si sfama con un
miracolo), non può dimostrare nulla (non si butta dal pinnacolo) e non viene
liberato dalla morte (adora davvero Dio solo). Eppure, proprio quel non salvare
se stesso, non voler dimostrare nulla, non essere liberato dalla morte,
comporterà la rivelazione del vero amore di Dio che riempie la sua vita e che
riverbererà sul cuore degli uomini che non vorranno più illudersi.
La terza tentazione può essere
accostata alla dichiarazione di Gesù: E
come potete credere, voi che ricevete gloria gli uni dagli altri, e non cercate
la gloria che viene dall’unico Dio? Le azioni che non procedono dall’adorazione
di Dio sono vincolate alla gloria del mondo, il cui detentore è il maligno. Con azioni del genere non si svilupperà
nel cuore né la gratitudine né la libertà. E l’uomo resterà irretito nell’illusione.
La cosa strana è che noi, pur
rifiutando l’azione del male, non riusciamo a vincere la sua seduzione perché non rinunciamo alla visione mondana sottostante, alla
visione del maligno, vale a dire: immaginiamo che Dio debba servire ai nostri
scopi o interessi. La vittoria di Gesù sul maligno
dice altro, dice che stare dalla parte di Dio significa servire l’uomo nella
verità del suo amore per lui.
La penitenza quaresimale va diretta
proprio contro l’illusione. Le risposte di Gesù frantumano l’illusione con la
quale il diavolo irretisce per impedirci di essere liberi e veritieri. E lo
scopo del vincere l’illusione lo rivela assai bene s. Francesco nel commentare
il Padre Nostro: "sia fatta la tua
volontà come in cielo così in terra: finché ti amiamo con tutto il cuore,
sempre pensando a te; con tutta l'anima, sempre desiderando te; con tutta la
mente, orientando a te tutte le nostre intenzioni e in ogni cosa cercando il
tuo onore. E con tutte le nostre forze, spendendo tutte le nostre energie e
sensibilità dell'anima e del corpo a servizio del tuo amore e non per altro; e
affinché amiamo il nostro prossimo come noi stessi, trascinando tutti con ogni
nostro potere al tuo amore, godendo dei beni altrui come dei nostri e
compatendoli nei mali e non recando offesa a nessuno". È l'illusione
infranta, la libertà acquisita, lo spazio nuovo dell'umanità da riempire.
§*§*§*§*§*§*§*§*§*§
Quarto ciclo
Anno liturgico A (2010-2011)
Tempo di Quaresima
2a Domenica
(20 marzo 2011)
_________________________________________________
Gn
12,1-4a; Sal 32; 2Tm 1,8b-10;
Mt 17,1-9
_________________________________________________
Il cammino quaresimale porta alla
Pasqua di risurrezione, ma la chiesa sa che prima dell'esultanza della
risurrezione viene il dramma della morte. Così, prima di ritrovarci immersi nel
dramma della passione e della morte, la liturgia ci consola con la visione della trasfigurazione, allo scopo di
predisporci a vedere nel volto che sarà martoriato e insanguinato il volto del
Signore della gloria.
L’evento è riportato dopo la
decisione di Gesù di salire a Gerusalemme e dopo aver rivelato la sua passione
ai discepoli, che l’avevano confessato come il Cristo, il Figlio del Dio vivente.
Il racconto è nella logica dell’avvertimento di Gesù a Pietro: “Va’ dietro a me” e ai discepoli: “Se qualcuno vuole venire dietro a me,
rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua”. La cosa appare in
tutto il suo fascino e la sua drammaticità proprio nell’evento della
trasfigurazione.
In gioco sono gli occhi e gli
orecchi. Per gli occhi si tratta di un godimento, per gli orecchi di
un’angoscia. Matteo è l’unico a sottolineare che la paura assale gli apostoli
quando ascoltano la voce entrando nella nube. Così, il punto di convergenza
dell’evento non riguarda il vedere, ma l’ascoltare. Il racconto si conclude
infatti con la proclamazione della voce: “Questi
è il Figlio mio, l’amato... Ascoltatelo”. Come a sottolineare che, se il
racconto è per gli occhi, lo scopo che ne costituisce la ragione è per gli
orecchi, con l’evidente conseguenza che soltanto ascoltando si potrà vedere. La
supplica della colletta della messa è in funzione dell’ascoltare; sarà l’ascoltare che purificherà gli occhi del cuore
perché possano vedere.
Ma perché l’ascoltare genera paura?
Possiamo forse sfiorare la
misteriosità di questo evento partendo dalle parole di Pietro: “Signore, è bello per noi essere qui!”,
che gli altri evangelisti spiegano dicendo che Pietro parlava senza sapere cosa
dicesse. Poco prima della passione di Gesù, Pietro gli dichiara che non
l’avrebbe mai rinnegato, che non si sarebbe scandalizzato, che avrebbe dato la
vita per lui. Anche allora non sapeva quello che diceva. Lo sapeva però Gesù
sia nel senso di predirgli la caduta imminente sia nel senso di conoscere il
suo cuore che lo amava per davvero. Pietro equivoca sul ‘bello’ della scena
perché la vorrebbe prolungare e Luca annota che Pietro esce con
quell’esclamazione estasiata proprio nel momento che Mosè ed Elia prendono
congedo da Gesù. Avevano parlato del suo esodo da questo mondo e ne avevano
confermato la gloria (del mistero d’amore della sua morte e risurrezione tutte
le Scritture parlano!), ma Pietro tarda a comprendere e viene richiamato al mistero
della gloria di Gesù con la ‘paura’ che vive quando entra nella nube e sente le
parole del Padre: “Questi è il Figlio
mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo”.
I discepoli sono costretti a
coniugare il ‘bello’ con la ‘paura’ e la via suggerita è l’ascolto. Non si
tratta di ascoltare parole, ma di seguire Gesù dovunque vada e dovunque chiami,
traducendo la potenza della parola in un muoversi andando dietro a Gesù
comunque, fino a che lo splendore del suo amore si riveli al cuore manifestando
tutta la bellezza del suo volto di Figlio, inviato a mostrare quanto è grande
l’amore del Padre per i suoi figli. La dinamica dell’ascoltare va nella
direzione di sentire su di sé quello sguardo di ‘compiacimento’ che riposa
totale e definitivo sul Figlio, di cui condividiamo l’intimità con il Padre.
Tutte le parole alludono all’amore e l’agire all’Amato di cui si condivide il
destino nel dono di sé perché tutti abbiano la vita.
L’esempio di Abramo è eloquente.
Sente la voce di Dio: “Vattene dal tuo
paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre”. Non conosce nulla del
nuovo paese: sa solo che Dio gliene
fa promessa. Sarà il suo ascoltare che gli consentirà di vedere la benedizione
realizzarsi. Proprio perché accetta la relazione con Colui che lo coinvolgeva
nella sua storia sacra fino a diventare il suo
Dio, lascia la sua casa (se scegli il Padre celeste, devi lasciare quello
terreno; se scegli il regno di Dio, devi lasciare ogni altro regno; se ti
accetti da Dio, di Dio e secondo Dio devi vivere, come dirà Cipriano nel suo
commento al Padre nostro) e per questo, oltre a godere della benedizione di
Dio, diventa benedizione lui stesso per tutti perché rivela la grandezza
dell'amore di Dio e lo splendore che si irradia su tutto.
Così, se Abramo ascolta Dio, Gesù
ascolta il Padre, i discepoli ascoltano Gesù e il frutto della benedizione
promessa rivelerà il suo splendore. Per gli uomini, quello splendore consisterà
nel godere della visione del volto del Cristo, testimone dell’amore di Dio per
gli uomini, nella gloria della Pasqua di morte e risurrezione, condividendo
nella loro umanità lo sguardo di compiacenza del Padre che riposa tutto sul suo
Figlio benedetto. L’ascolto condurrà così alla visione di colui che mentre ci
squaderna il segreto di Dio per l’uomo fa rilucere il mondo dello splendore
della sua bellezza.
§*§*§*§*§*§*§*§*§*§
Quarto ciclo
Anno liturgico A (2010-2011)
Tempo di Quaresima
3a Domenica
(27 marzo 2011)
_________________________________________________
Es
17,3-7; Sal 94; Rm 5,1-2,5-8;
Gv 4,5-42
_________________________________________________
Le liturgie quaresimali sanno
indicarci i percorsi della conversione del cuore con le domande di fondo
essenziali. Una di queste domande, forse non sempre espressa, ma continuamente serpeggiante
nel cuore, è quella del popolo di Israele, esasperato nel deserto dalla fame e
dalla sete: “Il Signore è in mezzo a noi sì o no?”. Il Signore aveva liberato
gli israeliti dalla schiavitù dell’Egitto, ma prima di permettere loro di
entrare nella terra promessa li ‘educava’ con grazie e tormenti. Come se il
Signore volesse sincerarsi della fiducia del suo popolo in Lui. Più volte
questa fiducia è messa a dura prova. Ora il popolo ha sete, rischia di morire
di sete. Che senso avrebbe l’uscire dall’Egitto per morire nel deserto? E Dio
concede il miracolo dell’acqua. La domanda del popolo però non è provocatoria o
irriverente; semplicemente, è angosciante: il Signore è con noi? Ogni prova fa
emergere il dubbio: ma Dio vuole davvero il nostro bene? L’insinuazione
dell’antico serpente disturba i sogni di felicità dell’uomo.
A questa domanda risponde il brano
del vangelo. Il cuore dell’uomo non ha bisogno di qualche miracolo, ogni tanto,
da parte di Dio; ha bisogno di Dio, sempre, ma percepito, scoperto vicino,
toccato, sentito, visto, amato e cercato con ardore. L’acqua che Gesù promette
alla samaritana è l’acqua di una sorgente zampillante che continuamente butta,
e da dentro il proprio cuore.
Il brano dell'incontro di Gesù con
la samaritana è uno di quei brani di cui ci sfuggono continuamente le allusioni
facendoci sentire stranieri nelle Scritture, stranieri in casa nostra. Il
colloquio di Gesù con la samaritana acquista un altro valore, ad esempio, se
teniamo presenti le reminiscenze legate al luogo, Sichem (cfr. Gn 12,6; 34; 37;
Gs 24; 1Re 12) e soprattutto al pozzo. Nota era la leggenda targumica legata al
pozzo di Giacobbe raccontata a commento del passo di Gn 29,10, quando Giacobbe
leva la pietra dal bordo del pozzo per dare da bere al gregge di Labano:
“Quando il nostro padre Giacobbe levò la pietra da sopra la bocca del pozzo, la
fonte zampillò su e venne alla sua bocca e zampillava e veniva alla bocca per
vent’anni – tutti i giorni che abitò ad Haran”. Nel sogno popolare il pozzo di
Giacobbe trasbordava spontaneamente, senza bisogno di attingere e irrigava, con
i suoi quattro bracci, tutto il campo di Israele come il fiume del paradiso
terrestre in Gen 2,10-14. Quando la samaritana si rivolge a Gesù come a uno che
si vorrebbe più grande di Giacobbe, allude esattamente a quel ‘sogno’ e rivela
indirettamente che Gesù è proprio colui che quel sogno realizza per l’uomo.
Dire che la samaritana ha avuto cinque mariti, vuol dire alludere al fatto che
nella sua vita è stata abbandonata cinque volte (per la legge, era l’uomo che
lasciava la donna e non viceversa) e perciò significa riconoscere la sua
profonda insoddisfazione, la sua ferita, la sua impossibilità di trovare
l’acqua che risani e disseti il suo cuore. Oppure, possiamo leggere il brano
con le allusioni alla passione del Signore: l’ora sesta è l’ora in cui ha luogo
la crocifissione; la sete di Gesù allude alla sua sete degli uomini, che
manifesta sulla croce; l’acqua che zampilla fa riferimento al costato, aperto
dalla lancia del soldato, da dove fuoriescono sangue e acqua; la proclamazione
finale dei samaritani che Gesù è il salvatore del mondo allude al
riconoscimento sotto la croce che Gesù è davvero Figlio di Dio.
Il brano è suddiviso in due scene:
il colloquio con la samaritana incentrato sull’immagine dell’acqua e il
colloquio con i discepoli incentrato sull’immagine del cibo. Ci sono due tipi
di acquietamento della sete e della fame che non soddisfano l’uomo alla ricerca
di relazione, di senso, di vita, di felicità. Lasciare la fiducia nel Signore
per riporla negli idoli crea illusione; voler praticare la Legge come un
assolvimento di obblighi e una esibizione di innocenza provoca delusione e
tristezza. Non è questa l’adorazione in spirito e verità che cerca il Signore.
Il punto nevralgico del racconto dei due colloqui è dato dal fatto che l’uomo,
assetato, ma desideroso di acqua viva e cibo vero, si trovi aperto alla
rivelazione donata da Dio: lì davanti c’è colui che, unico, ha il potere di
dare la vita, di fornire la fonte dell’acqua, di dare il cibo di vita eterna,
il suo stesso corpo. “Dio ha tanto amato il mondo da mandare il suo Figlio
unigenito…”: cogliere questa rivelazione in quell’uomo che ti parla, che ti ha
voluto incontrare, che ti segue nei meandri del tuo cuore e che, facendoti emergere
il desiderio di verità e di vita che vi sta sepolto, lo può soddisfare, è il
mistero della conversione. Conversione che si riassume nell’espressione della
Scrittura: ‘guarderanno a colui che hanno trafitto’, vale a dire: incontro
rigenerante con colui che ti disseta e sfama con l’amore che quella ferita ha
mostrato al mondo. Quando, rimirando quell’innocente appeso sulla croce, ci si
rende conto del mistero dell’amore di Dio che è arrivato agli uomini, allora la
parola di verità ascoltata si fa parola vera del mio cuore, la promessa di vita
diventa vita mia, la sua ‘sete’ e ‘fame’ di noi si fa acqua e cibo per la vita
del nostro cuore, dono di Dio e volontà di bene di Dio per noi.
§*§*§*§*§*§*§*§*§*§
Quarto ciclo
Anno liturgico A (2010-2011)
Tempo di Quaresima
4a Domenica
(3 aprile 2011)
_________________________________________________
1Sam 16,
1b.4a. 6-7. 10-13a; Sal 22; Ef 5, 8-14;
Gv 9, 1-41
_________________________________________________
Tutto il racconto del miracolo del
cieco nato (da notare, che in tutti i vangeli, solo qui si parla di un cieco
dalla nascita) è intessuto da una sottile ironia. Giovanni è un abilissimo
narratore. L’ironia con cui narra il fatto mette in mostra tutte le nostre
contraddizioni. Come i giudei del racconto, preferiamo dire che la rosa non ha
profumo piuttosto che ammettere di avere il naso ostruito e insensibile. E si
finisce nell’impossibilità di riconoscere l’evidenza.
Il brano non è però costruito sul
fatto in sé, sul miracolo, ma su chi lo compie. Così, le domande più pertinenti
a cogliere il senso del brano sono le domande attorno a quel profeta che ha compiuto quel gesto: “Dov’è costui?... Che cosa dici di lui? … E
chi è, Signore, perché io creda in lui?”. Sotto quelle domande ce ne sta
un’altra: “Come può un peccatore compiere
segni di questo genere?”, espressa dai farisei e ripresa dallo stesso cieco
guarito, eco della interrogazione degli apostoli con la quale si apre il
racconto. Passando davanti al cieco dalla nascita gli apostoli domandano: “Rabbi, chi ha peccato, lui o i suoi
genitori, perché sia nato cieco?”. La risposta di Gesù dà la prospettiva
entro la quale considerare il tutto: “Né
lui ha peccato né i suoi genitori, ma è perché in lui siano manifestate le
opere di Dio”.
La domanda esprimeva il tentativo di
sfuggire all’angoscia del male da parte di una coscienza religiosa. Noi non
formuleremmo più la domanda in quei termini, ma non per questo l’interrogativo
di fronte al male ha perso la sua angoscia lancinante. Gesù non dà risposta in
termini ‘ragionevoli’. Invita più semplicemente, ma più potentemente, a
distogliere lo sguardo dal passato e volgerlo al futuro: “è perché in lui siano manifestate le opere di Dio”. Cosa significa?
Vuol solo dire che si appresta a fare il miracolo? E per tutti gli altri
‘ciechi’ che non verranno mai guariti? S. Paolo, in Rm 3,9-20, ricorda che ‘tutti hanno peccato e sono privi della
gloria di Dio’. Sarebbe inutile cercare la causa 'indietro'; ci inchioda al
non-senso e alla rabbia della frustrazione. La motivazione va cercata 'in
avanti', rispetto a un 'qualcosa' che per noi deve ancora farsi, deve ancora
rivelarsi. La vita scaturisce dalla fede nel senso che la si può vivere
fidandoci del Bene di Colui che ci è venuto incontro e ci ha mostrato il suo
Volto. Del resto, il mistero dell'amore umano trova qui le radici del suo
insopprimibile fascino, nonostante le ferite e le delusioni alle quali così
spesso ci condanna.
Non stare inchiodati al passato
significa percepire che Qualcuno si è mosso per venirci incontro. Nel caso del
cieco, non è lui a chiedere la guarigione: l’iniziativa è di Gesù. Lui ha
fiducia e va a lavarsi alla piscina di Siloe. Quando Giovanni scrive il suo
vangelo, Gerusalemme è ormai distrutta, ma si ricorda molto bene il rito
dell’acqua che veniva attinta alla piscina, portata solennemente verso il
tempio e versata attorno all’altare nella solennità della festa delle capanne
(cfr. Gv 7,37-39). Siloe significa piuttosto ‘chi invia [le acque]’e Giovanni,
rendendolo al passivo, ‘Inviato’, indica che la nostra guarigione si trova in
Gesù, che poco prima si era definito ‘inviato’ dal Padre.
Ora, tornando alla risposta di Gesù,
qual è l’opera di Dio? A noi verrebbe di rispondere subito che l’opera di Dio è
il miracolo compiuto, miracolo che è così straordinario che dovrebbe indurre i
cuori a credere. Il racconto invece dimostra il contrario. Alla fine nessuno
crede a partire dal miracolo, che anzi viene messo in sordina per sottolineare
l’ostilità crescente verso il profeta che l’ha compiuto. Solo il cieco, lui che
il miracolo l’ha goduto nei suoi occhi, alla fine compie l’opera di Dio, quella
cioè di credere in Colui che Dio ha inviato. Il senso del racconto sta proprio
qui.
E qui si trova descritta la dinamica
spirituale del credente, invitato alla stessa esperienza del cieco nato. Da un
singolo evento (la guarigione dalla cecità) si arriva al coinvolgimento di
tutta la propria vita (la fede nel Figlio dell'uomo). Oppure, per esprimerla
con altra immagine, dalle cose si passa a scoprire un Volto e da questo Volto
si torna, nuovi, alla propria vita, alla propria storia. Gli eventi ci sono
dati per scoprire il Volto di Colui che il nostro cuore cerca e la scoperta di
questo Volto ci rimanda agli eventi perché siano vissuti nella luce e nella
vita che da Lui promanano. Così, l’esperienza dell’incontro con Gesù, luce
della nostra vita, non si riferisce solo alla verità di una conoscenza che ci
stana dalla menzogna, ma anche al calore di un incontro, alla rivelazione di un
Volto che scalda e convince il cuore e riempie la vita e ne fa dono a tutti.
Ancora una piccola annotazione.
Quando Gesù dice “Io sono la luce del
mondo” non si può non risalire al racconto della creazione in Genesi 1,3,
quando fu creata la luce. Non è semplicemente la luce fisica, quella che deriva
dal sole, creato solo nel quarto giorno. È la luce della santità amorevole di
Dio che attraversa il mondo, luce che è stata nascosta. È la luce che fa
intuire il mondo dentro uno sguardo unico. È la luce che il messia rivelerà. È
la luce che Gesù ha fatto risplendere liberando gli uomini succubi del serpente
che li ha privati della gloria di Dio. Come fa pregare la preghiera dopo la
comunione: “O Dio, che illumini ogni uomo che viene in questo mondo, fa
risplendere su di noi la luce del tuo volto [il Signore nostro Gesù Cristo],
perché i nostri pensieri siano sempre conformi alla tua sapienza e possiamo
amarti con cuore sincero”.
§*§*§*§*§*§*§*§*§*§
Quarto ciclo
Anno liturgico A (2010-2011)
Tempo di Quaresima
5a Domenica
(10 aprile 2011)
_________________________________________________
Ez
37, 12-14; Sal 129; Rm 8,8-11;
Gv 11,1-45
_________________________________________________
Giovanni racconta nel suo vangelo sette miracoli di Gesù: la
trasformazione dell’acqua in vino e la guarigione del figlio del funzionario a
Cana, la guarigione del paralitico alla piscina di Betzata, la moltiplicazione
dei pani, il camminare sulle acque, la guarigione del cieco nato. Il miracolo
della risurrezione di Lazzaro è il settimo. È la rivelazione ultima, a noi accessibile,
del Figlio di Dio, che ci introduce nel mistero della sua morte e risurrezione.
In effetti, il brano termina con la decisione del sommo sacerdote di mettere a
morte Gesù per salvare la nazione: “Da quel giorno dunque decisero di
ucciderlo”.
Gesù stesso si premura di fornire la prospettiva nella quale
vedere il miracolo: “Questa malattia non porterà alla morte, ma è per la
gloria di Dio,affinché per mezzo di essa il Figlio di Dio venga glorificato”.
Se Gesù, a proposito di Lazzaro, parla della sua gloria, non lo fa tanto in
riferimento al miracolo che sta per compiere, ma in riferimento al fatto che
tale miracolo costituisce il via libera alla sua ora, l'inizio della sua
passione. Non per nulla i discepoli, Tommaso in testa, dicono: “Andiamo
anche noi a morire con lui”. Il vedere Gesù che fa ritornare in vita
Lazzaro non induce ad una esaltazione della sua persona, ma fa presagire come e
perché Gesù abbia tale potere e quindi mette in risalto la sua disponibilità a
morire per manifestare in tutta la sua potenza l'amore del Padre, da cui
scaturisce la sua glorificazione e la vita per noi.
L’aveva proclamato precedentemente (cfr. Gv 5) dicendo che
il Figlio fa ciò che vede fare dal Padre: “Come il Padre risuscita i morti e
dà la vita, così anche il Figlio dà la vita a chi egli vuole” (con la
sfumatura di significato: ‘dà la vita a coloro cui vuole bene’). Il brano del
profeta Ezechiele l’ha sottolineato con l’immagine potente del soffio sulle
ossa aride per indurre il popolo, deportato e avvilito oltre ogni speranza, a
credere alla potenza di salvezza del Signore che l’avrebbe liberato e fatto
abitare nella terra santa di Israele. Il racconto del miracolo non tende a
suscitare in me che ascolto il desiderio di un altro miracolo per me, ma a
entrare in relazione con colui che compie il miracolo in modo da godere della
comunione di vita con lui, in modo da godere anch’io del dono della sua vita.
Inaspettatamente, quando Gesù, davanti al sepolcro di
Lazzaro, chiede a Marta se crede a quello che le aveva detto, lei risponde: “Sì,
o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio, colui che viene nel
mondo”. Non dice: io credo che tu hai il potere di far risorgere i morti.
Afferma la verità del suo incontro con lui, del suo amore. È per questo che
potrà vedere la gloria di Dio. Così l’antica colletta ci fa pregare: “Vieni in
nostro aiuto, Padre misericordioso, perché possiamo vivere e agire sempre in
quella carità che spinse il tuo Figlio a dare la vita per noi”. Quella carità è
il frutto della sua glorificazione. Il combattimento spirituale, la lotta
contro il male, l’osservanza dei comandamenti altro non è che una
partecipazione alla potenza della risurrezione, allorché la vita viene vissuta
nella carità del Cristo che niente e nessuno potrà mortificare. È il principio
della vita eterna, quello di una vita che non abbia altra consistenza se non
come carità. L’incontro con Gesù apre a questa dimensione. Se lui è datore di
vita lo è perché, facendo vivere nella sua carità, impedisce alla morte di
tenere prigioniero il nostro cuore.
Il nostro gridare, nel salmo responsoriale: “Dal profondo
a te grido, o Signore; Signore, ascolta la mia voce”, deriva dalla
coscienza della nostra mortalità, non semplicemente come termine della vita
biologica, ma come abisso di mortificazione della vita che stenta ad accedere
alla carità di Dio. Quella ‘mortificazione della vita’ il Signore vince.
L’episodio della risurrezione di Lazzaro si chiude non con il riconoscimento o
l’incontro affettuoso di Lazzaro con Gesù, ma con il comando: “Liberatelo e
lasciatelo andare”. Corrisponde all’invito di Gesù, dopo i miracoli di
guarigione: ‘Va’, la tua fede ti ha salvato’. Venire a Gesù (questo potrebbe
anche voler significare il grido di Gesù: Lazzaro, vieni fuori!) comporta
vivere della sua vita, della vita che lui può dare e lo spazio di espressione
di questa vita è ormai dato dalla fraternità che si vive nel mondo. A questa
Gesù rimanda.
Dal punto di vista di Gesù, prevale invece il rendimento di
grazie: “Padre, ti ringrazio che mi hai ascoltato. Io sapevo che sempre mi
dai ascolto...”. Gesù è venuto per fare la volontà di Colui che l'ha
inviato. La sua volontà è vivere in modo tale che l’amore del Padre per gli
uomini possa risplendere in tutta la sua gloria. E questo si realizza con la
sua passione e morte in croce, tanto che quella volontà di carità, non solo non
ne resta mortificata, ma diventa per tutti noi che crediamo in lui fonte di
vita non più soggetta alla morte. Questo fa sgorgare dal suo cuore il
rendimento di grazie al Padre.
Gesù non ha voluto risparmiare la prova ai suoi amici. Viene
a condividerla, tanto da restarne intimamente e profondamente scosso, tanto da
esporsi alla sua prova, anzi provocando la sua prova con l'arresto e la morte
imminenti. Ma la sua non è una semplice
condivisione della sofferenza umana. Il suo rendere grazie l’attraversa e la
trasforma. Se esulta, non è per aver impedito alla morte il suo corso, ma per
aver trionfato su di essa, nella comunione con il Padre per il suo amore agli
uomini, radice di vita per coloro che credono.
§*§*§*§*§*§*§*§*§*§
Quarto ciclo
Anno liturgico A (2010-2011)
Tempo di Quaresima
Domenica delle Palme
(17 aprile 2011)
_________________________________________________
Mt 21,1-11
(ingresso a Gerusalemme)
Is
50,4-7; Sal 21; Fil 2,6-11; Mt 26,14-27,66
_________________________________________________
La liturgia della domenica delle Palme introduce alla
settimana più importante dell'anno liturgico, la settimana della
passione-morte-risurrezione di Gesù. È la settimana cruciale per la storia del
mondo, quella che permette una visione d'insieme della creazione e della storia
dell'umanità: “Dio infatti ha tanto amato
il mondo da dare il Figlio unigenito ... per riunire insieme i figli di Dio che
erano dispersi” (Gv 3,16 e 11,52).
Le celebrazioni di questa settimana mostrano fino a che punto Dio ha amato il
mondo, fino a che punto Gesù ha obbedito a questo amore, fino a che punto
l'uomo è prezioso agli occhi di Dio, cioè fino a una misura sconfinata sia in larghezza che in profondità.
Quest’anno
le letture evangeliche sono prese da Matteo. Nella sua narrazione, l’arrivo a
Gerusalemme di Gesù proveniente da Gerico, l’unica raccontata nei vangeli
sinottici, è preceduto dalla guarigione dei due ciechi, dei quali si dice: “Gesù ebbe compassione, toccò loro gli occhi
ed essi all’istante ricuperarono la vista e lo seguirono”. Lo seguirono nella strada per Gerusalemme. C’è
bisogno di aver gli occhi aperti per cogliere il senso dell’arrivare di Gesù a
Gerusalemme. Qui porta il suo cammino, qui lo spinge la sua vocazione, qui si
compie quel disegno del Padre che
Gesù andava illustrando con le sue parole e con i suoi atti, sebbene nessuno,
neanche i suoi discepoli, fosse ben consapevole della posta in gioco.
La
liturgia di oggi accompagna Gesù nel suo ingresso trionfale a Gerusalemme ma per celebrare, con i testi della messa,
l’inizio della sua drammatica passione. Storicamente parlando, l’ingresso di
Gesù deve essere stato assai più modesto di quello che i testi fanno presagire,
ma Matteo si premura di sottolineare il significato che comporta con l’aiuto di
molti testi scritturistici. Secondo
la profezia messianica di Zaccaria 9,9-10, Gesù entra in città seduto
sull’asina, tra i gesti di devozione dei discepoli e della folla che stendevano
al suo passaggio i loro mantelli. La scena ha sapore regale perché ricorda la
proclamazione di Salomone come re di Israele sulla mula di Davide (1Re
1,33-34); ricorda i patriarchi (Abramo si incammina verso il monte Moria per il
sacrificio di Isacco a dorso di asino); richiama il re Messia mite e pacifico, che disdegna i cavalli
perché simbolo di guerra.
Nel
particolare delle fronde tagliate riecheggia il sal 117,27: “Formate il corteo con rami frondosi fino
agli angoli dell’altare” allorquando i sacerdoti dal tempio benedicevano i
pellegrini che vi salivano dicendo: “Benedetto
colui che viene nel nome del Signore … Dona, Signore, la tua salvezza [=
Osanna]”. Anche la folla che accompagna Gesù riprende le parole del salmo: “Osanna al figlio di Davide! Benedetto colui
che viene nel nome del Signore! Osanna nel più alto dei cieli!”.
La citazione risulta ancor più misteriosa se si tiene
conto dell’antica versione aramaica: “Legate la vittima per la festa con rami frondosi fino agli angoli
dell’altare”. A Gesù si fa festa perché è la vittima prescelta, ma nessuno
ancora lo sa se non lui. L’acclamazione dell’Osanna era già risuonata sulla bocca degli angeli alla nascita di
Gesù e risuona ora sulla bocca dei discepoli per la sua morte.
