Quarto ciclo

Anno liturgico A (2010-2011)

Tempo di Avvento

 

1a Domenica

(28 novembre 2010)

 

_________________________________________________

Is 2,1-5;  Sal 121;  Rm 13,11-14a;  Mt 24,37-44

_________________________________________________

 

La liturgia, in queste quattro settimane che precedono il Natale, ruota attorno all’attesa del Salvatore nelle sue tre venute: la venuta nella carne del Figlio di Dio fatto uomo a Betlemme, la venuta del Cristo alla fine dei tempi come giudice glorioso e la venuta mistica del Signore nel cuore di ciascuno che lo accoglie.

La costatazione che la liturgia sottolinea nella prima domenica di avvento è la seguente: il Signore tarda. La vita allora come va giocata? Nella sua attesa. Ecco il senso della vigilanza a cui il vangelo ci richiama fortemente. Si tratta di cogliere la natura di detta vigilanza, di declinarla nella nostra vita per non fallire lo scopo della vita.

L’avvertimento di Gesù segue l’annuncio degli eventi drammatici della fine quando tornerà il Figlio dell’uomo e giudicherà il mondo. L’evangelista Matteo ha già vissuto il dramma della fine con l’assedio e la caduta di Gerusalemme del 70 d.C. e sa che però non è ancora la fine. Il tempo della storia che continua, nel dramma, ha per i credenti un unico scopo: dare testimonianza a Gesù, permettere alla salvezza operata da Gesù, come dice il canto al vangelo: “Mostraci, Signore, la tua misericordia e donaci la tua salvezza”, di manifestare la sua potenza nel mondo fino a che tutti se ne lascino conquistare. È ciò che proclama la visione escatologica del profeta Isaia con l’invito per tutti i popoli: “Venite, saliamo sul monte del Signore ... venite, camminiamo nella luce del Signore”. Quella tensione escatologica non costituisce tanto il finale della storia, ma la dinamica nascosta della storia, quella che fornisce il criterio di discernimento del valore dell’agire in questo mondo.

L’avvertimento di Gesù ai suoi discepoli: “Vegliate dunque” è in funzione di quella tensione escatologica, come se dicesse: non fate come al tempo di Noè quando, nonostante fosse avvertita, la gente non si avvide di nulla; scopritela, avvertitela, viveteci dentro, fatevene la ragione del vivere. Tanto che il contenuto della vigilanza verrà espresso con le tre parabole successive delle dieci vergini, dei talenti e del giudizio finale, indicando così dove far convergere i propri desideri, come giocare la propria responsabilità e in che cosa vivere il valore della vita. E quando aggiunge: ‘tenetevi pronti’, l’allusione evidente, come del resto suggeriscono le parabole del padrone che torna dalle nozze, è al servizio vicendevole perché tutti possano vedere lo splendore del regno.

In questo modo il tempo della nostra vita, il tempo dell’attesa, si apre al sogno che la colletta descrive: “O Dio, Padre misericordioso, che per riunire i popoli nel tuo regno hai inviato il tuo Figlio unigenito, maestro di verità e fonte di riconciliazione, risveglia in noi uno spirito vigilante, perché camminiamo sulle tue vie di libertà e di amore fino a contemplarti nell’eterna gloria”. Ecco il sogno, per noi stessi e per tutti: avere la possibilità concreta di vivere nella benevolenza senza antagonisti né avversari né tanto meno nemici. È la realizzazione della vocazione dell’uomo come essere per la comunione. Chi può garantire tale possibilità è quel Gesù, di cui aspettiamo il Natale.

La vigilanza a cui ci invita la liturgia è così finalizzata a uno scopo preciso: essere in condizione di realizzare la vocazione all’umanità che il Signore Gesù vive nel suo splendore originario. Per questo san Paolo dichiara: “Rivestitevi invece del Signore Gesù Cristo”, per vivere la storia nella benevolenza, senza paure, tanto da essere addirittura custoditi da un’armatura di luce (“indossiamo le armi della luce”). Luce, che consiste nell’assumere il principio della riconciliazione come unico fondamento dell’agire. Si esercita vigilanza nello spirito quando ci si sforza di radicarci sempre più autenticamente, sempre più profondamente, sempre più concretamente, in quella riconciliazione di cui Dio ci ha fatto dono, in Cristo, in modo da estenderla a tutto in noi e a tutti dovunque. La vigilanza ha senso nello stare fermi in quell’unico punto: se Dio ha fatto grazia di Sé a noi, allora anche noi possiamo fare grazia di noi a tutti. E così il mondo tornerà a risplendere, perché ognuno potrà sperimentare quello che dice il salmo: “il Signore si confida con chi lo teme: gli fa conoscere la sua alleanza” (Sal 24,14), da intendere, come del resto suggerisce lo stesso testo ebraico del versetto: il segreto (o l’intimità) del Signore, cioè la sua offerta di benevolenza nel dono di Sé che ci fa, vale per chi ne fa il punto fermo della sua vita e ha posto tutta l’attesa del suo cuore nel condividerne la gioia con tutti.

Posso ancora aggiungere che nel mistero della fede, il rivestirsi di Cristo diventa principio e radice di una nuova umanità, che porta, sì, le ferite del male, ma che dal male risulta imprendibile, cioè che non si fa più portar via la libertà e l'amore ottenuti. Allora diventa motivo di preghiera pressante, tipica dell'Avvento, l'invocazione ‘sorga questo Giorno, finalmente’. Si possa finalmente rivestire il nostro cuore di quest’armatura di luce, per camminare stabilmente sulla via della libertà e dell'amore, di cui la venuta di Cristo nella carne è il segno di speranza per l'umanità e la sua venuta gloriosa alla fine dei tempi è il sigillo alla nostra storia trasformata ormai in regno di Dio.

 

§*§*§*§*§*§*§*§*§*§

 

Quarto ciclo

Anno liturgico A (2010-2011)

Tempo di Avvento

 

2a Domenica

(5 dicembre 2010)

 

_________________________________________________

Is 11,1-10;  Sal 71;  Rm 15,4-9;  Mt 3,1-12

_________________________________________________

 

Il grido del Battista risuona forte lungo tutto l’Avvento: “Convertitevi ... Fate un frutto degno della conversione”. A differenza di Luca, che colloca gli eventi nella storia pagana, il 15° anno del regno di Tiberio, cioè l’anno 28/29 d.C., Matteo si premura invece di coglierne il significato nella storia sacra e usa l’espressione ‘in quei giorni’, che nel linguaggio dell’Antico Testamento non si riferisce al passato ma al futuro, vale a dire: siamo davanti agli ultimi tempi! In effetti, il Battista è narrato in funzione di testimonianza per ‘colui che viene dopo’, ‘il più grande’ e il racconto punta su Gesù, il Messia, di cui il Battista indicherà la presenza nel mondo. Il particolare che rivela la visione dell’evangelista è dato dal fatto che qui Matteo presenta la predicazione del Battista per il battesimo, semplicemente, senza aggiungere ‘per la remissione dei peccati’, espressione che invece riporterà nelle parole di Gesù all’istituzione dell’eucaristia in 26,28. Il Battista conferisce un battesimo per la conversione, mentre Gesù solo realizzerà la promessa della remissione dei peccati.

La liturgia si premura di illustrare appunto il mistero della conversione, che si risolve nel godere la grazia tipica del Messia, cioè quella di gustare il regno di Dio ormai venuto. In questo caso, conversione non indica tanto cambiamento di mentalità, ma ritorno incondizionato al Dio dell’alleanza, che cancella i peccati e introduce nella comunione di vita con lui.

Lo annuncia splendidamente il brano di Isaia con la visione di una pacificazione universale e con la promessa: “Non agiranno più iniquamente ... perché la conoscenza del Signore riempirà la terra come le acque ricoprono il mare” (Is 11,9). Il salmo responsoriale 71 lo conferma e descrive la giustizia di Dio operante tra gli uomini tanto che tutti benediranno il Signore perché la sua gloria riempie la terra. Quando il profeta Geremia descriverà il compimento della nuova alleanza, non farà che indicare la stessa cosa: “Allora io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo. Non dovranno più istruirsi l’un l’altro, dicendo: “Conoscete il Signore”, perché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande – oracolo del Signore –, poiché io perdonerò la loro iniquità e non ricorderò più il loro peccato” (Ger 31,33-34). Tutti mi conosceranno, perché tutti potranno accogliere il perdono del Signore e si ritroveranno uniti nella misericordia del Signore che tutti accomuna.

La promessa di bene per gli uomini da parte di Dio si realizza così. La conversione procede dal fatto che il nostro cuore custodisce, anche se come sepolta, la coscienza di un’alleanza che gli è stata offerta da Dio e che Lui non si è mai rimangiata, la coscienza di una felicità possibile, forse persa, ma sempre desiderabile e, nella speranza, ancora vivibile. Non è però scontata e per questo la chiesa fa pregare: “Dio grande e misericordioso, prepara con la tua potenza il nostro cuore a incontrare il Cristo che viene” (colletta del mercoledì della prima settimana di avvento). Ma fondamentalmente la conversione è un credere ancora possibile per il nostro cuore la felicità promessa da Dio, che in Gesù si fa accessibile e godibile.

E la felicità, di cui il cuore custodisce l’anelito, non può provenire che da quella nuova umanità fatta germogliare da Gesù in giustizia-mitezza-pace, di cui parla la colletta di oggi: “Dio dei viventi, suscita in noi il desiderio di una vera conversione, perché rinnovati dal tuo Santo Spirito sappiamo attuare in ogni rapporto umano la giustizia, la mitezza e la pace, che l’incarnazione del tuo Verbo ha fatto germogliare sulla nostra terra”. Giustizia nel senso di tornare a sentirci non solo oggetto di amore, ma soggetti degni di amore; mitezza nel senso di non lasciarsi più deviare da nulla rispetto allo scopo da perseguire, che è la fedeltà al bene comunque; pace nel senso di quel regno di Dio giunto a noi, cercato sopra ogni cosa, che ci ricolloca nella giustizia e ci induce alla mitezza.

Mi raccontava una sorella in missione in Cameroun la meraviglia provata davanti alle parole di un anziano abbandonato che era andata a visitare e curare nella sua capanna: ‘oggi Dio è venuto a visitarmi’. È la sensazione della vicinanza del regno di Dio a consolare i cuori. Così, l’invito di Giovanni Battista non si limita a un sentimento interiore: ‘convertitevi’, ma allude al rinnovamento dell’agire: ‘fate un frutto degno della conversione’. Come a dire: ritornate a fidarvi del vostro Dio in modo da produrre un sentire e un agire che diano testimonianza della verità della presenza di Dio in voi.

Il cammino di conversione, che oscilla continuamente tra le due sponde della pazienza e della consolazione, tende proprio a ridarci un nuovo modo di percepirci e di percepire, come proclama Paolo nella lettera ai Romani: “...vi conceda di avere gli uni verso gli altri gli stessi sentimenti, sull’esempio di Cristo Gesù”. Sono i sentimenti collegati a giustizia-mitezza-pace, che, se da una parte esprimono l’esperienza dell’incontro col Signore, dall’altra, strutturano lo spazio interiore per l’incontro con gli uomini. Sarà il dono per l’umanità del Natale di Gesù.

 

§*§*§*§*§*§*§*§*§*§

 

Quarto ciclo

Anno liturgico A (2010-2011)

Solennità e feste

 

Immacolata Concezione

(8 dicembre 2010)

 

_________________________________________________

Gn 3,9-15.20;  Sal 97;  Ef 1,3-6.11-12;  Lc 1,26-38

_________________________________________________

 

La benedizione che Paolo implora ed annuncia nell’esordio della sua lettera agli Efesini ha ricoperto e intriso in modo singolare la Tutta Santa, la Vergine Maria. In lei quella benedizione si fa così concreta che prende addirittura corpo: da lei nasce il Salvatore, che costituisce la Benedizione di Dio sugli uomini, benedizione oltre la quale non c’è nulla di prezioso da desiderare. La tradizione venera la Vergine come “la madre del creatore di tutte le cose, colei che ha divinizzato il genere umano e ha divinizzato la terra, che ha fatto di Dio il figlio dell’uomo e ha reso gli uomini figli di Dio”.

La benedizione ha raggiunto l’umanità della Vergine in modo così singolare da renderla tanto ‘umanamente piena’ da essere degna dimora per il Figlio, come proclama la colletta: “O Padre, che nell’Immacolata Concezione della Vergine hai preparato una degna dimora per il tuo Figlio, e in previsione della morte di lui l’hai preservata da ogni macchia di peccato, concedi anche a noi, per sua intercessione, di venire incontro a te in santità e purezza di spirito”. La sua umanità, in tutte le sue fibre, è andata incontro al Signore in santità e purezza di spirito ed è diventata degna dimora del Figlio. Della sua umanità siamo fatti anche noi, condividiamo con il suo Figlio la stessa umanità perché anche noi, come è nel disegno divino della creazione fin dall’inizio, possiamo tornare a far splendere e a far godere nel mondo la stessa benedizione, la dimora di Dio in mezzo a noi.

A differenza di noi, la Vergine non è caduta nell’inganno che tormenta i figli degli uomini, inganno che presenta il brano della Genesi. Anche lei è stata duramente provata nella sua umanità: con l’offerta della sua umanità ha permesso all’amore di Dio, nel suo Figlio, di svelarsi al mondo; ha conosciuto la sofferenza dell’amore con il suo Figlio e ora accompagna ogni sofferenza umana perché venga aperta all’esperienza dell’amore. In lei la sofferenza non ha generato ribellione, il dramma non ha velato la fede, il desiderio non ha compromesso l’amore, l’agire non ha macchiato la coscienza. E questo perché l’unico rimedio all’inganno è “andare incontro al Signore”, così tipico dell’anima della Vergine.

L’uomo, invece, si dibatte nell’inganno: la nostra individualità ce ne certifica la compromissione con la ribellione e la gelosia, mentre la sofferenza della nostra umanità svela faticosamente le tracce della nostalgia di Dio. Dio proclama l’inimicizia tra satana e la donna, simbolo contemporaneamente di Maria e dell’umanità: la possibilità dell’inganno è sempre reale, ma quell’inimicizia dichiarata da Dio salvaguarda la nostra umanità, che non può trovare beatitudine nell’inganno e quindi non potrà compiersi stando dalla parte dell’avversario. Perciò, quando l’uomo cede all’inganno, trasgredendo la parola del Signore rivolta al suo cuore, si perde, va in frantumi dentro e non può vivere che in contraddizione.

Se però l’uomo sa ascoltare l’invito di Dio: “dove sei?”, che continuamente bussa al suo cuore, superando l’inganno, allora ritorna all’albero della vita, il Cristo Signore, per vivere nella sua umanità la dimora di Dio, fonte di beatitudine. La Vergine è proprio colei che di quella dimora di Dio ha fatto tutto lo scopo della sua vita, tutto il desiderio della sua umanità. L’esperienza di cui è stata gratificata può diventare, nel suo Figlio, accessibile a tutti e a ciascuno.

Nel racconto del peccato narrato dal libro della Genesi si può osservare come le varie creature si pongano nei confronti di Dio. Quando Dio chiede ad Adamo se abbia trasgredito il suo comando, lui risponde addossando la colpa ad Eva. Quando Dio si rivolge ad Eva, lei risponde addossando la colpa al serpente. Ma quando Dio è davanti al serpente, il serpente tace. Adamo ed Eva rispondono a Dio, pur giustificandosi, perché hanno nostalgia di Dio. Il serpente sembra non avere alcuna nostalgia: non semplicemente ha peccato, ma non è proprio d’accordo sul fatto che Dio conceda i suoi favori agli uomini e resta quindi avversario di Dio. È avversario di Dio chi è geloso dei beni che Lui riversa sulle sue creature e perciò resta astioso, astio di cui facciamo le spese noi continuamente. Chi è capace di far risplendere i doni di Dio solo godendo dell’immenso amore di Dio per gli uomini è pieno di grazia. E da tale pienezza di grazia non può non derivare il Salvatore, che è la rivelazione dell’infinito amore di Dio per gli uomini. Credo voglia dire anche questo la pienezza di grazia della Vergine, dalla quale nasce Gesù, il Salvatore. Ed è per questo che la tradizione saluta la Vergine come la gioia dell’universo.

Lei proclama: “Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola”. Come a dire: Dio solo sia benedetto, si realizzi la sua promessa, si manifesti in me, finalmente e compiutamente, il suo Bene all’umanità! Proclamandosi serva del Signore esprime il suo desiderio della dimora di Dio in mezzo agli uomini, di cui tutto il suo essere è testimonianza e intercessione per l’umanità intera. Ma esprime anche la preghiera di ogni credente, di ogni discepolo del Signore: avvenga per me secondo quello che hai stabilito fin dall’eternità, si compia in me quello che dalla fondazione del mondo hai promesso all’umanità, si veda realizzato in me quel Regno che nel tuo Figlio hai fatto venire.

La Vergine Immacolata è anche chiamata Signora nostra. Un passo di un’omelia di Gregorio Palamas ne spiega la portata: “ ... signora non solo in quanto libera dalla servitù e partecipe della divina signoria, ma anche perché fonte e radice della libertà del genere umano, soprattutto dopo il parto, ineffabile e beato” (Omelia 14). Così, se l’uomo vuole accedere al regno della libertà, non ha che da guardare a questa sua sorella, al suo mistero, alla sua storia, alle sue emozioni, ai suoi dolori, al suo amore perché in lei ritrova tutto il mistero dell’amore di Dio per l’uomo. E non si può vivere l’amore senza libertà. Il suo avere il Signore con lei è motivo di fiducia per noi di trovarlo, di essere accompagnati a lui, di stare in sua compagnia. Il Signore è con te diventa, nella nostra preghiera: “tu, che hai il Signore, supplicalo perché sia anche con noi, ora e sempre!”.

 

§*§*§*§*§*§*§*§*§*§

 

Quarto ciclo

Anno liturgico A (2010-2011)

Tempo di Avvento

 

3a Domenica

(12 dicembre 2010)

 

_________________________________________________

Is 35,1-6a.8a.10;  Sal 146;  Gc 5,7-10;  Mt 11,2-11

_________________________________________________

 

Insieme all’invito a rallegrarci per la vicinanza del Natale (“Rallegratevi sempre nel Signore: ve lo ripeto, rallegratevi, il Signore è vicino” – antifona di ingresso) la liturgia oggi ci fa prendere coscienza del dubbio che può assillarci: “Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?”. È la domanda di una vita. Di Giovanni Battista, anzitutto. Tutta la sua vita era consistita nel predisporre la via a un Altro: ‘bisogna che lui cresca e io diminuisca’. Accoglierne il mistero non significa però saperne in anticipo l'esito. Significa, più semplicemente, ma più sinceramente, stare disposto ad accogliere comunque tutta l'esperienza umana e spirituale che quel mistero comporta nel suo dispiegamento. Così Giovanni, in carcere, alla fine della vita, riformula la stessa domanda con un risvolto angosciante: mi sono forse illuso? È lui quel Tu che tutti attendono e che io sono stato chiamato a svelare al mondo?

Gesù risponde in due tempi alla domanda del Battista: in un primo tempo, direttamente a lui e in un secondo tempo, parlando di lui alla gente. La risposta di Gesù è intessuta di citazioni del profeta Isaia: 29,18; 35,5; 26,19; 61,1. L’aspetto singolare della sua risposta è che l’unica espressione non desunta dalle Scritture è l’ultima: ‘beato è colui che non trova in me motivo di scandalo’. Nel vangelo di Matteo, in altre due occasioni si parla di scandalo a proposito di Gesù: in 13,57, allorché i compatrioti di Nazaret fanno resistenza all’insegnamento di Gesù e in 26,31, allorché i discepoli restano scandalizzati nella notte della cattura di Gesù. Sta di fatto che il Messia si manifesta diversamente da quanto ci si aspetta. E questo vale per i profeti, per i discepoli di Gesù e per noi tutti. Lo scandalo del Messia povero e disarmato non finisce mai nella nostra vita.