Il fatto
che Matteo sottolinei, come senza accorgersi dell’incongruenza, che Gesù si
ponga sopra due animali, l’asina e il suo puledro, rivela l’urgenza per lui di
simboleggiare il rapporto tra l’antica e la nuova alleanza, riassunte tutte e
due nel gesto messianico di Gesù, il Messia pacifico
nel senso che fa la pace tra ebrei e
gentili, tra i vicini e i lontani. Anche la folla è descritta in due gruppi:
c’è quella, più numerosa, che l’accompagna nel suo salire a Gerusalemme e c’è
quella che esce da Gerusalemme incontro a lui, sebbene la città nel suo insieme
resti sotto choc, come ai tempi di Erode e della visita dei Magi.
Dal
tripudio dell'ingresso in Gerusalemme la celebrazione passa repentinamente al
dramma del racconto della passione, che dischiude direttamente il clima della
settimana santa. È però singolare che nel rito ambrosiano la liturgia della
domenica delle Palme comporti come due celebrazioni distinte: la messa
dell'ingresso trionfale e la messa del giorno con il brano del servo sofferente
di Isaia ed il vangelo dell'unzione a Betania di Maria. Almeno secondo la
narrazione di Giovanni, una persona che si accorge di quanto sta succedendo
c’è. È Maria di Betania. Cospargere di unguento assai prezioso (se la stima di
Giuda è realistica, il costo ammonterebbe più o meno allo stipendio di un anno
per un operaio) i piedi di Gesù e asciugarli con i suoi capelli finché tutto in
quella casa senta di quel profumo, risponde al desiderio di accompagnare Gesù
nella sua solitudine. Quel profumo rivela la morte imminente, che nessuno è
pronto ad accettare, ma anche tutto l'amore che quella morte significa ed
esprime, tutto l'amore che quel corpo dato
per noi significa ed esprime. E i Padri antichi hanno visto in quel profumo
versato su Gesù il pentimento dei nostri cuori, pentimento che si allarga ed
impregna tutto perché l'amore che Gesù ha testimoniato con la sua passione non
resti estraneo a niente di noi e perché niente di noi resista a tale amore.
Quando
s. Paolo, rivolgendosi ai suoi fedeli, li chiama 'profumo di Cristo', allude
proprio a questa tenerezza che ha conquistato il cuore - così si può chiamare
il pentimento per i nostri peccati - e che, riversandosi sul mondo, lo potrà
conquistare perché tutto ormai parlerà dell'amore di Dio.
Da oggi e per tutta la settimana
santa la prima lettura è tratta dal libro del profeta Isaia. Vengono proclamati
i quattro canti del Servo del Signore (cap. 42, 49, 50 e 53) che, insieme al
salmo 21, costituiscono le straordinarie testimonianze profetiche della
passione di Gesù. Sono quei versetti a costituire la cornice di riferimento per
lo svolgimento dei riti santi e sono quei versetti a esprimere la profondità e
la tenacia dell’amore di Dio per l’uomo e insieme la tenerezza dell’amore
dell’uomo per il suo Dio. Le espressioni sono altamente drammatiche ma l’esito
colmo di speranza. Dalle prime parole del salmo: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” si arriva alle
ultime, già piene del frutto di grazia ottenuto: “E io vivrò per lui, lo servirà la mia discendenza. Si parlerà del
Signore alla generazione che viene; annunceranno la sua giustizia; al popolo
che nascerà diranno: Ecco l’opera del Signore!”. Ma il tragitto passa per
momenti estremamente oppressivi: “Ma io
sono verme e non un uomo, rifiuto degli uomini, disprezzato dalla gente … Hanno
scavato [forato] le mie mani e i miei piedi. Posso contare tutte le mie ossa…”
(sal 21). Parole ancora piene degli echi del profeta Isaia che descrive il
Servo del Signore così: “Disprezzato e
reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire ... Il castigo
che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati
guariti” (Is 53). Parole e echi che si concretizzano in quell’uomo, inviato
da Dio, vilipeso, schiacciato, deriso, torturato, crocifisso, che noi contempliamo
nelle celebrazioni pasquali, il nostro Signore Gesù Cristo, che per noi ha
patito, è morto e risorto.
§*§*§*§*§*§*§*§*§*§
Quarto ciclo
Anno liturgico A (2010-2011)
Tempo di Pasqua
Domenica di Pasqua
Risurrezione del Signore
(24 aprile 2011)
_________________________________________________
At
10, 34a. 37-43; Sal 117; Col 3, 1-4; Gv 20, 1-9
_________________________________________________
IL SIGNORE È RISORTO. È VERAMENTE RISORTO.
Un’antifona del sabato santo
introduce al mistero della risurrezione del Signore: “Cristo per noi si è fatto
obbediente fino alla morte, e alla morte di croce. Per questo Dio lo ha
innalzato e gli ha dato un nome che è sopra ogni altro nome”. E così esulta la
chiesa nell’inno pasquale: “Irradia sulla tua Chiesa la gioia pasquale, o
Signore, unisci alla tua vittoria i rinati nel battesimo”. La gioia, quella
vera, stabile, agognata, non può che essere pasquale; non solo nel senso che ci
deriva dall’evento della Pasqua del Signore, che rende nota al cuore dell’uomo
la motivazione inconfutabile della possibilità ritrovata di essere nella gioia,
ma anche nel senso che la gioia è strettamente correlata al dramma, alla
fatica, alla fedeltà di un amore che svela il mistero stesso della vita e che
si esprime nel suo rivelare la potenza d’intimità con il Padre, autore della
vita.
Gioia che per noi si risolve nel dolce perdono che
Gesù ci riversa: “Tu, o Cristo, sei il nostro dolce perdono. Fa’ che di Te in
ogni istante io mi sappia rivestire e non abbia potere su di me la miseria con cui
mi vedo e mi sento. Con le tue ferite risanami, che io respiri e viva del tuo
sguardo verso il Padre. Nelle tue piaghe nascondimi, che il sentimento della
mia malinconia non si erga a obiezione della tua grandezza. Lasciami entrare
nel tuo cuore, che io mi avvolga della sua benevolenza e mi faccia rinascere,
finiti i terrori della notte, al mattino della tua presenza”.
Beato colui che nell’Uomo
sofferente, di cui i riti della settimana santa hanno commemorato la passione
gloriosa, ha visto il Figlio di Dio, il Testimone dell'amore del Padre. Beato
colui che lo scandalo della croce non spezza, non deturpa, non divide da Dio e
dagli uomini. Beato colui che ha l'intelligenza spirituale allenata e vivida
per cogliere nella passione gloriosa di Gesù il mistero dell'amore di Dio per
gli uomini e la dinamica di vita eterna di cui ci rende partecipi con il dono
del suo Spirito.
Vivere nel Signore risorto ormai
significa vivere in Colui che ci partecipa il suo Amore tanto da farlo
diventare in noi radice di vita, criterio di discernimento del bene, scopo
supremo dell'essere e dell'agire. E sarà possibile vivere in pienezza di questo
amore senza soffrire? Qui si comprende il mistero di quel debole, umile, povero, che è Gesù. Per avvicinare i
cuori degli uomini Dio ha messo da parte la sua potenza preferendo la debolezza (cfr Fil 2,8; ). Questa debolezza
di Dio non svela solo l'immensità dell'amore di Dio per l'uomo, ma anche il
desiderio profondo dell'uomo, il bisogno dell'uomo per essere tale, compiuto
nella sua umanità. Ed il mistero scaturisce proprio qui: l'uomo, per scoprire
la sua umanità, non può non guardare a questa debolezza di Dio. Tutto ciò che è fuori da tale debolezza,
risulterà illusione e causerà ulteriore sofferenza, ma sorda, tragica,
insensata, che porterà divisione e non comunione, che porterà rabbia e non
riposo. La gioia pasquale lo proclama.
Il racconto della risurrezione di Gesù, come viene
letto nel cap. 20 di Giovanni, cela una eccezionale ricchezza teologica ed è
percorso da una tensione fortissima che proviene dal fatto di avvicinarci alla
frontiera che delimita questo mondo dall’altro mondo, le cose di quaggiù dalle
cose di lassù, ciò che si vede da ciò che ci viene mostrato soltanto. Le prime
parole suddividono il tempo e tutto il capitolo, che narra gli eventi del
giorno della risurrezione, giorno uno e ottavo, resta così suddiviso: l’alba,
la tomba vuota (20,1-10); il mattino, Gesù appare a Maria (20, 11-18); la sera,
Gesù si mostra ai discepoli (20, 19-23); il sigillo dell’ottavo giorno, l’apparizione
a Tommaso (20, 24-29); la conclusione, la finalità del vangelo (20, 30-31).
Il primo giorno, il giorno uno della
settimana, dischiude un tempo completamente diverso, un tempo nel quale tutto
ciò che è stato compiuto fino ad ora si rivela come novità. Il primo
personaggio che ci conduce alla soglia di questa novità è Maria Maddalena. Essa
vive un’angoscia personale, un sentimento di assenza irrimediabile; per lei
oramai il Signore è l’Assente; non può che sentirlo che così. Per prima vede la
pietra del sepolcro tolta via e corre ad avvertire i discepoli. Se Giovanni
parla della pietra tolta via dal sepolcro è per sottolineare, in questo Giorno
della Risurrezione, che viene tolto l’ultimo impedimento alla vista, alla visione, come poi il brano dirà a proposito del discepolo entrato
nel sepolcro: “Allora entrò anche l’altro
discepolo … e vide e credette”. È come una richiesta che viene sussurrata
al cuore dei possibili lettori del vangelo, la richiesta di avanzare nella
conoscenza del mistero, di salire fino all’intelligenza della risurrezione che
viene svelata poco a poco: “Vide e
credette”. La tensione del racconto punta qui. Si tratta di una percezione
folgorante che contemporaneamente fa comprendere l’evento e tutto ciò che l’ha
preceduto, tutte le Scritture che a quello si riferivano. Non è un capire, ma
un ricevere una rivelazione per la quale tutto si illumina e tutto prende luce.
Comunque sia spiegato l’evento, è
chiaro che la risurrezione di Gesù era del tutto inconcepibile per i suoi
discepoli. L’esperienza della tomba vuota situa ormai l’intelligenza del
mistero di Dio in una luce assolutamente particolare e apre all’uomo l’accesso
di un tempo eterno in cui situare la
storia e gli eventi, attraversati così dallo splendore del corpo glorioso di
Cristo, in attesa che quello splendore riempia gli occhi e investa il cuore.
L’augurio della gioia pasquale
allude proprio al dono di quella luce che inonda gli occhi e il cuore per farci
vivere nella presenza del Signore che ci trascina nel regno del Padre suo.
§*§*§*§*§*§*§*§*§*§
Quarto ciclo
Anno liturgico A (2010-2011)
Tempo di Pasqua
2a Domenica
(1 maggio 2011)
_________________________________________________
At
2,42-47; Sal 117;
_________________________________________________
Per tutta l’ottava è risuonata
l’acclamazione pasquale: “Questo è il giorno fatto dal Signore: rallegriamoci e
esultiamo”, ripresa dal sal 117. Se la risurrezione di Gesù inaugura il giorno
fatto dal Signore, si comprende come essa non potesse appartenere all’orizzonte
mentale dei discepoli. I racconti di risurrezione lo provano. Ma allora qual è
il significato di quei racconti? In Giovanni, a differenza dei sinottici, i
racconti delle apparizioni del Risorto non hanno un valore apologetico; non
mirano semplicemente a comprovare la ‘realtà’ del corpo risorto di Gesù. La
risurrezione di Gesù non è il ‘miracolo’ che può convincere della sua divinità.
La fede degli apostoli come quella dei discepoli che li seguiranno, quindi
anche la nostra, riposa sempre sulla parola trasmessa con la forza dello
Spirito Santo e non sui segni visibili della Presenza. Non esiste ‘evidenza’
costringente del mistero di Dio e del suo amore per gli uomini.
Cosa allora ‘costringe’ il cuore
dell’uomo a riconoscere il mistero di Gesù, morto e risorto? Notiamo anzitutto
che non si tratta tanto di ‘riconoscere’ che Gesù è davvero risorto, quanto
piuttosto di restare intimamente coinvolti nel dinamismo di un rapporto che
porta vita e cambia tutto. Se Tommaso, che non era stato presente alla prima
apparizione di Gesù, non vuol credere ai suoi compagni, non è per mancanza di
fede, ma per eccesso di zelo, come ben si attaglia al suo personaggio, fervido
e coraggioso. Ha preso sul serio la storia con Gesù e non vuole alcuna illusoria
consolazione. Vuole Gesù e basta. Quando Gesù si ripresenta una settimana dopo
e si rivolge a lui con le sue stesse parole, Tommaso non ha bisogno di alcuna
comprova (di mettere cioè il dito e la mano nelle ferite), riesce solo a
sussurrare: “Mio Signore e mio Dio”, che è la professione di fede più solenne e
più intima di tutto il vangelo. La frase conclusiva di Gesù: “Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati
quelli che non hanno visto e hanno creduto!” è spesso letta come un
rimprovero nei suoi confronti, ma niente autorizza a leggerla così. Tommaso ha
semplicemente avuto quello che è stato concesso agli altri apostoli e la cosa
risponde alla promessa di Gesù nell’ultima cena: “Ancora un poco e il mondo non mi vedrà più; voi invece mi vedrete,
perché io vivo e voi vivrete. In quel giorno voi saprete che io sono nel Padre
mio e voi in me e io in voi” (Gv 14,19-20).
In questa ottica acquista
significato un fatto liturgico caratteristico: in tutto il periodo pasquale la
prima lettura delle celebrazioni domenicali non è mai presa dall’Antico
Testamento. La Chiesa vive il mistero della presenza del suo Signore risorto
nella diretta testimonianza degli apostoli e non più nella profezia. Lo sguardo
è diretto sul compimento delle profezie, quello stesso compimento che però non è immediato e evidente per noi tanto che la
testimonianza degli apostoli diventa per noi come la nuova profezia.
Il mondo non può vedere, il
discepolo sì. Ciò significa che in gioco non è un vedere semplicemente con gli
occhi, ma un vedere nella fede, un vedere nella luce della compiacenza di Dio
per noi. Tommaso è riconosciuto beato non per aver toccato, ma per aver veduto. L’aveva già preannunciato Gesù a
proposito della missione degli apostoli allorquando, esultando nello Spirito,
aveva innalzato la sua solenne benedizione al Padre: “In quella stessa ora Gesù esultò di gioia nello Spirito Santo e disse:
«Ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto
queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre,
perché così hai deciso nella tua benevolenza. Tutto è stato dato a me dal Padre
mio e nessuno sa chi è il Figlio se non il Padre, né chi è il Padre se non il
Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo». E, rivolto ai discepoli, in
disparte, disse: «Beati gli occhi che vedono ciò che voi vedete»” (Lc
10,21-24).
Quando gli apostoli ‘vedono’ Gesù
risorto non significa che hanno ‘visioni’, ma più concretamente che ‘il Signore
si fece vedere’, cioè sperimentano degli incontri. Ma come un cuore può aprirsi
all’incontro se già non tende a colui che desidera vedere? Per questo, nella
proclamazione di fede della chiesa nella risurrezione sempre si aggiunge
‘secondo le Scritture’. Gesù è risorto, secondo le Scritture; Gesù risorto apre
la mente all’intelligenza delle Scritture. Non è semplicemente il suo ‘essere
ritornato in vita’ che costituisce il mistero della risurrezione. Non per
nulla, nella narrazione di Giovanni, quando Lazzaro è risuscitato appare
avvolto con bende, impedito di muoversi, mentre quando risorge Gesù le bende (i
‘lenzuoli’ funerari) diventano segno di qualcosa d’altro.
Perché però Gesù proclama beati
quelli che non hanno visto e hanno creduto? La narrazione evangelica ha
presente non semplicemente la cronaca degli eventi pasquali, ma la storia dei
credenti. Finirà il tempo di una certa ‘visione’, come finirà il tempo dei
testimoni oculari sulla cui autorevolezza coloro che verranno dopo
continueranno a credere al Signore Gesù. Quello che non finisce, perché
continua eterno il giorno fatto dal Signore, è la possibilità reale
dell’incontro, è la percezione della Presenza in mezzo al suo popolo, a cui il
dono della pace fa riferimento e di cui la gioia è il segnale per eccellenza.
La prima lettera di Pietro lo dice
chiaro riferendosi a coloro che sono venuti alla fede dopo gli apostoli: “voi lo amate, pur senza averlo visto e ora,
senza vederlo, credete in lui. Perciò esultate di gioia indicibile e gloriosa”
(1Pt 1,8). Per cogliere a fondo il senso si dovrebbe però tradurre: ‘senza
averlo visto, voi l’amate; senza vederlo ancora, ma credendo in lui, voi
trasalite di gioia’. L’espressione si riferisce a noi, che siamo venuti dopo
l’epoca apostolica. L’accento non è più posto tanto sul ‘vedere’ ma sulla
‘fede’ che permette il vedere in modo da avere la vita, la stessa vita che
scorre nel Figlio di Dio, morto e risorto. Si passa dalla gioia della presenza
‘vista’ (apparizioni del risorto agli apostoli) alla gioia della presenza
percepita (celebrazione dell’eucaristia) fino alla letizia nello Spirito quando
si dovrà soffrire per il nome di Cristo perché la sua pace conquisti il mondo
intero e la gioia dell’essere in lui riveli a tutti lo splendore dell’amore di
Dio per gli uomini. A questo si riferisce la confessione di Tommaso e della
chiesa a proposito di Gesù risorto: “Mio
Signore e mio Dio!”. E di qui scaturisce la missione nel mondo. Come Gesù è
stato inviato dal Padre, così invia gli apostoli. Ciò significa che i credenti
in Cristo sono resi partecipi dello stesso amore con cui il Padre ama il
Figlio. Gregorio Magno commenta: “Come il
Padre mi ha inviato, così anch'io mando voi, vale a dire: quando io vi
invio in mezzo agli scandali e alle persecuzioni, io vi amo di quella carità
con cui il Padre mi ama, Lui che mi ha inviato alla Passione”. I segni della
passione restano nel corpo glorioso del Cristo, a memoria del Suo amore per noi
e a ricordare a noi di custodire quell’amore nella passione che ci sarà
richiesta.
§*§*§*§*§*§*§*§*§*§
Quarto ciclo
Anno liturgico A (2010-2011)
Tempo di Pasqua
3a Domenica
(8 maggio 2011)
_________________________________________________
At
2,14a.22-33; Sal 15;
_________________________________________________
Nel vangelo di Luca, l’apparizione
del Risorto ai discepoli di Emmaus costituisce il racconto più dettagliato ed
espressivo delle testimonianze pasquali. I particolari del racconto non
esprimono solo quella che potremmo chiamare la relazione dettagliata
dell’incontro dei due discepoli con il Risorto, ma tendono a suggerire lo
scenario possibile di ogni incontro con Gesù, morto e risorto, per tutti i
credenti.
Gesù si accompagna loro nel cammino,
spezza loro la sua parola aprendo le Scritture, si ferma a cenare da loro (con
tutta probabilità, i discepoli erano arrivati a casa loro quando invitano Gesù
a fermarsi da loro per la notte), benedice e spezza il pane per loro e loro lo
riconoscono, tornano a Gerusalemme per condividere l’esperienza e insieme si
rallegrano: tutti particolari che parlano anche di noi, del nostro incontro con
Gesù.
Stando alle prime due letture della
liturgia di oggi che riportano le parole di Pietro, l’incontro con Gesù è
collocato nel punto di intersezione di due livelli: quanto all’esperienza della
fede, Pietro parla, citando il salmo 15, della ‘gioia alla tua presenza’ del
credente, partecipazione alla stessa gioia del Cristo risorto, datore di vita,
nella sua comunione con il Padre; quanto alla vita quotidiana, Pietro parla di
‘timore’ e dell’essere ‘stranieri’ in questo mondo. La fede ci descrive come
‘cittadini del cielo’ e ‘stranieri’ in questo mondo, sebbene la cittadinanza
celeste si giochi in questo mondo e proprio a partire dal fatto che
l’esperienza della compagnia del Signore risorto ci accompagna. Non per nulla
il corpo glorioso di Gesù reca i segni della sua passione d’amore che soltanto
in questo mondo poteva ricevere. Ciò significa che tutto può essere riscattato
e attraversato dallo splendore di Dio e il luogo da cui questo si esprime è
proprio il nostro cuore.
La vicenda dei due discepoli di
Emmaus lo illustra molto bene. Proprio a partire dalla loro fede nel Dio di
Israele avevano creduto in Gesù, l’avevano seguito e pur delusi per gli eventi
del venerdì precedente non avevano però rinunciato alla loro storia con Gesù.
Ne parlano tra di loro, ne discutono, sebbene tristi. Quando il viandante che
si accompagna loro (chiamato ‘straniero’dai due discepoli) ritorna alle
Scritture che loro stessi conoscevano, pur senza essere capaci di aprirle, il
loro cuore torna a ardere, sommessamente; quando vogliono con loro quel
pellegrino e lo invitano a cena e Gesù si fa riconoscere, la loro storia si
riaccende, tutto si collega e prende vita; devono tornare a Gerusalemme dai
compagni che a loro volta hanno fatto la stessa esperienza e nella gioia che
tutti insieme provano vivranno ormai la loro storia aperta sul mondo, che ha
diritto anch’esso a quella letizia.
La vita è spesso una sequenza di
delusioni, anche se il cuore non dimentica ciò che lo aveva acceso. Non è
scontato e non sembra facile ritornare ad ardere, ma diventa sempre possibile
quando non acconsentiamo a chiuderci su noi stessi, tenendo aperta la nostra
storia. Il segno per eccellenza di questa ‘apertura’ possibile è il gesto del
pellegrino che spezza il pane con i due discepoli. Quel gesto è il simbolo di
tutto il mistero dell’eucaristia. In essa, come scrive papa Benedetto XVI,
beneficiamo dell’ospitalità di Dio, che in Gesù Cristo crocifisso e risorto si
dona a noi. Spezzare e condividere: proprio il condividere crea comunione. Questo
ridà la vista agli occhi e mette ali ai piedi.
I discepoli non riconoscono Gesù
quando spiega loro le Scritture, ma quando si dona loro con l’eucaristia e
nella loro esperienza la spiegazione
delle Scritture da parte del pellegrino diventa per loro apertura e degli occhi e delle Scritture. Il fatto è che non si può
assumere il corpo di Gesù se non accogliendolo ‘secondo le Scritture’. Gesù
rimanda alla storia di Dio con Israele, nella quale accogliere la storia di Dio
con l’umanità e la nostra, personale, singola storia. Il luogo però in cui il
rimando avviene è la chiesa, cioè il luogo della comunione. In quella comunione
la nostra vita torna ad avere senso, le nostre delusioni diventano come i segni
dei chiodi nel corpo glorioso di Gesù.
Il fatto che Gesù sparisca dalla
loro vista appena lo riconoscono significa che il desiderio di vedere il
Signore non comporta una ‘beata’ contemplazione, ma il movimento di
condivisione di quella comunione che ha riacceso i cuori e la nostra storia,
che è storia con Gesù ma anche storia con tutti i nostri fratelli. E se Gesù
sparisce dalla vista, una volta che è stato riconosciuto, è perché se ne
percepisca la presenza dentro e si traduca in radice di vita potente.
§*§*§*§*§*§*§*§*§*§
Quarto ciclo
Anno liturgico A (2010-2011)
Tempo di Pasqua
4a Domenica
(15 maggio 2011)
_________________________________________________
At
2,14a.36-41; Sal 22; 1Pt 2,20b-25; Gv 10,1-10
_________________________________________________
La liturgia di questa domenica è
intessuta sull’immagine del buon pastore (cfr. Sal 22; 1Pt 2,25; canto al
vangelo e colletta), sebbene il brano di vangelo si incentri più semplicemente
sulla figura della porta: “in verità, in
verità io vi dico: io sono la porta delle pecore”. Il brano appartiene a
uno dei discorsi di Gesù con i Giudei, che nel vangelo di Giovanni
costituiscono, insieme agli avvenimenti della vita di Gesù, la trama narrativa
della rivelazione del Figlio di Dio.
Solo Dio è il pastore di Israele;
solo lui guida il suo popolo perché se l’è scelto, l’ha posto in essere, gli
testimonia il suo amore di predilezione e ne esige la santità corrispondente.
Ogni altro che ambisce a pascere Israele a titolo proprio è ladro e brigante. Quando Gesù dice che il pastore delle
pecore entra per la porta, vuol alludere al fatto che il Padre in lui si fa
vedere e in nessun altro: “Dio, nessuno
lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui
che lo ha rivelato” (Gv 1,18); “Chi
vede me, vede colui che mi ha mandato” (Gv 12,45).
In che senso allora Gesù è la porta?
Forse nelle parole di Gesù c’è l’allusione alla ‘porta delle pecore’ che
introduceva nell’atrio del tempio di Gerusalemme. Come a dire: io sono il nuovo
tempio, il luogo dove poter adorare Dio in spirito e verità. Probabilmente,
però, l’episodio del battesimo al Giordano è qui richiamato in tutta la sua
valenza rivelativa: si aprono i cieli, discende lo Spirito, si ode la voce del
Padre che lo dichiara luogo della sua compiacenza. Gesù è porta tanto da parte
di Dio (lui solo, che ha visto il Padre, lo può rivelare) quanto da parte
dell’uomo (lui solo costituisce la chiave di senso che manca all’agire
dell’uomo perché lui solo lo apre in verità al compimento della sua vocazione
all’umanità come rivelazione di Dio nel mondo). Per questo Gesù dice di sé che
è venuto a dare la vita in abbondanza, quella vita che costituisce il supremo
desiderio dell’uomo. Non semplicemente la vita, ma la vita in abbondanza, ad
indicare quella certa qualità di vita che sola colma i desideri dei cuori.
Quando Gesù invita a non darsi pensiero della propria vita, del mangiare, del
vestire, ma di cercare piuttosto il regno di Dio, allude proprio a quella
abbondanza di vita, che costituisce la risposta al bisogno di pienezza che
agita il cuore dell’uomo: “Non temere,
piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto dare a voi il Regno” (Lc
12,32). Con la risurrezione di Gesù, con la scoperta di lui, il Vivente, in
mezzo a noi, che si accompagna a noi, che si fa nostro cibo e nostra sostanza,
l’anima comincia ad assaporare la portata della compiacenza di Dio, che si
riversa, sì, sul Figlio, ma in lui su tutti noi. La vita ormai non può essere
vissuta che in quel ‘piacere’ di Dio di fare comunione con noi, in Cristo.
E proprio qui si coglie la
consistenza del dono di Dio all’uomo. Gesù, come buon pastore, non dà
semplicemente la vita per noi; fa sì che la sua vita diventi vita nostra. Il
mistero dell’eucaristia, tipica scoperta del tempo pasquale, risiede proprio
qui. La sua vita è vita nostra, non solo vita per noi donata. Siamo cioè
invitati a vivere della stessa dinamica di vita che caratterizza lui, vita che
compie la vocazione all’umanità come rivelazione dello splendore di Dio. Come
ricordava Annalena Tonelli nel decifrare il messaggio rivoluzionario
dell’eucaristia: “Questo è il mio Corpo
fatto pane perché anche tu ti faccia pane sulla mensa degli uomini, perché, se
tu non ti fai pane, non mangi un pane che ti salva, mangi la tua condanna…
Se non amo, Dio muore sulla terra, che Dio sia Dio io ne sono causa, (dice
Silesio), se non amo, Dio rimane senza epifania, perché siamo noi il segno
visibile della sua presenza e lo rendiamo vivo in questo inferno di mondo dove
pare che lui non ci sia…”.
Quando il salmo 22 proclama che il
pastore fa riposare le pecore in pascoli erbosi e presso acque tranquille,
allude proprio al dono della vita eterna, sovrabbondante. Le acque tranquille -
in ebraico, le acque di ‘menuchot’- richiamano la creazione del riposo/ristoro nel settimo giorno della
creazione. Il testo della Genesi, dopo aver narrato la creazione di tutte le
cose, dice: “Dio, nel settimo giorno,
portò a compimento il lavoro che aveva fatto”. Ma non era più logico
attendersi che avesse terminato la sua opera nel sesto giorno? Gli antichi
rabbini hanno concluso evidentemente che vi fu un atto di creazione anche il
settimo giorno: “Che cosa è stato creato il settimo giorno? La ‘menuchà’, la
tranquillità, la serenità, la pace e il riposo” (cfr. Gen Rabbà, 10, 9). È lo
stato in cui non vi è contesa né lotta, né paura né diffidenza; è felicità,
pace e armonia; vita nel mondo futuro, vita eterna. Proprio quella ‘vita
abbondante’ che Gesù riconsegna agli uomini che lo accolgono. È la gioia di un
amore che non sarà più mortificato da nulla, amore che, testimoniato nel suo
splendore sul calvario, è donato come Spirito di vita agli uomini che nel
‘crocifisso’ colgono il compimento della promessa di Dio per l’uomo.
A quel dono anelano gli ascoltatori
che hanno seguito il discorso di Pietro a Pentecoste sentendosi trafiggere il
cuore. “Convertitevi”: tornate alla
promessa di Dio che si è compiuta in quel ‘trafitto’, morto e risorto; tornate
a sentirvi destinatari della promessa di Dio che ha fatto risplendere in quel
‘trafitto’ lo splendore del suo amore salvatore, riunendo – come buon pastore –
i figli di Dio dispersi. Tornate a dar credito alla potenza salvatrice di Dio
che per mezzo di quel ‘trafitto’ ha realizzato la sua promessa di vita, la
quale non è che l’offerta incondizionata della sua comunione perché tutto e tutti
possano godere del suo amore.