Se Giovanni sembra avanzare dei dubbi su Gesù, Gesù però non ha dubbi su Giovanni Battista. Ecco il secondo tempo della sua risposta. Parla alla gente in termini molto elogiativi di Giovanni: “Egli è colui del quale sta scritto: Ecco, dinanzi a te io mando il mio messaggero, davanti a te egli preparerà la tua via”. Nella tradizione ebraica la composizione del passo di Malachia 3,1, riferito a Elia, con l’altro passo di Esodo 23,20, riferito al Messia, ha fatto pensare al ritorno di Elia come preparazione alla venuta del Messia. Gesù si riferisce proprio a quella tradizione e, sebbene non risponda a Giovanni con il dirgli: ‘sì, sono io quello che deve venire’, proclama: ‘tu sei l’Elia che deve venire’. Se Giovanni è il precursore del Messia, allora non ci saranno dubbi a proposito di Gesù come Messia. In tal modo, Gesù non risponde solo alla domanda del Battista, ma anche a quella di tutti i suoi discepoli.

L’affermazione: ‘beato è colui che non trova in me motivo di scandalo’ è la firma apposta da Gesù in calce alla vita ed alla persona del Battista. Effettivamente, conferma Gesù, Giovanni Battista è il più grande fra i nati di donna. Commenta Ilario di Poitiers: “Il Signore manifesta tutta la gloria di Giovani dicendo che lui era più che un profeta perché a lui solo fu permesso sia di annunciare che di vedere il Cristo. E come si può pensare che non conoscesse il Cristo uno che è stato inviato con la potenza di un angelo a preparare la sua venuta e che tra i nati da donna è il più grande profeta che sia mai sorto? Però con questa eccezione che colui che è più piccolo di lui e cioè colui che viene interrogato, al quale non si crede, al quale neppure le sue opere danno credito, questi è più grande nel regno dei cieli”.

Il volto di Dio lo vedono coloro che non si scandalizzano della sua piccolezza quando, ormai sfigurato sulla croce, allorché nemmeno d'uomo aveva più l'aspetto, accolgono tutto il mistero di Dio nel suo amore agli uomini, vedono cioè la sua scelta di essere Dio per gli uomini, non di sembrarlo soltanto.

La domanda di Giovanni Battista non è che l'eco dell'angoscia di Gesù al Gethsemani e al Calvario dove la sua piccolezza raggiunge la punta massima, ma dove si rivela in tutto il suo splendore la grandezza di Dio. E la domanda del Battista è anche la nostra domanda di credenti che sempre ci troviamo confrontati, lungo il percorso della nostra vita, con il mistero della scoperta del vero Volto di Dio. L'esito dell'incontro con Dio non è mai scontato. L'esperienza che siamo invitati continuamente a fare va sempre al di là di quello che ci immaginiamo o ci aspettiamo: in gioco è l'incontro con il Dio Vivente e non con un simulacro di Dio che risulterebbe soltanto la proiezione delle nostre pretese. Ma tutto questo esige l'entrata nella piccolezza di Dio a cui risponde, specularmente, la piccolezza dell'uomo che trova vita, se la perde, che vive se è capace di morire, che si ritrova libero se rinnega se stesso, ecc., al seguito ‘del più piccolo nel Regno dei Cieli’, cioè Gesù.

Un’ultima osservazione. L'immagine di Dio che accarezziamo spesso risponde al desiderio di vendetta: i cattivi devono sparire, i buoni devono prevalere. Evidentemente, in nome di una giustizia divina, ma pensata in termini troppo mondani. Le stesse espressioni profetiche sembrano alludervi: “Ecco il vostro Dio, giunge la vendetta, la ricompensa divina. Egli viene a salvarvi” (Is 35,4). Ebbene, qual è la vendetta di Dio? “Oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore. Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia”: sarà l’annuncio del Natale.

 

§*§*§*§*§*§*§*§*§*§

 

Quarto ciclo

Anno liturgico A (2010-2011)

Tempo di Avvento

 

4a Domenica

(19 dicembre 2010)

 

_________________________________________________

Is 7,10-14;  Sal 23;  Rm 1,1-7;  Mt 1,18-24

_________________________________________________

 

La liturgia di oggi proclama che l’Emmanuele, il Dio-con-noi, è il segno di Dio per noi. L’aspetto misterioso dell’evento è descritto con la profezia di Isaia: “Stillate dall’alto, o cieli, la vostra rugiada e dalle nubi scenda a noi il Giusto; si apra la terra e germogli il Salvatore” (Is 45,8), ripresa dall’antifona di ingresso. Il testo è riportato secondo la versione della Volgata che attualizza messianicamente il testo ebraico più generico che parla solo di giustizia e di salvezza. L’allusione più diretta è all’imminente nascita di Gesù dal grembo della Vergine.

Ma la colletta allarga questa allusione anche alla terra del nostro cuore invitata a far nascere il Verbo della vita:   “… concedi anche a noi di accoglierlo e generarlo [= Verbo della vita] nello spirito, con l’ascolto della tua parola, nell’obbedienza della fede”. Dio, non semplicemente viene vicino a noi, ma germoglia dalla nostra umanità. Ciò significa che Dio è più intimo a noi di noi stessi; che Dio costituisce il senso della nostra stessa umanità. Viene dal cielo e germoglia dalla terra, come segno dell’azione di salvezza di Dio per l’uomo: “Pertanto il Signore stesso vi darà un segno. Ecco: la vergine concepirà e partorirà un figlio, che chiamerà Emmanuele”. All’uomo sarebbe stato impossibile perfino immaginare un segno di tal genere, benché quel segno compia finalmente i suoi desideri più profondi. Dio sopravanza sempre la sua creatura, ma nella linea del desiderio della sua creatura stessa.

La profezia di Isaia riguardava la continuità della discendenza dinastica davidica nel momento in cui sembrava dovesse perire. Nell’attacco a Gerusalemme da parte della coalizione siro-efraimita, agli inizi dell’VIII secolo a.C., il re Acaz si vede costretto ad appellarsi al potente impero assiro, ma gran parte dei notabili lo hanno abbandonato. Tra l’altro, Acaz aveva già sacrificato un figlio per propiziarsi futuro e prosperità, contravvenendo alla legge del Signore. Isaia richiama la fedeltà della promessa di Dio e annuncia la nascita di un figlio, l’erede al trono, invitando Acaz alla fiducia. Già la tradizione ebraica, almeno fin dal II sec. a.C., in quella nascita eccezionale, ancora attesa, ha visto la nascita verginale del Messia. L’antica tradizione cristiana ha applicato l’oracolo a Maria, la madre di Gesù, erede per eccellenza della dinastia davidica.

Il nome Emmanuele, come nome di persona, non è attestato altrove nell’A.T. e porta la promessa di salvezza. L’aspetto interessante è la ripresa di questo nome nel racconto evangelico di Matteo a spiegazione del nome di Gesù che verrà imposto al bambino secondo l’annuncio dell’angelo. L’equivalenza che ne deriva è di questo tipo: il Dio-con-noi, l’Emmanuele è il nostro Salvatore, Gesù, la salvezza consistendo nel poter godere nuovamente nella e della comunione con il proprio Dio. Il perdono dei peccati allude alla piena godibilità della comunione con il proprio Dio, nella partecipazione alla santità di Dio, che è splendore di amore per gli uomini.

Nella serie delle testimonianze a favore del Figlio di Dio che si fa uomo secondo la liturgia dell’avvento, Giuseppe è l’ultimo testimone e viene chiamato in causa proprio in rapporto alla profezia di Isaia. Paolo, nel saluto iniziale ai Romani, proclama: “… il vangelo di Dio, che egli aveva promesso per mezzo dei suoi profeti nelle sacre Scritture e che riguarda il Figlio suo, nato dal seme di Davide secondo la carne”. Quel Figlio è la buona novella di cui tutte le Scritture raccontano la promessa e si fa uomo nella linea della discendenza davidica, discendenza che Giuseppe assicura. Quando l’angelo gli appare, chiama Giuseppe ‘figlio di Davide’. Naturalmente, Giuseppe non ha più nulla della gloria mondana di una discendenza regale, e tuttavia assicura a Gesù la verità del titolo ‘Figlio di Davide’, la verità della sua regalità.

Di Giuseppe i vangeli non riportano alcuna parola; annotano solo i suoi pensieri, le sue decisioni, la sua obbedienza adorante e la sua premura per la sua sposa e il suo bambino. Entra nella gloria di Dio, che è splendore di amore per l’uomo, nella consapevolezza soltanto di permettere al Signore di realizzare le sue promesse d’amore all’umanità.

Giuseppe accoglie: la grazia viene dall’alto. Ma Giuseppe acconsente nella sua umanità: dalla terra germoglia il Salvatore. Così si manifesta la gloria del Dio-con-noi, che, mentre rivela la grandezza del suo amore per l’uomo, rende l’uomo capace di operare in quell’amore, tanto da indurre tutti a vedere la vicinanza di Dio. La sua vocazione può essere definita come l’accettazione del compito affidatogli in rapporto al disegno di Dio di rivelare il Suo Amore agli uomini. E la sua obbedienza si rivela nel fatto di accettare di svolgere una parte semplicemente a favore della sua sposa, dentro un disegno più grande di lui, che imparerà a decifrare lungo tutta la sua vita senza mai essere in primo piano. Così la vocazione di ciascuno di noi, nella fede, non è che quella di acconsentire a che il disegno di amore di Dio per gli uomini ci raggiunga e si manifesti e ci abiliti a diventare dei segni nell’unico Segno che rivela compiutamente il volto d’amore di Dio, Gesù Cristo, Salvatore.

 

§*§*§*§*§*§*§*§*§*§

 

Quarto ciclo

Anno liturgico A (2010-2011)

Tempo di Natale

 

Natale del Signore

(25 dicembre 2010)

 

_________________________________________________

Messa vespertina nella vigilia: Is 62,1-5;  Sal 88;  At 13,16-17.22-25;  Mt 1,1-25

Messa della notte:                   Is 9,1-6;  Sal 95;  Tt 2,11-14;  Lc 2,1-14

Messa dell’aurora:                   Is 62,11-12;  Sal 96;  Tt 3,4-7;  Lc 2,15-20

Messa del giorno:                    Is 52,7-10;  Sal 97;  Eb 1,1-6;  Gv 1,1-18

_________________________________________________

 

Se consideriamo lo sviluppo della liturgia natalizia nei quattro formulari delle Messe, il mistero del Natale appare in tutto il suo splendore. Una tensione unica percorre la liturgia, sottolineata dalle collette: Dio si fa uomo perché l’uomo diventi ‘dio’. Ciò significa che la natura dell’uomo è strutturata sulla vita divina e la liturgia del natale del Signore appunta lo sguardo sul mistero da dentro tale prospettiva.

L’evento della nascita di Gesù, a Betlemme, celebrato nella messa della notte, con la successiva adorazione dei pastori, commemorato nella messa dell’aurora, risulta incastonato dai brani della genealogia di Gesù (messa vespertina della vigilia) e dal prologo di Giovanni (messa del giorno).

È come se la liturgia insegnasse ad affinare gli sguardi. La genealogia di Matteo dice che Gesù, discendente di Abramo, è inserito nella storia sacra del popolo d’Israele. Lui realizza le profezie, Lui compie le promesse, Lui è il Messia. Nella genealogia di Luca, invece, Gesù non risale ad Abramo, ma discende da Dio, assumendo Adamo: viene svelato il mistero della sua identità di Figlio di Dio, il mistero dell’amore di Dio nel quale prende origine la creazione dell’uomo e la storia di amore di Dio con l’umanità.

Con il prologo di Giovanni Gesù è considerato nella dimensione trinitaria, alle sorgenti della creazione come il Figlio, sul quale e per mezzo del quale tutto è stato creato, sulla base ormai della testimonianza apostolica di aver visto lo splendore della gloria di Dio in quel Figlio, nato, vissuto, morto e risorto per noi: “E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre, pieno di grazia e di verità”.

Quando nella notte si celebra l’evento della nascita a Betlemme è da dentro questa prospettiva che gli occhi guardano. Forse noi non ci rendiamo conto della immensa sproporzione tra la povertà del segno (un bambino nella mangiatoia) e lo splendore della visione con la letizia incontenibile che riempie i cuori. Compaiono gli angeli, il Bambino è riconosciuto e adorato, echeggiano canti celesti, ma la povertà è totale, il rifiuto incombente, la persecuzione nell'aria, nessuno si appressa se non i pastori, gli ultimi della società. I pittori di icone della Natività lo hanno mostrato assai bene: la greppia assomiglia alla tomba, le fasce del bambino assomigliano alle fasce mortuarie. E poi, non ci sono luci e angeli attorno alla greppia o alla grotta; questi appaiono ai pastori che vegliano le loro greggi, annunciano il loro messaggio e spariscono. Alla grotta, davanti al Bambino, vale solo il racconto dei pastori, e come loro hanno creduto all'annuncio celeste, così gli altri credono alla loro testimonianza.

Se si rilegge l’episodio del presepe di Greccio nella vita di s. Francesco di Assisi ci rendiamo conto della logica di quella visione. “Meditava continuamente le parole del Signore e non perdeva mai di vista le sue opere. Ma soprattutto l’umiltà dell’incarnazione e la carità della Passione aveva impresse così profondamente nella sua memoria, che difficilmente gli riusciva di pensare ad altro… E ogni volta che diceva ‘Bambino di Betlemme’ o ‘Gesù’ passava la lingua sulle labbra, quasi a gustare e trattenere tutta la dolcezza di quelle parole” (FF 467-470). È il desiderio di far memoria di Gesù, il desiderio di condividere con lui quello che lui vive, sente e opera, perché il cuore è pieno di lui, a permettere agli occhi di vedere, all’anima di gustare. Allora, la semplicità del segno parla, si spalanca su spazi immensi perché la storia umana si apre sulla storia di Dio con l’umanità e la letizia non può non spuntare.

Le collette delle Messe delineano la progressione della comprensione del mistero secondo questa traiettoria: l’evento sprigiona una tale luce (notte) da investire il nostro agire (aurora) per partecipare alla stessa vita di Dio (giorno). “O Dio, che hai illuminato questa santissima notte con lo splendore di Cristo, vera luce del mondo …” (notte); “Fa’ che risplenda nelle nostre opere il mistero della fede che rifulge nel nostro spirito” (aurora); “Fa’ che possiamo condividere la vita divina del tuo Figlio…” (giorno), scopo della nostra gioiosa adorazione.

Un poema natalizio di s. Efrem canta: “Sia benedetto Colui che ha consegnato la nostra anima, che l’ha adornata e se ne è fatta la fidanzata! Sia benedetto Colui che ha fatto del nostro corpo una tenda per la sua Invisibilità! Sia benedetto Colui che nella nostra lingua ha tradotto i suoi segreti!... Gloria a Colui che non ha mai bisogno che noi lo ringraziamo. Ma che ha bisogno di tenerci cari, che ha sete di amarci e che chiede a noi di dare perché Lui possa darci ancora di più”. Possano i nostri cuori percepire quei segreti e scoprire le radici della letizia in questo mondo. La letizia dell’annuncio natalizio costituisca il vigore dell’anima e lo spazio di intelligenza del cuore per la vita propria e quella di tutti.

Buon Natale a tutti.

 

§*§*§*§*§*§*§*§*§*§

 

Quarto ciclo

Anno liturgico A (2010-2011)

Tempo di Natale

 

Santa Famiglia

(26 dicembre 2010)

 

_________________________________________________

Sir 3, 3-7.14-17a;  Sal 127;  Col 3, 12-21;  Mt 2, 13-15.19-23

_________________________________________________

 

"O Dio, nostro creatore e Padre, tu hai voluto che il tuo Figlio divenisse membro dell'umana famiglia": così prega la colletta della festa di oggi. Il mistero della s. famiglia appartiene alla realtà del mistero dell’Incarnazione. Si appartiene all’umanità perché si nasce da una donna, ma si diventa ‘umani’ perché accolti in una famiglia. È il destino della chiamata alla vita, della vocazione umana: si diventa uomini solo dentro una storia riconosciuta, che ci precede e ci accompagna, imparando a riconoscere e vivere quella ‘promessa’ di vita che resta inscritta in noi venendo al mondo sia per i genitori che per i figli. La famiglia è il luogo di svelamento di quella promessa che viene dall’alto, il luogo di riferimento esistenziale che segna la natura dei nostri sogni. Non è il luogo da dove proviene la promessa; è più semplicemente il luogo dove la promessa diventa nostra, diventa mia.

Si tratta del mistero che io definirei dell’obbedienza all’amore. Parlo di obbedienza prima che di amore perché l’amore costituisce l’esito di un’obbedienza confidente. Vale nei confronti di Dio, ma anche nei confronti degli uomini. È caratteristico che nella liturgia di oggi come nella liturgia del matrimonio al termine amore si accompagni il termine onore. Senza la percezione dell’onore dovuto al mistero che si vive, l’amore non riuscirà a sopravvivere perché divorerà invece di comunicare vita. Lo dice chiaro il libro del Siracide invitando a onorare il padre e la madre, a suggello del patto di solidarietà con l’umanità che rende la vita in questo mondo vivibile. Senza onore non si assicura più quella ‘vivibilità’ perché la vita sarà vissuta nella logica dell’arraffare, che mina alle radici le ragioni appunto della vivibilità.

Nell’esperienza cristiana l’onore è vissuto ‘in Cristo’. La lettera di Paolo ai Colossesi descrive la famiglia come il luogo di esercizio e di visione nella fede, in obbedienza all’unico mistero che tutti ci riguarda. Paolo parla di ‘sottomissione’ per la moglie, di ‘amore’ per il marito, di ‘obbedienza’ per i figli. Il senso lo si ricava dalle espressioni precedenti quando Paolo delinea la comunità dei credenti come eletti di Dio rivestiti dei sentimenti di Cristo, riconciliati, nella pace di un unico sentire, con la parola di Cristo che tutto regge e pervade. La ‘sottomissione’ della donna non ha nulla a che vedere con la soggezione all’uomo; si riferisce a quella visione del mistero che appartiene alla donna, che le colma il cuore e che estende continuamente i confini di quell’ ‘amore’ che è richiesto all’uomo, perché senza di lei l’uomo non saprebbe coglierne la profondità e la preziosità. La ‘obbedienza’ dei figli in quel contesto non è che l’appropriazione della tenerezza verso la propria umanità, terreno ideale per imparare a vedere la ‘promessa’ di vita che si apre davanti a loro. E così tutti restano immersi in quell’unico mistero di obbedienza che regge e orienta la loro vita, mistero di cui imparano, insieme, poco a poco, a dipanare i segreti nel concreto della loro vita. L'avvertimento di Paolo ai Colossesi "...rivestitevi, come eletti di Dio, santi e amati, di sentimenti di misericordia ... perdonandovi a vicenda ... e la pace di Cristo regni nei vostri cuori ..." allude appunto al mistero di obbedienza. L'obbedienza si fa trasparenza della tenerezza di Dio che non disdegna di consegnarsi agli uomini perché essi imparino a consegnarsi vicendevolmente e a Lui. E se l'obbedienza non porta a svelare la tenerezza vuol dire che non procede dall'adorazione, da una visione, ma solo da una volontà. E quando tutto procedesse dalla mia volontà, come posso accogliere e celebrare la salvezza che viene da Dio? Come essere segno e custode del 'segreto' di Dio?