§*§*§*§*§*§*§*§*§*§
Quarto ciclo
Anno liturgico A (2010-2011)
Tempo di Pasqua
5a Domenica
(22 maggio 2011)
_________________________________________________
At 6, 1-7;
Sal 32;
_________________________________________________
Il brano di oggi è ricchissimo di
allusioni misteriose e potenti. La richiesta di Filippo: “Mostraci il Padre” riformula la domanda di Mosè: “Mostrami la tua Gloria” (Es 33,18).
Contiene l’ardente desiderio del cuore dell’uomo per il Dio di cui porta così
intima traccia da averne una nostalgia acuta: “L’anima mia ha sete di Dio, del Dio vivente: quando verrò e vedrò il
volto di Dio?” (Sal 43,3). Filippo non si rende conto che chiedere di
‘mostrare il Padre’ significa voler vedere risplendere in Gesù l’amore di Dio
per gli uomini dall’alto della croce. La domanda di Tommaso: “ ... come possiamo conoscere la via?”
richiama quella di Pietro: “Signore dove
vai?”. I discepoli sono ancora turbati, non comprendono bene cosa stia
accadendo e non sono ancora pronti a leggere gli avvenimenti che di lì a poco
si scateneranno in rapporto al loro Maestro. Giuda ha appena lasciato il
cenacolo e Gesù parla della sua glorificazione e del suo ritorno al Padre e
comanda ai suoi di amarsi vicendevolmente. Qual è il significato di queste
concatenazioni?
Perché Gesù non può accettare che
Pietro dia la vita per lui? Quando predice a Pietro il suo rinnegamento, Gesù
non vuol mettere in risalto solo la debolezza del discepolo, allude a
qualcos’altro, come risalta dalla risposta a Tommaso e a Filippo. È Gesù che dà
la vita perché l’amore del Padre per gli uomini sia noto a tutti gli uomini.
Quando si segue Gesù, l’uomo non si sacrifica a Dio ma fa di sé il dono di Dio
ai suoi fratelli, come Dio stesso, in Gesù, si fa dono all’uomo. L’uomo finisce
di percorrere il suo cammino quando giunge a essere dono totale di Dio agli
altri. Gesù non chiede la vita del discepolo per lui, ma chiede che il
discepolo, in lui, dia la sua vita a tutti perché l’amore di Dio splenda nel
cuore di tutti e si faccia una sola famiglia.
È interessante osservare che in
questo contesto Gesù non chiami la ‘casa’ del Padre come l’aveva chiamata
quando aveva scacciato i venditori dal tempio (cfr. Gv 2,16; in greco, casa si può dire al maschile e al
femminile; al maschile indica l’edificio, al femminile l’intimità della
famiglia). Oramai, Gesù non si riferisce più al tempio per indicare la casa di
Dio, ma all’intimità della famiglia, alla comunanza di vita e sentimenti tra
Dio e i suoi figli. Si poteva conoscere la profondità e l’eccellenza di tale
intimità e amore prima che Gesù ne rivelasse il mistero?
Quando Gesù spiega il suo ritorno al
Padre e il suo venire ai discepoli
(un venire che non allude semplicemente al suo ‘farsi vedere’ dopo la
risurrezione o al suo ritorno glorioso alla fine dei tempi, ma al suo
‘dimorare’ nei discepoli, alla sua ‘presenza’ potente tra i discepoli, al
divenire uno spirito solo con il Signore da parte dei discepoli) usa
l’espressione: “perché dove sono io siate
anche voi”. L’espressione non significa: io soffro e anche voi soffrirete.
Dice piuttosto: io sono nell'amore del Padre, anche voi lo sarete; sono il
testimone del suo amore in questo mondo e anche voi lo sarete; risplendo della
gloria dell'amore del Padre e pure voi risplenderete dello stesso amore. E
questo proprio perché sopportando l'ingiustizia e la violenza senza venir meno
alla potenza dell'amore, sarà noto a tutti che io amo il Padre e faccio quello
che il Padre mi ha comandato (Gv 14,31) e così l’amore del Padre risplenderà
sul mondo. Di questo amore deve parlare
il vostro amarvi vicendevole perché si radica in me.
Di qui si possono comprendere le due
affermazioni centrali del brano: “Io sono
la via, la verità e la vita”; “chi ha
visto me ha visto il Padre”. Gesù è proprio il luogo della manifestazione
del Padre, il luogo in cui si disvela il volto del Padre, il suo amore per gli
uomini. Quando dice che va a preparare un posto, che deve andare in un certo
luogo, allude alla sua gloria presso il Padre perché con la sua morte e
risurrezione ne svela tutto il mistero di amore per gli uomini e lui diventa il
luogo in cui risplende il volto del
Padre; non solo, ma lui diventa anche il luogo in cui l’umanità, rispecchiando
quello splendore, trova le sue radici, il suo compimento, sazia i suoi aneliti
e la sua tensione. Così si realizza il desiderio di Gesù, che è il desiderio
del Padre: “dove sono io siate anche voi”.
Quando vale la corrispondenza: lui desidera essere con noi e noi desideriamo
essere con lui, lui sta con noi e noi con lui, lui sazia il suo anelito
realizzando la comunione con noi e noi saziamo il nostro realizzando la
comunione con lui, allora il disegno di Dio sul mondo si compie
definitivamente. In lui risplende il Padre, in lui troviamo il Padre, in lui
abbiamo riposo nel Padre.
La liturgia di domenica scorsa aveva
proclamato Gesù come la porta, l’accesso dischiuso di comunione con Dio e con
gli uomini. Oggi proclama: Gesù è ‘via,
verità e vita’. Non sono affermazioni assolute, ma valevoli in rapporto al
Padre. Gesù è la via nel senso che conduce al Padre (implica il bisogno di
orientare gli sforzi del vivere); è la verità nel senso che fa conoscere il
vero volto del Padre (implica il bisogno di relazione assoluta, il bisogno di
intimità, così essenziale al vivere dell’uomo); è la vita nel senso che ci
ottiene di condividere la stessa vita trinitaria di cui il Padre ci fa dono
nello Spirito (implica il bisogno di pienezza, di una qualità di vita non
soggetta a diminuzioni e che si traduca in gioia piena, condivisa, duratura).
L’esito del percorrere quella via, del conoscere e riconoscere il vero volto di
Dio, del condividerne la vita in pienezza di amore, non può che essere, come
ripete diverse volte l’apostolo Paolo: essere uno con Cristo e in Cristo essere
uno con tutti perché Dio sia tutto in tutti. Così il Cristo diventa l’ubi consistam, il dove trovarsi, il dove
permanere, il dove essere rigenerati.
§*§*§*§*§*§*§*§*§*§
Quarto ciclo
Anno liturgico A (2010-2011)
Tempo di Pasqua
6a Domenica
(29 maggio 2011)
_________________________________________________
At
8,5-8.14-17; Sal 65; 1Pt 3,15-18;
Gv 14,15-21
_________________________________________________
Il brano di vangelo di oggi è denso
di misteri che la liturgia legge in riferimento alla prossima ascensione di
Gesù e all’invio dello Spirito Santo, che chiude il periodo pasquale.
Possiamo intuirli cogliendo le
corrispondenze sulle quali è intessuto tutto il cap. 14 di Giovanni. “Se mi amate, osserverete i miei
comandamenti; e io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paraclito perché
rimanga con voi per sempre”. In Gesù il Padre compie le sue opere e nei
discepoli Gesù compie le sue. Ma l’opera di Dio è il suo amore per gli uomini
ed è questo che ci viene partecipato con l’osservanza dei comandamenti. Ed è
per questo che la promessa di Gesù a chi pratica i suoi comandamenti suona: “Chi ama me sarà amato dal Padre mio e anch'
io lo amerò e mi manifesterò a lui”.
È la promessa solenne di Gesù ai
suoi discepoli, il frutto segreto ricercato da chiunque voglia fare il bene se
non vuole ripararsi semplicemente dalle sue paure od esibirsi in qualsiasi
forma: godere dell'intimità con Colui che il cuore ricerca, con Colui di cui
professi la bontà ma ne vuoi sentire dentro il balsamo ristoratore. La promessa
è modellata sulla realtà stessa goduta da Gesù. Come se dicesse: io ascolto ciò
che dice il Padre e perciò compio i suoi comandamenti in forza dell'intimità di
comunione con Lui. Così il mondo sa che amo il Padre e che il Padre è in me.
L'uno svela la realtà dell'altro e l'amore ne custodisce la verità. Se anche
voi, miei discepoli, ascoltate le mie parole e le compirete in forza
dell'intimità di comunione con me, allora diventerete partecipi di quella
stessa intimità di comunione con il Padre che io vivo e vedendo il mio volto
potrete entrare in quei segreti di amore tenuti in serbo per voi fin dalla
fondazione del mondo. I segreti di questo amore sono gli stessi segreti di
verità e di vita che andate inseguendo nei vostri cuori, ancora opachi per ora,
come il mondo che vi circonda, ma perché non volete ancora aprire le porte alla
mia venuta.
L’espressione che mi pare più
rivelativa di questo mistero è quella conclusiva del cap. 14: “viene il principe del mondo; contro di me
non può nulla, ma bisogna che il mondo sappia che io amo il Padre, e come il
Padre mi ha comandato, così io agisco”. La frase che viene tradotta:
‘contro di me non può nulla’, in greco è resa più semplicemente: ‘in me non ha nulla’. Vale la stessa
cosa per i comandamenti. La frase: ‘chi accoglie i miei comandamenti’ andrebbe
resa con: ‘chi ha i miei comandamenti’. Parola e comandamento evocano la verità
di un legame, di un’alleanza; evocano la volontà di bene di Dio per l’uomo
tanto che l’uomo, se li accoglie, può ottenere la visione di quella verità
piena d’amore, espressa in un volto, il volto del Cristo. Il comandamento non
ha a che fare con un dovere morale; ha a che fare con l’esperienza di un amore.
Come a dire: chi ha in sé la parola, il comandamento di Dio, non offre presa
alcuna al potere del demonio e quindi il demonio non può rapirgli quell’amore
che lo abita. Come è per Gesù, così per i discepoli.
Per questo l’apostolo Giuda, non
l’Iscariota, aveva domandato: “Signore,
come è accaduto che devi manifestarti a noi, e non al mondo?”. In effetti
c'è opposizione tra lo Spirito della verità (che è amore) e il mondo. Mondo è
ciò che si contrappone alla verità del Figlio e della sua opera, ciò che vuol
contrastare la dinamica divina in atto nella storia, quel mistero cioè di
riconciliazione tra Dio e l'uomo in Cristo. I comandamenti di Gesù sono in
funzione della rivelazione al nostro cuore di questo mistero di
riconciliazione, che ci mostra in tutto il suo splendore il vero volto di Dio e
ci apre al suo mistero. Lo Spirito di verità è lo Spirito che ci guida a questa
rivelazione del vero volto di Dio e che noi possiamo cogliere solo partecipando
in prima persona al mistero della riconciliazione tra Dio e l'uomo in Cristo.
In questo è Consolatore, perché compie l'anelito supremo dei nostri cuori,
quello di una comunione suprema. Man mano che accogliamo lo Spirito, il mondo
in noi si ritira o, meglio, si fa Chiesa, cioè sempre più e sempre più
estesamente tutto di noi asseconda l'opera di Gesù, si fa luogo di trasparenza
dell'amore di Dio per tutti, in Cristo.
La percezione di questa verità è
però drammatica nel senso che risplende nel contesto del ‘processo’ del mondo a
Gesù e ai suoi discepoli. La giustizia si rivela se non acconsente
all’ingiustizia; l’amore si rivela se non si fa disperdere dall’odio o
dall’invidia. Gesù diventa ‘il re della gloria’ dall’alto della croce. Quando
Pietro, nella sua prima lettera, parla di coloro che domandano ragione ai
cristiani della speranza che è in loro, allude proprio a questo ‘processo’ del
mondo contro i seguaci di Gesù. Non allude alle possibili discussioni sulla
fede, ma alle sofferenze che il seguace di Gesù patisce per testimoniare
l’amore di Dio agli uomini, non cedendo all’ingiustizia e non venendo meno alle
ragioni di questo amore. La testimonianza ha valore se viene praticata con
dolcezza e rispetto, nella coscienza cioè di non abbandonare quella benevolenza
di amore che Dio ha testimoniato in Gesù per gli uomini. La forza di quella
testimonianza deriva dall’azione dello Spirito nel cuore dei discepoli, che li
rende insieme ‘concordi, partecipi degli stessi sentimenti, fraternamente
affettuosi, misericordiosi, con un sentire umile e sempre benedicenti’. È lo
spazio della chiesa che diventa credibile, rispetto alla testimonianza che
porta, se fa trasparire la ‘benedizione’ di Dio sull’umanità, che è Gesù, vivo
e operante nel cuore dei discepoli.
§*§*§*§*§*§*§*§*§*§
Quarto ciclo
Anno liturgico A (2010-2011)
Tempo di Pasqua
Ascensione
(5 giugno 2011)
_________________________________________________
At 1,1-11; Sal 46; Ef 1,17-23; Mt 28,16-20
_________________________________________________
Probabilmente oggi non esprimeremmo
i desideri profondi del nostro cuore con le parole della liturgia nella
preghiera dopo la comunione: “Dio onnipotente e misericordioso, che alla tua
Chiesa pellegrina sulla terra fai gustare i divini misteri, suscita in noi il desiderio della patria
eterna, dove hai innalzato l’uomo accanto a te nella gloria”. Eppure,
questa preghiera corrisponde profondamente all’anelito dei cuori.
Tutto dipende dalla prospettiva in
cui guardiamo ai misteri della vita del Signore. Possiamo guardarli da
spettatori, come da fuori campo o da attori in gioco, dentro la scena. I
misteri della vita di Gesù, ascensione compresa, vanno tutti letti nella loro
potenza di rivelazione dell’amore del Padre per noi uomini. La colletta lo
illustra molto bene: “Esulti di santa gioia la tua Chiesa, o Padre, per il
mistero che celebra in questa liturgia di lode poiché nel tuo Figlio asceso al
cielo la nostra umanità è innalzata accanto a te, e noi, membra del suo corpo,
viviamo nella speranza di raggiungere Cristo nostro Capo nella gloria”. Se
guardiamo al mistero come rimirando un quadro vediamo Gesù in alto e
immaginiamo, oranti e fiduciosi, di poter partecipare un giorno alla sua
gloria. Se guardiamo da dentro la scena la vista cambia. Dov’è il cielo o che
cosa è cielo? Il cielo non è un luogo ma una dimensione e non per nulla quando
Gesù dice che va al Padre dice anche che viene a noi. Cielo è il cuore dove Dio
è adorato in tutta la sua gloria e la sua gloria è l’amore per gli uomini che
in Gesù, morto e risorto, risplende e che il suo Spirito ci partecipa perché
possiamo conoscere il Padre nel suo immenso amore per noi e avere la vita.
Così, vedere Gesù asceso al cielo significa vedere compiersi l’umanità nella
gloria dell’amore, amore che è la vita di Gesù che viene a noi e agisce dal di
dentro dei nostri cuori, riempiendo ogni spazio in modo da far risplendere la
presenza di Dio.
La finale del vangelo di Matteo è
rivelativa: “Ed ecco, io sono con voi
tutti i giorni, fino alla fine del mondo”. Riguarda il compimento della
promessa di Dio al suo popolo, riportata all’inizio del vangelo con la
citazione di Is. 7,14: “Ecco, la vergine
concepirà e darà alla luce un figlio: a lui sarà dato il nome di Emmanuele, che
significa Dio con noi” (Mt 1,23). Era già stato annunciato in Es 3,12 (“Io sarò con te”), ripreso da Ger
Ciò significa che nella percezione
degli apostoli l’ascensione è colta come un dono di presenza, come
un’interiorizzazione di rapporto, che non solo non perde nulla della sua realtà
con la sottrazione della fisicità di Gesù, ma acquista profondità e intensità
insospettate. Anche perché il contesto in cui è vissuta quell’emozione è
chiaramente missionario: “Andate dunque e fate discepoli tutti i
popoli”. Se potessi allora riassumere con mie parole la sensazione degli
apostoli, direi che si è trattato dell’esperienza di una gioia assolutamente
dinamica, capace di allargare i confini del cuore e le energie corrispondenti
in maniera illimitata. Resta sottolineata sia una dimensione di azione, in rapporto diretto con la
missione alle genti, sia una dimensione di essere,
in rapporto all’esperienza della presenza potente
di Gesù in loro e con loro.
Le parole di Gesù non esprimono
semplicemente che resta con noi, ma che resta con noi efficacemente,
potentemente. Non semplicemente, come discepoli suoi, ci riferiremo o faremo
ricorso a lui nella vita, ma ne godremo la presenza con l’assicurazione che
potremo restare nella dinamica del suo amore sempre e comunque, perché prevalga
l’amore di Dio per tutti.
Il testo evangelico contiene ancora
una sottolineatura speciale. Per quattro volte si ripete la parola tutto: “ogni potere ... tutti i popoli ... tutto ciò che vi ho comandato ...
tutti i giorni”. Viene sottolineata la compiutezza, l'universalità, la
totalità del mistero che si compie.
Potremmo comprendere così: il tempo
della missione mira a rendere evidenti per i cuori gli effetti del saper
riconoscere che a Gesù è stato dato ogni potere. Perché il nostro cuore
rivendica così sovente i suoi diritti, giustifica così sovente le sue ire,
resta schiacciato dalla vergogna per le sue colpe ed ha così paura di
consegnarsi alla promessa di Gesù? Non è scontato per noi arrivare a dire:
riconosco, Signore, che ogni momento del mio vivere e ogni punto del mio cuore
si può aprire allo splendore della tua presenza; riconosco che non c'è nulla in
me che non possa essere liberato dalla paura e dalla vergogna perché tu sei in
noi e con noi!
La menzione del monte dove Gesù
ascende al cielo richiama l’altro monte, quello della tentazione, da dove si
potevano vedere tutti i regni di questo mondo. Ora, il potere che Gesù dichiara
di avere è quello che il Padre gli ha concesso, il potere cioè di mostrare in
verità il volto di Dio e il potere di soddisfare appieno il cuore dell’uomo. Se
non troviamo scontato il potere di Gesù è perché la gloria del mondo affascina
comunque. L’unico antidoto al suo fascino è la gioia di una presenza custodita,
come Luca annota per i discepoli: “tornarono
a Gerusalemme con grande gioia” (Lc 24,52). Non possiamo non notare che
sarà proprio questa gioia a trasformarsi presto nella potenza dell’annuncio.
Senza questa gioia l’annuncio risulterebbe insignificante.
§*§*§*§*§*§*§*§*§*§
Quarto ciclo
Anno liturgico A (2010-2011)
Tempo di Pasqua
Pentecoste
(12 giugno 2011)
_________________________________________________
At 2,1-11; Sal 103; 1Cor 12,3b-7.12-13; Gv 20,19-23
_________________________________________________
L’evento della pentecoste è narrato
in At 2,1-11, ma secondo il vangelo di Giovanni Gesù ha già effuso il suo
Spirito morendo sulla croce e alitandolo
sui discepoli la sera di Pasqua (cfr. Gv 19, 30.34 e 20, 19-23), gesto che
allude alla nuova creazione (cfr. Gn 2,7).
Il gesto del soffiare lo Spirito sui
discepoli da parte di Gesù non comporta solo l’assicurazione alla chiesa che
potrà, nel suo nome, esercitare il potere
sacramentale di rimettere i peccati. Allude soprattutto all'essenza stessa
dell'esperienza cristiana. Come possiamo fare esperienza dell'incontro con Dio?
“Dio ha fatto grazia di sé a voi in
Cristo” (Ef 4,32), è l’annuncio evangelico che riassume l’opera di Dio per
l’uomo. Quando nella preghiera del Padre nostro domandiamo: ‘rimetti a noi i
nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori’, domandiamo prima di
tutto di diventare così coscienti del nostro essere peccatori da poter gustare
l’amore perdonante di Dio ogni giorno, a tal punto da condividerne l’esperienza
con tutti. In effetti, più questa esperienza è profonda e veritiera, più
possiamo accedere a quello stile di vita divina che corrisponde al far grazia
di noi a tutti in Cristo, nell’imitazione di Dio, e così ritrovarci veri figli
dell’Altissimo. Come dice la beatitudine: “Beati
gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio” (Mt 5,9):
beati coloro che non hanno altro scopo nel loro vivere se non di perseguire la
pace ottenutaci dal Figlio di Dio, perché saranno come lui che, venuto a
testimoniare quanto è grande l’amore di Dio per gli uomini, non ha preferito se
stesso e ha accettato di essere consegnato nelle mani degli uomini.
Chi abilita noi peccatori a essere come il Figlio? Lo Spirito di Gesù, lo
Spirito che Gesù ci invia. Perciò egli ci è inviato a doppio titolo:
- per portarci ad una coscienza
sempre più viva e bruciante del nostro essere peccatori davanti a Dio e
introdurci alla conseguente esperienza del perdono che ci inonda e ci rinnova
in Cristo;
- per abilitarci a vivere in Cristo,
secondo lo scopo dell'agire stesso di Dio: fare di tutti una cosa sola, finché
Dio sia tutto in tutti (cfr. 1Cor 15,28). Sarà l’opera specifica dello Spirito Santo, l’opera della fraternità come
rivelazione della paternità di Dio. Come direbbe Francesco di Assisi: ‘avere lo
Spirito del Signore e la sua santa operazione’.
Nell’inno alle lodi abbiamo cantato:
“Vieni, o divino Spirito, con i tuoi santi doni e rendi i nostri cuori tempio
della tua gloria”. E in una colletta che precede la festa abbiamo pregato:
“crei in noi un cuore nuovo perché possiamo piacere a te e cooperare alla tua
volontà”. È la gloria di un cuore che fa splendere l’amore di Dio per tutti, di
un cuore sempre rinnovato dall’amore perdonante di Dio a tal punto da non
rivendicare alcun diritto per sé perché l’unico suo tesoro è appunto
quell’amore; di un cuore che piace a Dio perché si trova unito al suo Figlio
sul quale riposa tutta la sua compiacenza, mentre si fa portatore di quella
volontà di Bene da parte di Dio verso tutti perché tutti possano conoscere il
Suo amore. La responsabilità della testimonianza non sarà più vissuta come
impegno o dovere ma come sovrabbondanza: lo Spirito riempirà di Gesù i nostri
cuori fino a che tutta la sua verità risplenda e conquisti, me come tutti. La
testimonianza è in funzione di uno splendore, non di un impegno!
Quando, a Pentecoste, compaiono sul
capo degli apostoli le lingue,
l’annuncio evidente risulta essere questo: ormai tutti possono percepire che è
l’opera di Dio a unire gli uomini. E l’opera di Dio è la verità del suo amore
per noi, che in Gesù si è fatto visibile e accessibile. Il miracolo che a
Pentecoste acquista una rilevanza fisica, tanto che ognuno sente proclamare
l’opera di Dio nella sua lingua nativa (da notare che ogni lingua, pur essendo
diversa, proclama la stessa ed unica cosa!), è lo stesso miracolo che viene
operato nei cuori dallo Spirito quando li convince a muoversi nella carità,
aprendo la diversità alla comunione. Riconoscere, assecondare, favorire tale
dinamica, significa aver ricevuto lo Spirito Santo e agire nella sua potenza.
Lo Spirito non può che condurre alla conoscenza del mistero del Signore Gesù,
che dell’amore di Dio per gli uomini è il testimone per eccellenza. Quando gli
apostoli, davanti ai persecutori, preferiscono la carità di Gesù, non scelgono
solo di stare dalla parte di Gesù, ma anche dalla parte degli uomini che della
sua carità devono poter vedere lo splendore in atto.
Nella preghiera: “Vieni, santo Spirito,
riempi i cuori dei tuoi fedeli e accendi in essi il fuoco del tuo amore”, il
fuoco esprime la condivisione di un segreto capace di far ardere il cuore. È la
preghiera perenne della chiesa perché si conosca il Signore come amore per noi,
capace di unire gli uomini in un’unica famiglia, la famiglia di Dio.
§*§*§*§*§*§*§*§*§*§
Quarto ciclo
Anno liturgico A (2010-2011)
Solennità e feste
Ss. Trinità
(19 giugno 2011)
_________________________________________________
Es 34, 4b-6.
8-9; Dn 3,52.56; 2Cor 13, 11-13; Gv 3, 16-18
_________________________________________________
La benedizione conclusiva della
seconda lettera ai Corinzi riporta la formula più chiaramente trinitaria di
tutto il Nuovo Testamento: “La grazia del
Signore Gesù Cristo, l’amore di Dio e la comunione dello Spirito Santo siano
con tutti voi”, formula che la liturgia eucaristica riprende per il saluto
del celebrante all’inizio della celebrazione: ‘La grazia del Signore nostro
Gesù Cristo, l’amore di Dio Padre e la comunione dello Spirito Santo sia con
tutti voi’. In questa formula è singolare che Gesù, che pur rappresenta per noi
l’espressione stessa dell’amore (“li amò
sino alla fine”, Gv 13,1), non sia definito in rapporto all’amore, termine
che invece è riservato al Padre. Se Gesù tanto ci ha amato, quanto ci amerà il
Padre, che è l’Amore stesso? È esattamente il punto di rivelazione della festa
di oggi.
Il brano evangelico è tratto dal
colloquio notturno di Gesù con Nicodemo. L’affermazione: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio, unigenito ...” in
realtà è la spiegazione (nel testo si trova: ‘Dio infatti ha tanto amato ...’)
della precedente affermazione: “ ... così
bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo”, che soltanto ‘nascendo dall’alto’ l’uomo può
accogliere e comprendere, vale a dire accogliendo la rivelazione di Gesù e
partecipando con il battesimo alla sua morte e risurrezione.
La singolarità di queste verità, che
hanno a che vedere con la rivelazione di Dio che Gesù compie, risaltano in
tutta la loro intensità e drammaticità con il brano dell’Esodo che riporta la
manifestazione di Dio a Mosè. Mosè era salito sul Sinai una seconda volta, dopo
il tradimento dell’alleanza da parte del popolo con il vitello d’oro, con una
pressante richiesta: “Mostrami la tua
gloria” (Es 33, 18). La richiesta è partita dalla consapevolezza
dell’indegnità del popolo dopo il suo grave peccato e dopo che Mosè, solidale
con il popolo, aveva interceduto per lui presso Dio. Il passo che leggiamo oggi
è la risposta a quella richiesta con la proclamazione del ‘nome’ di Dio: “Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e
pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà”. La ‘gloria’ di Dio
non è che lo splendore del suo amore per i suoi figli. E solo dalla
consapevolezza della propria indegnità risalta tutta la qualità dell’amore di
Dio per l’uomo: un amore perdonante, un amore ricco in misericordia. Tanto che
in tutto l’Antico Testamento, di nessun uomo si riporta che sia
‘misericordioso’, ma solo di Dio.
Gesù svela proprio la profondità e l’incommensurabilità
di questo ‘amore pieno di misericordia’ da parte di Dio, mostrando al tempo
stesso la possibilità per l’umanità di parteciparne la dinamica: sarà quella
‘vita eterna’ che chi sta unito al Figlio, crocifisso e risorto, godrà come
radice di vita e di azione, dentro un amore non più mortificato da nulla e da
nessuno.
Il nome che Dio proclama: “Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira
e ricco di grazia e fedeltà” si riassume nell’esperienza che ‘il Signore è
per noi’, esperienza che Gesù fa splendere in tutta la sua bellezza. Chi ci
apre a quella esperienza è proprio lo Spirito Santo il quale ci mette in
comunione con l’amore del Padre, di cui il Figlio è la grazia di verità per
noi. Lo Spirito ritorna a scrivere direttamente sul nostro cuore le parole di
Dio di modo che noi non le professiamo semplicemente ricordando che sono parole
di Dio, ma vivendole direttamente come mozione di Dio in noi. Si torna alle
primitive tavole della legge che aveva scritto direttamente il dito di Dio, tavole
che Mosè aveva poi infranto dopo il peccato del vitello d’oro.
Non dobbiamo tuttavia dimenticare
che il contesto della rivelazione di Dio sul Sinai come sul Calvario, se
esprime l’immensità dell’amore di benevolenza di Dio per i suoi figli, per noi
diventa esperibile solo ‘facendo lutto’, solo riconoscendo la nostra insensata
idolatria e consegnandoci di nuovo interamente nelle mani del Dio Vivente.
Tutta la Scrittura ricorda come quell’esperienza sia la più sublime e la più
tormentosa, la più agognata e la più temuta. Non è così facile spiegarne il
perché nonostante non ci manchino le ragioni di comprensione, che però il cuore
stenta ad accogliere. Eppure, anche per noi risulta vera la proclamazione
evangelica: “Dalla sua pienezza noi tutti
abbiamo ricevuto: grazia su grazia. Perché la Legge fu data per mezzo di Mosè,
la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo” (Gv 1,16-17). Se
l’uomo cerca la verità, la verità di cui ha sete il suo cuore è una verità di
grazia e contemporaneamente una grazia di verità. La festa di oggi invita
ciascuno a vivere la propria vita nell’atteggiamento di chi si dispone ad
accogliere nel suo cuore la grazia di
verità che il Signore Gesù testimonia rivelando l’amore del Padre e
donandoci il suo Spirito.
È caratteristico che il cristiano,
tracciando il segno di croce sulla propria persona, l’accompagni con la
confessione trinitaria: Padre, Figlio, Spirito Santo. Come a dire: l’amore di
Dio per gli uomini, che si è rivelato in tutto il suo splendore a partire dalla
croce di Gesù, riempia e copra tutta la mia persona partecipando alla stessa
comunione di vita che intercorre tra le tre Persone divine. E quando quel segno
si traccia sulle cose o prima delle varie azioni si intende accedere alla
dimensione di rivelazione dell’amore di Dio per il nostro cuore che quegli atti
comportano nella sua provvidenza per noi.
§*§*§*§*§*§*§*§*§*§
Quarto ciclo
Anno liturgico A (2010-2011)
Solennità e feste
Ss. Corpo e Sangue di Cristo
(26 giugno 2011)
_________________________________________________
Dt
8,2-3.14b-16a; Sal 147; 1Cor 10,16-17; Gv 6,51-58
_________________________________________________
L’origine della festa, propria
dell’Occidente latino, è legata al possente risveglio della devozione
eucaristica che si sviluppò dal secolo XII in poi, accentuando particolarmente
la presenza reale di Cristo nel sacramento e quindi la sua adorazione. Furono
le visioni di Giuliana di Cornillon, monaca agostiniana di Liegi, ad avere un
influsso decisivo nell’introduzione della festività, che per la prima volta si
celebrò nella diocesi di Liegi nel 1247. Urbano IV, già arcidiacono di Liegi e
confessore di Giuliana, la prescrisse per tutta la Chiesa nel 1264.
Quando s. Agostino si domanda quale
sia la virtù specifica dell'Eucarestia, non può che rispondere: "La virtù
propria di questo nutrimento è quella di produrre l'unità, affinché, ridotti ad
essere il corpo di Cristo, divenuti sue membra, siamo ciò che riceviamo".
In effetti, quando ci accostiamo alla comunione eucaristica, l’amen che il fedele
risponde non significa : sì, credo che quel pezzo di pane è il corpo di Cristo,
ma, più in verità: sì, so che faccio parte di quel corpo e accetto di vivere
come un corpo solo!
Un corpo solo con il Signore Gesù,
che si è consegnato agli uomini perché gli uomini conoscessero la grandezza
dell’amore di Dio per loro! La liturgia oggi sottolinea fortemente la realtà di
quell’essere un corpo solo, nella consegna al mondo. Il brano di Giovanni, con
un realismo perfino provocatorio, lo rivela chiaramente. Gesù, che si presenta
come il pane vero disceso dal cielo, raffigurato nella manna che gli ebrei
ebbero in dono nella loro traversata del deserto, non dice semplicemente che
chi ‘mangia’ di lui avrà la vita. Dice più specificamente: chi lo ‘mastica
rompendo con i denti’, azione tipica del mangiare a livello corporale. Ebbene,
nello spirito, l’azione del ‘mangiare’ il corpo del Signore, è ancora più reale
del mangiare fisico. Tra l’altro, Giovanni sottolinea come il primo effetto del
mangiare la carne del Signore immolato non sia quello di avere il Signore in
noi, ma di dimorare noi in lui, di essere noi presi in lui. E proprio questo
effetto primario, tipicamente spirituale e assolutamente reale, fonte di
energia e di vita, induce a collegare l’essere un corpo solo con il Signore con
l’essere un corpo solo anche tra di noi. Essere nel Signore significa essere
assunti nella dinamica di rivelazione dell’amore di Dio al mondo (questo
significa l’essere inviati da Dio) per cui la vita stessa non può essere vissuta
che a servizio dello splendore di quell’amore.
L’Eucaristia è la rivelazione del
mistero delle cose. Nell'inno ai vespri della festa si canta: "Frumento di
Cristo noi siamo .... In pane trasformaci, o Padre, per il sacramento di pace:
un Pane, uno Spirito, un Corpo, la Chiesa una-santa, o Signore". E
Francesco d'Assisi, nel suo commento al Padre Nostro, annuncia: "Il nostro pane quotidiano, il tuo Figlio
diletto, il Signore nostro Gesù Cristo, dà
a noi oggi: in memoria, comprensione e reverenza dell'amore che egli ebbe
per noi e di tutto quello che per noi disse, fece e patì".
Un uomo non si rivela in tutta la
sua totalità se non dentro un mistero più grande di lui, che gli offre uno
spazio di movimento, infinito quanto il suo desiderio. Il chicco di frumento
non conosce la sua vera natura se non viene trasformato in farina, impastata,
cotta in pane e poi assunto in sacramento di pace. L'uomo non coglie la sua
verità se non nel suo porsi con gli altri uomini ed accogliersi ed offrirsi e
farsi punto di comunione, luogo in cui
crescere in comunione, assunto nel corpo di Cristo. Cosa diventa il nostro
cuore compreso nella logica eucaristica? Un amore donato che si fa dimora per
tutti nella gioia. E da dove si pesca la potenza e la freschezza di quell’amore
se non nell’essere un corpo solo con il Signore Gesù, che di quell’amore è il
testimone per eccellenza?
È l'Eucarestia, come dice s.
Francesco, a comunicare al cuore dell'uomo credente, che fa affidamento alla
logica che viene dall'alto, la potenza di una memoria, di una intelligenza e di
un sentimento per un amore grande che ci ha toccati, per Colui che si è
rivelato al nostro cuore come capace di amore per noi. Sperimentando questo,
allora le sue parole, il suo agire ed il suo soffrire, si impastano con il nostro,
lo lievitano e, mossi ormai dalla sua stessa dinamica di vita, impariamo a
stare solidali con tutti, in quell’umanità che ci rende un unico corpo, un
corpo solo con il nostro Dio.
§*§*§*§*§*§*§*§*§*§
Quarto ciclo
Anno liturgico A (2010-2011)
Tempo Ordinario
14a Domenica
(3 luglio 2011)
_________________________________________________
Zc
9,9-10; Sal 144; Rm 8,9-13;
Mt 11,25-30
_________________________________________________
Nel vangelo di Matteo e di Luca il
brano di oggi costituisce forse la rivelazione più esplicita di Gesù quanto al
suo rapporto con il Padre. Matteo non specifica la circostanza di questa
solenne benedizione di Gesù, ma il passo parallelo di Lc 10,21-22 lo riporta
chiaramente. Gesù prorompe nel suo grido di esultanza davanti ai 72 discepoli
che tornano dalla predicazione: “Ti rendo
lode, o Padre … perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai
rivelate ai piccoli”. È l’esultanza di fronte all’accondiscendenza di
benevolenza del Padre per gli uomini, che possono godere del suo amore senza
averne alcun titolo. L’uomo non deve conquistare Dio, ma aprirsi alla sua
rivelazione. Dio è già dalla sua parte: la presenza di Gesù, l’Inviato del
Padre, lo dimostra. L’unica conquista è quella di acquisire quell'atteggiamento
del cuore che consente di ricevere la rivelazione del suo amore. Questo
caratterizza i ‘piccoli’, la cui qualità è definita in rapporto ai ‘sapienti’
che si affannano invece a volere che Dio sia come è stabilito che sia, come a
cercare le condizioni possibili per una presenza accettabile di Dio.
I pensieri degli uomini non
corrispondono ai pensieri di Dio e chi preferisce quelli di Dio ai propri
appartiene al numero dei ‘piccoli’. La condivisione da parte di Gesù del
piacere di Dio, non allude semplicemente al fatto che a Dio piace rivelarsi ai
piccoli, ma alla condizione essenziale perché Dio possa rivelarsi, come a dire:
appena ci si fa piccoli, nella misura in cui ci si fa piccoli, Dio si rivela a
noi. Qui si cela il segreto dell’obbedienza al Padre di Gesù, dell’obbedienza
del discepolo al suo Maestro, dell’obbedienza della fede. L’esultanza di Gesù
come del credente deriva da qui, come la preghiera alla comunione testimonia:
“fa’ che viviamo sempre in rendimento di grazie” per l’esperienza che ci è stato
dato di fare in Gesù.
È l’esultanza che deriva dalla
grazia di venir messi a parte dei segreti di Dio, in Gesù. Segreti, che la
profezia di Zaccaria, compiuta con l’ingresso di Gesù a Gerusalemme la domenica
delle palme, collega al mistero pasquale; che il salmo responsoriale descrive
come il compimento della rivelazione del nome di Dio a Mosè sul Sinai; di cui
la lettera ai Romani ci fa ‘debitori’ per la vita che ne scaturisce. Se teniamo
presente che il brano evangelico di oggi è lo stesso brano che viene proclamato
nella festa del S. Cuore, allora possiamo intuire la verità della testimonianza
di Gesù sul Padre: “di generazione in generazione durano i pensieri del suo
Cuore” (antifona di ingresso, che riprende sal 32,11) e la testimonianza su se stesso:
“Tutto è stato dato a me dal Padre mio”
(Mt 11,27), ripresa alla fine del vangelo: “A
me è stato dato ogni potere in cielo e in terra” (Mt 28,18).
Le espressioni ‘tutto’ e ‘ogni
potere’ si riferiscono ai misteri del regno dei cieli di cui Gesù può svelare
la verità e con la conoscenza dei quali portare felicità ai cuori, che di quei
misteri sono intessuti, benché incapaci di viverli. Ciò che rende, però,
accoglibile per i nostri cuori la rivelazione di Gesù è la sua ‘mitezza e
umiltà’, che parla dell’amore di compassione di Dio che in lui risplende e
tutto investe. L’unione tra mitezza e umiltà costituisce la cifra divina
dell’umanità perché al mite e all’umile sono svelati i segreti di Dio, che sono
i segreti di amore per gli uomini di cui il Figlio è il Testimone per
eccellenza. Il ‘ristoro’ che il cuore cerca non può che venire da quella
‘mitezza e umiltà’ perché generatrice di comunione, di condivisione in
benevolenza.
La colletta interpreta assai bene il
movimento di rivelazione che ci è dato gustare: “O Dio, che ti riveli ai
piccoli e doni ai miti l’eredità del tuo regno, rendici poveri, liberi ed
esultanti, a imitazione del Cristo tuo figlio, per portare con lui il giogo
soave della croce e annunziare agli uomini la gioia che viene da te”. Tre le caratteristiche
dell'imitazione del Cristo: 'poveri, liberi ed esultanti'. Poveri di tutto ciò
che ci allontana dalla rivelazione dell’amore del Padre, liberi da tutto ciò
che si oppone a quella rivelazione ed esultanti per tutto ciò che la consente.
E quando gli uomini coglieranno da noi l'eco di quell'esultanza, allora
sapranno che la gioia viene da Dio e la desidereranno anche loro. Anche loro
torneranno piccoli per non perdere la possibilità di godere della stessa gioia.
§*§*§*§*§*§*§*§*§*§
Quarto ciclo
Anno liturgico A (2010-2011)
Tempo Ordinario
15a Domenica
(10 luglio 2011)
_________________________________________________
Is
55,10-11; Sal 64; Rm 8,18-23;
Mt 13,1-23
_________________________________________________
Per tre domeniche successive la
Chiesa farà proclamare la lettura del cap. 13 di Matteo, il capitolo delle
sette parabole del Regno. Oggi viene proclamata la prima parabola, quella del
seminatore.
“Quel
giorno Gesù uscì di casa … Ecco, il seminatore uscì a seminare”. Gesù,
Verbo del Padre, lascia il Padre e viene tra gli uomini, non solo seminando la
Sua parola nei cuori, ma seminando Sé, Sua Parola Vivente, nei cuori. C'è
identità tra il seminatore e il seme, perché Colui che semina e la cosa che
viene seminata è la stessa realtà, Gesù stesso. Ognuno è chiamato a far nascere
e far crescere Gesù dentro il proprio cuore. E questo è il significato profondo
della parabola.
Questo significato non può essere
colto per ragionamento, ma solo per rivelazione. La comprensione della parabola
ha a che vedere con la grazia appunto di una rivelazione perché c’è chi la può
comprendere e chi no. È chiara la distinzione tra i discepoli ai quali è dato
di comprendere e la folla alla quale resta velato il senso misterioso della
parabola, nonostante la semplicità apparente del racconto.
Due sono gli aspetti principali
della parabola: la generosità del seminatore e i vari tipi di terreno. Il
seminatore non è meno generoso con il terreno sassoso che con il terreno buono.
Ce lo rammenta la prima lettura di Isaia: sempre la Parola produce quello per
cui è mandata. Ma - e questo è il dramma - se in chi l'accoglie, produce
salvezza, in chi la rifiuta produce la condanna di non vedere compiuti i
desideri del proprio cuore perché impenetrabile alla tenerezza della Parola. È
il dramma della relazione mancata con il proprio Dio!
Forse non riusciamo più a cogliere
il mistero di Bene che il Signore ci squaderna. Possiamo ancora sentire la
verità di quel “beati i vostri occhi
perché vedono e i vostri orecchi perché ascoltano”, eco della preghiera di
lode di Gesù: “Ti rendo lode, Padre,
Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e
ai dotti e le hai rivelate ai piccoli” (Mt 11,25) e della comunanza di vita
che Gesù ci offre: “chiunque fa la
volontà del Padre mio che è nei cieli, egli è per me fratello, sorella e madre”
(Mt 12,50)? Con le parabole del Regno Gesù ci invita appunto alla sua comunanza
di vita con il Padre, che è amore per noi.
Ogni dono dell’Amato è sempre
presenza dell’Amato; dietro ogni Parola annunciata, ascoltata, sta sempre il
desiderio di Dio di essere accolto e l’invito suo ad accoglierlo. Questa alleanza di Dio con l’umanità
costituisce il quadro di riferimento della parabola del seminatore. Lo proclama
anche il passo di Isaia che precede il brano letto oggi: “O voi tutti assetati venite all’acqua…Porgete l’orecchio e venite a me,
ascoltate e voi vivrete. Io stabilirò con voi un’alleanza eterna” (Is
55,1.3). In quel contesto prende significato la prodigalità del seminatore (non
si stanca mai di seminare, non teme di buttar via il seme, si rivolge a ogni
tipo di terreno, evidentemente perché sempre Dio ricerca la conversione del
cuore dell’uomo che da un tipo di terreno può passare a un altro) e la potenza
di crescita del seme (che può sempre produrre fino a 100 volte tanto),
mostrando in questo il compimento dei desideri del cuore dell’uomo: “Chiunque avrà lasciato case, o fratelli, o
sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi per il mio nome, riceverà cento
volte tanto e avrà in eredità la vita eterna” (Mt 19,29).
Ci sono terreni che non portano
frutto e ci sono terreni che lo portano, sebbene in misura diversificata
(30,60,100 per uno). Il frutto è in rapporto all'accoglienza del seme, come a
dire: tutto il lavorio del cuore è per accogliere e far crescere in noi il
Cristo. La progressione è data dalla potenza della gioia della scoperta del
Regno, gioia che, nell’incontro con Gesù, diventa radice di nuova umanità fino
a condividere la vita stessa del Figlio dell’Uomo.
I terreni, che possiamo intendere
come le possibili condizioni di una conversione sempre più coinvolgente e
radicale, sono: la strada, i sassi, le spine, la terra buona. Dobbiamo operare
tre passaggi per arrivare a produrre qualche frutto.
Dobbiamo prima lasciare l'essere
come la strada, terreno calpestato, quando diamo diritto d’accesso al cuore a
qualsiasi pensiero, senza imparare a distinguere e a lottare per non andar
dietro ad ognuno che passa e subire vessazioni di ogni tipo.
Poi dobbiamo lasciare l'essere come
i sassi, il terreno con poca terra, quando il cuore teme di soffrire per
seguire il Signore, quando non ha fiducia nella sua promessa e cedendo a questa
paura non conoscerà mai l'amore e la vita!
Poi dobbiamo lasciare il terreno con
le spine, il terreno infestato, quando nel cuore si fa sentire la resistenza al
distacco da tutto ciò che momentaneamente ci alletta. Troppi beni finiscono per
nascondere il vero Bene; le pretese impediscono al cuore di godere. Lavorando
per non compromettere il cuore in cose che ritardano o addirittura soffocano i
suoi aneliti più genuini, la terra diventa buona.
La terra buona dà frutto per il 30,
il 60 e il 100 per uno. La tradizione ebraica ha visto in questa distinzione la
fedeltà di chi crede e uniforma la sua vita ai precetti del Signore, di chi lo
fa spendendo tutti i suoi beni per il regno di Dio, di chi lo fa fino al dono
di se stesso, capace di morire pur di star fedele al suo Dio. Nella tradizione
cristiana si sono visti i credenti in generale, i vergini, i martiri. In
sostanza, tutto dipende dal livello di profondità e di verità del cuore
nell'aderire alla Parola; direi, tutto dipende da quanto si vuole investire
della propria vita nella relazione con il Signore. Il godimento viene appunto
in ragione della maggior o minor totalità di questo investimento, fatto che
cela il mistero dell'invito di Dio al cuore dell'uomo e la sua totale libertà
di risposta.
§*§*§*§*§*§*§*§*§*§
Quarto ciclo
Anno liturgico A (2010-2011)
Tempo Ordinario
16a Domenica
(17 luglio 2011)
_________________________________________________
Sap
12,13.16-19; Sal 85; Rm 8,26-27;
Mt 13,24-43
_________________________________________________
Vengono oggi proclamate altre tre
parabole del Regno: quella della zizzania, del lievito e del granellino di
senapa. Notiamo subito un particolare. Gesù, quando racconta le parabole,
spesso conclude con l’avvertimento: chi ha orecchi intenda! Ma qui,
l’avvertimento non è dato alla fine del racconto della parabola, ma dopo la
spiegazione stessa della parabola che avrebbe dovuto chiarirne adeguatamente i
significati nascosti. Il passaggio dal nascosto al chiaro è continuo, non è mai
dato una volta per tutte e segue l’evoluzione del rapporto di intimità con
Gesù, il Figlio di Dio, ‘potenza e sapienza’ di Dio. La spiegazione della
parabola in effetti non racconta semplicemente l’evento che succederà alla fine
della storia, ma illustra la prospettiva nella quale vivere il presente della
storia, segnata dalla presenza dei malvagi e dall’imperversare del male. Come
convivere con i malvagi è domanda più pertinente del perché ci sono i malvagi
(i servi della parabola chiedono al padrone da dove viene la zizzania). L’unico
buon atteggiamento possibile resta quello del padrone: “Lasciate che l’una e l’altro crescano insieme fino alla mietitura”.
La ragione? La si può desumere dal
libro della Sapienza, proclamato nella prima lettura. La domanda che angoscia i
giusti: “Perché Dio non toglie di mezzo i malvagi? Perché Dio lascia spazio al
male?”, nel brano della Sapienza è formulata in questo modo: “Con tale modo di agire hai insegnato al tuo
popolo che il giusto deve amare gli
uomini, e hai dato ai tuoi figli la buona speranza che, dopo i peccati, tu
concedi il pentimento”. ‘Tale modo di agire’ fa riferimento all’indulgenza
e alla mitezza con cui Dio, dotato di forza onnipotente, agisce verso gli
uomini e li giudica. Quel ‘deve amare gli uomini’ sarebbe, letteralmente, ‘è
necessario che il giusto sia amante degli uomini’. Dove la Scrittura segnala un
‘deve’, un ‘è necessario’, vuol dire che allude a una radice e a un compimento
divini, a un esito divino della vita umana.
Quando il salmo 85 riprende, come a
commento del brano della Sapienza, la lode di Dio compassionevole, pieno di
amore, fedele e misericordioso, lo fa in un contesto preciso, che è il
seguente: “Mio Dio, mi assalgono gli
arroganti, una schiera di violenti attenta alla mia vita, non pongono te
davanti ai loro occhi”. E continua: “Ma
tu, Signore, Dio di pietà, compassionevole, lento all’ira e pieno di amore, Dio
fedele, volgiti a me e abbi misericordia: dona al tuo servo la tua forza”.
L’invocazione a Dio misericordioso nasce dal fatto che il giusto subisce
l’azione dei malvagi e l’invocazione si traduce nella richiesta della ‘forza’,
tipica di Dio, che è quella della ‘indulgenza, mitezza, pazienza …’. È
esattamente il contesto della parabola della zizzania. Dio non toglie di mezzo
i malvagi perché sono oggetto della sua pazienza, perché i giusti possano
rivelare ai malvagi la forza di Dio che non rinuncia al suo amore perché l’uomo
lo disattende e i giusti saranno tanto più giusti quanto più faranno
risplendere la potenza di amore paziente di Dio.
La possibilità stessa del pentimento
del malvagio è in qualche modo vincolata all’amore del giusto. Se un uomo può essere
buono con me, che sono cattivo, allora posso sperare di diventare buono
anch’io. La ragione della pazienza del giusto, nella sua somiglianza con la
pazienza di Dio, sta nella lucidità dell’accorgersi che se oggi lui agisce da
giusto, non è detto che agisca allo stesso modo domani, come per il malvagio,
se oggi agisce da malvagio, domani potrebbe agire da giusto, proprio per la
pazienza di Dio che gli può toccare il cuore.
All’uomo giusto il malvagio non
interessa per il giudizio ma per la segreta provvidenza che comporta. Là dove
il male imperversa si acuisce la sofferenza, ma chi accoglie la sofferenza
degli altri permette alla propria umanità di splendere. Solo così il mondo è
passibile della rivelazione del Regno e se il malvagio non viene meno è solo
perché, nella pazienza di Dio, il bene risplenda nella scoperta di nuove
dimensioni di umanità, cosa che fa presagire la presenza accompagnatrice di Dio
nel mondo.
La fonte di tale ‘pazienza’ dei
giusti è basata sulle altre due parabole, quella del granellino di senapa e del
lievito, parabole che rispondono alla domanda: perché l’inizio del Regno è così
insignificante? Dove si rivela l’evidenza del Regno?
La parabola del seme non insiste
tanto sulla sua piccolezza, ma sulla potenza che possiede nonostante la sua
piccolezza. Quella del lievito, invece, mostra come l’evidenza del Regno non
riguardi una cosa o l’altra. Del Regno non si può dire: eccolo qui, eccolo là.
Riguarda l’insieme del mondo, della vita, dei rapporti, dell’agire e del
sentire, dell’essere e del fare.
La deduzione da trarre è che la
parola del Signore ha tanta potenza che basta accoglierne in verità una sola ed
essa sarà capace di riunificare attorno e dentro di essa tutto di noi. Lo
stesso significato veicola l'immagine della pasta fermentata. Secondo s.
Girolamo, la potenza del lievito è quella di portare tutto all’unità: all’unità
delle potenze dell’anima, all’unità di spirito/anima/corpo, all’unità della
famiglia umana. È la tensione divina che attraversa la nostra storia, che per questo
è sempre storia sacra.
Così, davanti al dramma del male che
non ci abbandona, resta la fiducia ancora più grande nella potenza della parola
di Dio, di quel Verbo, fatto uomo, accolto in cuore e capace di portare tutto a
Lui e in Lui. Solo coloro che preferiscono i pensieri di Dio ai propri (“Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e
della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai
rivelate ai piccoli”, Mt 11, 25) possono confidare sulla forza paziente di
Dio, messi a parte dei segreti di amore per gli uomini da parte del Signore
Gesù. Lo preghiamo con l’orazione sui doni: “ … ciò che ognuno di noi presenta
in tuo onore giovi alla salvezza di tutti”. Come a dire: sono graditi a Dio
solo i doni che procedono da quella ‘forte pazienza’ nel rispondere con il bene
al male perché a tutti sia reso noto il mistero di amore di Dio per gli uomini.
§*§*§*§*§*§*§*§*§*§
Quarto ciclo
Anno liturgico A (2010-2011)
Tempo Ordinario
17a Domenica
(24 luglio 2011)
_________________________________________________
1Re
3,5.7-12; Sal 118; Rm 8,28-30;
Mt 13,44-52
_________________________________________________
La proclamazione del vangelo
contiene le ultime tre parabole del Regno, a completare il quadro delineato
nelle due domeniche precedenti. Consideriamo oggi in particolare quelle del
tesoro nascosto in un campo e della perla preziosa. La colletta ci apre
direttamente l'intelligenza: "O Padre, fonte di sapienza, che ci hai
rivelato in Cristo il tesoro nascosto e la perla preziosa ...". Il tesoro
e la perla sono il Cristo stesso. Le parabole rispondono alla domanda: potrà
mai l'uomo aprirsi per davvero alla rivelazione del Regno di Dio se è
necessario attraversare molte tribolazioni per accedervi? Potrà l'uomo portare
il giogo del Regno dei cieli? Non c'è contraddizione tra il suo istinto alla
felicità e l’asprezza dell'esigenza evangelica?
Non che il regno dei cieli siano
paragonati a un tesoro o a un mercante. Il paragone si gioca sulla situazione
che si è invitati a vivere, come a dire: il regno dei cieli è simile a ciò che
succede quando si scopre un tesoro o quando un mercante trova una perla di gran
valore. Il punto nevralgico per la comprensione è dato appunto dalla gioia
della scoperta. Tutta l'azione successiva scaturisce dalla gioia prorompente
della scoperta. Senza quella gioia non è possibile concepire nessuna azione
significativa a livello dell'orientamento della propria vita, sebbene le
parabole alludano anche ad altre dinamiche, più nascoste ma non meno vere.
Alla dinamica di ricerca, anzitutto.
Non si scopre a caso. Ci deve essere, di fondo, una passione per ciò che è
prezioso, una inquietudine che non ti lascia vaneggiare o istupidire. Non sono
sufficienti, al cuore dell'uomo, le cose che arriva a possedere; ha bisogno di
cogliere quello che dentro le cose vive e attira, quello che solo può colmare
il suo desiderio.
Alla dinamica di compravendita. Ciò
che è prezioso non sta insieme a ciò che è vile, ciò che è profondo a ciò che è
superficiale, ciò che ha sostanza con ciò che ha solo apparenza. Perlomeno,
insieme non possono stare tanto tempo e difatti viene il momento in cui ci si
deve disfare di una cosa per comprare l'altra. E' inevitabile.
Alla dinamica di rischio. Più grosso
è l'affare, più alto il rischio. E quando il tesoro o la perla trovata sono
incomparabilmente più preziosi di tutto quello che ci si sarebbe potuti
immaginare di trovare, allora ci si disfa di tutto. Il tutto di cui ci si disfa
è direttamente proporzionale alla preziosità del tesoro trovato. La molla che
permette, anzi che spinge al rischio della compravendita è appunto la gioia,
percepita così profonda e piena da cacciare ogni timore.
In queste parabole l'accento non è
posto sul fatto che l'uomo è chiamato a lasciare tutto per il Regno dei cieli,
ma che lascia tutto perché trasportato dalla gioia di una scoperta che gli
riempie il cuore. Non solo, ma che una realtà capace di riempire il cuore non
può essere che insieme esigente e gioiosa: esigente perché gioiosa e gioiosa
perché esigente. D’altra parte, il Regno non si contrappone a nulla di per sé.
Non è la perla più bella delle altre. È, più semplicemente ma più potentemente,
la perla di ‘gran valore’; è il tesoro tra i beni e non un bene più prezioso
degli altri beni. Saper cogliere questo è frutto di ‘sapienza’ e la colletta fa
pregare: “concedi a noi il discernimento dello Spirito, perché sappiamo
apprezzare fra le cose del mondo il valore inestimabile del tuo regno, pronti
ad ogni rinunzia per l’acquisto del tuo dono”.
È il tema della prima lettura, dove
il re Salomone chiede la sapienza del giudicare, con la conseguenza di avere
insieme anche quello che non ha chiesto: regno, vittoria e stabilità. Chiedere
sapienza per il cuore per ben discernere significa predisporsi a vivere la vita
per il verso giusto, per il verso santo, per il verso beato. E la sapienza va
impetrata dall'alto perché il tesoro e la perla di gran valore sono come
nascosti; realmente si possono trovare, ma solo dentro una rivelazione che fa
aprire gli occhi.
Ora, per quale via si accede alla
sapienza del discernimento? Lo indica il canto al vangelo: “Ti rendo lode, o
Padre, Signore del cielo e della terra, perché ai piccoli hai rivelato i
misteri del Regno” (cfr. Mt 11,25). Se colleghiamo questo versetto alla
suggestione del serpente nel giardino: “Dio
sa che quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diventereste
come Dio, conoscendo il bene e il male” (Gen 3,5) insieme all’ingiunzione
di Dio ai progenitori: “Il Signore Dio
disse allora: Ecco l' uomo è diventato come uno di noi, per la conoscenza del
bene e del male. Ora, egli non stenda più la mano e non prenda anche dell'
albero della vita, ne mangi e viva sempre!” (Gen 3,22), scopriamo che la
sapienza che non porta alla vita non è degna dell’uomo. Conoscere il bene e il
male significa conoscere le vie della vita. Ma chi può illudersi di conoscerle?
Se l’uomo non si fa piccolo, non si dispone cioè alla confidenza nel suo Dio,
come potrà godere dei segreti della vita per cui è fatto? Il dramma dell’uomo
sta appunto nel volere la vita senza fidarsi del suo Dio che gliel’ha
preparata. Chi non vede in Gesù la promessa di vita che si compie per l’uomo da
parte di Dio, non sarà disposto ad accoglierlo e non vedrà il tesoro che
costituisce per la sua umanità.
Un’ultima annotazione. La scena
delle parabole è presentata come avvenisse in un momento determinato. Invece
interessa tutto il corso della vita. Sempre troviamo averi che occorrerà
vendere per godere appieno del nostro tesoro dove far riposare il cuore in
tutta pace. E sarà sempre la stessa dinamica in gioco: una nuova gioia ci farà
accettare il rischio, fino a che tutto di noi risplenderà della luce di quel
tesoro e via via scopriamo come il cuore si possa costantemente rinnovare e
aprire alla rivelazione del suo Signore, mai sazio di Lui come mai sazio di
vita e di amore.
§*§*§*§*§*§*§*§*§*§
Quarto ciclo
Anno liturgico A (2010-2011)
Tempo Ordinario
18a Domenica
(31 luglio 2011)
_________________________________________________
Is
55,1-3; Sal 144; Rm 8,33.37-39; Mt 14,13-21
_________________________________________________
Il brano evangelico incastona
l’episodio della moltiplicazione dei pani nel movimento di compassione di Dio
per l’uomo: “e sentì compassione per loro”.