Il vangelo presenta Giuseppe proprio come il custode del segreto di Dio, nella concretezza e nel dramma della vita quotidiana, custode della tenerezza di Dio per l'umanità, che per lui si concentrava nella sua famiglia, luogo di rivelazione di Dio nel mondo e la sua storia è storia di questa famiglia, storia per questa famiglia. La realizzazione di sé, come diremmo oggi, passa per l'assunzione di un compito di grazia che fa dell'obbedienza a Dio, nel cammino di fedeltà all'assolvimento di tutto ciò che un tal compito comporta nel concreto delle situazioni, la porta dell'amore. Porta che può essere intravista solo se gli occhi del cuore 'vedono' quanto basta per non tirarsi indietro.

La storia di una famiglia è la storia di come questo 'segreto' di Dio è accolto, custodito, vissuto. Abbiamo solo bisogno di 'rivestirci', di divenire cioè consapevoli del dono e compito di grazia che ci ha riguardati nell'intimo e ci ha resi , nella nostra piccolezza e nelle situazioni concrete, 'evangelici', cooperatori della gioia altrui, segni e strumenti di salvezza, come Giuseppe. Non però di quella salvezza operata da noi, come se il nostro amore bastasse a salvare noi o gli altri, ma di quella che viene da Dio la cui debolezza è più forte della forza degli uomini, debolezza la cui eco io sento nel qualificare Gesù 'il nazareno'.

In effetti, l’ultimo versetto del brano evangelico letto riporta: "... andò ad abitare in una città chiamata Nazaret, perché si adempisse ciò che era stato detto dai profeti:«Sarà chiamato Nazareno»". Non è chiaro a quali passi profetici l'evangelista si richiama, ma è chiara l'allusione al mistero che quell'aggettivo comporta. Tre sono almeno i significati di quell'aggettivo. Designa Gesù come proveniente da Nazaret, abitante a Nazaret con i suoi genitori ai quali, come riporta l'evangelista Luca, stava sottomesso. E' un'affermazione della sua vita quotidiana, nascosta, in famiglia. Esprime la concretezza della sua umanità quanto alle radici, agli affetti, alla crescita. Gesù è uomo non solo perché è nato, ma perché è stato allevato, nutrito, curato, educato, amato,in una famiglia umana. Nazareno richiama poi 'nazir' (cfr. Gen 49,26; Gdc 13,5), il consacrato a Dio, il Santo di Dio. Esprime la natura del compito che è chiamato a compiere: salvare Israele, salvare l'umanità. E siccome il Salvatore è solo Dio, partecipare al compito di 'salvare' comporta la pienezza di santità di Dio stesso. Nazareno richiama anche un altro termine ebraico che vuol dire 'germoglio'. Girolamo spiega così l'etimologia del nome Nazaret: "Il luogo dove la terra ha germinato il Salvatore, dove è cresciuto il germoglio giusto, il fiore della radice di Jesse, si chiama Nazaret, che significa: santità, germoglio, fiore, ramoscello". E si allude alle profezie di Is 11,1 e Zac 6,12.

Se andiamo a vedere quando Gesù è chiamato 'nazareno' notiamo che lo chiamano così i demoni (Mc 1,24) i quali lo sanno 'Santo di Dio'; lo chiamano così anche gli angeli alla risurrezione (Mc 16,6); ma soprattutto l'aggettivo compare nei racconti della passione di Giovanni, all'arresto e soprattutto sull'iscrizione sopra la croce: Gesù Nazareno Re dei Giudei (Gv 18,5; 19,19). Tutte sottolineature della realtà della sua umanità: è proprio quell'uomo che è vissuto a Nazaret, la cui famiglia è di Nazaret, è proprio lui il Figlio di Dio, morto e risorto per la nostra salvezza, Lui proprio nel quale abita la pienezza della divinità.

 

§*§*§*§*§*§*§*§*§*§

 

Quarto ciclo

Anno liturgico A (2010-2011)

Tempo di Natale

 

Maria ss. Madre di Dio

(1 gennaio 2011)

 

_________________________________________________

Nm 6,22-27;  Sal 66;  Gal 4,4-7;  Lc 2,16-21

_________________________________________________

 

Il nuovo anno inizia con la celebrazione dell’ottava del Natale, festa della divina maternità di Maria. È come un’invocazione di benedizione su tutto l’anno. Dal Padre, che ha benedetto la Vergine Maria, la quale porta ed ha dato alla luce il Benedetto, discende per noi ogni benedizione. Se la formula di benedizione riportata nel libro dei Numeri concerne Israele, il salmo 66 la estende a tutta l’umanità perché ormai Colui, che del Padre è lo splendore, è nato per noi. In Lui si concentra la pienezza di benedizione, in Lui che è nato nella pienezza dei tempi, come dice l’apostolo. Ciò significa che la Sua benedizione copre tutti i tempi e contemporaneamente ogni genere di tempo, tutto il tempo della vita in tutte le situazioni possibili.

Quando il canto al vangelo proclama: “Dio ha parlato ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio” allude non semplicemente al fatto che Colui che era stato annunciato dai profeti è venuto, ma che in Lui si compiono tutte le possibilità dei tempi.

Nessuno meglio della Vergine Maria ha visto l’estensione e la profondità della benedizione di Dio sull’umanità : “Ti benedica il Signore e ti custodisca. Il Signore faccia risplendere per te il suo volto e ti faccia grazia. Il Signore rivolga a te il suo volto e ti conceda pace” (Num 6, 24-26). La benedizione può essere così intesa:

- che tu possa sentirti dentro confini di benevolenza, possa sentire alleata la vita e Padre tuo il tuo Dio

- che il volto del Signore si riveli al tuo cuore e faccia brillare il tuo volto del suo splendore

- possa fare esperienza del Suo perdono, del Suo farsi grazia a te e sentirti fortificato, imprendibile, per il legame di intimità che ti nasconde nella Sua pace.

E così apparterrai al Suo amore, non desiderando altro se non di attrarre a questo amore tutto e tutti finché ci si possa riposare insieme nella Sua benedizione.

Così porranno il mio nome e io li benedirò” continua il testo dei Numeri, come a dire: poni su di te una Sua parola, la sua Parola e lei sarà la tua benedizione, ti custodirà e ti terrà compatta, dentro un’intimità, alle radici del cuore.

La colletta, quando prega: “Padre buono, che in Maria, vergine e madre, benedetta fra tutte le donne, hai stabilito la dimora del tuo Verbo fatto uomo tra noi…”, riprende la dichiarazione di Giovanni: “E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi” (Gv 1,14). Ma anche la promessa di Gesù ai discepoli: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14,23). La benedizione di Dio per l’uomo consiste proprio nel suo dimorare fra noi, in noi. L’aspetto straordinario, sconvolgente, dell’amore di Dio per l’uomo, che però spesso nemmeno siamo più capaci di percepire, è dato dal fatto che possiamo essere accolti in quella stessa intimità di vita e di relazione che esiste tra il Padre e il Figlio e che ci è fatto dono di quella stessa intimità. Sembra strano, ma soltanto da dentro quella intimità possiamo sperare di compiere la volontà del Padre nella nostra vita e sentirci avvolti dalla sua benedizione. Se prima non si gusta la volontà di benevolenza di Dio nei nostri confronti, che si esprime nella benedizione che è il Cristo per noi, come poter arrivare alla gioia dell’osservanza dei comandamenti? Se non capiamo come Cristo non antepose nulla all’amore per noi, come possiamo noi non anteporre nulla all’amore per Cristo e ritrovarci amati dal Padre, che nel suo Figlio ha posto tutta la sua compiacenza? Il mistero della benedizione di Dio sull’uomo sta tutto qui e tutta la vita della Vergine, come il suo parto prodigioso, è lì a dimostrarlo.

Gli angeli, apparendo ai pastori, annunciano “Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini di buona volontà” (tradotto anche: ‘agli uomini che egli ama’). Il significato più veritiero di questa lode sta nell’affermare che, se gli uomini vogliono vedere il volto sorridente di Dio nei loro confronti, vogliono essere accolti dallo splendore del suo sguardo benevolo e compiaciuto, come descrive il libro dei Numeri, devono compiacersi di quel Figlio, in quel Figlio, sul quale si concentra tutta la benevolenza assoluta di Dio. E non in quel Figlio eterno, ma in quel Figlio fatto uomo, che ha preso carne, che conosce il nostro patire, che condivide le nostre aspirazioni, i nostri sentimenti. Quel Figlio è il Volto sorridente del Padre, quel Figlio è la benedizione invocata sull’umanità, quel Figlio è il nome pronunciato e posto sull’umanità perché l’uomo e Dio riconoscano la mutua appartenenza. È quello che la Vergine Maria proclama nella sua divina maternità, come le icone del Natale sottolineano. La Vergine non è rappresentata china sul proprio bambino, ma rivolta ai pastori e al mondo a proclamare che quel ‘figlio’ è la benedizione per loro.

La realtà dell’incarnazione comporta anche la variabile tempo. Ogni cosa ha il suo tempo, ogni cosa ha bisogno del suo tempo. Anche la Vergine Maria ha avuto bisogno di tempo per ‘assuefarsi’ all’agire di Dio. Il brano evangelico la descrive come colei che “custodiva tutte queste cose meditandole nel suo cuore”. Evidentemente perché anche per lei la realtà non svelava il suo mistero di colpo. I due verbi significano più direttamente: teneva se stessa e queste cose insieme in cuore, facendole rimbalzare l’una sull’altra in modo da ottenerne una visione d’insieme. Sono termini che illustrano il metodo di lettura delle Scritture: una parola si illumina con un’altra parola ed il senso che ne scaturisce si riverbera nel cuore aprendo la parola al cuore ed il cuore alla parola. E non se ne tralascia nessuna: 'tutte queste cose' del testo sono sia le parole udite (dall'angelo, dai profeti, dai pastori) sia gli eventi successi; non si cerca solo quella 'adatta' a me, ma ci si 'adatta' a loro tutte, insieme. Non si preferisce un tempo (il tempo della gioia, del godimento), ma si tengono insieme tutti i tempi (anche il tempo del dubbio, dell’afflizione). Allora, poco a poco, anche al nostro cuore si svelerà quella ‘benedizione’ che Dio ha posto sull’umanità e la vita torna a risplendere della presenza del nostro Dio.

 

§*§*§*§*§*§*§*§*§*§

 

Quarto ciclo

Anno liturgico A (2010-2011)

Tempo di Natale

 

2a Domenica

(2 gennaio 2011)

 

_________________________________________________

Sir 24,1-4.8-12;  Sal 147;  Ef 1,3-6.15-18;  Gv 1,1-18

_________________________________________________

 

Se è vero, come dice il ritornello del salmo responsoriale, che “il Verbo si è fatto carne e ha posto la sua dimora in mezzo a noi”, allora l’augurio più bello e convincente, dal punto di vista della fede, non può essere che quello di Paolo agli Efesini: “…il Dio del Signore nostro Gesù Cristo, il Padre della gloria, vi dia uno spirito di sapienza e di rivelazione per una più profonda conoscenza di lui. Possa egli davvero illuminare gli occhi della vostra mente per farvi comprendere a quale speranza vi ha chiamati, quale tesoro di gloria racchiude la sua eredità fra i santi”. Conoscenza, qui, allude all’esperienza degli apostoli che, davanti al mistero del Figlio di Dio incarnato con il quale hanno vissuto, che l’hanno sentito parlare, che l’hanno visto all’opera, dal quale sono rimasti sconvolti e affascinati, dicono: “e noi vedemmo la sua gloria” (Gv 1,14). Da dentro quell’esperienza, la percezione del mistero dell’amore di Dio per gli uomini, della benevolenza di Dio che tocca le radici dei cuori con il dono di quel Figlio, dato per noi, diventa chiarissima, prepotente: la benedizione ormai non si allontanerà mai più dall’umanità.

Se vogliamo indagare la ragione profonda di quella percezione, non possiamo che riconoscerla espressa nell’affermazione: “Dio nessuno l’ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato” (Gv 1,18). Qui risiede tutta la fierezza e l’umiltà del cristiano di fronte ai suoi fratelli, in cammino e alla ricerca della stessa verità. Se tutto il creato rimanda al Cristo Signore, a maggior ragione l’uomo, fatto ad immagine di Lui, che è l’Immagine, lo splendore del Volto stesso di Dio. Ma se questo è vero, allora tutti i nostri pensieri rimandano a lui, tutte le nostre aspirazioni, tutti i nostri desideri, tutti i nostri ideali. Secondo i nostri Padri, la preghiera non è che il luogo di riconoscimento del Cristo come fondamento dei nostri pensieri. Tutta la bontà, tutte le virtù che possiamo ottenere non sono che partecipazione ai suoi sentimenti, alla sua vita, che è vita stessa di Dio.

Il Padre ci ha donato il suo Figlio ed il Figlio, per mezzo dello Spirito Santo, ci fa dono del potere di diventare figli a nostra volta: “A quanti però l’hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, i quali non da sangue, né da volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati”. Il dono è aperto a tutti, perché non si nasce cristiani, ma lo si diventa. È il superamento più radicale di ogni distinzione fra gli uomini basata su etnia, nazione, cultura, ecc. Ricevere il potere di diventare figli di Dio significa partecipare alla vita stessa del Figlio di Dio; significa rivestirsi dei suoi sentimenti, nei quali fondare le radici di un’umanità nuova, trasfigurata, che non si presenta più temibile in nulla per nessuno. Usassimo questo semplice criterio di discernimento per giudicare la bontà del nostro agire!

La letizia del Natale rimanda a tale ‘possibilità’, a tale ‘potere’ e qui si radica la speranza per il mondo: la gloria di Dio può ancora risplendere in mezzo a noi, la vita nel mondo può ancora tornare amabile, nonostante i drammi e le tragedie, le violenze e gli egoismi. Siamo sicuri – anche questo è un corollario della nostra fede nel Signore Gesù – che sempre ci sarà qualcuno che, discepolo del Signore, farà risplendere l’umanità in questo mondo. E sempre ci sarà qualcuno che, affascinato da quello splendore, riconoscerà il Signore e tornerà a far desiderare la conoscenza di lui, come si augura l’apostolo. È l’augurio che possiamo scambiarci tutti.

 

§*§*§*§*§*§*§*§*§*§

 

Quarto ciclo

Anno liturgico A (2010-2011)

Tempo di Natale

 

Epifania del Signore

(6 gennaio 2011)

 

_________________________________________________

Is 60,1-6;  Sal 71;  Ef 3,2-3a.5-6;  Mt 2,1-12

_________________________________________________

 

Epifania vuol dire manifestazione. La Chiesa oggi festeggia il mistero della triplice manifestazione del Figlio di Dio fatto uomo per la nostra salvezza: la sua manifestazione alle genti; l'inizio della sua vita pubblica con il battesimo al fiume Giordano quando Giovanni Battista lo rivela al popolo d'Israele; il miracolo delle nozze di Cana quando Gesù compie il suo primo miracolo. Delle tre manifestazioni, soprattutto la prima costituisce il tema della liturgia odierna.

Come tutti i racconti sulla nascita e sull'infanzia di Gesù, ciò che viene riferito va letto in contrappunto ai racconti della sua passione-morte-risurrezione. Nella narrazione dei Magi che arrivano a Gerusalemme in cerca del re dei Giudei è presentato il conflitto che opporrà alle autorità ufficiali il vero re e salvatore del suo popolo. Colui che le guide della nazione si rifiutano di ricevere è adorato dalle nazioni; Colui che doveva essere noto a coloro che conoscevano le Scritture perché di lui le Scritture parlano viene rivelato a coloro ai quali, non potendo le Scritture parlare, parlano gli astri, messaggeri di Dio. Ogni cosa può agire da messaggero di Dio, se il nostro cuore sa guardare in alto. E tutto alla fine conduce a lui, il Salvatore, Colui che rivelerà definitivamente e in tutta pienezza, anche per il nostro cuore, quaggiù o di là, l'infinito amore del Padre per gli uomini, Colui che compirà in tutta la loro estensione i nostri desideri di vita, di santità, di comunione.

L’antifona di ingresso della messa si richiama al libro del profeta Malachia, l’ultimo libro dell’Antico Testamento: “È venuto il Signore nostro re: nelle sue mani è il regno, la potenza e la gloria”. Un bambino è proclamato ‘sovrano, potente e glorioso’! La proclamazione comporta qualcosa di radicalmente nuovo per gli occhi umani o, se vogliamo, comporta la visione di una realtà con occhi radicalmente nuovi. Stessa novità che sta dietro la proclamazione nei vangeli di Gesù come re (soltanto durante la sua passione Gesù accetta il titolo di re) e particolarmente come re della gloria (titolo che fornisce, da una parte, la ragione della condanna sul patibolo della croce e, dall’altra, per la visione di fede dei credenti, la ragione dell’amore di Dio per l’uomo che proprio sulla croce risplende). È in ragione di quella novità che la manifestazione di Gesù può conquistare le genti e può convincere Israele. Quando la colletta fa pregare: “O Dio, che in questo giorno, con la guida della stella, hai rivelato alle genti il tuo unico Figlio, conduci benigno anche noi, che ti abbiamo conosciuto per la fede, a contemplare la grandezza della tua gloria”, guida i credenti alla percezione di quella novità e li predispone a cogliere e a vivere dello splendore di quell’amore, che costituisce ormai la ragione di senso del vivere nella storia.

La visione dei popoli che si ritrovano a Gerusalemme, ripresa anche dal salmo 71 e celebrata dal salmo 87, mostra come ormai non esiste più motivo di distinzione tra gli uomini perché la loro dignità deriva da un’unica radice. La dignità degli uomini parla dell’amore di Dio che si è rivelato in quel Figlio di Dio fatto uomo e che nella liturgia odierna è adorato da tutte le genti. Quando Paolo ricorda agli Efesini che il mistero manifestato ora agli uomini è il fatto che i Gentili sono chiamati, in Cristo Gesù, a partecipare alla stessa eredità di Israele, rivela che davanti a Dio sussiste un’unica famiglia umana, destinataria e portatrice allo stesso tempo del Suo amore. Se il Signore, come dice il salmo 71, interviene a favore del povero e del debole, categorie che attraversano la diversità dei popoli e si riferiscono all’umanità di tutti, significa che chi calpesta il povero e il debole ferisce la propria dignità umana e non rispetta l’immagine di quel Figlio che si è confuso con l’umanità di tutti. Davanti a quel Figlio, bambino, adorato dalle genti – dice il salmo, eco del pensiero di Dio: chiunque tu sia, da qualunque paese provenga, qualsiasi sia stata la tua storia, a qualsiasi cultura appartenga, sappi che qui sei nato, di qui trai vita e qui conducono i tuoi desideri perché qui si compiono i miei progetti: nel mio Figlio! Non è evidentemente una forma di imposizione spirituale all'umanità. Si tratta invece di una visione lucida, nella fede, sulla realtà delle cose e del mondo. Non si tratta di contrapporre una visione ad altra visione, una fede ad altra fede. Si tratta di imparare a stupirsi a tal punto dei pensieri di Dio per l'umanità che la modalità stessa di vivere e testimoniare quella visione non può che essere evangelica, portatrice della buona novella per l’umanità. Per questo l'amore è l'ultima parola convincente, sebbene non sia la parola più potente. La debolezza di Dio è più forte della forza degli uomini e la stoltezza di Dio è più sapiente della sapienza degli uomini: per questo a tutti gli uomini, di ieri, come di oggi e di domani, a tutti spetta questa eredità, che è il Figlio di Dio fatto uomo.

I magi sono la figura della manifestazione di Dio alle genti (con l’oro riconoscono la regalità misteriosa di quel ‘bambino nato per noi’, con l’incenso riconoscono la sua divinità, con la mirra la sua umanità pronta a soffrire la passione per la nostra salvezza). Il loro far ritorno a casa per altra strada allude al fatto che chi si apre all’adorazione di Dio riscopre la casa propria in altro modo, con altro sguardo, sotto altri orizzonti. Questo mi induce a due osservazioni: 1) se il Messia è promesso alle genti, di che cosa siamo noi credenti debitori al mondo? Siamo debitori proprio della conoscenza del Signore. E questo debito pende sulla nostra testa: ecco la responsabilità della testimonianza dei credenti di fronte al mondo; 2) se il Messia è promesso alle genti, vuol dire che fin tanto che tutte le genti non l’hanno conosciuto, la nostra stessa conoscenza del Messia è manchevole, resta limitata. Come in un amore: fin tanto che non ho trovato qualcuno che voglia bene a me, io non potrò scoprire quello che sono in verità, quello che porto e di cui sono capace. Così è con Dio. Fin tanto che tutti non l’hanno conosciuto, Dio non ha ancora avuto modo di manifestarsi in tutta la sua ricchezza. Attendere questa manifestazione, nel cuore di tutti, rende umili e adoranti e risponde al comandamento dell’amore verso tutti, anche verso i nemici, finché la gloria di Dio si manifesti compiutamente.

 

§*§*§*§*§*§*§*§*§*§

 

Quarto ciclo

Anno liturgico A (2010-2011)

Tempo di Natale

 

Battesimo del Signore

(9 gennaio 2011)

 

_________________________________________________

Is 42,1-4.6-7;  Sal 28;  At 10,34-38;  Mt 3,13-17

_________________________________________________

 

La liturgia del battesimo di Gesù chiude il ciclo natalizio. La Chiesa celebra, nel battesimo al fiume Giordano, la manifestazione di Gesù al suo popolo e il mistero di salvezza che ne deriva, collegato alla visita dei Magi e al primo miracolo a Cana di Galilea, come canta l’antifona al Benedictus già risuonata nella festa dell’Epifania: "Oggi la Chiesa, lavata dalla colpa nel fiume Giordano, si unisce a Cristo suo Sposo; accorrono i magi con doni alle nozze regali e l'acqua cambiata in vino rallegra la mensa". Il mistero è contemplato nell’ottica dell’invocazione: "Dio onnipotente ed eterno, che nel Natale del Redentore hai fatto di noi una nuova creatura, trasformaci nel Cristo tuo Figlio, che ha congiunto per sempre a sé la nostra umanità".

L'immagine di fondo è quella delle nozze: Dio sposa l'umanità. Il mistero d’amore intravisto con la nascita a Betlemme, rivelato essere l’eredità di tutte le genti con l’adorazione dei magi, celebrato nella sua gioia messianica alle nozze di Cana e ripresentato ad ogni celebrazione eucaristica, qui è intuito nel suo percorso di attuazione con la solidarietà dell’agnello innocente con i peccatori, in attesa che si realizzi compiutamente con la sua morte-risurrezione. La deduzione immediata che ne scaturisce è che oramai l'umanità appartiene in proprio a Dio, oramai l'umanità, pur con tutto il suo carico di ferite e di paure, è carne del Figlio di Dio, che se l'è assunta nella sua realtà, integralmente. Non si può più parlare di umanità senza che sia Dio ad esserne implicato. Non si può più gemere sull'umanità senza aver compassione di Dio.

La liturgia accosta al racconto del battesimo il brano profetico di Isaia 42. È il testo che Matteo riprende specificamente reinterpretandolo. “Appena battezzato, Gesù uscì dall' acqua: ed ecco, si aprirono per lui i cieli ed egli vide lo Spirito di Dio discendere come una colomba e venire sopra di lui. Ed ecco una voce dal cielo che diceva: «Questi è il Figlio mio, l’amato:in lui ho posto il mio compiacimento»”. E quando a Giovanni si presenta Gesù, per vincere la sua ritrosia gli dice: “Lascia fare per ora, perché conviene che adempiamo ogni giustizia”.

Questi versetti celano molti misteri. Perché Gesù parla di ‘ogni giustizia’? Gesù non si attiene semplicemente alla Legge; il suo comportamento parla di una sovrabbondanza assolutamente gratuita dal punto di vista della Legge. Non aveva motivo di farsi battezzare, come lo stesso Giovanni riconosce, perché lui non è peccatore. Ma lui solidarizza con i peccatori, perché il mistero dell’amore di Dio per i suoi figli appaia in tutto il suo splendore. Più tardi sarà accusato di stare con i peccatori, di frequentarli, di essere un mangione e un beone, ma così viene svelata la giustizia di Dio. Se Gesù, secondo la citazione di Isaia, viene da servo e da eletto, nella ripresa di Matteo è ormai il figlio e l’amato, proclamato dalla stessa voce divina. Se la visione dei cieli aperti e della discesa dello Spirito è riservata a Gesù, la voce è indirizzata a tutti.

In questa visione di Gesù si può ravvisare l’autocoscienza della sua intimità con il Padre e della sua realtà messianica con l’allusione a quella nuova creazione di cui le Scritture sono la promessa. Come all’inizio della creazione lo Spirito di Dio aleggiava sulle acque, così ora la discesa sopra di lui dello Spirito, nella sua umanità, prefigura la nuova creazione. Non si tratta tanto di vedere una colomba che discende quanto di vedere il planare dello Spirito come una colomba, al modo di una colomba. Alla sua visione segue la voce, che conferma per tutti quello che Gesù ha visto, nel senso di invitare tutti a seguire quel Figlio nella rivelazione dell’amore del Padre per gli uomini.

La voce del Padre è quella di cui Gesù dirà: “Io sono nel Padre e il Padre è in me” (Gv 14,10); “Io dico quello che ho visto presso il Padre” (Gv 8,38); “Io invece lo conosco” (Gv 8,55); “Faccio quello che il Padre mi ha comandato” (Gv 14,31). Le parole pronunciate dalla voce, invece, sono la ripresa del brano di Isaia 42 riletto con il testo di Sal 2,7 e di Gn 22,2 dove compaiono i termini figlio e amato. In particolare, amato, non dice soltanto tutta l'intimità goduta tra il Padre e il Figlio, ma illustra anche lo sconfinato amore per l'umanità che i due condividono. Amato o unico o preferito fa pensare ad Abramo, pronto ad immolare il figlio Isacco (Gen 22,2); rimanda al figlio della parabola dei vignaioli omicidi (Mc 12,6); ha attinenza con “Dio ha tanto amato il mondo da mandare il suo Figlio unigenito” (Gv 3,16), ha attinenza al mistero dell'amore del Padre per l'umanità di cui il Figlio è il rivelatore, lui che è il Volto visibile del suo splendore. È l’amato perché il Suo Amore di Padre in lui è perfetto nel senso che in lui si compie perfettamente il Suo volere di benevolenza per l'umanità e lui non ha altro volere che quello di compierlo perfettamente: “Mio cibo è fare la volontà del Padre” (Gv 4,34). È amato perché non solo il Suo Amore si volge verso di lui , in lui si posa, ma anche si riposa, sta soddisfatto, ne ottiene la risposta più piena.

Il risvolto tutto speciale del mistero allude però a qualcos’altro. Lo sguardo di predilezione del Padre sul Figlio non concerne più oramai solo la persona del Verbo, ma il Verbo nella sua umanità, il Capo con le sue membra. La lettura del profeta Isaia riguarda proprio l’identificazione di Gesù come il servo, l’identificazione del Messia nella sua natura di servo. Non dimentichiamo che questo brano di Isaia ricorre nella liturgia del lunedì della settimana santa, a sottolineare la dimensione pasquale di quell’identificazione. In quella natura di servo siamo noi, nella nostra umanità, ad essere considerati. Non dobbiamo perciò pensare che lo sguardo di compiacimento del Padre attenda a posarsi su di noi allorquando saremo capaci di seguire Cristo in una vita santa; è esattamente il contrario. Potremo impegnarci in una vita santa solo se sentiremo sulla nostra umanità peccatrice, ferita e piena di paure, questo sguardo di compiacimento perché Dio ama per primo, perché a Lui apparteniamo, perché siamo la sua stessa carne. Ed è proprio perché la nostra fede squarcia l’orizzonte per introdurci in questa visione che possiamo pregare, come citavo all'inizio: " ... trasformaci nel Cristo tuo Figlio, che ha congiunto per sempre a sé la nostra umanità".

In questa prospettiva acquista particolare risonanza la parola di Gesù a Giovanni: “conviene che adempiamo ogni giustizia”. Con la voce del Padre sono compiute tutte le Scritture perché la frase è costruita con i testi di Gn 22,2, Is 42 e Sal 2,7, rispettivamente presi dalla Torah, dai Profeti e dai Salmi e, nello stesso tempo, sono confermate per noi che possiamo fare esperienza della giustizia di Dio che è amore per noi.

 

§*§*§*§*§*§*§*§*§*§

 

Quarto ciclo

Anno liturgico A (2010-2011)

Tempo Ordinario

 

2a Domenica

(16 gennaio 2011)

 

_________________________________________________

Is 49,3. 5-6;  Sal 39;  1Cor 1,1-3;  Gv 1,29-34

_________________________________________________

 

Il vangelo di Giovanni, a differenza di Matteo, Marco e Luca, non riferisce direttamente né il battesimo di Gesù né le tentazioni nel deserto. Preferisce riportare la testimonianza solenne del Battista: “Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo!”, che era stata anticipata del resto già nel Prologo. Chiaramente l’agnello rimanda al contesto pasquale in cui si compie la salvezza, là dove il diavolo sarà definitivamente sconfitto. La chiesa introduce il tempo ordinario dell’anno con la proclamazione, sulla base appunto della testimonianza del Battista, che l’agnello è il Figlio di Dio.

Tre sono le figure che si sovrappongono nel tentativo di cogliere la natura di quel profeta particolare che si presenta a Giovanni in fila con i peccatori: agnello, servo, figlio. La liturgia combina la proclamazione del Battista con la profezia di Isaia che parla del servo obbediente scelto per riscattare Israele e divenire luce delle nazioni. Si tratta del secondo canto del Servo obbediente, testo che viene proclamato solennemente nella settimana santa, il martedì. Il sentimento che regge la visione della chiesa in questa liturgia è descritto nell’antifona d’ingresso: “Tutta la terra ti adori, o Dio, e inneggi a te: inneggi al tuo nome, o Altissimo” (Sal 65,4), con l’invito, subito dopo, nel versetto 5: “venite e vedete le opere di Dio: terribile nel suo agire sugli uomini”. Come a suggerire: sarà la modalità di agire tipica del Messia, espressa dalla figura dell’agnello, a rivelare quanto è sconvolgente l’agire di Dio per gli uomini, ma sconvolgente per l’inenarrabile profondità del suo amore per noi.

Il brano di Isaia è commentato dal salmo 39 con il ritornello: ‘Ecco, Signore, io vengo per fare la tua volontà’. Il servo è il Figlio che ha lo stesso volere del Padre nel suo amore agli uomini. L’espressione della sua obbedienza a quel volere di amore per gli uomini si esprime con le parole ‘gli orecchi mi hai aperto’, che la versione greca, ripresa dalla lettera agli Ebrei 10,5, rende con ‘un corpo mi hai preparato’. L’umanità del Figlio di Dio costituisce l’obbedienza al volere di amore del Padre per gli uomini, umanità che con il battesimo al Giordano viene consacrata per diventare luce delle nazioni e portare salvezza al mondo. Quando il Battista testimonia che Gesù, che ha appena battezzato, è il Figlio di Dio, svela il segreto di Dio al mondo: in quell’umanità si giocherà l’amore di Dio agli uomini. Dove la luce di quella salvezza risplenderà in tutta la sua potenza? Sulla croce, dove il Signore è innalzato. Là conduce gli sguardi la figura dell’agnello di cui dà testimonianza il Battista.

Se Gesù prende un corpo, lo prende non solo per compiere il volere di salvezza di Dio per l’uomo, ma anche per mettersi in condizioni di compiere quella salvezza in termini di splendore di amore e di nient’altro. Non c’è ombra di ‘potenza’ nell’amore che Gesù manifesta nascendo come un bambino, vivendo da uomo, presentandosi al battesimo come un peccatore e morendo sulla croce; eppure, non c’è potenza più forte di quell’amore che non si fa vincere da nulla. È l’amore che magnifica il Signore davanti all’uomo e l’uomo davanti a Dio.

E quando il salmo 39 usa l’espressione ‘sul rotolo del libro’, l’allusione è all’insieme delle Scritture che di quel segreto parlano. La figura dell’agnello raccoglie tutta la storia del mondo, come suggerirà il libro dell’Apocalisse, rimandando all’agnello immolato fin dalla fondazione del mondo (Ap 13,8) e alla luce di Dio e dell’Agnello nella Gerusalemme celeste (Ap 22,5).

Non va dimenticato che la proclamazione di Giovanni Battista: “Ecco l'agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo!” risuona con la stessa solennità e lo stesso stupore in ogni celebrazione eucaristica prima della comunione. È diventato l'invito alla mensa del Signore. Come non sentire qui la parola del salmo sopra riportata: “venite e vedete le opere di Dio: terribile nel suo agire sugli uomini”?

Per partecipare a quale mistero? Lo dice bene la preghiera dopo la comunione: "Infondi in noi, o Padre, lo Spirito del tuo amore, perché nutriti con l'unico pane di vita formiamo un cuor solo ed un'anima sola". Quello Spirito che Giovanni Battista ha visto scendere e rimanere su Gesù, quello Spirito che l'ha condotto a dare la sua vita per noi, quello Spirito che su di noi ha effuso dalla croce, in quello stesso Spirito noi siamo battezzati, di quello stesso Spirito siamo rivestiti. È lo Spirito dell'amore del Padre, lo Spirito del Figlio che è prediletto proprio perché condivide con il Padre lo sconfinato amore per gli uomini per riunire i quali non esita a mettere in gioco tutta la sua vita. Il compimento della grazia dello Spirito è proprio quel mistero della fraternità che è sacramento della paternità di Dio. È caratteristico che nel Canone eucaristico si invochi due volte lo Spirito Santo: una volta, prima della consacrazione, per trasformare il pane ed il vino nel Corpo e nel Sangue del Signore e un'altra volta, dopo la consacrazione, per formare un unico corpo, per vivere cioè il mistero della fraternità in tutta la sua potenza di rivelazione dell'amore di Dio. La potenza e profondità della rivelazione dell'amore di Dio in questo mondo si dispiega dentro il mistero della fraternità, nei cuori che, in Cristo, Agnello di Dio, conoscono i segreti di Dio tanto da essere perfettamente solidali con i loro fratelli al punto da portare insieme i loro i peccati, ormai riconciliati con tutti.

 

§*§*§*§*§*§*§*§*§*§

 

Quarto ciclo

Anno liturgico A (2010-2011)

Tempo Ordinario

 

3a Domenica

(23 gennaio 2011)

 

_________________________________________________

Is 8,23 -9,3; Sal 26; 1Cor 1,10-13. 17; Mt 4,12-23

_________________________________________________

 

L’evangelista Matteo fa iniziare la predicazione di Gesù nel nord della Galilea, territorio di popolazioni miste perché soggetto a deportazioni e vassallaggi nella storia, situato lungo la via che i vari conquistatori percorrevano per estendere i loro domini, la via tra l’Egitto e l’Assiria, i due imperi antagonisti. Il riferimento a Isaia allude proprio alla conquista assira nel secolo VIII, con la profezia della venuta di un nuovo re liberatore. La luce che gli abitanti vedranno è la luce di colui che Giovanni descriverà nel prologo del suo vangelo: “Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo”. Il salmo responsoriale riprende la stessa immagine: “Il Signore è mia luce e mia salvezza”, con l’allusione al profeta Isaia che descrive l’intervento salvifico di Dio come un portar fuori alla luce dal buio di una prigione sotterranea. La liberazione di Dio comporta sempre un rendere liberi e luminosi i suoi figli.

Matteo colloca la predicazione di Gesù nella prospettiva di questa luce che splende, luce che si esprimerà nel discorso della montagna con l’annuncio delle beatitudini, che segue subito dopo e con le sue opere di guarigione da ogni sorta di malattie e infermità. Il tono dell’evangelista è particolarmente solenne quando dice ‘da allora cominciò a predicare’ perché solo due volte usa questa espressione: qui, per introdurre il ministero pubblico di Gesù e in 16,21 quando Gesù annuncia per la prima volta ai discepoli la sua passione.

Risulta forse strano il fatto che Gesù inizi la sua predicazione con le stesse parole che aveva usato il Battista: “Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino”. Ma se con il Battista l’accento era posto sul ‘convertitevi’, ora con Gesù l’accento cade su ‘il regno dei cieli è vicino’. Come dicesse: se volete che il regno di Dio diventi vostro, convertitevi, cioè acconsentite alla visione che scaturisce dalla fede nel Figlio di Dio che è venuto a voi. È quella visione che fa scaturire il ‘canto nuovo’ che l’antifona di ingresso, riprendendo il salmo 95, celebra: “Cantate al Signore un canto nuovo, cantate al Signore da tutta la terra”.

La realtà della vicinanza di quel regno è tale che può toccare i cuori, che può muoverli a non desiderare altro se non quel regno. Mi sembra questo il senso della chiamata degli apostoli, che segue direttamente la proclamazione della vicinanza del regno da parte di Gesù. Non si tratta tanto di raccontare da parte dell’evangelista la cronaca della vocazione degli apostoli, ma di mostrare la potenza dell’iniziativa di Dio che dà corso alla sua opera di salvezza. In effetti, non è la prima volta che quei discepoli incontrano Gesù. Sappiamo dal vangelo di Giovanni che Andrea era quello che aveva seguito Gesù, subito dopo il suo battesimo al Giordano, perché voleva vedere dove abitava e che aveva raccontato l’esperienza a suo fratello Pietro dicendogli che aveva trovato il Messia. In quell’occasione Simone, figlio di Giovanni, fratello di Andrea, viene chiamato Pietro, proprio come riporta Matteo: ‘Simone, chiamato Pietro’.

Gregorio Magno, commentando la prontezza dei pescatori a seguire la chiamata di Gesù, riflette sul fatto che a dire il vero quegli uomini avevano ben poco da lasciare essendo poveri. Ma, aggiunge “ha molto lasciato chi non ha tenuto nulla per sé”. È appunto il senso della fede genuina. Non importa lasciare poco o tanto; l'importante è non conservare nulla per sé, vale a dire fidarsi fino in fondo, per tutto il cammino, con tutte le fatiche che comporta, in modo che la grazia dell'incontro possa rivelare tutti i suoi frutti, nel tempo.

Non si può non notare il fatto che gli apostoli non sono stati chiamati semplicemente alla sequela di Gesù, ma alla sequela di Gesù che è inviato a portare a tutti la salvezza e la consolazione (vi farò pescatori di uomini). Seguire Gesù comporta un’esperienza di vita, la condivisione del suo insegnamento e della sua missione; dice prima di tutto quanto l’intimità di vita con il Signore sia sconfinata nel senso che non può ripiegarsi su se stessa, ma continuamente si traduce in condivisione della misericordia di Dio per l'umanità. L'intimità con Dio comporta sempre una buona dose di sana angoscia per i propri fratelli e per questo non sta mai ferma: fin dove c'è un uomo, fin dove c'è un livello di umanità non ancora aperto alla grazia dell'incontro, fin dove c'è una malattia da curare, l'apostolo, come Gesù, non si dà pace. Più profonda è la pace che viene dalla grazia dell'incontro, meno pace si dà finché tutti i fratelli possano godere della stessa grazia. Il senso del guarire ogni sorta di malattie e di infermità da parte di Gesù in missione, come avverrà per gli apostoli inviati in missione (imporranno le mani ai malati e questi guariranno, Mc 16,18), è proprio questo: condividere la misericordia di Dio per l’umanità.