Dietro ogni parola di Gesù, dietro
ogni gesto sta la sua ‘compassione’, che rimanda direttamente all’amore
sconfinato di Dio per i suoi figli, per i quali non ha esitato a mandare il suo
Figlio. Proprio come annotava Origene in un suo commento a Ezechiele: “Egli è
disceso sulla terra mosso a pietà del genere umano, ha sofferto i nostri dolori
prima ancora di patire la croce e degnarsi di assumere la nostra carne; se egli
non avesse patito, non sarebbe venuto a trovarsi nella condizione della nostra
vita di uomini. Prima ha patito, poi è disceso e si è mostrato. Qual è questa
passione che per noi ha sofferto? È la passione dell’amore”. È a partire da
quella ‘passione’ che Gesù si ‘muove nelle viscere’ davanti allo smarrimento,
alla sofferenza, alla fatica degli uomini. Ed è per aver percepito quella ‘passione’
che san Paolo dirà con la convinzione dell’esperienza di una vita: “Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse
la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione ...? … Io sono infatti persuaso
che né morte né vita … né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore
di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore”.
Quando il profeta Isaia, sempre
percependo quella ‘passione’ di Dio per il suo popolo, riassumerà l’invito di
Dio per gli uomini alla comunione con Lui, dirà: “Ascoltate e vivrete”. L’eco di quell’invito risuona ancora nelle
parole di Gesù: “Venite … e io vi
ristorerò”. Ed è proprio quell’invito che fa da porta di accesso
all’intelligenza del brano evangelico di oggi.
“Ascoltate” significa: abbandonate
la calca e il rumore, venite in disparte, godetevi la mia pace. “Vivrete”:
tornerete all’essenziale, gusterete di nuovo intimità e avrete riposo perché
pienezza. La parola del Signore, ascoltata nel cuore, porta a gustare
l’alleanza di Dio e l’alleanza di Dio è compiutamente rivelata nel Signore Gesù
Cristo. E proprio Gesù torna a dire: se venite a me, troverete riposo. Il
riposo che dà Gesù non si riferisce al riposo dopo una fatica, dopo un lavoro.
Si riferisce a quel ‘riposo’ che Dio ha voluto per il settimo giorno dopo aver
creato in sei giorni tutte le cose. Ha il sapore di un compimento, di una
pienezza e di una pace che attraversa tutte le cose e ne rivela il senso
ultimo, lo splendore nascosto. Rivela la ‘passione’ di Dio che ha toccato i
cuori degli uomini e li ha convertiti al suo splendore.
Così, quando Gesù, dopo aver guarito
molti, si accinge a dar loro da mangiare moltiplicando le poche cose di cui
disponevano i discepoli (solo il pane distribuito è un pane goduto e
moltiplicato), a quel mistero si allude. Dando loro da mangiare li fa
‘riposare’, li introduce nel mistero del suo ‘riposo’.
Tutto il brano evangelico è
attraversato da un movimento di contrapposizioni e di rimandi. È stabilita
distanza tra il palazzo di Erode dove si consuma il martirio del testimone
dell’Agnello e il luogo deserto dove si ritira Gesù; c’è contrapposizione tra
le città dove abita la gente e il deserto dove la gente si reca per incontrare
Gesù; come il popolo nel deserto aveva ricevuto da Dio la manna per poterlo
attraversare, così Gesù dà il pane alla gente nel deserto. Ancora non è detto
chiaramente, ma l’allusione è potente: il pane dato da Gesù è l’eucaristia, il
suo corpo ‘dato per noi’. E dall’eucaristia scaturisce la responsabilità
dell’amore, la condivisione con i fratelli, ma non semplicemente la condivisione
dei nostri beni, bensì la condivisione della fede in Lui, della conoscenza di
Lui, tanto che i beni scambiati non parleranno tanto del nostro impegno di
generosità, ma dello splendore dell’amore di Gesù che ha conquistato i cuori.
In quello splendore consiste il ‘riposo’, speranza vera per il mondo, riposo
che diventa rigeneratore di vita e lievito di umanità.
Come per il mangiare, così per
l’ascoltare. L’ascoltare riguarda sempre l’ascoltare una ‘parola viva’ per
avere la vita. Ma che cosa fa vivere il cuore dell'uomo? Con il salmo 144,
apprendiamo che Dio è paziente e misericordioso con gli uomini, mentre gli
uomini, con se stessi e con i loro simili, non lo sono; Lui è buono verso
tutti, comunque, mentre gli uomini sono buoni solo ogni tanto e verso qualcuno
piuttosto che verso altri. Tenendo conto di come sono fatti i nostri cuori, che
si confondono con le loro azioni passate, proprie e altrui, incapaci di aprirsi
al futuro come allo spazio di verità e di bene offerto loro da Dio, questa
verità è estremamente vivificante per i cuori. Proprio come dice s. Giovanni
nella sua lettera: "Dio è più grande
del nostro cuore e conosce ogni cosa" (1Gv 3,20).
Va notato che il miracolo avviene
nella sua materialità, vale a dire Gesù ha la capacità di compierlo, l'effetto
però non è ancora quello sperato da Gesù. La gente non interpreta secondo i
pensieri di Dio, ma secondo i propri e non s’avvede che quel pane distribuito è
segnale della consegna di Dio agli uomini perché gli uomini vivano da figli di
Dio. Gesù, dopo il miracolo, si ritrova solo. Quando allora tale mistero
diventerà accessibile? Lo riferisce s. Paolo: “Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti
noi, come non ci donerà ogni cosa insieme con lui?”. Quando, nell’amore del
Signore per noi, che ci ha rigenerati nel perdono, sapremo accogliere con
gratitudine la vita; quando non permetteremo a nulla, nemmeno ai nostri
‘nobili’ sensi di colpa, di sopraffare il nostro cuore al di sopra dell'amore
del nostro amato Signore, che a noi si è consegnato.
§*§*§*§*§*§*§*§*§*§
Quarto ciclo
Anno liturgico A (2010-2011)
Tempo Ordinario
19a Domenica
(7 agosto 2011)
_________________________________________________
1Re
19,9a.11-13a; Sal 84; Rm 9,1-5; Mt 14,22-33
_________________________________________________
La rivelazione del Signore avviene
sempre dentro un contesto drammatico. La celebrazione liturgica ne è come l’eco
che apre il cuore alla conoscenza del Signore. Il brano evangelico di oggi è
narrato in Matteo, Marco e Giovanni, ognuno apportandovi dettagli estremamente
rivelatori. Gesù aveva appena operato il miracolo della moltiplicazione dei
pani, che aveva scatenato l’immaginario messianico della gente. Gesù accetterà
di essere proclamato re solamente durante la passione, davanti a Ponzio Pilato
e sulla croce. Deve quindi rifiutare il delirio della gente e si premura di
salvaguardare i discepoli costringendoli a partire subito. Lui si ritira sul
monte, da solo, a pregare (sembra che si tratti del monte dove Gesù aveva proclamato
le beatitudini!). È l’unica volta, se escludiamo il racconto del Gethsemani,
che Matteo descrive Gesù in preghiera solitaria. L’annotazione è carica di
mistero perché indica la prossimità di una rivelazione. Quando si ricongiunge
ai discepoli camminando sul mare, vuole rivelare qualcosa di sé a loro e a noi.
Matteo non dice che i discepoli faticavano ai remi per il vento contrario;
parla della barca agitata dalle onde, della barca in cui Pietro e i discepoli
fanno la loro confessione di fede, della barca che, una volta accolto a bordo
Gesù, non ha più il vento contrario. Tutti particolari che danno all’episodio
una forte valenza simbolica: la barca è la Chiesa che, con la presenza del suo
Signore, non teme alcuna traversata, alcun vento contrario.
L’intervento di Pietro e dei
discepoli è collocato dentro una linea di sviluppo della loro fede in Gesù che
si fa via via più coinvolgente e totale. L’evangelista aveva notato come i
discepoli, al miracolo della tempesta sedata, siano rimasti colmi di stupore;
qui, riconoscono Gesù come Figlio di Dio; poi riconosceranno Gesù il loro
Signore. Pietro, in particolare, attira l’attenzione dell’evangelista Matteo.
Pietro è affascinato dalla figura di Gesù, vuole seguirlo, ma stenta ad
accettare la rivelazione di Dio. Cammina anche lui sulle acque, ma ha paura e
affonda. Nell’ultima cena non vuole essere lavato, al Gethsemani estrae la
spada, segue Gesù nella sua cattura, ma per paura lo rinnega. Tuttavia, sempre
ritorna a Gesù, vuole seguire Gesù, piange il suo tradimento e finalmente il
Maestro lo rassicura sulla sua fedeltà a Lui, ormai conquistato alla fede in
Lui e al suo amore fino a dare la vita per Lui.
La preghiera di Gesù sul monte ha a
che fare appunto con la rivelazione della sua persona e dell’amore salvatore di
Dio, rivelazione che ha bisogno di tempi e spazi per conquistare i cuori, cosa
che il Signore sa benissimo e che con fantasia persegue pazientemente. Il
credente si vede identificato nella fede di Pietro, nelle sue generosità e
nelle sue debolezze. Pietro crede di
poter imitare Gesù (“Signore, se sei tu,
comandami di venire verso di te sulle acque”), ma Gesù può essere solo
seguito. Gesù accoglie la richiesta di Pietro perché conosce il suo cuore e sa
che Pietro scoprirà la verità del suo cuore e la verità dell’amore di Gesù
quando griderà: “Signore, salvami!”.
È il tono della preghiera quando è sincera. Non c'è allora ombra di sfida, di
pretesa, di vanità. È il momento della verità ed invece di affondare, sentiremo
una mano tesa che ci sottrae ai gorghi. Quante stupide pretese ci condannano a
restare nei gorghi! Ed è allora che capiremo qualcosa di più di quel Signore
che abbiamo accolto venirci incontro e sentiremo il suo nome che si rivela al
nostro cuore : “il Signore, Dio
misericordioso e pietoso, lento all'ira, ricco di grazia e di fedeltà ...”
(Es 34,6).
La proclamazione di questo nome sarà
avvertita, come dice la prima lettura a proposito della rivelazione di Dio al
profeta Elia, minacciato di morte, angosciato e pur pieno di zelo, come il sussurro di una brezza leggera, che
letteralmente suonerebbe ‘come il fruscio di un silenzio leggero’. Il mormorio
non allude solamente alla modalità con cui Dio si rivela, nel senso che ciò che
di Lui appare non risulta mai evidente e benché la traccia di questo mormorio
si imprima indelebilmente nel solco dell'anima non impedisce agli altri rumori
di disturbare ed opprimere, bensì alla natura stessa del rapporto tra Dio e
l'uomo. Se Dio tende a mostrarsi Salvatore è perché vuole la risposta dell'uomo
in amore, senza costrizioni. L'amore grande non è quello che travolge, ma
quello che sa e permette e favorisce e suscita l'amore nell'altro finché tutto,
nell'altra persona, sia espressione di amore.
Elia si trova nella caverna in cui
ha soggiornato Mosè, nel luogo dove Dio è apparso a Mosè. Anche loro si
trovavano sul monte, in preghiera. La preghiera ha sempre a che vedere con la
rivelazione del volto di Dio e la rivelazione del volto di Dio ha sempre a che
vedere con la missione ai propri fratelli, in quanto, se Dio si rivela, si
rivela solo come amante e salvatore degli uomini. In effetti, la voce che viene
rivolta al profeta: “Che fai qui, Elia?”
precede e segue la manifestazione di Dio. Nulla è detto di quanto avviene tra
il profeta e il suo Signore nel momento misterioso della manifestazione. Quello
che sappiamo è che Dio rimanda il profeta sui suoi passi, tra i suoi fratelli,
a continuare l’opera di cui lui, forse presuntuosamente, si era immaginato
essere l’unico testimone credibile. Così l’accento non è posto sulla
testimonianza del profeta, ma sulla fedeltà di Dio alla sua alleanza. Stessa
cosa fa Gesù con Pietro, con i suoi discepoli, con noi.
La denominazione del ‘Dio che
passa’, come Gesù fa mostra di assumere (Marco annota di Gesù che cammina sulle
acque : “e voleva oltrepassarli”),
rivela il fatto che Dio può essere conosciuto solo stando dietro, solo
seguendolo, solo camminando dietro a Lui, solo osservando la sua parola. Ed è
quello che fa la Chiesa nel mondo: seguire Cristo, che rivela al mondo lo splendore
dell’amore di Dio. E sarà solo seguendo Gesù che l’amore agli uomini comporterà
lo splendore della presenza di Dio in questo mondo.
§*§*§*§*§*§*§*§*§*§
Quarto ciclo
Anno liturgico A (2010-2011)
Tempo Ordinario
20a Domenica
(14 agosto 2011)
_________________________________________________
Is
56, 1.6-7; Sal 66; Rm 11, 13-15.29-32; Mt 15, 21-28
_________________________________________________
Il tema della liturgia di oggi è
l'ingresso dei pagani nell'alleanza del Signore: a tutti si rivolge la salvezza
operata dal Signore. Come l'annuncia il profeta Isaia: " .. il mio tempio si chiamerà casa di preghiera
per tutti i popoli". Il capitolo 56 inizia la terza parte del libro di
Isaia. Siamo a Gerusalemme, pochi decenni dopo la tragedia dell’esilio, in
attesa che la promessa di liberazione si compia. La visione del profeta non
riguarda però semplicemente la liberazione dall’esilio, ma la valenza profetica
di quella liberazione: sarà estesa a tutti i popoli; tutti, pagani e eunuchi
(categoria di persone che erano escluse dal culto in Israele), tutti potranno
godere della misericordia di Dio, tanto che il Dio di Israele non sarà più
indicato come il Dio che trasse Israele dall’Egitto, come il Dio che liberò
Israele dall’esilio, ma come il Dio che raduna il suo popolo ‘da tutte le
nazioni’.
A dire il vero, siamo abituati a
considerare l’universalità della salvezza del Signore nella sua dimensione
storica: da una persona a tutto un popolo (Abramo e Israele), da un popolo a
tutti i popoli (Israele e le genti). Comporta però anche una dimensione
personale. Il che significa: se io ho accolto l'alleanza del Signore, non tutto
di me l'ha accolta; se io ho accolto la buona novella, non tutto di me è stato
evangelizzato e poco a poco l'insieme di me deve poter godere dei beni di
questa alleanza. Se le mie qualità e virtù mi riportano al Signore, anche i
miei difetti e peccati devono potermi riportare a Lui. Se un pensiero buono mi
svela qualcosa del mio Signore, mi introduce nella sua intimità, anche un
pensiero cattivo cela qualcosa da scoprire per il mio cuore in rapporto al
Signore, così un mio peccato, una mia debolezza. "Tutti i confini della terra" del salmo 66 alludono proprio
alla totalità degli aspetti che ci compongono e ci strutturano: tutti
appartengono al Signore, tutti sono destinati a essere riportati al Signore.
Il brano del vangelo lo mostra
splendidamente. I pagani sarebbero entrati nell'Alleanza non con la
predicazione o i miracoli, ma attraverso la morte redentrice di Gesù. L'ora
però non era ancora giunta e Gesù respinge sulle prime la richiesta della donna
cananea. Era ancora il tempo riservato alle pecore perdute della casa di
Israele. Ma allora perché Gesù cede all'insistenza della donna, come se lui
fosse costretto ad accelerare, ad anticipare la sua ora? Era già successo con
la richiesta del centurione (cfr. Mt 8) che Gesù aveva esaudito. Ma qui Gesù
sembra alzare il prezzo, sembra voler accentuare una distanza, una
inopportunità che tende a suonare ai nostri orecchi, oltre che sgradevole, dura
e irrispettosa. Non è però stato così per la donna cananea che non recede, non
si fa intimidire, ha la risposta pronta, nella quale Gesù vede la fede del suo
cuore a cui non resiste. Addirittura, si potrebbe pensare che la fede della
cananea faccia presagire alla coscienza di Gesù l’orizzonte universale della
salvezza che solamente più tardi si farà evidente. La donna, da pagana, sa che
può contare sulla generosità di Dio, sebbene sia perfettamente cosciente di non
poter avanzare alcun titolo di pretesa. Non solo, ma sa che nel banchetto
messianico il pane sarà sovrabbondante, tanto che lei si può accontentare delle
briciole, sebbene Gesù alla fine le dà proprio il pane dei figli. Va notato che
nel racconto precedente della moltiplicazione dei pani per gli israeliti, gli
apostoli passano a raccogliere gli avanzi. Ma il racconto successivo dell’altra
moltiplicazione dei pani sarà per i pagani,
anche se in terra di Israele.
La particolarità dell'atteggiamento
della cananea sta in quel grido 'Signore
figlio di Davide' dove compare tutto lo stridore della distanza tra lei,
pagana e quel profeta, ebreo. Non minimizza la distanza, la sottolinea, la
rimarca e quando Gesù le rinfaccia che non si dà il pane ai cagnolini (i pagani
erano chiamati 'cani' dai giudei), non si lamenta e non si ritrae sdegnata del
paragone, sviluppa anzi il paragone a suo favore. Riconosce che non ha diritto
a quel pane, ma che per la sua sovrabbondanza alcune briciole possono cadere
anche per lei. Grande era la sua fiducia in quel profeta e nello stesso tempo
era priva di qualsiasi pretesa.
La fede della cananea proveniva poi
dall'urgenza del suo bisogno. Non vedeva altri rimedi, troppo era l'amore per
sua figlia e allora perché non rivolgersi a quel 'profeta' di cui sentiva dire
cose meravigliose, sebbene non possedesse alcun titolo per trovare
soddisfazione?
L’aspetto misterioso che va colto è
il fatto che fiducia e indegnità vanno di pari passo, mentre normalmente, nelle
dinamiche interiori che possiamo osservare, tendiamo a separarle. Invece l'una
è custode dell'altra, l'una dice la sincerità dell'altra. Davanti al Signore il
nostro cuore è come la donna cananea. È vero, noi siamo nella grazia, abbiamo
già incontrato il Signore, ma tutto di noi non è ancora nella luce del suo
vangelo. Per molti aspetti siamo cananei, pagani. E possiamo trovare accesso al
Signore, Salvatore nostro, solo come la donna cananea, dove la fiducia nella
potenza di Gesù sta in stretta compagnia con la coscienza della propria
indegnità e l'urgenza del bisogno di guarigione e di vita. L'insincerità del
nostro cuore, quello che indebolisce la nostra fede e l'annacqua, è la pretesa
di trovar soddisfazione comunque. È la debolezza dell'israelita 'fariseo' che
crede di avere la vita perché Dio gliela deve. In questo modo non scoprirà
nulla e il miracolo non avverrà. Ci si avvicina a Dio più si ha coscienza di
essere peccatori e meno scusanti si adducono ai nostri guai. Quando finiremo di
giustificarci accusando gli altri, gli eventi, il mondo, allora saremo sinceri davanti
a Dio e scopriremo che Dio non potrà resistere al nostro grido perché indegnità
e fiducia accelereranno la sua manifestazione di grazia al nostro cuore.
§*§*§*§*§*§*§*§*§*§
Quarto ciclo
Anno liturgico A (2010-2011)
Solennità
Assunzione della Beata Vergine Maria
(15 agosto 2011)
_________________________________________________
Ap
11,19a; 12,1-6a.10ab; Sal 44; 1Cor 15,20-27a; Lc 1, 39-56
_________________________________________________
In un inno anonimo del VII secolo,
la prima esclamazione degli angeli nei riguardi della Vergine suona: “Ave,
nutrimento della gioia degli uomini”, mentre gli antichi testi agiografici
parlano della Vergine in rapporto ai fedeli come della Regina, della Madre del
Signore, della loro sorella. La liturgia bizantina sottolinea il parallelo tra
il parto verginale e l’assunzione gloriosa in questi termini: “Nel parto, hai
conservato la verginità, con la tua dormizione non hai abbandonato il mondo, o
Madre-di-Dio. Sei passata alla vita, tu che sei Madre della vita e con la tua
intercessione riscatti dalla morte le anime nostre”.
La festa di oggi modula la devozione
alla Vergine su due registri: la gioia come radice di speranza per l’umanità e
la sua intercessione universale. Nella sua lettera ai Corinzi Paolo ricorda il dato
della fede nella risurrezione. E tratteggia tutto il corso della storia fino
alla fine del mondo nel senso di una rivelazione progressiva, anche se
misteriosa e drammatica, della signoria di Cristo che prevarrà su tutto. Noi
siamo nel tempo della sottomissione a Cristo di tutti i nemici di Dio, morte
compresa. Il regno di Cristo coincide con la riduzione a nulla di ogni potere
della morte. La cosa va vista nel suo succedersi temporale in ciascuno di noi
oltre che nella storia. Tutta l'ascesi e la lotta interiore non sono altro che
l'espressione di questo potere di Cristo che riduce a nulla il potere della
morte che ci assilla e ci impasta. E man mano che questo potere di Cristo
prevale, la vita sgorga fluente e incontenibile.
Ora, nella Vergine Maria, tutto
questo non è più in fieri, non ha più spazi o dinamiche da conquistare. È
compiuto. E siccome è compiuto, può essere consegnata a Dio Padre, fulgida di
tutto lo splendore che la salvezza operata da Dio comporta. Il disegno di Dio
in tutto il suo amore per l'uomo, dalla creazione alla glorificazione finale
nel suo Regno, solo questa nostra sorella, la Vergine, l'ha potuto godere
compiutamente. Oggi, festa dell'assunzione, ella lo sa e può dichiarare: ora so
per esperienza tutto l'amore che Dio ha portato all'umanità, che ha portato a
me perché sia vivibile da tutti e quindi posso glorificarlo compiutamente. E
proprio perché la sua lode per Dio è piena, allora anche l'esultanza del suo
cuore è piena e la sua intercessione potente. Quando i credenti guardano alla
Vergine gloriosa, assunta in cielo, non possono non considerarla, come canta il
prefazio: "primizia e immagine della Chiesa … un segno di consolazione e
di sicura speranza". In lei possono magnificare l'amore di Dio per l'uomo,
la grandezza della salvezza operata da Dio che anche in noi si dispiegherà a
suo tempo, come in lei, che per noi intercede. E a lei rivolti, fiduciosi
possiamo pregarla, come le antiche comunità cristiane: "Sotto la tua
protezione troviamo rifugio, santa Madre di Dio: non disprezzare le suppliche
di noi che siamo nella prova, e liberaci da ogni pericolo, o Vergine gloriosa e
benedetta".
Da dove deriva alla Vergine tutta la
sua gloria? L’elogio alla madre da parte della donna che ascoltava affascinata
Gesù: “Beato il grembo che ti ha portato
e il seno che ti ha allattato!” è trasformato da Gesù nell’elogio ai
discepoli: “Beati piuttosto coloro che
ascoltano la parola di Dio e la osservano!” (Lc 11,27-28). Gesù sembra
spostare l'attenzione sui discepoli, ma in realtà definisce esattamente in che
cosa consiste la beatitudine di sua madre. Come i Padri sottolineano spesso:
prima di essere madre fisicamente di Gesù, Maria lo è spiritualmente, perché il
suo cuore ascolta e osserva la Parola, l'ha sempre ascoltata e osservata. Se però
colleghiamo il commento di Gesù all’espressione pronunciata da Elisabetta nel
saluto alla Vergine: “Beata colei che ha
creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto”, ci viene
svelato un altro aspetto fondamentale. Ascoltare e osservare la Parola non è
semplicemente un mettere in pratica quello che Dio dice. È assai di più.
Significa permettere alla promessa di Dio racchiusa nella sua parola di
compiersi, di rivelarsi finalmente al cuore e al mondo. Significa acconsentire
al desiderio di Dio di compiersi, significa fare in modo che il desiderio che
Dio ha di incontrare l'uomo finalmente trovi compimento. Ora, da dove deriva la
vita all'uomo se non da un incontro d'amore? Sia in senso fisico, un figlio,
sia nel senso di procurare vitalità, gioia di vivere, visione di speranza,
forza ed energia. Più questo consenso da parte dell'uomo è totale, più la vita
che deriva da Dio è fluente e incontenibile. Vince la morte. Per sempre.
In quel “ha creduto” è indicata tutta la disponibilità della Vergine all’azione
di Dio (“Ecco la serva del Signore:
avvenga per me secondo la tua parola”) dove il proprio essere è vissuto
come risposta al desiderio di Dio, come spazio di compimento all’agire di Dio.
Nell’“adempimento” è adombrata la
generazione del Verbo che in lei prende forma. Accogliere il Verbo nella
propria umanità significa ritrovarsi nel mistero di Dio Trinità, che è amore
comunicato; significa far risplendere l’amore di Dio nel mondo e compiere la
propria umanità permettendole di far trasparire la divina Presenza. La grazia
di questa 'maternità' spirituale è estesa a tutti i credenti: tutti possono
ereditare la beatitudine che deriva dall'ascoltare e osservare la Parola. Nella
dinamica dell’obbedienza della fede, l’ascolto della Parola equivale alla fin
fine ad accogliere e generare in noi il Verbo, di cui risplendono tutte le
parole della Scrittura.
Ora, la vera meraviglia di Dio per
gli uomini è proprio il dono del Figlio, che di quell’umanità che ci
costituisce svela i confini e le sorgenti divine. Chi, più della Vergine, ha
goduto tutta la potenza di splendore di questo dono per l’umanità? Così
l’intercessione della Vergine va nella direzione dell’invocazione della
preghiera ‘sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra’, interpretata
‘si compia il tuo amore finché la terra
diventi tutta cielo’: nulla rimanga inaccessibile all’amore di Dio che si
dispiega potente. Lei, la serva del Signore, terra come noi, ma totalmente
disponibile all’agire di Dio, è diventata tutta cielo. Intercede perché anche
la nostra umanità, in ciascuno e in tutti, si allarghi agli spazi e alle
profondità della sua stessa umanità, nella comunione con il suo Dio.
§*§*§*§*§*§*§*§*§*§
Quarto ciclo
Anno liturgico A (2010-2011)
Tempo Ordinario
21a Domenica
(21 agosto 2011)
_________________________________________________
Is
22,19-23; Sal 137; Rm 11,33-36;
Mt 16,13-20
_________________________________________________
I brani evangelici di oggi e di
domenica prossima andrebbero letti insieme. Siamo a Cesarea di Filippo, la
città costruita da Erode Filippo presso le sorgenti del Giordano, in una zona
rocciosa, alle pendici del monte Hermon. Gesù, come annota l’evangelista Luca,
ha appena terminato la sua preghiera, segno evidente dell’imminenza di una rivelazione. Gesù intende manifestare ai
discepoli qualcosa del mistero della sua persona.
Matteo incastona la confessione di
Pietro: “Tu sei il Cristo, il Figlio del
Dio Vivente” dopo la seconda moltiplicazione dei pani e l’ammonizione ai
discepoli di guardarsi dal lievito dei farisei, i quali sanno leggere il tempo
guardando il cielo ma non sanno guardare in alto per riconoscere il segno dei
tempi messianici. L’insegnamento della Legge era teso all’affrettare i tempi
messianici, ma quando l’ora di Dio si manifesta non ne riconoscono i segni. In
questo contesto la domanda di Gesù ai discepoli: “Ma voi, chi dite che io sia?” acquista particolare risonanza. Se
lui è il segno, perché chiedere altri segni? Se lui è l’inviato, perché
aspettare ancora qualcuno che prepari la strada? Ecco quello che Pietro ha
compreso: no, è proprio lui l’inviato, è proprio lui che farà vedere la
salvezza di Dio.
Gesù allora lo proclama beato.
Questa beatitudine richiama la benedizione proferita in precedenza da Gesù per
i discepoli: “Ti benedico, o Padre,
Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai
sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché
così è piaciuto a te” (Mt 11,25-26). È la benedizione/beatitudine per i
‘piccoli’, per coloro che stanno aperti al pensiero e all’azione di Dio in
tutta confidenza, capaci perciò di ricevere senza filtri l’atto di rivelazione
di Dio. Si tratta di una ‘conoscenza’ per rivelazione, per confidenza e non per
convinzione. Come a dire: Pietro lascia che il tuo cuore si alimenti della
promessa della rivelazione di Dio, che si manifesta in Gesù, senza addurre
ragioni che sanno ancora troppo di questo mondo. Il seguito del racconto, che
leggeremo domenica prossima, svelerà però che ancora troppe ragioni di questo
mondo albergano nel cuore di Pietro, il quale si vedrà severamente ammonito da
Gesù in vista dell’accoglienza piena della sua rivelazione.
Tra l’altro, è da dentro questa
‘beatitudine’ che Gesù cambia il nome a Pietro (sembra che all’epoca di Gesù il
nome Pietro, traduzione greca del nome aramaico Kepha, che significa roccia,
non venisse usato come nome di persona). Pietro potrà conoscere il suo cuore e
il compito della sua vita nel processo di fedeltà a quella beatitudine che lo
condurrà, dopo la risurrezione di Gesù, alla sua triplice confessione di amore,
superando ogni dubbio e tradimento. Non sarà Pietro a diventare più forte, ma
sarà la forza di quella beatitudine a conquistare completamente il suo cuore,
dal momento che non lo chiude mai alla confidenza del suo Signore, nonostante
le sue perplessità e debolezze.
Sulla verità di quella beatitudine è
fondata la chiesa, luogo della fede nel Signore Gesù, Salvatore. La promessa di
Gesù: “E io ti dico: Tu sei Pietro e su
questa pietra edificherò la mia Chiesa e le porte degli inferi non prevarranno
contro di essa” significa che niente e nessuno può rapirci al Signore.
L’espressione ‘le porte degli inferi non prevarranno’ sarebbe forse meglio
renderla con ‘il potere della morte non prevarrà’, intendendo: il perdono e
l’accesso al Regno, in Gesù, non verrà mai meno. Se siamo suoi, di lui che è il
più forte, allora nessuno può rapirci; se prendiamo la vita da lui, che è il
Vivente, Colui sul quale la morte non ha più potere, allora la vita che ci
attraversa non cederà davanti a nulla perché non è più soggetta alla morte.
Quella promessa è da raccordare con l’altra, alla fine del vangelo: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino
alla fine del mondo”, parole con cui si chiude il vangelo di Matteo (Mt
28,20). E nelle parole di Gesù è adombrata la promessa che non mancheranno mai
uomini e donne che faranno risplendere in mezzo a noi quella Presenza.