Un altro particolare poi è estremamente significativo. Gesù li chiama non semplicemente a seguirlo, ma a mettersi dietro a lui, come poi dirà Gesù a Pietro quando lo rimprovererà per aver pensato non secondo Dio (cfr. Mt 16,23). Corrisponde a quanto il salmo fa dire al fedele: “Una cosa ho chiesto al Signore, questa sola io cerco: abitare nella casa del Signore tutti i giorni della mia vita”. Qual è l’unica cosa necessaria da domandare? Tutto dipende dalla profondità che nei nostri cuori ha raggiunto la conversione al vangelo del regno.

 

§*§*§*§*§*§*§*§*§*§

 

Quarto ciclo

Anno liturgico A (2010-2011)

Tempo Ordinario

 

4a Domenica

(30 gennaio 2011)

 

_________________________________________________

Sof 2,3; 3,12-13;  Sal 145;  1Cor 1,26-31;  Mt 5,1-12a

_________________________________________________

 

Con la proclamazione delle beatitudini Gesù esplicita l’obiettivo della conversione e la natura della sua sequela. L’uomo aspira alla felicità? Allora Gesù ne traccia le coordinate che la strutturano perché il cuore dell’uomo non fallisca lo scopo della vita.

Potremmo prima di tutto domandarci: perché è venuto meno il timbro della gioia nell’esperienza della vita cristiana in questo mondo? Perché la sequela del Signore sembra suscitare più timore che felicità? Non ci siamo più premurati di cogliere le beatitudini come porte di accesso al mistero di Dio che viene a noi e al mistero dei cuori quanto agli aneliti che li attraversano, limitandoci a vederle come un ideale di perfezione da perseguire, di fatto però irraggiungibile e perciò ininfluente sulle energie di vita dei cuori.

La liturgia ce le fa leggere dentro la prospettiva del ‘regno’, come il salmo responsoriale 145 sottolinea, esplicitando la profezia di Sofonia: “Il Signore regna per sempre”. L’espressione corrisponde a quanto proclamerà la moltitudine dei santi in paradiso: “La salvezza appartiene al nostro Dio seduto sul trono e all'Agnello” (Ap 7,10). Se l’uomo non può darsi la salvezza, nemmeno può darsi la felicità. Il salmo lo dichiara a chiare lettere quando nei primi versetti dichiara: “non confidate nei potenti, in un uomo che non può salvare”, da rendere con più precisione, secondo la versione greca: ‘in un uomo che non ha salvezza’.

La felicità è paradossale. Non la si prende dove sembra di vederla, ma la si ottiene spesso con ciò che sembra il contrario. Perché in gioco è la credibilità stessa di Dio che viene incontro all'uomo, senza però mai poterlo convincere all'evidenza. Nella felicità è in gioco non semplicemente l'esaudimento di un cuore, ma l'incontro di due, la comunione di due.

La stessa struttura di proclamazione delle beatitudini lo rivela. Alla condizione descritta segue una promessa; ciò significa che non si tratta di conquistare la felicità, ma di attirarla, di riceverla in dono, di poterci entrare. Ciò che le beatitudini hanno di paradossale deriva dall'esperienza di un incontro assoluto che pone tutto il resto in sott'ordine (ecco perché le beatitudini seguono l’incontro con Gesù che invita alla conversione e alla sua sequela). E tutto il resto sta in sott'ordine perché è tale la potenza che si sprigiona da quell'incontro che nulla potrà sostituirsi al suo fascino. La beatitudine che proclama Gesù deriva dalla comunione con la sua, da quella vita con il Padre e lo Spirito che lo rende così Figlio da non volere altro per sé se non di vedere tutti immersi nello stesso amore del Padre. Deriva dalla rivelazione dell'esperienza del Regno ormai giunto fino a noi, ormai schiuso nella sua inaccessibilità e nel suo mistero tanto da schiudere ogni evento alla sua realtà. Occorrerà però attendere che tutto sia compiuto nella vita di Gesù con la sua morte e risurrezione per intuire tutto lo spessore di quella esperienza e la bellezza di quella rivelazione.

Le beatitudini sono otto. La prima e l’ultima comportano la stessa promessa: ‘perché di essi è il regno dei cieli’ e racchiudono le altre sei. C’è un doppio movimento nell’elenco delle beatitudini: un movimento di concatenazione e un movimento circolare. La concatenazione riguarda lo spazio definito dalla seconda alla settima, mentre il movimento circolare è dato dal ritornare dell’ottava alla prima per riavviare, a livelli sempre più profondi, la concatenazione. Se non si coglie il dono di quel ‘regno dei cieli che è venuto a noi con Gesù’, come poter afferrare la potenza di quella felicità nuova promessa? In effetti, la felicità è definita nei termini di una appartenenza (‘di essi è il regno dei cieli’), appartenenza che allude a una comunione di amore ardentemente desiderata e finalmente goduta. Corrisponde al godimento del regno proclamato nella parabola profetica del giudizio finale, alla gioia del banchetto messianico, alla consumazione di un amore che aveva ferito il cuore. Solo che le condizioni che la permettono sono paradossali: si parla di povertà e di persecuzione. Il significato mi sembra questo: l’esperienza promessa è nuova rispetto a tutto ciò che può produrre il mondo. Ma è tale che può portare a compimento tutto ciò che nel mondo si vuol vivere.

In effetti, le promesse di compimento rispetto alle condizioni elencate (beati gli afflitti, i miti, gli affamati della giustizia, i misericordiosi, i puri di cuore, gli operatori di pace) parlano di  qualcosa che i nostri cuori cercano comunque: essere consolati, godere ciò che ci appartiene, essere saziati negli aneliti più profondi, essere graziati anche nella nostra indegnità (=misericordia), essere fatti capaci di vedere, vivere nella comunione del Padre da figli felici.

Tenuto conto che Gesù parla a cuori che si stanno aprendo alla rivelazione del regno giunto a loro, la felicità scaturisce dai passaggi indicati:

se ti affliggi solo per la potenza del male che ti domina e dal quale vuoi esserne liberato;

se non avrai altro motivo di ira se non quello di opporti al maligno e così custodirti dolce con tutti; se cercherai la giustizia al di sopra del tuo interesse;

se condividerai con tutti la misericordia che avrai gustato nel perdono di Dio;

se sarai così privo di rivendicazioni e pretese da vedere tutto e tutti nella luce di Dio di cui godrai la presenza;

se seguirai l’opera di Dio che è la fraternità tra gli uomini,

allora – è la promessa della settima beatitudine – sarai come il Figlio di Dio che, per essere venuto a testimoniare quanto è grande l’amore di Dio per gli uomini, non ha preferito se stesso all’amore che lo divorava e ha accettato di essere consegnato nelle mani degli uomini.

Se nella persecuzione l’uomo non perde la sua gioia, allora vuol dire che la potenza del Regno l’ha lambito, che la sua felicità non dipende più dal mondo. Non avrà più bisogno di cercare altra affermazione di sé perché ha trovato quella capace di soddisfare l’anelito del suo cuore, che così sarà confermato nella rinuncia alla brama di ogni bene che non sia espressione di quell’esperienza. Tanto che si affliggerà ancora più profondamente del male che in lui si annida e ripercorrerà la concatenazione dei passaggi a livelli sempre più coinvolgenti, finché tutto in lui splenda della bellezza del Regno.

 

§*§*§*§*§*§*§*§*§*§

 

Quarto ciclo

Anno liturgico A (2010-2011)

Tempo Ordinario

 

5a Domenica

(6 febbraio 2011)

 

_________________________________________________

Is 58,7-10;  Sal 111;  1Cor 2,1-5;  Mt 5,13-16

_________________________________________________

 

Gesù proclama: “Voi siete il sale della terra… Voi siete la luce del mondo…”. Quel ‘voi’ si riferisce ai discepoli la cui vita esprime la potenza delle beatitudini che immediatamente prima Gesù aveva proclamato. Si tratta di quei discepoli che, insultati, perseguitati, sparlati, custodiscono la letizia dell’incontro con il Signore Gesù, che è diventato per loro ragione di vita e principio dell’agire. Non per nulla la liturgia fa leggere, abbinato al brano evangelico di Matteo, un passo del profeta Isaia dove si profetizza l’esistenza dell’Israele gradito a Dio come una esistenza ricca di misericordia per tutti, ricca del dono della fraternità a tutti perché segno della comunione realizzata con Dio, che si è reso presente in mezzo a loro. La luce di cui risplende l’umanità abitata da Dio è la luce della fraternità condivisa.

La colletta, al di là delle parole che usa, esprime la consapevolezza della singolarità e dell’eccellenza dell’esperienza evangelica che Gesù richiama con l’immagine del sale e della luce. Non si tratta di una possibilità, ma di una grazia: è la grazia di un incontro, che si è tradotto in comunione di vita. La testimonianza di Gesù si risolve nel far vedere quanto è grande l’amore del Padre per gli uomini, che vuole riuniti nella comunione con lui e fra di essi. La forza che realizza tale comunione è lo Spirito donato da Gesù, Spirito la cui opera precipua è proprio quella di realizzare un’umanità solidale, in Cristo Gesù. Quando i discepoli, che hanno condiviso con Gesù il segreto del Padre, si lasciano travolgere dalla stessa dinamica di rivelazione dell’amore di Dio per gli uomini, diventano sale della terra e luce del mondo.

Prima di tutto sale. La potenza dell’immagine risiede nel fatto che il sale dà sapore alle cose ma le cose non possono dare il sapore al sale. Il che significa: i discepoli sono chiamati a permeare il mondo con la sapienza del vangelo, ma non servono a nulla se il mondo permea loro con la sua sapienza. I discepoli, mantenendo il mondo degli uomini nell’alleanza con il loro Dio, che li vuole in comunione con lui e tra di loro, tornano a far splendere la Sua presenza tra di loro e rendono la vita desiderabile e amabile.

Poi luce. Un’antica glossa bizantina spiega il passo di Matteo così: “Non dice: voi siete luci, ma voi siete luce, perché essi [discepoli] tutti insieme sono il corpo del Messia che è la luce del mondo” (cfr. Gv 3,19; 8,12). Diventano luce del mondo nel senso che la presenza di Dio, resa come visibile nel mondo attraverso il loro agire secondo le beatitudini, costituisce l’orizzonte di senso della vita. Le beatitudini non sono se non le strade per le quali si può partecipare alla effusione nell'universo della carità pura di Dio. È la carità a custodire i cuori preservandoli dalla corruzione e facendo gustare il sapore genuino della vita (ecco l'azione del sale) e li illumina aprendoli alla verità e riscaldandoli (ecco l'azione della luce). Da notare che si può essere sale senza essere necessariamente luce per il mondo, ma non è possibile essere luce per il mondo senza essere sale. Ciò significa che si riceve il gusto della vita dal Cristo, vivendo del Suo Spirito, la cui opera è la fraternità tra gli uomini come sacramento dell'amore del Padre e così si compie il mistero della nostra umanità, aprendola all'esperienza dell'amore di Dio. Non si tratta quindi di far vedere le nostre opere buone, che suonerebbero fesse perché piene di vanità, ma di far sì che le opere buone siano a vantaggio, per profitto degli uomini [così si dovrebbe tradurre il ‘davanti agli’ uomini] permettendo loro di sperimentare l’amore di Dio per loro.

La parola del profeta Isaia illustra bene le condizioni che permettono al discepolo di essere sale e luce. Vorremmo, sì, percepirci luminosi, ma non è certamente un fatto scontato, dal momento che tutti facciamo i conti con la tenebra che oscura il nostro cuore in termini di chiusura, oppressione, angoscia. “Se toglierai di mezzo a te l'oppressione, il puntare il dito e il parlare empio ... allora brillerà fra le tenebre la tua luce”. Quando Massimo Confessore spiega l'invocazione 'non ci indurre in tentazione' nella preghiera del Padre Nostro, ha l'ardire di precisare:  “La Scrittura rivela infatti con questo come chi non ha perfettamente perdonato a chi cade e non ha presentato a Dio un cuore privo di tristezza, reso splendente dalla luce della riconciliazione con il prossimo, non otterrà la grazia dei beni per cui ha pregato, e, per giusto giudizio, sarà consegnato alla tentazione e al Maligno. Imparerà così a purificarsi dalle colpe, eliminando le sue lagnanze contro gli altri …”. Ci dice in sostanza che non subiremo tentazioni se avremo la capacità, da assimilare poco a poco, di non accusare nessuno perché allora - continua Isaia – “implorerai aiuto ed egli dirà: Eccomi!”. Quando il cuore non accusa nessuno, neanche se stesso, non può cedere all'oppressione, perché il Signore è con lui. Non c'è sventura o afflizione capace di ferirlo a tal punto da aver bisogno di cercare la sua giustizia o la sua rivalsa contro qualcuno, distogliendolo dall'intimità con il suo Signore.

Un’ulteriore considerazione. Siamo abituati a riferire la luce all’intelligenza. Ma la Scrittura suggerisce un riferimento diverso. È sempre il profeta Isaia a dire che la luce sorge se si spezza il pane con l’affamato, se si ha misericordia del prossimo. La luce viene per l’agire del cuore. All’esercizio dell’intelligenza va abbinato il calore del cuore, perché è il cuore il luogo della presenza, dell’incontro. Solo in questo calore l’intelligenza è retta. Quando Matteo dirà: “siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste” (5,48), lo dirà in seguito all’invito ad amare i propri nemici e Luca interpreta: “Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso” (6,36).

Se Gesù chiede ai discepoli di essere la luce del mondo, vuol dire che chiede loro di essere il segno della misericordia di Dio tra gli uomini, come lo è lui stesso. Se la nostra opera buona non è l’eco della bontà di Dio, non rende Dio più vicino ai cuori, perché parlerebbe solo di noi e non di lui.

 

§*§*§*§*§*§*§*§*§*§

 

Quarto ciclo

Anno liturgico A (2010-2011)

Tempo Ordinario

 

6a Domenica

(13 febbraio 2011)

 

_________________________________________________

Sir 15,15-20;  Sal 118;  1Cor 2,6-10;  Mt 5,17-37

_________________________________________________

 

Il senso delle letture di oggi è ben descritto dall’antica colletta: “O Dio, che hai promesso di essere presente in coloro che ti amano e con cuore retto e sincero custodiscono la tua parola, rendici degni di diventare tua stabile dimora”.

Le parole del Signore, i suoi comandamenti, non sono semplici ingiunzioni o precetti alla cui osservanza è promessa la nostra beatitudine futura. Sono assai di più, sono rivelazione di Sé, modalità di partecipazione alla stessa vita divina, spazi di comunione con lui e con i fratelli, luoghi di intimità.

Lo possiamo percepire nell’affermazione di Gesù che commenta la proclamazione delle sue beatitudini: “Non crediate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto ad abolire, ma a dare pieno compimento ... Avete inteso che fu detto agli antichi ... Ma io vi dico ...”. Negli esempi che porta, Gesù mostra la reale intenzione di Dio per l’uomo quanto all’esigenza della santità della vita perché noi non ci si chiuda nella menzogna. Non basta evitare di uccidere; Gesù svela la natura omicida dell’ira, del disprezzo, della ribellione contro il proprio fratello. La preghiera è gradita a Dio, ma solo a condizione che il cuore l’innalzi dallo spazio di riconciliazione voluto e cercato con i propri fratelli. Il cuore si sporca non solo con gli atti compiuti, per esempio, l’adulterio consumato, ma anche con i desideri cattivi che lo attraversano quando sono trattenuti e fomentati. L’uomo purtroppo è anche capace di snaturarsi: l’occhio, che dovrebbe aiutarlo a percepire l’inciampo per non cadere, è esso stesso occasione di caduta quando serve il desiderio cattivo. Non aiuta l’uomo la verità che ha bisogno di essere comprovata da continui giuramenti: tutto ciò che non procede dalla semplicità, viene dal maligno, vale a dire rivela la copertura di menzogna nella quale viviamo.

Gesù fa vedere la forza della proclamazione del Siracide: “Se vuoi osservare i suoi comandamenti, essi ti custodiranno; se hai fiducia in lui, anche tu vivrai”. Quando la Parola è la nostra dimora, allora anche la promessa di vita che racchiude ci apparterrà, diventerà il nostro segreto. Con l’umiltà e la gioia di chi, come dice san Paolo: “Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, Dio le ha preparate per coloro che lo amano”. Proprio come la colletta pregava: ‘rendici degni di diventare tua stabile dimora’. E si diventa dimora con il custodire le parole (comandamenti) di Gesù, finché siano loro a custodire il nostro cuore nella gioia che rilasciano. Come ancora il Siracide proclama: “I suoi occhi sono su coloro che lo temono”. È il senso della compagnia di Dio che custodisce, ristora, infonde coraggio, consola.

Saldi nella fiducia che questo è il dono di Dio per noi, senza alcun merito da parte nostra, come proclama il canto al vangelo: “Ti rendo lode, Padre, perché ai piccoli hai rivelato i misteri del Regno”. Gesù formula questa preghiera di lode vedendo i discepoli ritornare tutti contenti dalla loro missione di predicazione e li avverte che la gioia che provano non dipende dalla grandezza delle opere compiute, ma dal vivere la comunione con Dio che vuole la salvezza di tutti. Tale principio di comunione non tiene in alcun conto la grandezza degli uomini, tanto che quando Gesù dovrà svelare il suo destino di Messia annunciando la sua passione si premurerà di tenere i suoi discepoli al riparo da quella meschina grandezza, così ambita dagli uomini. La cosa è ribadita nel brano evangelico di oggi dicendo che gli uomini, davanti a Dio, non saranno grandi se faranno cose grandi, ma se terranno aperte le cose piccole, ogni cosa più piccola, al mistero del Regno, alla percezione del Regno. Quello che vale per le Scritture, vale anche per la nostra vita.

In questa luce, la ‘giustizia superiore’ alla quale Gesù invita i suoi discepoli non si riferisce ad opere diverse da quelle comandate in precedenza, come esistesse un’opera maggiore rispetto a quelle di prima, ma alla capacità di percezione e alla fedeltà all’intenzione segreta di Dio a cui le opere richieste rimandano. Il ‘compimento’ di cui parla Gesù non allude all’aggiunta di qualcosa, ma alla radicalità dell’esperienza che rimanda direttamente a Dio e alla sua rivelazione. Il compimento di Gesù, che risalterà in tutto il suo splendore con la sua passione e morte, mostra la profondità di provenienza dei comandamenti e la bellezza della promessa di Dio racchiusa nei comandamenti perché l’uomo possa finalmente godere della comunione con il suo Dio, dentro un’umanità solidale, e non semplicemente ‘tenerlo buono’con la propria giustizia, perché la propria giustizia non fa splendere il cuore.

 

§*§*§*§*§*§*§*§*§*§

 

Quarto ciclo

Anno liturgico A (2010-2011)

Tempo Ordinario

 

7a Domenica

(20 febbraio 2011)

 

_________________________________________________

Lv 19,1-2.17-18;  Sal 102;  1Cor 3,16-23;  Mt 5,38-48

_________________________________________________

 

Di fronte al brano evangelico di oggi potremmo domandarci con realismo: i nostri cuori sono davvero all’altezza delle parole di Gesù? Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico. Ma io vi dico: amate i vostri nemici ...: è una parola alla nostra portata? Sembra che le parole di Gesù alludano a un’eccedenza (se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra, tu pórgigli anche l’altra ... a chi vuole portarti in tribunale e toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello ... se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? ...Voi, dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste), a un di più che renderebbe la vita nostra assai più desiderabile, ma frustrante spesso per l’incapacità di accedervi.

Evidentemente Gesù non ha di mira semplicemente il buon comportamento, una forma di giustizia basata sul principio della reciprocità alla quale gli uomini in genere si attengono: io ti faccio questo se tu mi fai lo stesso. Gesù invita invece alla santità come comunione di vita con Dio, alla santità come partecipazione all’amore di Dio per i suoi figli. L’invito allude alla natura stessa del cuore dell’uomo, che ha una profonda nostalgia di Dio. Non tanto però di Dio in generale, ma dei comportamenti secondo Dio, comportamenti che strutturano i sogni del cuore degli uomini. Con l’invito a quell’eccedenza, Gesù non fa che svelare le possibilità del cuore dell’uomo una volta che si lasci toccare dalla rivelazione del regno dei cieli che in lui si fa manifesto e partecipabile.

Non c’è scritto da nessuna parte nell’Antico Testamento di amare il prossimo e odiare il nemico. Quella espressione non appartiene alla rivelazione di Dio. Al cuore dell’uomo sembrava di poter interpretare il comandamento di Lv 19,18: Amerai il tuo prossimo come te stesso nel senso di: tu devi amare il tuo compagno, ma sei dispensato dall’amare il tuo nemico. Gesù ricollega l’amore del prossimo all’imitazione di Dio, il cui nome, rivelato a Mosè sul Sinai e ripreso dal salmo 102, suona: Misericordioso e pietoso è il Signore, lento all’ira e grande nell’amore. La misericordia è tipica di Dio. Nell’Antico Testamento l’aggettivo misericordioso è attribuito solo a Dio e mai all’uomo, mentre nel Nuovo Testamento l’aggettivo perfetto si dice dell’uomo e mai di Dio. Il che significa che ciò che fa splendere il cuore dell’uomo è l’amore pieno di misericordia: esprime la partecipazione alla santità di Dio e la natura della perfezione richiesta all’uomo. E la perfezione propriamente consiste nell’avere un cuore non diviso, come ricorda la lettera di Giacomo 1,4-8.

Se consideriamo il passo parallelo di Luca, con gli esempi che adduce, cogliamo ancora meglio quale sia la natura della perfezione richiesta all’uomo per godere della rivelazione del regno dei cieli:

fate del bene a coloro che vi odiano: agite in modo che risplenda il bene per coloro che vi odiano;

benedite coloro che vi maledicono: portate in pace la maledizione che vi viene dagli uomini senza scadere nella vendetta delle parole, mantenete il cuore nella pace senza corromperlo con la rabbia di parole insolenti, non ricambiate con parole irose chi vi ferisce, né in voi stessi né in presenza d’altri, custodendo l’onore per la persona che l’ha calpestato;

pregate per coloro che vi trattano male [che vi calunniano]: resistete alla tristezza che vi invade quando siete calunniati per malevolenza e invidia; la preghiera sincera vi custodirà nella carità.

Così la ricompensa di cui parla Matteo allude all’agire che esprime la gioia del Regno di Dio che ha lambito il cuore e che rende capace l’uomo di comportarsi non in termini di pura reciprocità ma in una logica di sovrabbondanza. È la capacità che il Messia dona ai suoi discepoli, quello che l’antica colletta domanda: possiamo conoscere ciò che è conforme alla tua volontà e attuarlo nelle parole e nelle opere. Da interpretare: possiamo aprire il nostro cuore alla promessa di vita che la parola del Signore cela e possiamo aprire gli eventi della nostra vita al Regno che viene.

Se la Legge aveva stabilito quella che siamo soliti chiamare la legge del taglione nel tentativo di arginare la sete di vendetta di fronte alle offese, Gesù ricorda di non opporsi nemmeno al malvagio, nel senso di rispondere al male con il bene perché il male non si propaghi. Gli esempi hanno un valore simbolico per sottolineare l’eccedenza nel volere il bene comunque (come racconta Gv 18,22-23, Gesù non ha offerto l’altra guancia a colui che l’aveva schiaffeggiato di fronte al Sommo Sacerdote, ma ha custodito comunque il bene; chi ti costringe ad accompagnarlo per un miglio allude al diritto dei funzionari del re di costringere chiunque all’aiuto richiesto, come sarà il caso del cireneo che porterà la croce di Gesù per un tratto di strada e Gesù invita ad agire non per dovere o sotto costrizione, ma in benevolenza). La finale, che riassume il senso di tutti gli esempi riportati: Voi, dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste, richiama proprio la santità di Dio che è amore per tutti i suoi figli, il cui bene precede l’agire degli uomini e quindi non ne dipende. L’eccedenza a cui allude Gesù ha proprio a che fare con questo Bene di Dio che in Gesù si comunica all’uomo perché l’uomo non dipenda mai dal male, anche se lo subisce. La legge potrebbe essere definita come la fatica di arginare il male, mentre l’evangelo la possibilità di vincerlo. Alla fin fine solo la fiducia in quella possibilità ci rende capaci di non dar spazio al male.

 

§*§*§*§*§*§*§*§*§*§

 

Quarto ciclo

Anno liturgico A (2010-2011)

Tempo Ordinario

 

8a Domenica

(27 febbraio 2011)

 

_________________________________________________

Is 49,14-15;  Sal 61;  1Cor 4,1-5;  Mt 6,24-34

_________________________________________________

 

Perché la fiducia in Dio trova spesso le porte chiuse del nostro cuore? Certo non per cattiveria, non per incredulità, ma per l’oppressione degli affanni e delle afflizioni della vita. Il Signore lo sa e in molte occasioni cerca di conquistarci alla fiducia. È l’argomento delle letture di oggi.

Il brano di Isaia lo dichiara splendidamente: “Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se costoro si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai”. Sono le parole con cui Dio risponde all’angoscia del popolo: “Il Signore mi ha abbandonato, il Signore mi ha dimenticato”. Il profeta aveva già annunciato il ritorno glorioso degli esuli nella terra dei padri, ma quando sarebbe avvenuto? Ogni israelita poteva domandarsi: lo potrò vedere io? In altre parole: è possibile nelle afflizioni continuare a fidarsi di Dio?

Il brano di vangelo risponde a questo interrogativo e ne stabilisce come la condizione di fondo: non si possono servire due padroni, non è salutare preoccuparsi del domani, non serve affatto preoccuparsi. Sì, ma l’indicazione di Gesù non procede da buone ragioni. Mira ad altro. Invita i cuori all’esperienza della fede, esperienza che deriva dal fascino suscitato dal nuovo annuncio evangelico di Gesù, che si presenta come il Dono di Dio all’uomo. Sarà la sua vita, il suo agire, le sue parole a far vedere giunto fino a noi il Regno di Dio, a convincerci dell’amore grande del Padre per i suoi figli di cui cerca la compagnia. Senza la percezione gioiosa di questa ‘novità’, sarà difficile mantenere la fiducia in Dio quando le preoccupazioni, d’altronde necessarie, della vita ci assilleranno fino a soffocarci.

Matteo inserisce le ammonizioni di Gesù nel contesto di una ritrovata libertà dalle preoccupazioni per un cuore conquistato dall’annuncio del vangelo tanto da indurlo a focalizzare tutti i suoi sforzi su di un unico obiettivo: custodire la gioia del vangelo nelle vicissitudini quotidiane. Luca, invece, inserisce le stesse ammonizioni nel contesto della testimonianza del discepolo di Gesù di fronte al mondo. L’invito a non preoccuparsi dei beni della vita diventa l’invito a non avere paura, a non temere quello che ci può venire dagli uomini perché “al Padre vostro è piaciuto dare a voi il Regno” (Lc 12,32). Evidentemente, il cuore deve poter essersi già dischiuso a percepire la bellezza di quel ‘regno’, di cui la Chiesa è allusiva e di cui è la memoria tra gli uomini e per il quale la fede nel Cristo Signore è porta di accesso. La narrazione evangelica tende a questo, come del resto tende a questo anche la celebrazione liturgica.

Quando il canto al vangelo proclama che “la parola di Dio è viva ed efficace, discerne i sentimenti e i pensieri del cuore”, nel contesto del brano evangelico odierno significa: non si può a lungo mescolare ciò che è importante, essenziale, con ciò che è superficiale, vacuo. Se la parola del Signore tocca il nostro cuore, allora appare subito evidente che non si può barattare il di più con il di meno. Se voglio la ricchezza comunque, ciò vuol dire che non voglio il Signore e quindi non mi interessa la giustizia; se voglio il mio diritto comunque, ciò significa che non mi sta a cuore il prossimo; se voglio un bene a scapito della giustizia, ciò significa che non voglio la pace: “Solo in Dio riposa l’anima mia: da lui la mia speranza”.

Di fronte alle preoccupazioni e alle vicissitudini della vita, Gesù invita: “Cercate invece, anzitutto, il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta”. È come un invitare a vivere da dentro una relazione riuscita, quella per cui tutte le cose che cerchiamo trovano la loro destinazione di fondo. Non agire in questo modo significa vivere a partire dall’assillo della paura che attanaglia il cuore dell’uomo. Non è solo la paura di non avere quello che ci è necessario, ma la paura che altri prendano quello che è nostro, per cui la lotta contro la paura si risolve nella diffidenza verso tutti e nella lamentela contro la vita.

La scoperta da fare è proprio la benevolenza di Dio che ha deciso di ‘darci il Regno’ comunque. Il ‘regno’ non si sostituisce ai beni di questo mondo, che ci sono necessari. Fa’ in modo che il perseguimento dei beni non ci perverta il cuore, contro noi stessi e contro il prossimo; fa in modo che i beni raggiungano la loro vera destinazione nel senso di schiudere il cuore alla gratitudine e alla condivisione perché l’amore di Dio splenda nel mondo. Non si tratta però di una saggezza umana, forse anche condivisibile, ma incapace di rispondere al dramma dell’uomo e della storia. Si tratta del segreto di Dio per l’uomo, che Gesù svela e che partecipa ai cuori che sono disposti ad accoglierlo, come più avanti nel racconto evangelico dirà: “Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero” (Mt 11,28-30).

 

§*§*§*§*§*§*§*§*§*§

 

Quarto ciclo

Anno liturgico A (2010-2011)

Tempo Ordinario

 

9a Domenica

(6 marzo 2011)

 

_________________________________________________

Dt 11,18.26-28.32;  Sal 30;  Rm 3,21-25a.28;  Mt 7,21-27

_________________________________________________

 

Con il brano di oggi termina il grande discorso della montagna, che Matteo sigilla con l’annotazione: “Quando Gesù ebbe terminato questi discorsi, le folle erano stupite del suo insegnamento: egli infatti insegnava loro come uno che ha autorità, e non come i loro scribi”.

Il brano di oggi suona come la conclusione che ha il valore di suggerire l’atteggiamento interiore appropriato per l’ascolto di tutto il lungo discorso precedente: “Non chiunque mi dice: ‘Signore, Signore’, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli”. Sono parole che sentiremo emergere dal fondo del cuore allorquando ci troveremo, insieme a tutti i nostri fratelli, senza distinzione alcuna, alle porte del regno dei cieli davanti al Signore giudicante. Verrà svelato il segreto dei cuori, senza più possibilità di darla a intendere. La parabola del giudizio finale riportata in Matteo 25 dice la stessa cosa. Quelle parole servono ora come discriminante per la sincerità del servizio divino di fronte alla parola di Dio che risuona sulle labbra di Gesù e in tutte le Scritture: si ascolta per fare e si fa per ascoltare.

Nella tradizione ebraica, nella quale si inserisce la parabola di Gesù della casa costruita sulla roccia o sulla sabbia, si spiegava la cosa in questi termini: “Colui le cui opere superano la sua sapienza, la sua sapienza si mantiene. Ma colui la cui sapienza supera le sue opere, la sua sapienza non si mantiene” (Detti dei Rabbini, III, 11). Chiunque accoglie la Parola con l’intenzione di metterla in pratica, nel momento stesso in cui l’accoglie con questa intenzione, è come se l’avesse messa in pratica. Proprio come sottolinea il libro dell’Esodo: “Faremo e ascolteremo” (Es 24,7) e non ‘ascolteremo e poi faremo’, cosa di per sé più logica. E si aggiunge che quando le opere dell’uomo superano la sua sapienza, il suo desiderio di sapienza  è più grande della sapienza che ha, ed egli si trova ogni giorno ad accrescere il suo sapere. Ma se la sua sapienza supera le sue opere, il suo desiderio di sapienza è inferiore alla sapienza che ha, e così il suo sapere diminuisce costantemente.

Ascoltare per mettere in pratica: questo è l’atteggiamento adatto all’ascolto della parola di Dio. La si comprende se ci accetta in anticipo di metterla comunque in pratica; diversamente, il suo segreto resta velato ai nostri occhi e non alimenterà la vita del nostro cuore. Siamo salvati per la fede, ma saremo riconosciuti sinceri nella nostra fede solo per la carità. E la carità, che corrisponde a quella ‘volontà del Padre’ di cui parla Gesù, è la misericordia verso il prossimo, vera discriminante dell’autenticità della fede nel Signore Gesù. È interessante osservare che nella parabola di Gesù l’uomo che costruisce sulla roccia è un uomo ‘saggio’, mentre chi costruisce sulla sabbia è un uomo ‘stolto’. Sono gli stessi aggettivi che vengono usati per le dieci vergini, cinque sagge e cinque stolte. La differenza è data dalla presenza o meno della misericordia verso il prossimo nel nostro credere al Signore.

Così, resta illuminante il canto al vangelo come porta di accesso al brano evangelico: “Io sono la vite, voi i tralci, dice il Signore; chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto” (Gv 15,5). L’esperienza delle fede nel Signore Gesù è autentica nella misura in cui, restando una cosa sola con lui, partecipiamo di quella dinamica di carità che l’ha mosso a dare la vita perché sia riscattata la dignità degli uomini e il mondo creda all’amore del Padre. Ripetere o cercare di comprendere le sue parole senza partecipare alla dinamica interiore, vale a dire all’amore che le ha fatte proferire e di cui vivere nella relazione con i nostri fratelli, vuol dire fallire lo scopo stesso della fede.

Di questo ci avverte Gesù alla fine del suo programmatico discorso della montagna, che la gente percepisce nella sua novità di autorevolezza. Autorevolezza, che sarà sigillata sulla croce, quando la sapienza dell’uomo verrà meno per far posto alla misteriosa rivelazione di Dio. Se il cuore non facesse spazio a questa rivelazione (questo significa, in fondo, ‘faremo e ascolteremo’), vorrebbe dire che l’uomo pretenderebbe di introdurre Dio nella sua mente, cioè si creerebbe il suo idolo più grande. Non è l’uomo a salvarsi con il ‘dio’ che adora, ma è Dio che salva l’uomo se acconsente alla rivelazione del suo amore, che si traduce nella responsabilità di cura e premura verso i fratelli più deboli perché così è esaltato l’amore del Signore che salva.

 

§*§*§*§*§*§*§*§*§*§

 

Quarto ciclo

Anno liturgico A (2010-2011)

Tempo di Quaresima

 

1a Domenica

(13 marzo 2011)

 

_________________________________________________

Gn 2, 7-9; 3, 1-7;  Sal 50;  Rm 5,12-19;  Mt 4, 1-11

_________________________________________________

 

Introdurre il cammino quaresimale con il racconto delle tentazioni di Gesù rivela l’intuizione profonda della Chiesa sul cuore dell’uomo. Ci rendiamo conto che l’urgenza della conversione non è collocata semplicemente nella lotta tra il bene e il male, ma sul fondale che rende tale lotta necessaria per la verità e la libertà.

L’esperienza che la prova o la tentazione sia un evento normale della nuova vita in Cristo non è un dato acquisito pacificamente dalla nostra coscienza interiore. La prima cosa strana per noi è il fatto che Gesù sia tentato proprio nel momento in cui registra la pienezza di Spirito che lo abita. Viene condotto nel deserto per essere tentato proprio dallo Spirito di cui è ripieno. Il diavolo si servirà, per le sue trame contro di lui, proprio della dichiarazione della voce udita al battesimo: “Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento, quando gli sussurrerà negli orecchi: Se tu sei Figlio di Dio, da intendere: poiché tu sei figlio di Dio, allora ...

La vera lotta non è semplicemente tra il bene e il male, ma tra Dio e gli idoli, tra la verità e la seduzione. Non per nulla le collette parlano di vittoria sulle seduzioni del maligno per crescere nella conoscenza del mistero di Cristo e nella capacità di testimoniarlo con una degna condotta di vita. Tutto il cammino quaresimale punta qui.

In rapporto a che cosa la nostra condotta di vita risulterà degna? Le tentazioni di Gesù ce lo rivelano. Le tre tentazioni corrispondono alle tre tentazioni del popolo di Israele nel deserto: la fame (manna), la sete (Massa), il vitello d'oro. Il diavolo lo tenta come Figlio di Dio cercando di indurlo a dimostrare che lo sia. Se però Gesù cercasse di dimostrarlo, vorrebbe dire che in realtà dubita e quindi confermerebbe il pensiero del diavolo. Ma Dio è Dio proprio perché non ha bisogno di dimostrarlo. La tentazione più potente, però, si gioca a livello del suo essere Messia. È come se il diavolo insinuasse: non vuoi salvare gli uomini? Quale mezzo più efficace che sfamarli o strabiliarli planando dolcemente a terra buttandosi giù dal pinnacolo del tempio!

Se Gesù avesse ceduto, non avrebbe potuto vedere chiaramente l'intenzione segreta di satana e sarebbe rimasto inconsapevolmente nella sua orbita. Come se satana dicesse: se tu davvero dominassi e avessi potere su tutto, gli uomini rimarrebbero abbagliati da questo splendore e ti seguirebbero. Io sono disposto a cederti questo splendore, ma tu devi ammettere che sono io a dartelo. Su questo punto preciso si rivelano le intenzioni segrete dei cuori: o si adora Dio o si idolatra qualcuno o qualcosa, anche con l’intenzione più nobile possibile.

In rapporto alla prima tentazione possiamo commentare la risposta di Gesù con l’altra sua affermazione: Cercate invece, anzitutto, il regno di Dio e la sua [= di Dio] giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta (Mt 6,33). Ogni bisogno, nobile o ignobile che sia, che non attinga la sua verità da dentro quella misura suprema del regno di Dio e della misericordia salvatrice di Dio, risulterà distruttivo. Non esiste un idolo liberatore o salvatore.

Le parole di satana nella seconda tentazione sono rivelate in tutta la loro portata nel momento cruciale della vita di Gesù allorché, appeso in croce, si sente apostrofare: Ha salvato altri e non può salvare se stesso! È il re d’Israele; scenda ora dalla croce e crederemo in lui. Ha confidato in Dio; lo liberi lui, ora, se gli vuol bene. Ha detto infatti: Sono Figlio di Dio! (Mt 27, 42-43). Vi sono racchiuse in sintesi tutte e tre le tentazioni. Nella logica del maligno, di cui gli uomini fanno le spese nella loro vita, veramente Gesù non può salvare se stesso (non si sfama con un miracolo), non può dimostrare nulla (non si butta dal pinnacolo) e non viene liberato dalla morte (adora davvero Dio solo). Eppure, proprio quel non salvare se stesso, non voler dimostrare nulla, non essere liberato dalla morte, comporterà la rivelazione del vero amore di Dio che riempie la sua vita e che riverbererà sul cuore degli uomini che non vorranno più illudersi.

La terza tentazione può essere accostata alla dichiarazione di Gesù: E come potete credere, voi che ricevete gloria gli uni dagli altri, e non cercate la gloria che viene dall’unico Dio? Le azioni che non procedono dall’adorazione di Dio sono vincolate alla gloria del mondo, il cui detentore è il maligno. Con azioni del genere non si svilupperà nel cuore né la gratitudine né la libertà. E l’uomo resterà irretito nell’illusione.

La cosa strana è che noi, pur rifiutando l’azione del male, non riusciamo a vincere la sua seduzione perché non rinunciamo alla visione mondana sottostante, alla visione del maligno, vale a dire: immaginiamo che Dio debba servire ai nostri scopi o interessi. La vittoria di Gesù sul maligno dice altro, dice che stare dalla parte di Dio significa servire l’uomo nella verità del suo amore per lui.