Rispetto alla confessione di Pietro,
che è anche la nostra, noi preghiamo dopo la comunione: “Porta a compimento,
Signore, l’opera redentrice della tua misericordia e perché possiamo
conformarci in tutto alla tua volontà, rendici forti e generosi nel tuo amore”.
Possiamo interpretare: la conoscenza del tuo amore conquisti i nostri cuori e
informi il nostro agire così da vivere del tuo amore sempre e comunque, perché
in tutto prevalga lo splendore della tua Presenza salvatrice, umilmente
riconosciuta e adorata. È il contenuto dell’azione pastorale della chiesa nel
mondo, ieri come oggi e sempre, fino alla fine dei tempi.
§*§*§*§*§*§*§*§*§*§
Quarto ciclo
Anno liturgico A (2010-2011)
Tempo Ordinario
22a Domenica
(28 agosto 2011)
_________________________________________________
Ger
20, 7-9; Sal 62; Rm 12,1-2; Mt 16,21-27
_________________________________________________
Il brano di vangelo di oggi va
ascoltato come continuazione di quello della domenica precedente. Gesù ha preso
così sul serio la confessione di Pietro che decide di svelare il suo mistero.
Pietro, però, non comprende e si prende il rimprovero di Gesù. E quando Gesù,
subito dopo, invita i discepoli a rinnegare se stessi, prendere la croce e
seguirlo, non fa che estendere a tutti il rimprovero rivolto a Pietro.
Potremmo intendere le cose così.
Pietro, nel rimproverare Gesù, aveva probabilmente temuto per sé. Se Gesù,
confessato come il Messia, avesse dovuto patire e morire ignominiosamente,
certamente sarebbe svanito il prestigio dell’essere ‘compagno’ del Messia. E
allora che ne sarebbe stato di lui? Il ‘rinnegare se stessi’ vale in rapporto
al mistero di Dio che in Gesù si fa prossimo agli uomini per la potenza del suo
amore tanto da far scaturire la vita proprio là dove gli uomini mai la
cercherebbero. Se gli uomini pensano in prospettiva mondana come potranno
vedere i segreti di Dio? La rinuncia a ogni prospettiva mondana è la condizione
per accogliere il mistero di Gesù che sulla croce rivela lo splendore
dell’amore, motivo di ogni rinuncia a qualsiasi cosa che non sia collegabile o
derivante da quell’amore. D’altronde qui risiede tutta la dignità della vita.
Ma, per quanto desiderabile, come resta velata ai nostri occhi! Siamo sempre
nella condizione di dover essere istruiti
dall’alto per afferrare la verità dell’umanità di Gesù consegnata agli
uomini e scoprire vero per noi e per tutti lo splendore dell’amore. Così il
portare la croce non si riferisce primariamente alla fatica del vivere, ma alla
condizione perché la fatica del vivere risulti fruttuosa: la rinuncia ad ogni
prospettiva mondana ci apre alla rivelazione dell’amore di Dio nella nostra vita,
amore che possiamo cogliere in tutto il suo splendore proprio nella croce di
Gesù. Seguire Gesù significa essere partecipi di questa rivelazione fino a
viverla nel concreto della propria vita per dare spazio alla stessa dinamica di
amore.
La rinuncia ad ogni prospettiva
mondana corrisponde al fatto di seguire il Signore o, nel linguaggio dell’AT,
al fatto di servirlo. La sottolineatura di senso è la seguente: imparare a
custodire il cuore nella sua promessa e a godere della sua rivelazione perché
la vita torni bella e desiderabile sempre.
È per questa visione e dentro questa
potenza che san Paolo, nella sua lettera ai Galati, proclama: “Quanto a me invece non ci sia altro vanto
che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo della quale il mondo
per me è stato crocifisso, come io per il mondo” (Gal 6,14). Come a dire:
rispetto a quell’amore, rivelato dall’alto e colto nel seguire il Signore Gesù,
di cui ho avuto la visione nel guardarlo trafitto in croce, non c’è nulla nel
mondo che meriti la preferenza e non c’è nulla in me che può trovare adeguato
compimento a partire dal mondo. La preghiera della chiesa tende a rendere
vivace per il nostro cuore tale verità.
Va notato però che Gesù può svelare
la ‘necessità’ della sua passione dopo la promessa di beatitudine. Pietro è
proclamato beato perché ‘piccolo’, cioè nella disposizione di accogliere e non
di suggerire; è chiamato ‘satana’ perché si fa grande: vuole suggerire, vuole
stare davanti, vuole condurre. E Gesù lo rimprovera: “Va’ dietro a me”, eco dell’invito di Dio all’uomo in tutte le
Scritture a seguirlo, ad ascoltarlo [Dio dice a Mosè: “Vedrai le mie spalle, ma il mio volto non lo si può vedere” (Es
33,23)]. Prima è chiamato pietra di fondazione, poi pietra di scandalo, perché
non esiste altro fondamento se non Gesù (cfr. 1 Cor 3,11; 1 Pt 2).
Quando Gesù spiega ai discepoli che
lui ‘dovrà’ molto soffrire, non intende illustrare nessuna ragione misteriosa,
ma più semplicemente e più direttamente intende implicarli nella rivelazione
dell’amore di Dio per l’uomo. Per Gesù, che parla secondo la lingua delle
Scritture, si tratta di reinterpretare tutte le Scritture in modo globale, si
tratta di realizzarle nella loro tensione di rivelazione dell’amore salvatore
di Dio per l’uomo in ragione di quel sigillo ultimativo che lui costituisce
quanto all’azione di Dio nel mondo. Da parte nostra, la resistenza ad
accogliere la portata rivelativa di quel ‘è necessario’, detto da Gesù e aperto
ad essere condiviso dai suoi discepoli, indica tutta la distanza tra il sogno
di un amore e la concretezza nel viverlo.
L’anelito del salmo lo esprime a
meraviglia: ‘il tuo amore vale più della
vita’ e ‘a te si stringe l’anima mia’.
A questo alludono le parole di Gesù sul rinnegamento, sul portare la croce. Non
è la vita il valore supremo, tanto meno la mia vita, ma l’amore di Qualcuno che
attraversa la mia vita e rende la vita degna di essere donata, condivisa,
perché la vita possa risplendere in me e in tutti. È quanto mai ‘realistica’
l’affermazione di Gesù: “Chi vuol salvare
la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la
troverà”. La dinamica del perdere/trovare è essenziale alla vita. La vita
che si vuole difendere risulta vuota, fasulla, mentre la vita vera, quella
desiderabile e che la fa desiderabile, è soltanto quella ‘donata’, cioè
trovata. Dire ‘trovata’ significa alludere a quella gioia della scoperta che
rende capaci di lasciare tutto il resto, di vendere tutto, come le parabole del
tesoro nascosto in un campo e della perla preziosa rivelano.
Nella reazione di Pietro vediamo la
nostra stessa contraddizione. Per esprimerla con le parole della liturgia di
oggi: è vero che nel profondo del cuore diciamo "tu sei il mio Dio, all'aurora ti cerco, di te ha sete l'anima mia, a te
anela la mia carne" (Sal 62) ma è vero anche che, nel concreto delle
situazioni e nel nostro animo, preferiamo i nostri pensieri ai pensieri di Dio.
Lo esperimenta anche il profeta Geremia in tutta drammaticità: "Mi hai sedotto Signore, e io mi sono
lasciato sedurre", ma davanti alla fatica di star fedeli alla parola
del Signore si dice in cuor suo "Non
penserò più a lui, non parlerò più in suo nome". A differenza però del
profeta Geremia il quale continua dicendo: "Ma nel mio cuore c'era come un fuoco ardente, chiuso nelle mie ossa; mi
sforzavo di contenerlo, ma non potevo", noi fin troppo bene riusciamo
a 'contenere' quel fuoco, lo mortifichiamo, lo spegniamo e non riusciamo a
volte nemmeno più a sentirne la presenza. Ed è per questo che non riusciamo a
liberarci dal bisogno di difenderci, impedendoci però di ‘godere’ la vita e
impedendolo in qualche modo anche agli altri.
§*§*§*§*§*§*§*§*§*§
Quarto ciclo
Anno liturgico A (2010-2011)
Tempo Ordinario
23a Domenica
(4 settembre 2011)
_________________________________________________
Ez
33,7-9; Sal 94; Rm 13,8-10; Mt 18,15-20
_________________________________________________
La liturgia celebra oggi la chiesa
come mistero di riconciliazione. L’annuncio gioioso, misterioso, significativo,
per il mondo non è che questo: Dio ha tanto amato il mondo da mandare il suo
Figlio, testimone dell’amore che ridà dignità e fa vivere il cuore dell’uomo!
Nell'inno di Lodi del Comune degli
Apostoli si canta: “Su voi, resi saldi in eterno, s'edifica e innalza la Chiesa
che eterna, riversa sul mondo da Dio, come un fiume, la pace”. La storia della
chiesa, la nostra piccola storia quotidiana rivela questa verità: ‘che eterna,
riversa sul mondo da Dio, come un fiume, la pace’? Chi ci avvicina, chi vive
con noi, sente anzitutto questo? Perché questo è il segno dell’apertura di
credito al vangelo nella nostra vita.
Il brano evangelico di oggi segue la
domanda degli apostoli: “Chi dunque è più
grande nel regno dei cieli?” (Mt 18,1) con la risposta di Gesù a farsi
(letteralmente: umiliarsi) piccoli.
Come dicesse: non sapete nemmeno se potete entrare e vi sognate di essere
grandi? La domanda vera suona: come si fa a entrare? Stando piccoli, cioè
godendo della benevolenza di Dio e fidandosi dei suoi segreti. Sarebbe il senso
della parabola del pastore che va in cerca della pecorella smarrita. Da dentro
l’esperienza vissuta di quella premura amorosa le parole di Gesù diventano
fonte di beatitudine e di moralità per i discepoli: “Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te …”. È l’invito
al perdono vicendevole, a vivere da riconciliati, a gustare il segreto di Dio
che in questo comandamento si nasconde. Tanto che il progresso nella fede è
concepito come un crescere nella condizione di vivere il perdono come segno di
quella vita immortale condivisa con il Cristo.
Così, al di là del suo valore
ecclesiale e sacramentale, l’espressione ‘Quello
che legherete sulla terra sarà legato in cielo’ assume il senso: se tu
leghi, sarai legato; se tu sciogli, sarai sciolto. Proprio come preghiamo nel
Padre Nostro: ‘rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri
debitori’. Dio si muove nei nostri confronti secondo il potere che ci ha
accordato: perdoniamo? Saremo perdonati. Non tratteniamo un'ingiustizia? Anche
Dio non la trattiene nei nostri confronti. Siamo generosi con un fratello?
Anche Dio lo sarà con noi. Da questo punto di vista, non è importante
preoccuparsi di fare bene, ma di non trattenere, di non legare il male di
nessuno.
E l’altra espressione ‘dove sono due o tre riuniti nel mio nome’
non allude principalmente alla preghiera, ma al perdono scambievole, alla
riconciliazione accolta che testimonia proprio la presenza di Cristo non solo
in noi, non solo in mezzo a noi, ma nel mondo, perché l'evento della
riconciliazione parla direttamente al mondo della presenza di Dio. La pace fra
fratelli, data e accolta, costituisce l'unica condizione di sincerità della
preghiera e quindi del suo esaudimento.
Il canto al vangelo lo proclama
solenne: “Dio ha riconciliato a sé il
mondo in Cristo, affidando a noi la parola della riconciliazione” (cfr.
2Cor 5,19). Se Dio affida all’uomo il ministero della riconciliazione, vuol
dire che ritiene l’uomo suo compagno. Con la rivelazione di Gesù, che svela,
mentre compie, questo supremo desiderio di Dio, possiamo scorgere all'opera nel
mondo le segrete intenzioni di Dio nei confronti delle sue creature. Noi tutti
siamo appunto chiamati a concorrere alla realizzazione di questa 'opera'. In
questo senso dobbiamo imparare a giudicare ogni cosa in base alla convergenza
verso questo supremo scopo divino. Imparare a diventare coscienti di questa
realtà significa passare dal livello psicologico a quello spirituale, diventare
compagni di Dio. Per questo ci è affidata la parola della riconciliazione. Non
però la parola da dire, ma la parola come fondamento dell’essere, come le
ragioni che convincono il cuore della realtà di quella pace ottenuta da Dio
che, per sua stessa dinamica interna, tende a coinvolgere tutti e tutto. È la
parola come forza d’attrazione, come potenza d’irradiazione, come rivelazione
del segreto di quel ‘far grazia di sé’ di Dio a noi, di noi a tutti. È il
mistero della carità condiviso.
Paolo lo vive come l’unico debito di
cui i fratelli portano credito sempre nei nostri confronti. Assolto ogni altro
dovere di lealtà, di onestà, di onore, verso tutti, nella società e nella
chiesa, per i discepoli di Gesù rimane insolvibile sempre questo: la carità. Ma
questo debito è percepito tale se la carità riguarda la condivisione del
segreto di Dio che vuole gli uomini suoi figli alla tavola della vita. Se Paolo
dice: “pienezza della Legge infatti è la
carità”, non allude alla punta di una virtù umana, costituita
dall’osservanza della legge, ma all’ispirazione divina, alla potenza divina che
opera in noi nell’obbedienza alla legge allargando i confini della nostra
umanità sulla misura divina che in Gesù diventa accessibile. Paolo dice
appunto: ‘chi ama l’altro’, dove altro sta per straniero e non semplicemente
‘chi ama il prossimo’ entro l’appartenenza ad uno stesso popolo.
Non che la cosa sia così naturale
per gli uomini. Lo dice il profeta Ezechiele riportando la critica del popolo
al suo Dio: “Non è retta la via del Signore”. L’uomo non è garantito dal bene
che ha compiuto come non è condannato dal male che ha fatto. Quello che lo
salva è la conversione al suo Dio: “convertitevi e vivrete”. Al centro c’è
sempre il mistero dell’amore perdonante di Dio, che ridà gioia e dignità alla
creatura liberandola dalle sue rivendicazioni. La carità parla di quella gioia e
di quella dignità custodita per sé come per tutti.
§*§*§*§*§*§*§*§*§*§
Quarto ciclo
Anno liturgico A (2010-2011)
Tempo Ordinario
24a Domenica
(11 settembre 2011)
_________________________________________________
Sir
27,30-28,9; Sal 102; Rm 14,7-9; Mt 18,21-35
_________________________________________________
L’immagine di fondo che emerge è la
stessa delle domeniche precedenti: la chiesa come comunità di riconciliati, di
uomini e donne che hanno fatto esperienza della grande misericordia di Dio e che
non possono non condividerla tra di loro.
La bellissima preghiera dopo la
comunione ci introduce nella dinamica divina che attraversa il cuore dei
credenti: “La potenza di questo sacramento, o Padre, ci pervada corpo e anima,
perché non prevalga in noi il nostro sentimento, ma l'azione del tuo Santo
Spirito”. E qual è l’azione dello Spirito nella storia? La riconciliazione del mondo in Cristo. Quel
mistero è l’unico argomento di interesse per il cuore se vuol vivere in pace.
Lo ricorda anche il libro del Siracide: “Ricorda
i precetti e non odiare il prossimo, l’alleanza dell’Altissimo e dimentica gli
errori altrui”. In gioco è proprio l’esperienza dell’alleanza
dell’Altissimo, che in Gesù mostra tutto il suo splendore.
Gesù racconta la parabola del debitore
spietato in risposta alla domanda stupita di Pietro sulla nostra capacità reale
di offrire il perdono ai fratelli. Il passo parallelo di Luca rivela il
sottofondo che fa da contesto: “Gli
apostoli dissero al Signore: «Accresci in noi la fede!». Il Signore rispose:
«Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso:
“Sràdicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirebbe” (Lc
17,5-6). Il perdono è questione di fede, non di generosità. Il perdono è in
funzione dell'esperienza di Dio, non della nostra generosità. Il perdono parla
di Dio, non di noi.
Il primo servo della parabola,
quello che deve al padrone diecimila talenti, allude a ciascuno di noi in
rapporto a Dio. Diecimila talenti sono una cifra spropositata, a sottolineare
l'assoluta impossibilità della restituzione. Davanti a Dio ognuno si trova in
questa condizione, sebbene non sia così evidente la cosa per la nostra
coscienza. È così forte la paura di Dio
che, pur avendo coscienza dei propri peccati, si confida più nella propria
giustizia che nel perdono umilmente chiesto e ricevuto e quindi non si è
disposti a perdonare al proprio fratello, dal quale si esige la giustizia a
tutti i costi. Non ci si rende conto che l'operazione è impossibile e che
risponde solo alle proprie paure nascoste e quindi alla grettezza del proprio
cuore.
Il secondo servo, quello che deve al
suo compagno cento denari (nel confronto tra i diecimila talenti e i cento
denari si è calcolato che la differenza è di uno per seicentomila!), indica ciascuno
di noi in rapporto agli altri. In gioco non è la disistima della giustizia, ma
la grettezza di cuore, la giustizia perpetrata in nome di sentimenti ignobili.
Di più ancora, in gioco non è semplicemente una questione tra compagni, ma la
stessa dignità della conoscenza di Dio. Il primo servo è cattivo nei confronti
del compagno perché non solo non ricorda quello che lui per primo ha ricevuto,
ma soprattutto perché ferisce i sentimenti del padrone ed agisce infischiandosi
di lui, rinnegando i legami che ha con lui. Se i doni di Dio non sono percepiti
dentro l’offerta di una storia di alleanza, di comunione e di vita per noi,
dimentichiamo Dio e ci chiudiamo nei doni ricevuti rivendicandoli come di
diritto. Ciò ci impedisce di vivere l’alleanza con i nostri fratelli e facciamo
pagare a loro le conseguenze di quello spirito di rivendicazione che ci
attanaglia.
Ecco perché il sottofondo di
comprensione della parabola è la fede. L'esempio del granellino di senapa non
vuol suggerire che basta avere una fede tanto piccola quanto un granellino, ma
che la fede racchiude la stessa potenza di crescita di un granellino. La fede
non è che la coscienza dell'alleanza con Dio che ci viene rivelata proprio nel
perdono del nostro peccato e nella capacità a vivere in comunione con Lui ed il
miracolo che si impone al nostro cuore è proprio quello di vivere il perdono al
fratello come un segno di quella vita divina di cui siamo diventati partecipi.
Il tutto è rappresentato dall'invocazione del Padre Nostro: ‘rimetti a noi i nostri
debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori’, in modo così vero che, una
volta capaci di risplendere della luce del perdono perfetto, senza più accusare
nessuno, non si subisce più la tentazione e non si è più preda del male, come
la successione delle invocazioni della preghiera suggeriscono: ‘non ci indurre
in tentazione, ma liberaci dal male’.
§*§*§*§*§*§*§*§*§*§
Quarto ciclo
Anno liturgico A (2010-2011)
Tempo Ordinario
25a Domenica
(18 settembre 2011)
_________________________________________________
Is 55,6-9; Sal 144; Fil 1,20c-27a; Mt 20,1-16a
_________________________________________________
Cosa impedisce ai nostri cuori di
fidarci di Dio? È questo il tema della liturgia di oggi. E lasciandoci guidare
dall’antifona di introduzione possiamo domandarci: è proprio vero che la
salvezza che desideriamo è quella che il Signore ci offre? Perlomeno, non
arriva forse tardi per noi la sua salvezza? La dimensione di scandalo
dell’agire di Dio nei nostri confronti non viene mai meno per i nostri cuori.
Quanta verità contiene la beatitudine proclamata da Gesù: “E beato è colui che
non trova in me motivo di scandalo!” (Mt 11,6).
Quello che il salmo 144 proclama: “Giusto è il Signore in tutte le sue vie e
buono in tutte le sue opere” rivela il frutto di un cammino consumato alla
scoperta del nostro Dio; non indica la condizione di partenza. Non per nulla la
verità della bontà di Dio è tema di rivelazione: la si può scoprire solo
accettando di relazionarsi al proprio Dio, secondo quella radicalità di rapporto
che una relazione d’amore comporta. E come in tutte le relazioni d’amore, il
mondo interiore viene rivoluzionato. Senza accettare questa ‘rivoluzione’ non
si vive l’amore e non si troverà il senso del vivere. Il salmo riporta la
definizione di Dio “misericordioso e pietoso è il Signore, lento all’ira e
grande nell’amore” che era stata rivelata a Mosè sul Sinai. E proprio perché
tale ‘Nome’ di Dio non è evidente per il nostro cuore, la liturgia si premura
di richiamarcela in vari modi.
Quando Dio proclama con le parole
del profeta Isaia che le sue vie non sono le nostre, Dio vuole conquistare i
nostri cuori alla sua bontà. Il cap. 55 conclude il secondo libro di Isaia con
l’assicurazione che il popolo verrà liberato da Babilonia e tornerà gioioso. Nessun
indizio lo faceva presumere, la realtà diceva il contrario, ma Dio insiste: “Voi dunque partirete con gioia, sarete
ricondotti in pace” (Is 55,12). E così è avvenuto.
La parabola evangelica odierna
risponde alla promessa, misteriosa ma feconda, che chi avrà lasciato beni e
affetti per il suo Signore, riceverà 100 volte tanto (cfr Mt 19,29). Da notare:
si riceve in abbondanza rispetto a quello che si è disposti a lasciare. Il che
significa: non possiamo domandare a Dio quello che siamo invitati a lasciare.
Non si può servirsi di Dio, ma solo servire Dio. Tanto è vero che il seguito
della parabola comporta il terzo annuncio della passione con il successivo
ingresso in Gerusalemme dove avrà luogo il dramma della morte di Gesù. Eppure,
proprio così risplende l’agire amoroso di Dio nei confronti degli uomini.
Perché i nostri cuori non comprendono?
La parabola di Gesù è costruita
proprio per sorprendere gli operai della prima ora nei loro pensieri segreti.
Se il fattore avesse cominciato a pagare gli operai dai primi, non sarebbero
stati svelati quei pensieri. Si sarebbero conosciuti solo quelli degli ultimi.
Ma la parabola insiste proprio sui primi; il che significa che in quei ‘primi’
siamo compresi tutti noi, per un verso o per l’altro. Dal punto di vista ecclesiale,
si può interpretare la parabola come un avvertimento agli israeliti (gli operai
della prima ora) rispetto ai pagani (gli operai dell’ultima ora), ai
giudeo-cristiani rispetto agli ellenisti, ai pastori rispetto ai fedeli, ecc.
La parabola però ha un’estensione molto più larga e allude agli atteggiamenti
dei cuori nei confronti di Dio. Tutti vengono pagati nella stessa misura: è
proprio questo che urta la nostra sensibilità. Notiamo subito che il padrone
della parabola non manca di giustizia perché ai primi dà esattamente quello che
avevano pattuito. Semplicemente, non si attiene solo a quella giustizia e dà
anche agli altri la stessa paga. Dove sta allora la malizia dei pensieri dei
primi?
Tutto dipende da come leggiamo
l’agire di Dio nei nostri confronti. Le vite degli uomini sono effettivamente
diseguali, la sua provvidenza è misteriosa, la conoscenza di lui è misteriosa,
le nostre sorti sono diverse, le gioie e le sofferenze sono amministrate nella
nostra vita in modo così diverso gli uni dagli altri! Perché tutto questo?
Porci questa domanda significa rapportarci agli altri e non a Dio. Non è
certamente una domanda maliziosa, ma rivela la difficoltà di cogliere la bontà
di Dio e per ciò stesso rivela la natura del nostro rapportarci a Dio in rivendicazione.
Ma la rivendicazione esprime gelosia, come dice il padrone della parabola ai
primi operai. Il segno della purità di cuore è proprio la mancanza di gelosia,
vale a dire la gioia della felicità altrui. La punta segreta di questa gioia
sta nella confidenza nel proprio Dio di cui si spera il godimento della
promessa fatta a noi. Così, nonostante le diseguaglianze delle nostre vite,
nulla ci manca se Dio è con noi.
Potremmo anche domandarci: quando i
primi restano i primi? Pensiamo agli apostoli. Sono tra i primi e primi sono
restati. Essere primi significa rallegrarsi del fatto che gli ultimi sono
preferiti, godere con Dio della sua misericordia per gli ultimi. Anche perché
l’invito a scoprire e gustare la bontà di Dio salva i cuori dai confini angusti
e li libera da ogni forma di rivendicazione in modo da partecipare ai
sentimenti di Dio che vuole tutti suoi amici, senza distinzione.
§*§*§*§*§*§*§*§*§*§
Quarto ciclo
Anno liturgico A (2010-2011)
Tempo Ordinario
26a Domenica
(25 settembre 2011)
_________________________________________________
Ez
18,25-28; Sal 24; Fil 2,1-11; Mt 21,28-32
_________________________________________________
Gesù è appena entrato trionfalmente
in Gerusalemme, ha scacciato i venditori dal tempio, ha guarito ciechi e storpi
e in seguito alla discussione sull’origine della sua autorità (“Con quale autorità fai questo? Chi ti ha
dato questa autorità?”) racconta la parabola dei due figli, tipica del
vangelo di Matteo. Chi compie la volontà del padre? Chi acconsente ma poi non
fa o chi alla fine fa anche senza aver acconsentito prima? Non è un invito
all’obbedienza in generale, ma una riflessione profetica sulla storia che va
dritta al cuore degli ascoltatori. Era morto da poco Giovanni Battista e Gesù
ne aveva raccolto l’eredità. Aveva predicato un battesimo di penitenza e chi
gli aveva creduto? I pubblicani e i peccatori, coloro che di fronte alla sua
predicazione si erano ricreduti quanto alla loro vita. I capi e i farisei si
sentono invece dire da Gesù: “Voi, al
contrario, avete visto queste cose, ma poi non vi siete nemmeno pentiti così da
credergli”. Da notare che in questo caso, il verbo ‘pentire’ è espresso con
un termine che significa ‘ricredersi’, ‘cambiare parere’, ‘rivedere le cose
nella loro verità’. È come se Gesù dicesse: avviene con me come per il
Battista. Voi vedete le cose meravigliose che compio, ma non volete vedere
l’agire di Dio che compie la sua opera di salvezza. Voi l’aspettate da un’altra
parte e resterete sulla vostra fame.
Pentirsi allora significa aprire il
cuore al momento di Dio: riconoscere che attraverso quella predicazione il
Regno di Dio si approssimava, riconoscere che in Giovanni Dio voleva parlare al
suo popolo, riconoscere che Giovanni aveva indicato Gesù come l'agnello di Dio,
come colui che veniva da Dio per riscattare l'uomo dal peccato e portargli la
sua salvezza. Significa riconoscere in quel Gesù colui che Dio aveva inviato
per la salvezza, riconoscere in quel Gesù la venuta del Regno di Dio. Dal punto
di vista di Dio non ha alcuna importanza che l'uomo riconosca questo partendo
da una sua giustizia o da una sua situazione di peccato: l'unica cosa
importante è quel riconoscimento, perché da lì scaturiscono i beni di Dio per
l'uomo. E la 'giustizia' dell'uomo per Dio non può provenire che da quel
'pentimento' che induce l'uomo ad accogliere prima di tutto la volontà di Dio
su di lui, volontà che esprime il desiderio di Dio di stare con gli uomini,
indipendentemente da come o dove si trovano. Tutto ciò che si pone al di fuori
o contro o a lato di questo pentimento significa dare più importanza all'uomo
che a Dio e in definitiva corrisponde a costruirsi un'immagine di Dio che non è
veritiera. E se ci si fida di un'immagine di Dio non veritiera si finisce per
costruire anche un'umanità che non ha consistenza di verità e perciò fasulla,
quando non distorta.
Ma per il cuore dell'uomo non è così
agevole 'conoscere le vie di Dio'. E la preghiera del salmo ci invita: 'fammi
conoscere le tue vie, insegnami i tuoi sentieri', come del resto la lettura
della lettera ai Filippesi ci mostra tutta l'ampiezza del mistero che esse
rappresentano: “Abbiate in voi gli stessi
sentimenti di Cristo Gesù: egli, pur essendo nella condizione di Dio, non
ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una
condizione di servo, diventando simile agli uomini”. Perché? Perché sia
fatta la sua volontà, compiutamente ed il suo amore si riveli al cuore
dell'uomo, inducendolo a pentirsi finalmente!
Dire ‘avere gli stessi sentimenti di
Cristo Gesù’ e dire ‘la volontà del Padre’ è dire la stessa cosa. Se l’apostolo
ci invita ad avere gli stessi sentimenti di Gesù è perché solo in quel modo
possiamo riconoscerci nella volontà del Padre, possiamo acconsentire a quella
volontà e goderne lo splendore di amore che ci viene riversato e che ci spinge
a riversarlo su tutti. Gesù costituisce quel punto di incandescenza nella
storia dove la volontà del Padre muove l’umanità e questa risplende per l’amore
che l’investe e di cui si capacita.
Le parabole delle domeniche successive
dicono fino a che punto l’umanità di Gesù vive la volontà di salvezza per gli
uomini da parte del Padre, allorquando il dramma si consuma. L’accento però non
è posto sulla sofferenza che dovrà subire, ma sullo splendore di amore di cui
si fa testimone. Avviene per i discepoli come per Gesù: se il Figlio, secondo
le parole di Paolo ai Filippesi, ‘svuotò se stesso assumendo una condizione di
servo’, lo può fare perché gode di un amore. Quello ‘svuotamento’ è la
condizione perché l’amore si compia e trascini tutti nello stesso movimento. Ci
si può svuotare dei propri peccati come delle proprie sicurezze; ciò che conta
è svuotarsi perché quell’amore torni a splendere, perché Dio possa essere
adorato come il Salvatore, ricco di misericordia per noi. Quello che i capi del
popolo e i farisei, interlocutori di Gesù, non avevano potuto capire. E lo
svuotarsi attira la grazia perché assimila al movimento che Gesù ha vissuto e
che Dio vive in se stesso. L’obbedienza ha a che fare con la percezione di
questo mistero di amore che porta vita, la vita che viene da Dio e che
attraversa la storia perché tutti ne possano gustare lo splendore. Ed è per
questo che la colletta prega: “ ... il tuo Spirito ci renda docili alla tua
parola e ci doni gli stessi sentimenti che sono in Cristo Gesù”.
§*§*§*§*§*§*§*§*§*§
Quarto ciclo
Anno liturgico A (2010-2011)
Tempo Ordinario
27a Domenica
(2 ottobre 2011)
_________________________________________________
Is
5,1-7; Sal 79; Fil 4,6-9; Mt 21,33-43
_________________________________________________
La parabola di oggi va letta insieme
a quella della domenica precedente e a quella di domenica prossima. La serie
delle tre parabole illustra il dramma ormai in atto che, letto dalla parte di
Dio, svela proprio la grandezza dell’amore del Signore. Forse, più che una
parabola, il brano evangelico di oggi esprime una allegoria profetica. Ciò
rende ancora più drammatico il contesto narrativo, come la conclusione, tirata
dagli stessi ascoltatori, capi dei sacerdoti e anziani del popolo, lascia
perfettamente intendere. Avviene come nel caso di Davide, dopo il peccato di
adulterio e assassinio, il quale si condanna con le sue stesse parole
rispondendo all’apologo del profeta Natan (cfr. 2 Sam 12,1-13). L’intensità
emotiva dello scontro non deriva però dall’ira, ma da una passione d’amore, la
stessa passione d’amore di Dio per il suo popolo per il quale non si stanca mai
di tornare alla carica.
Il testo di Matteo si dovrebbe
leggere in parallelo con quello corrispondente di Luca 20,9-19 dove alcuni
particolari risultano particolarmente illuminanti. Si veda, ad esempio, nel
testo di Luca, come i vignaioli percuotono, insultano, feriscono i servi
mandati dal padrone della vigna, ma solo del figlio del padrone si dice che lo
uccidono; il figlio è presentato come il figlio dilettissimo. Come non cogliere
il valore profetico di questi particolari applicati a Gesù stesso, lui, il
Figlio prediletto, come viene testimoniato dalla voce misteriosa al battesimo e
alla trasfigurazione?
Il tono d’insieme della parabola,
nonostante l’asprezza delle espressioni, è dato dalla citazione del profeta
Isaia dell’inizio. L’immagine dell’uomo che pianta una vigna, la circonda di
cure e si attende di raccoglierne i frutti è l’immagine di Dio che, preso
d’amore per il suo popolo, stabilisce un’alleanza con lui, vuol condividere con
lui il suo Bene. Il legame è così profondo che l’immagine assume sfumature
‘coniugali’ ad indicare la profondità e la totalità di questa passione d’amore.
Così, quando il popolo si ribella e non lo segue, Dio si sentirà ferito non
solo nel suo diritto e nella sua proprietà, ma nei suoi affetti, nel suo cuore.
Gesù sfrutta questa immagine celebre del profeta Isaia che canta per Dio l’inno
d’amore per il suo popolo.
È da dentro questo contesto d’amore
che va letto il seguito della parabola. Nonostante il rifiuto da parte dei
contadini di consegnare il raccolto, cioè nonostante la resistenza e la
ribellione contro i profeti che erano stati inviati da Dio al popolo perché
riprendesse il sentiero dell’alleanza con Lui, Dio non viene meno al suo amore;
anzi, si fa temerario, invia il suo proprio figlio, il Dilettissimo, che viene
non solo rifiutato, ma ucciso. Gesù commenta la sua parabola con la citazione
dei versetti 22-23 del salmo 118: “La
pietra che i costruttori hanno scartata è diventata testata d’angolo; dal
Signore è stato fatto questo ed è mirabile agli occhi nostri”, salmo che
inizia e finisce con l’acclamazione: “Rendete grazie al Signore perché è buono,
perché il suo amore è per sempre”. Lui, la Pietra, è scartata da coloro che
erano stati chiamati ad edificare il popolo di Dio, ma con la sua morte e
risurrezione diventa la ‘Pietra angolare’, quella nella quale si congiungono
ebrei e pagani, a formare quel ‘popolo nuovo’ da tutta l’umanità che ha in
Cristo il suo Capo e Fondamento. Non ha più ragion d’essere la distinzione
ebrei/pagani perché in Cristo tutte le cose sono nuove e tutti, ebrei e pagani,
ritrovano l’alleanza rinnovata e definitiva che Dio offre all’umanità. Dio non
ha rigettato Israele a favore delle nazioni pagane (che passione d’amore
sarebbe per il suo popolo!). In Cristo non ha più ragion d’essere questa
distinzione.
Il giudizio di Gesù: “Perciò io vi dico: a voi sarà tolto il regno
di Dio e sarà dato a un popolo che ne produca i frutti” andrebbe reso
meglio: a voi, che vi ostinate nel rifiuto di riconoscere l’alleanza di Dio
nell’invio del suo Figlio dilettissimo, sarà tolta la comprensione dell’amore
di Dio con tutte le conseguenze che ciò comporta per il cuore dell’uomo e sarà
dato ad un’altra generazione, a quanti saranno disposti ad accogliere tutto il
mistero di questo amore di Dio per l’uomo e a formare quell’unico popolo, per
il quale il Figlio è venuto, nel quale tutto finalmente e definitivamente si
compie.
I frutti di cui si parla sono da
vedere proprio in rapporto alla meraviglia che suscita l’opera del Signore,
meraviglia che suona come canto di vittoria il giorno di Pasqua e che deriva
dal pentimento suscitato dal vedere trafitto il Signore della gloria. Sono questi
esattamente i frutti che Dio si attende: accogliere il Figlio e diventare un
unico popolo, vivere la fraternità come mistero di rivelazione dell’amore di
Dio in Cristo per noi. Non si tratta semplicemente di credere che Gesù è il
Figlio di Dio, ma di crederlo a tal punto da non tollerare che la propria
esistenza non affondi le proprie radici di vitalità ed energia se non in Lui. E
quando questo non avviene, risuona anche per noi il giudizio di Gesù: “Perciò io vi dico: a voi sarà tolto il regno
di Dio e sarà dato a un popolo che ne produca i frutti”, perché veniamo
scossi, perché ci si possa pentire e ritrovare la freschezza della rivelazione
di quell’amore.
Nella parabola emergono aspetti che
suonano tragici. Il ragionamento dei contadini alla vista del figlio mandato
dal padrone - “Costui è l’erede. Su,
uccidiamolo e avremo noi la sua eredità” - ne è un esempio. Proprio il
Figlio è stato inviato per metterci in possesso della nostra eredità (cfr. Gal
4,4-7)! Come possono illudersi di ottenere diversamente quello che già era
stato loro destinato? Spesso ci si ritrova nella vita in tale posizione: volere
a tutti i costi un certo risultato, senza immaginare nemmeno che ci verrebbe
dato in dono se solo lo sapessimo accogliere dalle mani di Dio! I nostri desideri
di gioia, di felicità, di fraternità, non sono forse così spesso disattesi dai
nostri comportamenti? Il nostro guardare al ‘Figlio’ non è forse così spesso
appiattito sulle pretese che avanziamo senza poter mai aver sentore della bontà
di quell’amore che in Lui ci viene donato? L’amore di Dio non risponde al buon
senso, non è contenuto nei limiti del giusto; è proprio folle, folle come quel
padrone che, dopo aver visti picchiati e scacciati i suoi servi, non teme di
mandare il suo unico figlio. Lui, almeno, lui sì che non deluderà le sue
attese, Lui sì resterà sempre testimone di quell’amore folle proprio nel subire
la morte e poter riscattare, con la sua risurrezione che lo rende pietra
angolare per tutti, la malvagità di quei contadini, la nostra malvagità di
uomini peccatori.
§*§*§*§*§*§*§*§*§*§
Quarto ciclo
Anno liturgico A (2010-2011)
Tempo Ordinario
28a Domenica
(9 ottobre 2011)
_________________________________________________
Is 25,6-10a;
Sal 22; Fil 4,12-14.19-20; Mt 22,1-14
_________________________________________________
La domanda di fondo che emerge dalla
liturgia di oggi potrebbe suonare: la dignità dell’uomo su cosa si misura?
Nella parabola, altamente drammatica anche per l’accenno alla catastrofe subita
da Gerusalemme nel 70 d.C. ad opera dei Romani (“Allora il re si indignò: mandò le sue truppe, fece uccidere quegli
assassini e diede alle fiamme la loro città”), il re sentenzia: “La festa di nozze è pronta, ma gli invitati
non erano degni”.
Le nozze dell’Agnello (“sono giunte le nozze dell’Agnello”, Ap
19,7) sono l’immolazione del Figlio nella sua dimensione di compimento e
vivibilità della comunione tra Dio e gli uomini dentro lo splendore di un amore
goduto. Perché il re proclama che gli invitati non erano degni? Non ci sono condizioni
previe da osservare; c’è semplicemente il fatto di non aver accolto l’invito.
L’indegnità corrisponde dunque al rifiuto dell’invito del proprio Signore.
L’uomo non è mai indegno rispetto all’amore del Signore perché è il Signore che
prende l’iniziativa di rivolgergli il suo amore, senza condizioni. Ma l’uomo
può sempre opporre le sue ragioni, può ripararsi dietro la nobiltà ostentata
delle sue ragioni e non aderire.
La parabola allude sia al possibile
rifiuto di Israele come al possibile rifiuto della Chiesa: gli invitati
rinunciano, il commensale, che non porta la veste nuziale, verrà estromesso
dalla sala di nozze. Tra la vocazione
gratuita e il giudizio escatologico, che appartiene solo a Dio, sussiste lo
spazio che possiamo chiamare della dignità cristiana. Sono chiamati tutti,
buoni e cattivi; non c’è alcuna distinzione rispetto all’invito. Anzi, come
prega la colletta: “O Padre, che inviti il mondo intero alle nozze del tuo
Figlio …”, la dignità dell’uomo si misura sul fatto di non impedire a nessuno
l’accesso all’invito: siamo chiamati tutti alla stessa tavola del re. Quando
però disprezziamo il nostro fratello, quando portiamo rancore, quando creiamo
distanza con i nostri fratelli, è come se impedissimo a qualcuno di ricevere
l’invito del re ad andare alla stessa tavola della vita. Disprezziamo la
volontà del padrone e noi non possiamo più goderla. E questo avviene perché
qualche ragione ‘nobile’ ci ha impedito di accogliere l’invito del re, perché
non abbiamo conosciuto la premura dell’amore di Dio per noi.
Il parallelo con il brano di Isaia è
illuminante. Il profeta descrive il lauto banchetto imbandito sul monte Sion
per tutte le genti. L’elezione di Israele è per attirare tutte le genti
all’amore del Signore, amore che il Signore farà gustare a tutti. Nella visione
del profeta tre sono gli aspetti che caratterizzeranno la gioia della vita: la
conoscenza del Signore invaderà i cuori (‘il velo strappato), la morte non avrà
più potere, ognuno godrà personalmente (‘lacrime asciugate). Allora si dirà:
“Ecco il nostro Dio”, sottolineando nostro
come espressione di una esperienza goduta. Allorquando le nozze del Figlio
saranno celebrate, guardando a Colui che è stato trafitto, allora si potrà
dire: “Ecco il nostro Dio”, ecco dove l’amore ha condotto il nostro Dio, ecco
l’amore che fa vivere il nostro cuore. La visione di quell’amore non vale
semplicemente per me, ma per me se vale contemporaneamente per tutti. Così, non
si tratta di credere semplicemente al Figlio di Dio, ma di vedere il suo amore
per noi che diventa in noi radice di vita per tutti. Così custodiamo per tutti
l’invito alla tavola del re.
Quando il salmo 22 riprende la
visione di Isaia usa l’immagine del pastore che ci procura ristoro. In realtà
allude alla rivelazione di Gesù: “Venite
a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il
mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e
troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio
peso leggero” (Mt 11,29-30). L’invito alle nozze corrisponde al ‘venite’ di
Gesù e per noi si traduce nell’andarci in compagnia di tutti i nostri fratelli
perché il suo desiderio di comunione con noi si compia nel suo splendore.
Se ancora ci perseguita l’idea di
indegnità rispetto alla chiamata all’amore, allora valgono le parole del canto
di ingresso: “Se consideri le nostre colpe, Signore, chi potrà resistere? Ma presso
di te è il perdono, o Dio di Israele” (Sal 130,3-4). Il perdono di Dio
corrisponde all’invito alla sua stessa tavola in compagnia di tutti. Così sono
custodite la preziosità dell’invito e l’umiltà per l’invitato. Come suggeriva il versetto dell’alleluia
tratto dalla lettera agli Efesini, il cui passo completo suona: “il Dio del Signore nostro Gesù Cristo, il
Padre della gloria, vi dia uno spirito di sapienza e di rivelazione per una più
profonda conoscenza di lui; illumini gli occhi del vostro cuore per farvi
comprendere a quale speranza vi ha chiamati, quale tesoro di gloria racchiude
la sua eredità fra i santi …” (Ef 1,17-18). Possa davvero il nostro cuore
aprirsi al dono di speranza e di gloria che il Signore ha preparato per noi!
Quello che il passo dice ai nostri orecchi, l’icona della Trinità di Rublev lo
fa vedere ai nostri occhi: i tre angeli in dolce colloquio, uniti nell’amore
all’uomo per il quale il Padre celebra le nozze del Figlio e invita tutti,
nella forza dello Spirito, a partecipare alla sua gioia. Sulla mensa giace
l’Agnello immolato, simbolo e mistero di questo infinito amore che siamo tutti
invitati a gustare.
Alle nozze del Figlio fa riscontro
la nostra gioia, non la nostra perfezione. Ma la gioia dice l’apertura del
nostro cuore all’invito del Padre, nonostante la nostra patente indegnità. In
questo contesto suona strana la dichiarazione finale della parabola: ‘molti sono chiamati, ma pochi eletti’.
Di tutta la moltitudine che riempiva la sala, solo uno è stato trovato senza la
veste appropriata! Se non è un invito alla speranza questo, a fidarci
dell’amore di Dio!!!
§*§*§*§*§*§*§*§*§*§
Quarto ciclo
Anno liturgico A (2010-2011)
Tempo Ordinario
29a Domenica
(16 ottobre 2011)
_________________________________________________
Is 45,1.4-6;
Sal 95; 1Ts 1,1-5b; Mt 22,15-21
_________________________________________________
La vita di Gesù volge al termine e i
suoi avversari stanno cercando un pretesto per riuscire a metterlo fuori gioco.
Lo provocano sulla questione del tributo da pagare all’occupante romano. Si
tratta della tassa pro capite (in
latino, census) che i romani
esigevano da tutti gli abitanti (uomini, donne e schiavi) di Giudea, Samaria e
Idumea, dai 12/14 anni fino ai 65. La tassa versata corrispondeva a un denaro
d’argento, l’equivalente della paga giornaliera di un operaio, pagata con una
moneta speciale che portava l’immagine dell’imperatore Tiberio (14-37 d.C.) con
l’iscrizione: TIBERIUS CAESAR DIVI AUGUSTI FILIUS AUGUSTUS PONTIFEX MAXIMUS
(Tiberio Cesare, augusto figlio del divino Augusto, sommo sacerdote).
Il tranello consisteva nel
costringere Gesù a prendere posizione pro o contro l’obbligo del pagamento
della tassa: se rispondeva a favore del pagamento, lo si poteva accusare di
antipatriottismo; se rispondeva contro, poteva essere accusato di sedizione
contro l’autorità costituita. Gesù, pur conoscendo la malizia della domanda,
risponde in verità.
Il senso della sua risposta è
illuminato dal canto al vangelo, tratto da un passo della lettera ai Filippesi
2,15-16: “Risplendete come astri nel mondo, tenendo salda la parola di vita”. I
credenti in Cristo devono al mondo la luminosità dell’annuncio evangelico,
segnale di quella vita eterna che
Gesù ci partecipa con il suo amore perché conquisti tutti. Come dicesse: la
vita che vivete nel mondo è aperta alla gloria di Dio, le vostre azioni devono
restare aperte all’Eterno se non volete restare oppressi e opprimere. Del
resto, è caratteristico che nella tradizione ebraica il salmo 95, cantato dopo
la lettura di Isaia che presenta un re pagano, Ciro, come il servo di Dio
mandato a consolare il suo popolo liberandolo dalla schiavitù di Babilonia, sia
tra i salmi recitati in famiglia per il ricevimento dello shabbat. Il ‘sabato’ ci si espone alla luce del Regno perché si
possa percepire la presenza del Signore in mezzo al suo popolo, cessando ogni
altra attività. Il ‘riposo’ del sabato allude alla luminosità del Regno che
attraversa la vita sebbene le preoccupazioni mondane ce ne impediscono la
percezione. L’invito a lodare il Signore nella storia quotidiana, tanto da
proclamare che cieli, terra, mare, campagna, alberi, tutto gioisca nella lode
del Signore (sal 95), è l’invito a vedere la luce del Regno. Come se il cuore,
nella preghiera, invocasse la fatica che prolunghi nel quotidiano la luce dello
shabbat.
L’elogio che viene tributato a Gesù
(“Maestro, sappiamo che sei veritiero e
insegni la via di Dio secondo verità. Tu non hai soggezione di alcuno, perché
non guardi in faccia a nessuno”) non risponde solo alla cattiva intenzione
dei suoi accusatori, ma esprime anche la condizione per poter discernere
l’eterno nel temporale. Diversamente, la storia soffoca o temerariamente
esalta, ma non si apre alla salvezza. Aprirsi alla salvezza, alla fin fine,
vuol dire sfuggire alla malizia del potere che vuole tutti ‘soggetti’, senza
sapere bene in nome di che cosa. L’aspetto straordinario e straordinariamente
potente della presa di posizione da parte di Gesù è dato dal fatto che lui è
proclamato come non soggetto a nessuno e tuttavia, lui, di se stesso, si
proclama sottomesso a tutti (pensiamo all’immagine di lui che si cinge il
grembiule e lava i piedi ai discepoli), servo di tutti perché l’amore del Padre
conquisti tutti. La libertà che gli è attribuita gli deriva dalla perfetta
comunione con il Padre, che vuole tutti salvi e che lo abilita a vivere la vita
nel servizio di questa straordinaria provvidenza di amore per l’umanità. Quando
Gesù dice di dare a Dio quello che è di Dio allude proprio a quel Padre da cui
lui proviene, che lui conosce, di cui testimonia l’amore e di cui mette anche
noi in condizione di essere in comunione. Di qui scaturisce quella libertà che,
non rendendoci soggetti alle cose, è capace di aprire gli spazi adeguati perché
gli eventi si schiudano all’eternità, cioè a quella dimensione del vivere un
amore nella storia perché tutti si possa dire: “Grande è il Signore e degno di ogni
lode”.
Rispetto al “Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di
Dio” possiamo allora notare tre cose.
La prima: Gesù riconosce la
legittimità dell’autorità dello Stato, ma svincola il potere da una legittimità
autoreferenziale. Nell’antichità lo Stato si presentava come fonte dei diritti
e dei doveri in assoluto, compresa la sfera religiosa. Gesù spezza l’alleanza
tra religione e Stato che il paganesimo e l’impero esigevano.
La seconda: non separa semplicemente
Dio e lo Stato, ma riorienta il temporale, la politica, alla dimensione
spirituale che è costituita dal bene delle persone; non solo, ma riaggancia la
politica all’eterno nel senso che nella storia è in gioco il compimento del
piano divino di salvezza per l’uomo. Come dice Giovanni Crisostomo: “Il
precetto di dare a Cesare quello che è di Cesare va inteso come riferito a
quanto non si oppone al servizio di Dio. Diversamente, non sarebbe più un
tributo pagato a Cesare, ma al demonio” (Omelia 70,2 su Matteo ).
La terza: l’uomo è sopra il
cittadino, il prossimo sopra il connazionale, la coscienza sopra la norma, la
persona sopra la collettività. Conseguenze che scaturiscono dalla
proclamazione: “Io sono il Signore e non c’è alcun altro” che abbiamo letto nel
profeta Isaia. Essere discepoli di Cristo significa prima di tutto vedere la
vita dal punto di vista di Dio: la possibilità di partecipare al dono del suo
Regno nella responsabilità della storia.
§*§*§*§*§*§*§*§*§*§
Quarto ciclo
Anno liturgico A (2010-2011)
Tempo Ordinario
30a Domenica
(23 ottobre 2011)
_________________________________________________
Es 22,20-26;
Sal 17; 1Ts 1,5c-10; Mt 22,34-40
_________________________________________________
Possiamo notare anzitutto le due novità della risposta di Gesù nella
formulazione evangelica di Matteo. Era usuale nell’ambiente rabbinico la
domanda attorno al comandamento grande, quale fosse il primo comandamento e
comunemente condivisa la risposta sulla base del testo di Dt 6,4-5: “Ascolta, Israele: il Signore è il nostro
Dio, unico è il Signore. Tu amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il cuore, con
tutta l’anima e con tutte le forze”. Gesù mette insieme il testo del
Deuteronomio con Lv 19,18: “Non ti
vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il
tuo prossimo come te stesso. Io sono il Signore” (cfr. anche i passi
paralleli, nel contesto più cordiale di Mc 12,28-34 e Lc 10,25-28). La prima
novità di Gesù sta nel raccordare i due comandamenti, dichiarando il secondo
simile al primo ed estendendone la portata a tutti gli uomini. L’altra novità
consiste nell’uscire dallo schema di riferimento usuale per le Scritture con il
porre i Profeti sullo stesso piano della Legge, con l’allusione all’unità delle
Scritture che in lui trova ormai la sua chiave di lettura.
Il comandamento di sempre, tipico
del Dio dell’alleanza che intesse con il suo popolo una storia, acquista con
Gesù una risonanza particolare. Non si tratta più solo di richiamare la fedeltà
di Dio al suo popolo e la fedeltà del popolo al suo Dio, ma di percepire la
fedeltà a Dio come la fedeltà al suo amore per i suoi figli che splende in
quell’Inviato, mandato a mostrare quanto è grande l’amore di Dio per gli uomini
e a ‘riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi’ (cfr. Gv 11, 52). Ecco
perché i due comandamenti sono simili, hanno la stessa importanza.
Il canto al vangelo (Gv 14,23: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il
Padre mio lo amerà e noi verremo a lui”) fa però intravedere una dimensione
ancora più potente nella novità portata da Gesù. Il comandamento allude alla
possibile rivelazione del volto di Dio al nostro cuore. Ci potremmo chiedere:
la rivelazione è data dall’osservanza o da altro? L’abbinamento del passo di
Giovanni al brano di Matteo vuol significare che non è la pratica a produrre la
rivelazione, ma l’amore che presiede alla pratica e che alla pratica conduce.
Perché? Nella risposta a questo interrogativo si cela anche la ragione
dell’abbinamento dei due comandamenti nella sequenza che dà Gesù: Dio, prima e
il prossimo, dopo, sebbene non ci sia alcuna distanza tra i due.
La frase di Gv 14,23 è la risposta
di Gesù alla domanda dell’apostolo Giuda: “Signore,
come è accaduto che devi manifestarti a noi, e non al mondo?”. Una
manifestazione che procede da un amore è ravvisabile da chi non partecipa a
questo amore? Poco prima Giovanni aveva scritto: “Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi
ama” (14,21). Frase che si contrappone all’altra, a conclusione del
discorso di Gesù: “... viene il principe
del mondo; contro di me non può nulla, ma bisogna che il mondo sappia che io
amo il Padre” (14,30). Purtroppo la traduzione italiana non fa cogliere la
contrapposizione, che è essenziale per comprendere il ragionamento di Gesù. La
contrapposizione riguarda la frase: ‘chi ha
i miei comandamenti...’(v. 21) e l’altra: ‘in me non ha nulla’ (v. 30). Chi fa l’esperienza dell’essere amato dal
Padre, non ha bisogno di nulla e nulla cerca per sé: pratica i comandamenti che
sono l’espressione di questo amore nel tempo e nello spazio e niente e nessuno
gli può sottrarre questo amore. Solo in Gesù questo si compie assolutamente, ma
la promessa di Gesù è che la stessa cosa varrà per i discepoli, se stanno in
lui. La pratica dei comandamenti è in funzione del fatto che il mondo possa
scoprire l’amore del Padre e così vivere la dimensione della fraternità nella
sua radicale luminosità.
Il senso dell’amore al prossimo sta
tutto nel fatto di far ‘sapere al mondo’ che l’amore del Padre è per lui. Per
questo, se il primo comandamento esprime la radice di un’umanità che ha
scoperto l’amore del Padre, il secondo ne segnala l’orizzonte di tensione,
perché l’amore del Padre è per il mondo. Lo scopo della pratica dei
comandamenti non è in funzione della mia perfezione, ma dello splendore
dell’amore del Padre che a tutti è rivolto e di cui posso ammirare
l’accondiscendenza per noi.
In questa prospettiva risulta
illuminante anche la prima lettura, ripresa dall’Esodo nella parte che riporta
le norme del Codice dell’alleanza, e precisamente rispetto alla cura dei
deboli. Presentare Dio come il difensore dei deboli significa cogliere il
mistero del regno di cui Dio si fa promotore. Richiama la rivelazione del
Signore riportata da Is 41,4: “Io, il
Signore, sono il primo e io stesso sono con gli ultimi”.
Così il comandamento, in particolare
quello rivolto a favore del debole, ha sempre a che fare con la rivelazione
dell’amore del Signore. La risposta di Gesù sottolinea almeno due cose. La
prima. Egli cita la confessione di fede del pio israelita, che costituisce la
parte più solenne della preghiera quotidiana di ogni ebreo praticante, formata
da tre passaggi. Anzitutto: ‘Ascolta’! La Parola di Dio è fondante, la mia
esistenza riceve senso da quella Parola, da lì prende vigore il mio cuore. ‘Il
Signore è il nostro Dio’: prima
ancora che possa cogliermi nella mia individualità, devo riconoscermi dentro
una comunione, dentro una solidarietà. È il mistero dell’alleanza di Dio con
noi che mi precede, dentro il quale mi posso raggiungere e riconoscere e
accogliere. Prima c’è quello che Dio ha fatto per noi, poi in quel noi posso
sentire anche me che vengo raggiunto dall’agire di Dio. Quindi ‘Tu amerai’,
cioè finalmente posso rispondere e godere tutta l’intimità di quella alleanza.
A questo punto il comandamento non è più un imperativo morale, ma la porta di
accesso ad un segreto, ad un mistero di cui sono chiamato a divenire partecipe.
Noi spesso leggiamo il comandamento dalla parte della paura, del sacrificio,
della rinuncia a qualcosa, ma in realtà bisogna imparare a leggerlo dalla parte
della passione del cuore, dell’anelito e del desiderio che ci muovono dentro e
della possibilità finalmente di viverli compiutamente.
La seconda. Nel comando di amare il
prossimo come se stessi, cosa comporta quel ‘come te stesso’? Se devo guardare
a come amano certe persone, sempre aspre e piene di disprezzo per se stesse, io
non voglio certo essere amato così da loro! Non significa quindi che dobbiamo
amare gli altri come amiamo noi stessi semplicemente. Nemmeno significa che
dobbiamo amare gli altri allo stesso modo con cui amiamo noi stessi, perché nel
nostro amarci mescoliamo anche le nostre illusioni ed i nostri peccati e non
così dobbiamo amare gli altri. Quel ‘come te stesso’ ha un significato di rivelazione,
cioè ama il tuo prossimo in quanto ti appartiene e tu appartieni a lui, in
quanto tu godi dello stesso amore di Dio di cui anche lui gode, sei raggiunto
da quell’unico far grazia di Sé, in Cristo, da parte di Dio all’umanità, a te
come a lui, a te perché si estenda a lui e viceversa, in quanto formi un unico
corpo con lui per il mistero dell’ umanità che condividi allo stesso titolo con
lui e che Dio condivide allo stesso titolo con noi tutti, in Cristo.
Come stupendamente spiega s.
Francesco di Assisi nel suo commento al Padre Nostro: “Sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra: affinché ti
amiamo con tutto il cuore, sempre
pensando a te; con tutta l’anima,
sempre desiderando te; con tutta la mente,
orientando a te tutte le nostre intenzioni e in ogni cosa cercando il tuo
onore; e con tutte le nostre forze,
spendendo tutte le nostre energie e sensibilità dell’anima e del corpo a
servizio del tuo amore e non per altro; e affinché possiamo amare i nostri
prossimi come noi stessi, trascinando tutti con ogni nostro potere al tuo
amore, godendo dei beni altrui come dei nostri e nei mali soffrendo insieme con
loro e non recando nessuna offesa a nessuno” (FF 270).
§*§*§*§*§*§*§*§*§*§
Quarto ciclo
Anno liturgico A (2010-2011)
Tempo Ordinario
31a Domenica
(30 ottobre 2011)
_________________________________________________
Ml
1,14-2,2b.8-10; Sal 130; 1 Ts 2,7-9.13; Mt 23,1-12
_________________________________________________
Il brano di vangelo di oggi si
inserisce nello scontro tra Gesù e i dirigenti della nazione. Oramai è scontro
aperto. I farisei e i capi si sono ritirati a complottare, Gesù nemmeno più
parla a loro direttamente; si rivolge alle folle, che ancora per un po’ lo
seguono e ai discepoli. Le parole di Gesù sono una perorazione per una
devozione sincera, per un discepolato autentico.
La forza delle sue parole deriva da
un mistero profondo che appena si intravede ma comanda tutto il brano. Il
versetto 8 suona: “voi non fatevi
chiamare “rabbì”, perché uno solo è il vostro maestro e voi siete tutti
fratelli”. L’allusione è all’evento che Gesù rappresenta nella storia della
salvezza: Dio ha tanto amato il mondo da mandare il suo Figlio, Colui nel quale
risplende tutto l’amore e la gloria di Dio. Proprio come dice il profeta: “tutti mi conosceranno, dal più piccolo al
più grande, dice il Signore; poiché io perdonerò la loro iniquità e non mi
ricorderò più del loro peccato” (Ger 31,34). Sarà in quel Figlio, dato per
noi, che i peccati ci sono perdonati ed è per questo che, essendo tutti perdonati
allo stesso titolo, siamo tutti figli allo stesso titolo, fratelli allo stesso
titolo. A partire da qui le parole di Gesù non sono semplici invettive di un
riformatore. Del resto, già gli stessi farisei avevano stigmatizzato i loro
difetti e gli uomini migliori sapevano distinguere una buona da una falsa
devozione.