La penitenza quaresimale va diretta proprio contro l’illusione. Le risposte di Gesù frantumano l’illusione con la quale il diavolo irretisce per impedirci di essere liberi e veritieri. E lo scopo del vincere l’illusione lo rivela assai bene s. Francesco nel commentare il Padre Nostro: "sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra: finché ti amiamo con tutto il cuore, sempre pensando a te; con tutta l'anima, sempre desiderando te; con tutta la mente, orientando a te tutte le nostre intenzioni e in ogni cosa cercando il tuo onore. E con tutte le nostre forze, spendendo tutte le nostre energie e sensibilità dell'anima e del corpo a servizio del tuo amore e non per altro; e affinché amiamo il nostro prossimo come noi stessi, trascinando tutti con ogni nostro potere al tuo amore, godendo dei beni altrui come dei nostri e compatendoli nei mali e non recando offesa a nessuno". È l'illusione infranta, la libertà acquisita, lo spazio nuovo dell'umanità da riempire.

 

§*§*§*§*§*§*§*§*§*§

 

Quarto ciclo

Anno liturgico A (2010-2011)

Tempo di Quaresima

 

2a Domenica

(20 marzo 2011)

 

_________________________________________________

Gn 12,1-4a;  Sal 32;  2Tm 1,8b-10;  Mt 17,1-9

_________________________________________________

 

Il cammino quaresimale porta alla Pasqua di risurrezione, ma la chiesa sa che prima dell'esultanza della risurrezione viene il dramma della morte. Così, prima di ritrovarci immersi nel dramma della passione e della morte, la liturgia ci consola con la visione della trasfigurazione, allo scopo di predisporci a vedere nel volto che sarà martoriato e insanguinato il volto del Signore della gloria.

L’evento è riportato dopo la decisione di Gesù di salire a Gerusalemme e dopo aver rivelato la sua passione ai discepoli, che l’avevano confessato come il Cristo, il Figlio del Dio vivente. Il racconto è nella logica dell’avvertimento di Gesù a Pietro: “Va’ dietro a me” e ai discepoli: “Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua”. La cosa appare in tutto il suo fascino e la sua drammaticità proprio nell’evento della trasfigurazione.

In gioco sono gli occhi e gli orecchi. Per gli occhi si tratta di un godimento, per gli orecchi di un’angoscia. Matteo è l’unico a sottolineare che la paura assale gli apostoli quando ascoltano la voce entrando nella nube. Così, il punto di convergenza dell’evento non riguarda il vedere, ma l’ascoltare. Il racconto si conclude infatti con la proclamazione della voce: “Questi è il Figlio mio, l’amato... Ascoltatelo”. Come a sottolineare che, se il racconto è per gli occhi, lo scopo che ne costituisce la ragione è per gli orecchi, con l’evidente conseguenza che soltanto ascoltando si potrà vedere. La supplica della colletta della messa è in funzione dell’ascoltare; sarà l’ascoltare che purificherà gli occhi del cuore perché possano vedere.

Ma perché l’ascoltare genera paura?

Possiamo forse sfiorare la misteriosità di questo evento partendo dalle parole di Pietro: “Signore, è bello per noi essere qui!”, che gli altri evangelisti spiegano dicendo che Pietro parlava senza sapere cosa dicesse. Poco prima della passione di Gesù, Pietro gli dichiara che non l’avrebbe mai rinnegato, che non si sarebbe scandalizzato, che avrebbe dato la vita per lui. Anche allora non sapeva quello che diceva. Lo sapeva però Gesù sia nel senso di predirgli la caduta imminente sia nel senso di conoscere il suo cuore che lo amava per davvero. Pietro equivoca sul ‘bello’ della scena perché la vorrebbe prolungare e Luca annota che Pietro esce con quell’esclamazione estasiata proprio nel momento che Mosè ed Elia prendono congedo da Gesù. Avevano parlato del suo esodo da questo mondo e ne avevano confermato la gloria (del mistero d’amore della sua morte e risurrezione tutte le Scritture parlano!), ma Pietro tarda a comprendere e viene richiamato al mistero della gloria di Gesù con la ‘paura’ che vive quando entra nella nube e sente le parole del Padre: “Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo”.

I discepoli sono costretti a coniugare il ‘bello’ con la ‘paura’ e la via suggerita è l’ascolto. Non si tratta di ascoltare parole, ma di seguire Gesù dovunque vada e dovunque chiami, traducendo la potenza della parola in un muoversi andando dietro a Gesù comunque, fino a che lo splendore del suo amore si riveli al cuore manifestando tutta la bellezza del suo volto di Figlio, inviato a mostrare quanto è grande l’amore del Padre per i suoi figli. La dinamica dell’ascoltare va nella direzione di sentire su di sé quello sguardo di ‘compiacimento’ che riposa totale e definitivo sul Figlio, di cui condividiamo l’intimità con il Padre. Tutte le parole alludono all’amore e l’agire all’Amato di cui si condivide il destino nel dono di sé perché tutti abbiano la vita.

L’esempio di Abramo è eloquente. Sente la voce di Dio: “Vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre”. Non conosce nulla del nuovo paese: sa solo che Dio gliene fa promessa. Sarà il suo ascoltare che gli consentirà di vedere la benedizione realizzarsi. Proprio perché accetta la relazione con Colui che lo coinvolgeva nella sua storia sacra fino a diventare il suo Dio, lascia la sua casa (se scegli il Padre celeste, devi lasciare quello terreno; se scegli il regno di Dio, devi lasciare ogni altro regno; se ti accetti da Dio, di Dio e secondo Dio devi vivere, come dirà Cipriano nel suo commento al Padre nostro) e per questo, oltre a godere della benedizione di Dio, diventa benedizione lui stesso per tutti perché rivela la grandezza dell'amore di Dio e lo splendore che si irradia su tutto.

Così, se Abramo ascolta Dio, Gesù ascolta il Padre, i discepoli ascoltano Gesù e il frutto della benedizione promessa rivelerà il suo splendore. Per gli uomini, quello splendore consisterà nel godere della visione del volto del Cristo, testimone dell’amore di Dio per gli uomini, nella gloria della Pasqua di morte e risurrezione, condividendo nella loro umanità lo sguardo di compiacenza del Padre che riposa tutto sul suo Figlio benedetto. L’ascolto condurrà così alla visione di colui che mentre ci squaderna il segreto di Dio per l’uomo fa rilucere il mondo dello splendore della sua bellezza.

 

§*§*§*§*§*§*§*§*§*§

 

Quarto ciclo

Anno liturgico A (2010-2011)

Tempo di Quaresima

 

3a Domenica

(27 marzo 2011)

 

_________________________________________________

Es 17,3-7;  Sal 94;  Rm 5,1-2,5-8;  Gv 4,5-42

_________________________________________________

 

Le liturgie quaresimali sanno indicarci i percorsi della conversione del cuore con le domande di fondo essenziali. Una di queste domande, forse non sempre espressa, ma continuamente serpeggiante nel cuore, è quella del popolo di Israele, esasperato nel deserto dalla fame e dalla sete: “Il Signore è in mezzo a noi sì o no?”. Il Signore aveva liberato gli israeliti dalla schiavitù dell’Egitto, ma prima di permettere loro di entrare nella terra promessa li ‘educava’ con grazie e tormenti. Come se il Signore volesse sincerarsi della fiducia del suo popolo in Lui. Più volte questa fiducia è messa a dura prova. Ora il popolo ha sete, rischia di morire di sete. Che senso avrebbe l’uscire dall’Egitto per morire nel deserto? E Dio concede il miracolo dell’acqua. La domanda del popolo però non è provocatoria o irriverente; semplicemente, è angosciante: il Signore è con noi? Ogni prova fa emergere il dubbio: ma Dio vuole davvero il nostro bene? L’insinuazione dell’antico serpente disturba i sogni di felicità dell’uomo.

A questa domanda risponde il brano del vangelo. Il cuore dell’uomo non ha bisogno di qualche miracolo, ogni tanto, da parte di Dio; ha bisogno di Dio, sempre, ma percepito, scoperto vicino, toccato, sentito, visto, amato e cercato con ardore. L’acqua che Gesù promette alla samaritana è l’acqua di una sorgente zampillante che continuamente butta, e da dentro il proprio cuore.

Il brano dell'incontro di Gesù con la samaritana è uno di quei brani di cui ci sfuggono continuamente le allusioni facendoci sentire stranieri nelle Scritture, stranieri in casa nostra. Il colloquio di Gesù con la samaritana acquista un altro valore, ad esempio, se teniamo presenti le reminiscenze legate al luogo, Sichem (cfr. Gn 12,6; 34; 37; Gs 24; 1Re 12) e soprattutto al pozzo. Nota era la leggenda targumica legata al pozzo di Giacobbe raccontata a commento del passo di Gn 29,10, quando Giacobbe leva la pietra dal bordo del pozzo per dare da bere al gregge di Labano: “Quando il nostro padre Giacobbe levò la pietra da sopra la bocca del pozzo, la fonte zampillò su e venne alla sua bocca e zampillava e veniva alla bocca per vent’anni – tutti i giorni che abitò ad Haran”. Nel sogno popolare il pozzo di Giacobbe trasbordava spontaneamente, senza bisogno di attingere e irrigava, con i suoi quattro bracci, tutto il campo di Israele come il fiume del paradiso terrestre in Gen 2,10-14. Quando la samaritana si rivolge a Gesù come a uno che si vorrebbe più grande di Giacobbe, allude esattamente a quel ‘sogno’ e rivela indirettamente che Gesù è proprio colui che quel sogno realizza per l’uomo. Dire che la samaritana ha avuto cinque mariti, vuol dire alludere al fatto che nella sua vita è stata abbandonata cinque volte (per la legge, era l’uomo che lasciava la donna e non viceversa) e perciò significa riconoscere la sua profonda insoddisfazione, la sua ferita, la sua impossibilità di trovare l’acqua che risani e disseti il suo cuore. Oppure, possiamo leggere il brano con le allusioni alla passione del Signore: l’ora sesta è l’ora in cui ha luogo la crocifissione; la sete di Gesù allude alla sua sete degli uomini, che manifesta sulla croce; l’acqua che zampilla fa riferimento al costato, aperto dalla lancia del soldato, da dove fuoriescono sangue e acqua; la proclamazione finale dei samaritani che Gesù è il salvatore del mondo allude al riconoscimento sotto la croce che Gesù è davvero Figlio di Dio.

Il brano è suddiviso in due scene: il colloquio con la samaritana incentrato sull’immagine dell’acqua e il colloquio con i discepoli incentrato sull’immagine del cibo. Ci sono due tipi di acquietamento della sete e della fame che non soddisfano l’uomo alla ricerca di relazione, di senso, di vita, di felicità. Lasciare la fiducia nel Signore per riporla negli idoli crea illusione; voler praticare la Legge come un assolvimento di obblighi e una esibizione di innocenza provoca delusione e tristezza. Non è questa l’adorazione in spirito e verità che cerca il Signore. Il punto nevralgico del racconto dei due colloqui è dato dal fatto che l’uomo, assetato, ma desideroso di acqua viva e cibo vero, si trovi aperto alla rivelazione donata da Dio: lì davanti c’è colui che, unico, ha il potere di dare la vita, di fornire la fonte dell’acqua, di dare il cibo di vita eterna, il suo stesso corpo. “Dio ha tanto amato il mondo da mandare il suo Figlio unigenito…”: cogliere questa rivelazione in quell’uomo che ti parla, che ti ha voluto incontrare, che ti segue nei meandri del tuo cuore e che, facendoti emergere il desiderio di verità e di vita che vi sta sepolto, lo può soddisfare, è il mistero della conversione. Conversione che si riassume nell’espressione della Scrittura: ‘guarderanno a colui che hanno trafitto’, vale a dire: incontro rigenerante con colui che ti disseta e sfama con l’amore che quella ferita ha mostrato al mondo. Quando, rimirando quell’innocente appeso sulla croce, ci si rende conto del mistero dell’amore di Dio che è arrivato agli uomini, allora la parola di verità ascoltata si fa parola vera del mio cuore, la promessa di vita diventa vita mia, la sua ‘sete’ e ‘fame’ di noi si fa acqua e cibo per la vita del nostro cuore, dono di Dio e volontà di bene di Dio per noi.

 

§*§*§*§*§*§*§*§*§*§

 

Quarto ciclo

Anno liturgico A (2010-2011)

Tempo di Quaresima

 

4a Domenica

(3 aprile 2011)

 

_________________________________________________

1Sam 16, 1b.4a. 6-7. 10-13a;  Sal 22;  Ef 5, 8-14;  Gv 9, 1-41

_________________________________________________

 

Tutto il racconto del miracolo del cieco nato (da notare, che in tutti i vangeli, solo qui si parla di un cieco dalla nascita) è intessuto da una sottile ironia. Giovanni è un abilissimo narratore. L’ironia con cui narra il fatto mette in mostra tutte le nostre contraddizioni. Come i giudei del racconto, preferiamo dire che la rosa non ha profumo piuttosto che ammettere di avere il naso ostruito e insensibile. E si finisce nell’impossibilità di riconoscere l’evidenza.

Il brano non è però costruito sul fatto in sé, sul miracolo, ma su chi lo compie. Così, le domande più pertinenti a cogliere il senso del brano sono le domande attorno a quel profeta che ha compiuto quel gesto: “Dov’è costui?... Che cosa dici di lui? … E chi è, Signore, perché io creda in lui?”. Sotto quelle domande ce ne sta un’altra: “Come può un peccatore compiere segni di questo genere?”, espressa dai farisei e ripresa dallo stesso cieco guarito, eco della interrogazione degli apostoli con la quale si apre il racconto. Passando davanti al cieco dalla nascita gli apostoli domandano: “Rabbi, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?”. La risposta di Gesù dà la prospettiva entro la quale considerare il tutto: “Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è perché in lui siano manifestate le opere di Dio”.

La domanda esprimeva il tentativo di sfuggire all’angoscia del male da parte di una coscienza religiosa. Noi non formuleremmo più la domanda in quei termini, ma non per questo l’interrogativo di fronte al male ha perso la sua angoscia lancinante. Gesù non dà risposta in termini ‘ragionevoli’. Invita più semplicemente, ma più potentemente, a distogliere lo sguardo dal passato e volgerlo al futuro: “è perché in lui siano manifestate le opere di Dio”. Cosa significa? Vuol solo dire che si appresta a fare il miracolo? E per tutti gli altri ‘ciechi’ che non verranno mai guariti? S. Paolo, in Rm 3,9-20, ricorda che ‘tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio’. Sarebbe inutile cercare la causa 'indietro'; ci inchioda al non-senso e alla rabbia della frustrazione. La motivazione va cercata 'in avanti', rispetto a un 'qualcosa' che per noi deve ancora farsi, deve ancora rivelarsi. La vita scaturisce dalla fede nel senso che la si può vivere fidandoci del Bene di Colui che ci è venuto incontro e ci ha mostrato il suo Volto. Del resto, il mistero dell'amore umano trova qui le radici del suo insopprimibile fascino, nonostante le ferite e le delusioni alle quali così spesso ci condanna.

Non stare inchiodati al passato significa percepire che Qualcuno si è mosso per venirci incontro. Nel caso del cieco, non è lui a chiedere la guarigione: l’iniziativa è di Gesù. Lui ha fiducia e va a lavarsi alla piscina di Siloe. Quando Giovanni scrive il suo vangelo, Gerusalemme è ormai distrutta, ma si ricorda molto bene il rito dell’acqua che veniva attinta alla piscina, portata solennemente verso il tempio e versata attorno all’altare nella solennità della festa delle capanne (cfr. Gv 7,37-39). Siloe significa piuttosto ‘chi invia [le acque]’e Giovanni, rendendolo al passivo, ‘Inviato’, indica che la nostra guarigione si trova in Gesù, che poco prima si era definito ‘inviato’ dal Padre.

Ora, tornando alla risposta di Gesù, qual è l’opera di Dio? A noi verrebbe di rispondere subito che l’opera di Dio è il miracolo compiuto, miracolo che è così straordinario che dovrebbe indurre i cuori a credere. Il racconto invece dimostra il contrario. Alla fine nessuno crede a partire dal miracolo, che anzi viene messo in sordina per sottolineare l’ostilità crescente verso il profeta che l’ha compiuto. Solo il cieco, lui che il miracolo l’ha goduto nei suoi occhi, alla fine compie l’opera di Dio, quella cioè di credere in Colui che Dio ha inviato. Il senso del racconto sta proprio qui.

E qui si trova descritta la dinamica spirituale del credente, invitato alla stessa esperienza del cieco nato. Da un singolo evento (la guarigione dalla cecità) si arriva al coinvolgimento di tutta la propria vita (la fede nel Figlio dell'uomo). Oppure, per esprimerla con altra immagine, dalle cose si passa a scoprire un Volto e da questo Volto si torna, nuovi, alla propria vita, alla propria storia. Gli eventi ci sono dati per scoprire il Volto di Colui che il nostro cuore cerca e la scoperta di questo Volto ci rimanda agli eventi perché siano vissuti nella luce e nella vita che da Lui promanano. Così, l’esperienza dell’incontro con Gesù, luce della nostra vita, non si riferisce solo alla verità di una conoscenza che ci stana dalla menzogna, ma anche al calore di un incontro, alla rivelazione di un Volto che scalda e convince il cuore e riempie la vita e ne fa dono a tutti.

Ancora una piccola annotazione. Quando Gesù dice “Io sono la luce del mondo” non si può non risalire al racconto della creazione in Genesi 1,3, quando fu creata la luce. Non è semplicemente la luce fisica, quella che deriva dal sole, creato solo nel quarto giorno. È la luce della santità amorevole di Dio che attraversa il mondo, luce che è stata nascosta. È la luce che fa intuire il mondo dentro uno sguardo unico. È la luce che il messia rivelerà. È la luce che Gesù ha fatto risplendere liberando gli uomini succubi del serpente che li ha privati della gloria di Dio. Come fa pregare la preghiera dopo la comunione: “O Dio, che illumini ogni uomo che viene in questo mondo, fa risplendere su di noi la luce del tuo volto [il Signore nostro Gesù Cristo], perché i nostri pensieri siano sempre conformi alla tua sapienza e possiamo amarti con cuore sincero”.

 

§*§*§*§*§*§*§*§*§*§

 

Quarto ciclo

Anno liturgico A (2010-2011)

Tempo di Quaresima

 

5a Domenica

(10 aprile 2011)

 

_________________________________________________

Ez 37, 12-14;  Sal 129;  Rm 8,8-11;  Gv 11,1-45

_________________________________________________

 

Giovanni racconta nel suo vangelo sette miracoli di Gesù: la trasformazione dell’acqua in vino e la guarigione del figlio del funzionario a Cana, la guarigione del paralitico alla piscina di Betzata, la moltiplicazione dei pani, il camminare sulle acque, la guarigione del cieco nato. Il miracolo della risurrezione di Lazzaro è il settimo. È la rivelazione ultima, a noi accessibile, del Figlio di Dio, che ci introduce nel mistero della sua morte e risurrezione. In effetti, il brano termina con la decisione del sommo sacerdote di mettere a morte Gesù per salvare la nazione: “Da quel giorno dunque decisero di ucciderlo”.

Gesù stesso si premura di fornire la prospettiva nella quale vedere il miracolo: “Questa malattia non porterà alla morte, ma è per la gloria di Dio,affinché per mezzo di essa il Figlio di Dio venga glorificato”. Se Gesù, a proposito di Lazzaro, parla della sua gloria, non lo fa tanto in riferimento al miracolo che sta per compiere, ma in riferimento al fatto che tale miracolo costituisce il via libera alla sua ora, l'inizio della sua passione. Non per nulla i discepoli, Tommaso in testa, dicono: “Andiamo anche noi a morire con lui”. Il vedere Gesù che fa ritornare in vita Lazzaro non induce ad una esaltazione della sua persona, ma fa presagire come e perché Gesù abbia tale potere e quindi mette in risalto la sua disponibilità a morire per manifestare in tutta la sua potenza l'amore del Padre, da cui scaturisce la sua glorificazione e la vita per noi.