Gesù si presenta al mondo, nella sua
unicità per il compito messianico di cui è investito, quale ‘esegeta’ e ‘guida’
(il termine greco significa formatore, istruttore, precettore, nel senso di
guidare in un cammino di vita) all’intima conoscenza del Padre. Gesù riconosce
l’ordine di Dio nel ministero di Mosé, come lo riconosce nel ministero della
Chiesa. Ma l’uno e l’altro sono finalizzati alla gloria di Dio, che nulla ha di
che spartire con la gloria ricercata presso gli uomini. Lui solo ricerca la
gloria di Dio perché fa quel che dice e dice quel che fa, perché conosce quello
che fa e fa quello che conosce (cfr. Gv 5,18-23), secondo l’affermazione del
prologo di Giovanni; “Perché la Legge fu
data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo.
Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del
Padre, è lui che lo ha rivelato” (Gv 1,17-18).
L’invettiva del profeta Malachia
contro i sacerdoti che profanavano il nome di Dio va compresa nella stessa
linea. Quando li rimprovera da parte del Signore: “Se non mi ascolterete e non vi darete premura di dare gloria al mio
nome” minacciando la maledizione, vuol dire: se non mostrate a tutti il nome
di Dio che è misericordia per noi, voi non godrete la gioia del perdono e
resterete nei vostri peccati, che vi opprimeranno. Si può, sì, sacrificare a
Dio (= offrire una pratica pia) ma guai a presentare un’offerta ingiusta, vale
a dire: quando ci si attiene a un atto esteriore, allorché l’offerta non è
accompagnata dalla conversione del cuore; quando si offre ciò che si è
rapinato; quando si dà ciò che si scarta (cfr. Sir. 35). Con queste
disposizioni, come accogliere con simpatia e benevolenza i propri fratelli,
figli dello stesso Padre?
Ed è caratteristico che la liturgia,
a commento di un brano di invettiva, faccia seguire come salmo responsoriale il
salmo 130, un inno di fiducia serena e invincibile nel proprio Signore. Come ci
si dicesse: non c’è alcun motivo di affidarci all’ingiustizia per esaltarci
affannandoci a cercare grandezza e importanza presso gli uomini se l’anima può
riposarsi come un bambino nel suo Dio, che ha misericordia di noi. Si rinuncia
a guardare in modo superbo e concupiscente quando si può stare presso il
proprio Dio come un bambino che ha preso il latte e dorme beato fra le braccia
della mamma o come un bambino svezzato che sta appoggiato ai seni della mamma
solo per goderne la tenerezza senza cercare di mangiare.
Quando Gesù si proclama unico
Maestro e Guida è ormai prossimo alla sua passione. In lui si realizzerà quello
che prima aveva proclamato: “Venite a me … e io vi darò ristoro” (cfr. Mt
11,28). Sarà riferendosi proprio a questo Maestro, nella stessa dinamica che
vive questo Maestro, che i suoi discepoli potranno insegnare o, meglio,
annunziare il suo insegnamento. Non ci può essere, per gli uomini, alcun
maestro in proprio e se gli uomini accettano un maestro del genere ne patiranno
le conseguenze, perché si troveranno impediti nella vera conoscenza e non
potranno più sentirsi tutti fratelli. L’illusione dell’ ideologia, che può
essere definita una devozione fasulla, nasce proprio dal fatto che per imporsi
dovrà dividere gli uomini. Il segno invece della devozione sincera, del
collegamento all’unico Maestro di tutti, è dato dal fatto di farsi servo di
tutti allo scopo di non dividerci da nessuno. Si innalza chi prende le distanze
e Dio prenderà le distanze da lui perché possa imparare a non dividere i suoi
figli (cfr. antifona di ingresso). Ma chi non si divide da nessuno è abitato da
Dio, opera con lo Spirito di Dio, risplende della sua gloria tanto che non ha
più alcun bisogno di cercarla presso gli uomini. La sua devozione è sincera.
Oltre alla sincerità del cuore,
l’unica condizione è che si annunci la parola per amore verso i quali è
destinata, con lo stesso amore con il quale è stata pronunciata. Questo
atteggiamento permette di cogliere la parola oltre colui che la dice e diventa
invito a ricevere la rivelazione del volto di Dio.
§*§*§*§*§*§*§*§*§*§
Quarto ciclo
Anno liturgico A (2010-2011)
Solennità e feste
Tutti i Santi
(1 novembre 2011)
_________________________________________________
Ap
7,2-4.9-14; Sal 23; 1Gv 3,1-3; Mt 5,1-12a
_________________________________________________
Le preghiere e le letture di oggi
mostrano in cosa consiste la gioia della santità: godere dello splendore
dell’amore di Dio per noi. E tutti gli sguardi si accentrano sulla figura
dell’Agnello glorioso e immolato ‘fin dalla fondazione del mondo’ (Ap 13,8). Il
mondo è uscito dall’amore di Dio, di esso è intessuto e percorso, di esso
parla, ma quanta tenebra ne impedisce la visione! Ebbene, oggi la chiesa mostra
al mondo la sua visione: è l’Agnello che attira gli sguardi e gli uomini si ritrovano
uniti nella stessa visione e possono risplendere della santità di Dio, che è
splendore di amore immolato.
L’antifona di ingresso e la
preghiera dopo la comunione fanno come da cornice alla visione aperta dalle
letture della festa di oggi. “Rallegriamoci tutti nel Signore in questa
solennità di tutti i santi: con noi gioiscono gli angeli e lodano il Figlio di
Dio”. È motivo di gioia la santità perché non può esserci gioia se non a
partire da un amore accolto e condiviso. E la santità, come proclamano i beati
davanti al trono dell’Agnello, è questo amore accolto e condiviso. Perché anche
gli angeli sono implicati nella stessa gioia? E perché tutto si risolve nella
lode del Figlio di Dio? La gioia degli angeli esprime il mistero del loro
essere in adorazione: adorano un Dio che è pieno di amore per gli uomini, non
per loro. L’amore di Dio per gli uomini l’ha indotto a farsi uomo come loro, di
modo che l’uomo potesse, nella sua umanità, essere come il Figlio di Dio. Ne
scaturisce una conseguenza: se l’amore che gli uomini si portano non parla di
questo amore di Dio lodato dagli angeli, allora vuol dire che non si è più
capaci di adorazione, cioè della gioia di vedere splendere l’amore di Dio per
tutti gli uomini, non si è più figli di Dio. Un amore che non allude
all’adorazione di Dio diventa tiranno.
Nella preghiera dopo la comunione
diciamo: “... fa’ che raggiungiamo anche noi la pienezza del tuo amore”. Non
preghiamo semplicemente per arrivare anche noi in paradiso, ma preghiamo perché
quell’amore costituisca l’orizzonte della nostra vita. La proclamazione dei
santi, come viene descritta nella prima lettura, non si riferisce ad un futuro
dopo la storia, ma esprime la verità della nostra storia, verità che non
passerà e riempirà tutto del suo splendore. Ma quello splendore costituisce già
il senso della nostra storia, anche se spesso i nostri occhi sono così velati
da non accorgercene più. Sarebbe il senso della preghiera: renderci accorti di
quella verità.
La lettura della prima lettera di
Giovanni parla di noi come dei ‘figli di Dio’, di cui il brano di vangelo, con
le beatitudini, mostra la dinamica profonda di vita. Dice Paolo in Rm 8,14: “tutti quelli che sono guidati dallo Spirito
di Dio, questi sono figli di Dio”. Se ci chiediamo verso dove ci guida lo
Spirito di Dio, non possiamo che rispondere: al Figlio di Dio, il quale ci ha
riconciliato con Dio (cf. 2Cor 5,18; Ef 4,32). La santità parla di quel mistero
di riconciliazione in atto nella storia, nella carne della propria vita, perché
risplenda per tutti la possibilità della visione dell’amore di Dio per l’uomo.
È caratteristico che l’antifona alla
comunione, riprendendo la serie delle otto beatitudini proclamate nel
vangelo, le riduca a tre: puri di cuore,
operatori di pace, perseguitati a causa della giustizia. La purità di cuore
capace di vedere Dio è quella che scaturisce dall’esperienza della compassione,
della misericordia, così tipica della santità di un cuore che consola e
conforta, che accoglie in benevolenza e solidarietà, che rimanda a tutti quello
che lui stesso riceve, cioè il perdono rigenerante del suo Signore, che viene
così conosciuto come il Salvatore, come l’Amore che ti sottrae all’abisso. La
purità però, intrisa di gioia, è solo quella che si traduce in un agire che
porta pace a tutti, che rende capaci i cuori di pace, che si fa dono di pace,
capace di far grazia di sé come il Figlio di Dio che fa dono di sé perché
l’amore di Dio risplenda. E la pace donata è a prova di persecuzione, perché
niente è più caro al cuore di colui che gli ha restituito la dignità di uomo e
di figlio di Dio. L’amore a prova di persecuzione procede dal fatto di sentire
la mia dignità sullo stesso piano della dignità di tutti. Dire che di questi è
il regno di Dio significa proclamare che il cuore dell’uomo non può saziarsi
che della verità di quell’amore che giunge sanante e potente, sebbene ora si
sia sempre nell’occasione di perderlo di vista, di impedirci di goderlo, di
impedire agli altri di farne esperienza. Eppure, così proclama tutta la
liturgia di oggi, quella verità è la verità del mondo come dei cuori. È la
verità di felicità per il cuore dell’uomo, che intravede nelle beatitudini
evangeliche le coordinate precise per non fallirla.
§*§*§*§*§*§*§*§*§*§
Quarto ciclo
Anno liturgico A (2010-2011)
Tempo Ordinario
32a Domenica
(6 novembre 2011)
_________________________________________________
Sap 6,12-16;
Sal 62; 1Ts 4,13-18; Mt 25,1-13
_________________________________________________
L’anno liturgico volge al termine e
in queste ultime tre domeniche vengono proclamate le tre parabole del cap. 25
di Matteo: la parabola delle dieci vergini, oggi, quelle dei talenti e del
giudizio finale nelle prossime domeniche. Tre immagini di Dio: quella dello
sposo, del padrone e del giudice, a fronte della vita dell’uomo che si gioca
nella profondità dei desideri, nell’esercizio di una responsabilità e nella
maturità di un frutto che diventa criterio di discernimento dell’autenticità di
una vita ben spesa.
L’atteggiamento di fondo più
eloquente per cogliere il senso profondo della parabola delle dieci vergini è
descritto dal salmo responsoriale: “Ha
sete di te l’anima mia, desidera te la mia carne … il tuo amore vale più della
vita”. La vita non è che la tensione al compimento di quello struggente
desiderio. Se la parabola invita alla vigilanza è perché l’anima può perdersi
dietro illusioni fascinose ma inconsistenti. La Sapienza, nella prima lettura,
proclama che facilmente è contemplata da chi l’ama. Il che significa che la
sapienza è connaturale al cuore dell’uomo, creato per godere di Dio. E se
l’uomo deve constatare che nel concreto non è per nulla facile trovare la
sapienza, a dispetto di quanto dice il libro della Sapienza, ciò significa che
il desiderio di lei, la vigilanza sul desiderio di lei è venuta meno. Questo la
parabola vuole scongiurare.
Il contesto della possibile
illusione è dato dal fatto che il Signore tarda, come già aveva mostrato Matteo
con la parabola dei servi che aspettano il ritorno del loro padrone (cfr. Mt
24,45-51). Il regno di Dio non è immediato né evidente. Non riusciamo più a
cogliere l’immagine straordinaria del padrone che si mette a servire i suoi
servi (cfr. Lc 12,37); è la descrizione di Dio a servizio dell’uomo, servizio
che in Gesù acquista tutto il suo splendore. La vita nostra non è che attesa
del Signore nel senso di poter godere insieme del suo servizio che costantemente invita tutti alla sua tavola. Noi non
siamo più capaci di vedere la vita in questo modo e così riusciamo anche a fare
il nostro dovere, ma senza aprirci al bene che fa splendere l’amore. La
parabola, con l’olio per le lampade, allude proprio a questo: un vivere la
comunione con il Signore, che ci ha amati e che continuamente ci cerca, nella
condivisione dei sentimenti Suoi verso i suoi figli, in solidarietà con
l’umanità di tutti. L’immagine delle nozze ne sottolinea l’intensità e
l’intimità. Quello che nel linguaggio quotidiano esprimiamo con: sto proprio
bene con te!
Suona strano che nella parabola si
parli di nozze senza parlare della sposa, perché sono nozze speciali, le nozze
del Figlio dell’Uomo: con Lui l’umanità è ormai unita a Dio. È l’evento più
gioioso della storia che sbocca nella condivisione della gioia di Dio
stabilmente goduta nel suo regno, segno di quell’amore che ci ha raggiunti e
lievitati dal di dentro. Per questo la vita non può essere che un uscire incontro a. Le vergini escono
incontro allo sposo, come Abramo esce dalla sua terra, come Israele esce
dall’Egitto. È la vocazione della vita da viversi come un continuo uscire da per andare incontro a. Ciò significa che la vita non la si possiede, ma
la si riceve, continuamente. Ciò comporta la fatica di separarsi da qualcosa
per poter godere l’avventura sacra della vita.
L’immagine dello sposo e delle
vergini allude al mistero di intimità tra Dio e l’uomo, unico motivo di storia
seria per l’anima alle prese con i suoi desideri. La divisione in due gruppi
delle vergini allude alla doppia possibilità concessa all’anima: a tale
incontro ci si può predisporre con intelligenza
o con stoltezza, in modo conveniente
o in modo sbadato. Matteo aveva già parlato di questa doppia possibilità a
proposito di chi costruisce la sua casa sulla roccia o sulla sabbia (cfr. Mt
7,24-27).
La parabola è raccontata come
immagine di ciò che avverrà alla fine ma per mostrare ciò che avviene
quotidianamente nella nostra storia terrena in rapporto al desiderio del cuore
di godere pienezza perché è nella storia terrena che noi giochiamo il desiderio
del cielo. Non per nulla la punta della parabola è proprio la vigilanza, vale a
dire quell’attenzione del cuore a far convergere sul vero obiettivo i desideri
del cuore perché possano trovare pienezza. L’ammonizione finale invita a stare
pronti, da intendersi secondo l’immagine di predisporre le lampade con l’olio,
immagine che corrisponde all’altro invito di Gesù a far splendere le nostre
opere buone. Non semplicemente però nel fare le opere buone, ma nel far sì che
le nostre opere facciano splendere l’amore di Dio per il mondo, che in Gesù,
Sposo, si svela in tutta la sua bellezza. L’olio corrisponde a quell’amore
fraterno, frutto dell’agire dello Spirito e nello Spirito, che san Paolo
descrive nell’inno alla carità in 1Cor 13. Potremmo fregiarci di altre
grandezze o altri vanti rispetto agli uomini, ma davanti a Dio non conterebbero
nulla e ci farebbero restare con le lampade spente, con il cuore vuoto.
Come molto significativamente spiega
Gregorio di Nissa che paragona le vergini stolte alla pratica virtuosa che non
porta i frutti dello Spirito enumerati dall’apostolo in Gal 5,22-23: « … nelle loro anime non c’era la luce,
frutto della virtù, e nel loro pensiero non c’era il lume dello Spirito.
Giustamente quindi la Scrittura le ha chiamate stolte: in loro la virtù si era
spenta prima ancora che giungesse lo Sposo, e per questo lo Sposo tenne fuori
le misere dalla camera nuziale celeste; fece bene a non prendere in
considerazione il loro impegno nella verginità, giacché non si faceva sentire
in loro l’attività dello Spirito».
In primo piano dunque non è
l’impegno di una vita buona, ma il frutto di quell’impegno, che corrisponde ai
desideri del cuore, vale a dire la solidarietà con lo Spirito del Signore, la
possibilità di intimità con il Signore che per primo ci ha amati e nel cui
Volto il cuore desidera fissare gli sguardi. Come dice s. Francesco di Assisi:
“Avere lo Spirito del Signore e la sua santa operazione”. Se l’attesa è questa,
tutta la vita sarà giocata nella vigilanza a che nulla e nessuno possa impedire
quello sguardo, a che nulla e nessuno possa separarci da quell’amore,
nonostante i sonni e gli addormentamenti che inevitabilmente ci sorprenderanno.
§*§*§*§*§*§*§*§*§*§
Quarto ciclo
Anno liturgico A (2010-2011)
Tempo Ordinario
33a Domenica
(13 novembre 2011)
_________________________________________________
Pr 31,10-13.19-20.30-31;
Sal 127; 1Ts 5,1-6; Mt 25,14-30
_________________________________________________
Tutte le parabole parlano di Dio o
del Signore Gesù più che dell’uomo. Anche nella parabola dei talenti, in primo
piano non è la risposta dei servi ma la liberalità del padrone. Il padrone
distribuisce i suoi beni per mettere gli uomini nella opportunità di giocare la
loro vita, concepita nei termini di un esercizio di responsabilità. La domanda
che ci fa accedere al mistero della parabola può essere la seguente: cosa è in
gioco nella nostra operosità? In che cosa siamo servi? Servi per che cosa?
Il padrone, che parte per un lungo
viaggio, è lo stesso Signore Gesù che, con la sua morte-risurrezione-ascensione
lascia i suoi discepoli e affida loro i suoi
beni, ciò che di più prezioso ha: i misteri del Regno. Il padrone è lo stesso
personaggio del buon Samaritano che accudisce l’uomo colpito dai briganti, è il
Maestro che serve, è il padrone che vuole far entrare a tutti i costi quanti
più può nella sala del banchetto nuziale, ecc. Il Signore Gesù non solo lascia
ai suoi la testimonianza più luminosa dell’amore di Dio per l’uomo, ma infonde
in loro la stessa capacità di vivere di quell’amore, come lui stesso è vissuto,
nella potenza dello Spirito che ci ha lasciato in eredità. In quell’ amore,
nella luce di quell’amore il discepolo gioca la sua vita.
I talenti affidati sono i doni che
scaturiscono dalla fede in Gesù. Trafficarli significa accoglierli come fonte
di vita, esaltarne la potenza di vita che racchiudono, tradurli in vita
concreta finché tutto di me sia conquistato. La potenza di vita si risolve nel
compimento dell’amore, di quell’amore che è tanto più vivo e sincero quanto
meno è consapevole della ricompensa, quanto più semplicemente è solidale con tutti.
E ancora, i talenti sono in funzione della gioia del cuore, nostro e degli
altri, nel senso che ogni volta che sulla base della fede si gioca la propria
vita la promessa di Dio si compie e Dio appare più manifestamente nel suo
splendore. È un movimento continuamente in evoluzione, mai concluso, che sempre
richiede la fedeltà di uno sguardo limpido e di un cuore sincero. Anche di
questa gioia siamo i servi, come di sé dice l’apostolo: “siamo invece i collaboratori della vostra gioia” (2Cor 1,24).
Collaborare alla gioia non significa ipotizzare un mondo idilliaco, che non
sarà mai, ma contribuire a renderlo più vivibile, luogo dove può ancora
risplendere la presenza del Signore, seppur nascosto.
I talenti sono dati diversamente a
ciascuno, perché ciascuno fa un’esperienza particolare di quell’amore sia nel
senso di sperimentarne la grandezza come dono ricevuto sia nel senso di
misurare con esso tutta la propria vita. Ma al Signore non fa dispiacere tale
diversità: lui stesso ne tiene conto. Difatti, quando il padrone loda i due
servi che hanno trafficato i loro talenti, non fa alcuna differenza quanto alla
ricompensa: è sempre la stessa, vale a dire ‘prendi parte alla gioia del tuo
padrone’. È la stessa liberalità, così mal compresa da noi uomini, che vuole dare
all’operaio dell’ultima ora quello che aveva promesso all’operaio della prima
ora. Noi proiettiamo i nostri desideri di giustizia su Dio invece di accogliere
il suo amore che dilata la giustizia fino alla condivisione piena della gioia
comune. Così all’uomo non resta che accogliere in pace la differenza perché ciò
che accomuna davanti a Dio è il fatto che ciascuno possa dare quello che ha,
cioè se stesso. E quando dà se stesso entra nella gioia del suo padrone,
condividendo con Lui e con tutti la stessa gioia, che è la gioia dell’amore.
La ‘responsabilità’ del dare se
stessi è esercitata di fronte a Colui che per noi ha dato se stesso, ma
l’esercizio di tale responsabilità è volto direttamente verso i fratelli per i
quali, come per noi, il Signore ha dato se stesso. Così, per cogliere la natura
del trafficare i talenti, bisogna rivolgersi alla parabola di domenica
prossima, quella sul giudizio finale, allorquando il Signore Gesù dirà a
ciascuno: ‘avevo fame e mi hai dato da
mangiare …’. La vita si gioca nel dare amore e scoprirsi figli dello stesso
Padre. Quando l’uomo teme di dare se stesso,
come nel caso del servo cattivo, in gioco non è semplicemente la sua pigrizia verso gli altri uomini, ma il
fallimento della vita perché dietro la sua pigrizia sta il cattivo giudizio sul
padrone, come ritenesse il padrone causa della sua paura perché troppo
esigente. Ma così ragionando non fa che proclamare che lui non ha mai creduto
alla generosità del suo padrone, non ha mai sperimentato l’amore del Signore e
soprattutto che rifiuta di vedere nell’agire del padrone l’amore per i suoi
servi. E così la vita non assurge mai a quel livello di dignità che la rende
desiderabile, feconda e fruttuosa. Il servo che ha nascosto il talento è colui
che non vuol seguire la dinamica della fede, ne svigorisce il potere e chiude
agli uomini la possibilità di cogliere, almeno per la parte di cui è
responsabile, lo splendore dell’amore di Dio. Non è più buono a nulla ed è malvagio perché impedisce a Dio di essere
conosciuto dai suoi figli!
La parabola suggerisce anche
qualcosa d’altro. Quando l’uomo, che ha ricevuto i misteri del Regno dal Signore Gesù, li sperimenta nell’amore agli
uomini suoi fratelli, diventa solidale con il Padre, il quale ci serve nel
Figlio che ha inviato per noi. Servendo, nell’amore, l’umanità di tutti, non
facciamo che esercitare quel servizio
divino che ridà dignità all’uomo e rende la vita davvero desiderabile.
L’insidia maggiore a questo sogno di Dio è la nostra paura, la paura che Dio
sia così esigente con noi da toglierci ogni illusione di riuscire a compierlo.
Non solo, ma la paura ci impedisce di condividere la gioia del Signore. Quando
Gesù, nell’ultima cena, affida ai discepoli i suoi segreti e li invita a
rimanere nel suo amore rivela che lo scopo del suo agire è la condivisione
della sua gioia (Cfr. Gv 15). E ci può essere gioia nel Signore senza l’amore
per i fratelli per i quali sono svelati i suoi segreti?
§*§*§*§*§*§*§*§*§*§
Quarto ciclo
Anno liturgico A (2010-2011)
Tempo Ordinario
34a Domenica
N.S. Gesù Cristo Re dell’universo
(20 novembre 2011)
_________________________________________________
Ez
34,11-12.15-17; Sal 22; 1Cor 15,20-26a.28; Mt 25,31-46
_________________________________________________
Più che una parabola, il brano di
vangelo di oggi è una descrizione profetica. La nostra mente, purtroppo, corre
verso il futuro immaginando la scena di ciò che avverrà invece che aprirsi alla
rivelazione che la descrizione di quella scena comporta.
La collocazione del brano nella
struttura della narrazione di Matteo fornisce una luce tutta speciale per la
sua comprensione. Alla parabola segue immediatamente il racconto della passione
di Gesù. Quel Gesù, di cui si comincia a raccontare la passione e la morte in
croce, è lo stesso Figlio dell’uomo che siederà glorioso a giudicare le genti.
Stessa cosa sottolinea la liturgia, che si introduce con la visione
dell’Agnello immolato e glorioso (cf. Ap
5,12; 1,6), canta la figura del buon pastore con il salmo 22 a commento del
brano di Ez 34, ripete con il canto al vangelo l’osanna della folla che vede la
venuta di Gesù a Gerusalemme come il presagio del Regno di Dio che viene (cf.
Mc 11,9-10).
Prima di tutto va colta una doppia
rivelazione. La prima, quella che dà il nome alla stessa festa odierna, si
riferisce al fatto che quel Gesù, che è vissuto, ha patito, è morto e risorto
per noi, è proprio il Figlio di Dio: il suo essere Dio risplenderà in tutta
evidenza, per tutti, per sempre e in ragione del fatto che è Dio per noi. La nostra immaginazione si
ingannerebbe però se interpretasse la gloria che circonda il Figlio dell’uomo
come la manifestazione della potenza divina, come se l’apparizione diretta di
Dio rendesse tutti ammutoliti e soggiogati.
La seconda rivelazione consiste nel
fatto che il re, che esprime la sua signoria con un giudizio inappellabile,
vuole svelare la ragione profonda del suo giudicare. Manifesterà il segreto sul
quale si regge il mondo e che ne costituisce la dignità assoluta: Dio ha voluto
farsi solidale con l’umanità a tal punto che chi tocca l’uomo tocca Dio, chi
onora l’uomo onora Dio, chi disprezza l’uomo disprezza Dio. Tale segreto
rifulge nella vita del Figlio dell’uomo, perché è Lui che appare davanti agli
occhi di Dio in ogni uomo. In un baleno apparirà tutta la verità dell’uomo e,
contemporaneamente, tutta la gloria di Dio, che è gloria di amore per noi.
Se poi tendiamo l’orecchio a
cogliere le risonanze dello straordinario invito del re: “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato
per voi fin dalla creazione del mondo”, possiamo percepirne le infinite
sfumature, tutte particolarmente eloquenti per il nostro cuore. Il tono con cui
la frase è pronunciata è il tono di tutte le Scritture: che il desiderio di Dio
si incontri con quello dell’uomo e si possa gioire insieme. L’atto del separare le pecore dalle capre riprende
l’atto della creazione come compiendola; il ‘Venite’ riprende il desiderio dello sposo e della sposa del Cantico
dei Cantici, l’anelito dello Spirito e della Sposa alla fine dell’Apocalisse,
l’invito di Gesù ai suoi discepoli; ‘benedetti
del Padre’ riprende la volontà di benevolenza di Dio per l’uomo di cui Gesù
è il Testimone per eccellenza, l’elezione di Israele come un mistero di
intimità condiviso e esteso a tutte le genti; ‘ricevete in eredità il regno’ equivale alla stessa eredità del
Figlio (ciò che Gesù vive ci appartiene e ci costituisce) e allo stesso Figlio
che è costituito nostra eredità; ‘preparato
per voi’ corrisponde alla gioia per la quale Dio si è dato premura, per la
quale ha fatto il nostro cuore; ‘fin
dalla creazione del mondo’: da sempre, non esiste altro segreto, altra
promessa che interessi seriamente il cuore dell’uomo.
Una tale pienezza non può derivare
dall’uomo. Per questo i buoni non se
ne sentono in diritto, si schermiscono, semplicemente sono stati solidali con i
loro fratelli: quando mai abbiamo fatto questo e quest’altro proprio a te?
Proprio questa indegnità rivelerà la purità di cuore alla quale è stata promessa
la visione di Dio, perché la visione di Dio è la visione di un amore per noi
sconfinato di cui nessuno può sentirsi degno. All’opposto, i malvagi, che
risponderanno con lo stesso interrogativo dei buoni al re, non intenderanno
schermirsi, ma giustificarsi e proprio questo rivela la non disponibilità
all’amore.
Il racconto evangelico vuole
introdurre al segreto di Dio per il mondo. Forse possiamo anche capirlo, ma
come siamo lontani dal viverne la potenza e lo splendore! Non esiste però altra norma del bene, altro
segreto di felicità: chi vive solidale con l’umanità di tutti è arrivato al
segreto di Dio, in attesa di goderne la sovrabbondanza di grazia perché quel
segreto inondi e sommerga ogni altro sentire, ogni altro giudizio, ogni altro
pensiero, in noi stessi e in tutti, nel mondo intero.
Aggiungo anche una suggestione
particolarissima di Origene. L’immagine delle pecore richiama il mistero della
passione di Gesù che come pecora muta di
fronte ai suoi tosatori (Is 53,7) manifesta il mistero della sua
mansuetudine che lui stesso rivela: “Venite
a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il
mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore”
(Mt 11,28-29). La bontà consiste nella partecipazione alla sua mansuetudine
tanto da restare solidali con la debolezza degli uomini e in questa solidarietà
ciò che Dio vede è la mansuetudine del suo Figlio. Un versetto di un salmo
canta: “Beato l'uomo che ha cura del
debole, nel giorno della sventura il Signore lo libera”, che l’antica
versione greca rende con: “Beato colui
che ha intelligenza del povero e del misero …”. Il debole non è
semplicemente il fratello bisognoso, straniero, malato, carcerato, ma è proprio
il Figlio dell'uomo, che ha
sacrificato la sua vita per invitare tutti e ciascuno alla comunione con lui,
che non abbandona pur quando è abbandonato, che non si rifiuta pur quando è
rifiutato.
Così la parabola ha a che fare con
la rivelazione della dignità degli atti umani, definiti in rapporto alla prossimità
in umanità, di cui l’uomo non coglie mai veramente la portata infinita, perché
non può mai cogliere fino in fondo la profondità e l’assolutezza del mistero
dell’amore di Dio che si confonde con i suoi figli, mistero che porta il
sigillo del Figlio dell’uomo, morto e risorto per noi.