L’aveva proclamato precedentemente (cfr. Gv 5) dicendo che il Figlio fa ciò che vede fare dal Padre: “Come il Padre risuscita i morti e dà la vita, così anche il Figlio dà la vita a chi egli vuole” (con la sfumatura di significato: ‘dà la vita a coloro cui vuole bene’). Il brano del profeta Ezechiele l’ha sottolineato con l’immagine potente del soffio sulle ossa aride per indurre il popolo, deportato e avvilito oltre ogni speranza, a credere alla potenza di salvezza del Signore che l’avrebbe liberato e fatto abitare nella terra santa di Israele. Il racconto del miracolo non tende a suscitare in me che ascolto il desiderio di un altro miracolo per me, ma a entrare in relazione con colui che compie il miracolo in modo da godere della comunione di vita con lui, in modo da godere anch’io del dono della sua vita.

Inaspettatamente, quando Gesù, davanti al sepolcro di Lazzaro, chiede a Marta se crede a quello che le aveva detto, lei risponde: “Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio, colui che viene nel mondo”. Non dice: io credo che tu hai il potere di far risorgere i morti. Afferma la verità del suo incontro con lui, del suo amore. È per questo che potrà vedere la gloria di Dio. Così l’antica colletta ci fa pregare: “Vieni in nostro aiuto, Padre misericordioso, perché possiamo vivere e agire sempre in quella carità che spinse il tuo Figlio a dare la vita per noi”. Quella carità è il frutto della sua glorificazione. Il combattimento spirituale, la lotta contro il male, l’osservanza dei comandamenti altro non è che una partecipazione alla potenza della risurrezione, allorché la vita viene vissuta nella carità del Cristo che niente e nessuno potrà mortificare. È il principio della vita eterna, quello di una vita che non abbia altra consistenza se non come carità. L’incontro con Gesù apre a questa dimensione. Se lui è datore di vita lo è perché, facendo vivere nella sua carità, impedisce alla morte di tenere prigioniero il nostro cuore.

Il nostro gridare, nel salmo responsoriale: “Dal profondo a te grido, o Signore; Signore, ascolta la mia voce”, deriva dalla coscienza della nostra mortalità, non semplicemente come termine della vita biologica, ma come abisso di mortificazione della vita che stenta ad accedere alla carità di Dio. Quella ‘mortificazione della vita’ il Signore vince. L’episodio della risurrezione di Lazzaro si chiude non con il riconoscimento o l’incontro affettuoso di Lazzaro con Gesù, ma con il comando: “Liberatelo e lasciatelo andare”. Corrisponde all’invito di Gesù, dopo i miracoli di guarigione: ‘Va’, la tua fede ti ha salvato’. Venire a Gesù (questo potrebbe anche voler significare il grido di Gesù: Lazzaro, vieni fuori!) comporta vivere della sua vita, della vita che lui può dare e lo spazio di espressione di questa vita è ormai dato dalla fraternità che si vive nel mondo. A questa Gesù rimanda.

Dal punto di vista di Gesù, prevale invece il rendimento di grazie: “Padre, ti ringrazio che mi hai ascoltato. Io sapevo che sempre mi dai ascolto...”. Gesù è venuto per fare la volontà di Colui che l'ha inviato. La sua volontà è vivere in modo tale che l’amore del Padre per gli uomini possa risplendere in tutta la sua gloria. E questo si realizza con la sua passione e morte in croce, tanto che quella volontà di carità, non solo non ne resta mortificata, ma diventa per tutti noi che crediamo in lui fonte di vita non più soggetta alla morte. Questo fa sgorgare dal suo cuore il rendimento di grazie al Padre.

Gesù non ha voluto risparmiare la prova ai suoi amici. Viene a condividerla, tanto da restarne intimamente e profondamente scosso, tanto da esporsi alla sua prova, anzi provocando la sua prova con l'arresto e la morte imminenti.  Ma la sua non è una semplice condivisione della sofferenza umana. Il suo rendere grazie l’attraversa e la trasforma. Se esulta, non è per aver impedito alla morte il suo corso, ma per aver trionfato su di essa, nella comunione con il Padre per il suo amore agli uomini, radice di vita per coloro che credono.

 

§*§*§*§*§*§*§*§*§*§

 

Quarto ciclo

Anno liturgico A (2010-2011)

Tempo di Quaresima

 

Domenica delle Palme

(17 aprile 2011)

 

_________________________________________________

Mt 21,1-11 (ingresso a Gerusalemme)

Is 50,4-7; Sal 21; Fil 2,6-11; Mt 26,14-27,66

_________________________________________________

 

La liturgia della domenica delle Palme introduce alla settimana più importante dell'anno liturgico, la settimana della passione-morte-risurrezione di Gesù. È la settimana cruciale per la storia del mondo, quella che permette una visione d'insieme della creazione e della storia dell'umanità: “Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito ... per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi” (Gv 3,16  e 11,52). Le celebrazioni di questa settimana mostrano fino a che punto Dio ha amato il mondo, fino a che punto Gesù ha obbedito a questo amore, fino a che punto l'uomo è prezioso agli occhi di Dio, cioè fino a una misura sconfinata sia in larghezza che in profondità.

         Quest’anno le letture evangeliche sono prese da Matteo. Nella sua narrazione, l’arrivo a Gerusalemme di Gesù proveniente da Gerico, l’unica raccontata nei vangeli sinottici, è preceduto dalla guarigione dei due ciechi, dei quali si dice: “Gesù ebbe compassione, toccò loro gli occhi ed essi all’istante ricuperarono la vista e lo seguirono”. Lo seguirono nella strada per Gerusalemme. C’è bisogno di aver gli occhi aperti per cogliere il senso dell’arrivare di Gesù a Gerusalemme. Qui porta il suo cammino, qui lo spinge la sua vocazione, qui si compie quel disegno del Padre che Gesù andava illustrando con le sue parole e con i suoi atti, sebbene nessuno, neanche i suoi discepoli, fosse ben consapevole della posta in gioco.

         La liturgia di oggi accompagna Gesù nel suo ingresso trionfale a Gerusalemme ma per celebrare, con i testi della messa, l’inizio della sua drammatica passione. Storicamente parlando, l’ingresso di Gesù deve essere stato assai più modesto di quello che i testi fanno presagire, ma Matteo si premura di sottolineare il significato che comporta con l’aiuto di molti testi scritturistici.         Secondo la profezia messianica di Zaccaria 9,9-10, Gesù entra in città seduto sull’asina, tra i gesti di devozione dei discepoli e della folla che stendevano al suo passaggio i loro mantelli. La scena ha sapore regale perché ricorda la proclamazione di Salomone come re di Israele sulla mula di Davide (1Re 1,33-34); ricorda i patriarchi (Abramo si incammina verso il monte Moria per il sacrificio di Isacco a dorso di asino); richiama il re Messia mite e pacifico, che disdegna i cavalli perché simbolo di guerra.

         Nel particolare delle fronde tagliate riecheggia il sal 117,27: “Formate il corteo con rami frondosi fino agli angoli dell’altare” allorquando i sacerdoti dal tempio benedicevano i pellegrini che vi salivano dicendo: “Benedetto colui che viene nel nome del Signore … Dona, Signore, la tua salvezza [= Osanna]”. Anche la folla che accompagna Gesù riprende le parole del salmo: “Osanna al figlio di Davide! Benedetto colui che viene nel nome del Signore! Osanna nel più alto dei cieli!”.

La citazione risulta ancor più misteriosa se si tiene conto dell’antica versione aramaica: “Legate la vittima per la festa con rami frondosi fino agli angoli dell’altare”. A Gesù si fa festa perché è la vittima prescelta, ma nessuno ancora lo sa se non lui. L’acclamazione dell’Osanna era già risuonata sulla bocca degli angeli alla nascita di Gesù e risuona ora sulla bocca dei discepoli per la sua morte.

         Il fatto che Matteo sottolinei, come senza accorgersi dell’incongruenza, che Gesù si ponga sopra due animali, l’asina e il suo puledro, rivela l’urgenza per lui di simboleggiare il rapporto tra l’antica e la nuova alleanza, riassunte tutte e due nel gesto messianico di Gesù, il Messia pacifico nel senso che fa la pace tra ebrei e gentili, tra i vicini e i lontani. Anche la folla è descritta in due gruppi: c’è quella, più numerosa, che l’accompagna nel suo salire a Gerusalemme e c’è quella che esce da Gerusalemme incontro a lui, sebbene la città nel suo insieme resti sotto choc, come ai tempi di Erode e della visita dei Magi.

         Dal tripudio dell'ingresso in Gerusalemme la celebrazione passa repentinamente al dramma del racconto della passione, che dischiude direttamente il clima della settimana santa. È però singolare che nel rito ambrosiano la liturgia della domenica delle Palme comporti come due celebrazioni distinte: la messa dell'ingresso trionfale e la messa del giorno con il brano del servo sofferente di Isaia ed il vangelo dell'unzione a Betania di Maria. Almeno secondo la narrazione di Giovanni, una persona che si accorge di quanto sta succedendo c’è. È Maria di Betania. Cospargere di unguento assai prezioso (se la stima di Giuda è realistica, il costo ammonterebbe più o meno allo stipendio di un anno per un operaio) i piedi di Gesù e asciugarli con i suoi capelli finché tutto in quella casa senta di quel profumo, risponde al desiderio di accompagnare Gesù nella sua solitudine. Quel profumo rivela la morte imminente, che nessuno è pronto ad accettare, ma anche tutto l'amore che quella morte significa ed esprime, tutto l'amore che quel corpo dato per noi significa ed esprime. E i Padri antichi hanno visto in quel profumo versato su Gesù il pentimento dei nostri cuori, pentimento che si allarga ed impregna tutto perché l'amore che Gesù ha testimoniato con la sua passione non resti estraneo a niente di noi e perché niente di noi resista a tale amore.

         Quando s. Paolo, rivolgendosi ai suoi fedeli, li chiama 'profumo di Cristo', allude proprio a questa tenerezza che ha conquistato il cuore - così si può chiamare il pentimento per i nostri peccati - e che, riversandosi sul mondo, lo potrà conquistare perché tutto ormai parlerà dell'amore di Dio.

Da oggi e per tutta la settimana santa la prima lettura è tratta dal libro del profeta Isaia. Vengono proclamati i quattro canti del Servo del Signore (cap. 42, 49, 50 e 53) che, insieme al salmo 21, costituiscono le straordinarie testimonianze profetiche della passione di Gesù. Sono quei versetti a costituire la cornice di riferimento per lo svolgimento dei riti santi e sono quei versetti a esprimere la profondità e la tenacia dell’amore di Dio per l’uomo e insieme la tenerezza dell’amore dell’uomo per il suo Dio. Le espressioni sono altamente drammatiche ma l’esito colmo di speranza. Dalle prime parole del salmo: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” si arriva alle ultime, già piene del frutto di grazia ottenuto: “E io vivrò per lui, lo servirà la mia discendenza. Si parlerà del Signore alla generazione che viene; annunceranno la sua giustizia; al popolo che nascerà diranno: Ecco l’opera del Signore!”. Ma il tragitto passa per momenti estremamente oppressivi: “Ma io sono verme e non un uomo, rifiuto degli uomini, disprezzato dalla gente … Hanno scavato [forato] le mie mani e i miei piedi. Posso contare tutte le mie ossa…” (sal 21). Parole ancora piene degli echi del profeta Isaia che descrive il Servo del Signore così: “Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire ... Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati guariti” (Is 53). Parole e echi che si concretizzano in quell’uomo, inviato da Dio, vilipeso, schiacciato, deriso, torturato, crocifisso, che noi contempliamo nelle celebrazioni pasquali, il nostro Signore Gesù Cristo, che per noi ha patito, è morto e risorto.

 

§*§*§*§*§*§*§*§*§*§

 

Quarto ciclo

Anno liturgico A (2010-2011)

Tempo di Pasqua

 

Domenica di Pasqua

Risurrezione del Signore

(24 aprile 2011)

 

_________________________________________________

At 10, 34a. 37-43; Sal 117; Col 3, 1-4; Gv 20, 1-9

_________________________________________________

 

IL SIGNORE È RISORTO. È VERAMENTE RISORTO.

Un’antifona del sabato santo introduce al mistero della risurrezione del Signore: “Cristo per noi si è fatto obbediente fino alla morte, e alla morte di croce. Per questo Dio lo ha innalzato e gli ha dato un nome che è sopra ogni altro nome”. E così esulta la chiesa nell’inno pasquale: “Irradia sulla tua Chiesa la gioia pasquale, o Signore, unisci alla tua vittoria i rinati nel battesimo”. La gioia, quella vera, stabile, agognata, non può che essere pasquale; non solo nel senso che ci deriva dall’evento della Pasqua del Signore, che rende nota al cuore dell’uomo la motivazione inconfutabile della possibilità ritrovata di essere nella gioia, ma anche nel senso che la gioia è strettamente correlata al dramma, alla fatica, alla fedeltà di un amore che svela il mistero stesso della vita e che si esprime nel suo rivelare la potenza d’intimità con il Padre, autore della vita.

Gioia che per noi si risolve nel dolce perdono che Gesù ci riversa: “Tu, o Cristo, sei il nostro dolce perdono. Fa’ che di Te in ogni istante io mi sappia rivestire e non abbia potere su di me la miseria con cui mi vedo e mi sento. Con le tue ferite risanami, che io respiri e viva del tuo sguardo verso il Padre. Nelle tue piaghe nascondimi, che il sentimento della mia malinconia non si erga a obiezione della tua grandezza. Lasciami entrare nel tuo cuore, che io mi avvolga della sua benevolenza e mi faccia rinascere, finiti i terrori della notte, al mattino della tua presenza”.

Beato colui che nell’Uomo sofferente, di cui i riti della settimana santa hanno commemorato la passione gloriosa, ha visto il Figlio di Dio, il Testimone dell'amore del Padre. Beato colui che lo scandalo della croce non spezza, non deturpa, non divide da Dio e dagli uomini. Beato colui che ha l'intelligenza spirituale allenata e vivida per cogliere nella passione gloriosa di Gesù il mistero dell'amore di Dio per gli uomini e la dinamica di vita eterna di cui ci rende partecipi con il dono del suo Spirito.

Vivere nel Signore risorto ormai significa vivere in Colui che ci partecipa il suo Amore tanto da farlo diventare in noi radice di vita, criterio di discernimento del bene, scopo supremo dell'essere e dell'agire. E sarà possibile vivere in pienezza di questo amore senza soffrire? Qui si comprende il mistero di quel debole, umile, povero, che è Gesù. Per avvicinare i cuori degli uomini Dio ha messo da parte la sua potenza preferendo la debolezza (cfr Fil 2,8; ). Questa debolezza di Dio non svela solo l'immensità dell'amore di Dio per l'uomo, ma anche il desiderio profondo dell'uomo, il bisogno dell'uomo per essere tale, compiuto nella sua umanità. Ed il mistero scaturisce proprio qui: l'uomo, per scoprire la sua umanità, non può non guardare a questa debolezza di Dio. Tutto ciò che è fuori da tale debolezza, risulterà illusione e causerà ulteriore sofferenza, ma sorda, tragica, insensata, che porterà divisione e non comunione, che porterà rabbia e non riposo. La gioia pasquale lo proclama.

Il racconto della risurrezione di Gesù, come viene letto nel cap. 20 di Giovanni, cela una eccezionale ricchezza teologica ed è percorso da una tensione fortissima che proviene dal fatto di avvicinarci alla frontiera che delimita questo mondo dall’altro mondo, le cose di quaggiù dalle cose di lassù, ciò che si vede da ciò che ci viene mostrato soltanto. Le prime parole suddividono il tempo e tutto il capitolo, che narra gli eventi del giorno della risurrezione, giorno uno e ottavo, resta così suddiviso: l’alba, la tomba vuota (20,1-10); il mattino, Gesù appare a Maria (20, 11-18); la sera, Gesù si mostra ai discepoli (20, 19-23); il sigillo dell’ottavo giorno, l’apparizione a Tommaso (20, 24-29); la conclusione, la finalità del vangelo (20, 30-31).

Il primo giorno, il giorno uno della settimana, dischiude un tempo completamente diverso, un tempo nel quale tutto ciò che è stato compiuto fino ad ora si rivela come novità. Il primo personaggio che ci conduce alla soglia di questa novità è Maria Maddalena. Essa vive un’angoscia personale, un sentimento di assenza irrimediabile; per lei oramai il Signore è l’Assente; non può che sentirlo che così. Per prima vede la pietra del sepolcro tolta via e corre ad avvertire i discepoli. Se Giovanni parla della pietra tolta via dal sepolcro è per sottolineare, in questo Giorno della Risurrezione, che viene tolto l’ultimo impedimento alla vista, alla visione, come poi il brano dirà a proposito del discepolo entrato nel sepolcro: “Allora entrò anche l’altro discepolo … e vide e credette”. È come una richiesta che viene sussurrata al cuore dei possibili lettori del vangelo, la richiesta di avanzare nella conoscenza del mistero, di salire fino all’intelligenza della risurrezione che viene svelata poco a poco: “Vide e credette”. La tensione del racconto punta qui. Si tratta di una percezione folgorante che contemporaneamente fa comprendere l’evento e tutto ciò che l’ha preceduto, tutte le Scritture che a quello si riferivano. Non è un capire, ma un ricevere una rivelazione per la quale tutto si illumina e tutto prende luce.

Comunque sia spiegato l’evento, è chiaro che la risurrezione di Gesù era del tutto inconcepibile per i suoi discepoli. L’esperienza della tomba vuota situa ormai l’intelligenza del mistero di Dio in una luce assolutamente particolare e apre all’uomo l’accesso di un tempo eterno in cui situare la storia e gli eventi, attraversati così dallo splendore del corpo glorioso di Cristo, in attesa che quello splendore riempia gli occhi e investa il cuore.

L’augurio della gioia pasquale allude proprio al dono di quella luce che inonda gli occhi e il cuore per farci vivere nella presenza del Signore che ci trascina nel regno del Padre suo.

 

§*§*§*§*§*§*§*§*§*§

 

Quarto ciclo

Anno liturgico A (2010-2011)

Tempo di Pasqua

 

2a Domenica

(1 maggio 2011)

 

_________________________________________________

At 2,42-47; Sal 117; 1 Pt 1, 3-9; Gv 20, 19-31

_________________________________________________

 

Per tutta l’ottava è risuonata l’acclamazione pasquale: “Questo è il giorno fatto dal Signore: rallegriamoci e esultiamo”, ripresa dal sal 117. Se la risurrezione di Gesù inaugura il giorno fatto dal Signore, si comprende come essa non potesse appartenere all’orizzonte mentale dei discepoli. I racconti di risurrezione lo provano. Ma allora qual è il significato di quei racconti? In Giovanni, a differenza dei sinottici, i racconti delle apparizioni del Risorto non hanno un valore apologetico; non mirano semplicemente a comprovare la ‘realtà’ del corpo risorto di Gesù. La risurrezione di Gesù non è il ‘miracolo’ che può convincere della sua divinità. La fede degli apostoli come quella dei discepoli che li seguiranno, quindi anche la nostra, riposa sempre sulla parola trasmessa con la forza dello Spirito Santo e non sui segni visibili della Presenza. Non esiste ‘evidenza’ costringente del mistero di Dio e del suo amore per gli uomini.

Cosa allora ‘costringe’ il cuore dell’uomo a riconoscere il mistero di Gesù, morto e risorto? Notiamo anzitutto che non si tratta tanto di ‘riconoscere’ che Gesù è davvero risorto, quanto piuttosto di restare intimamente coinvolti nel dinamismo di un rapporto che porta vita e cambia tutto. Se Tommaso, che non era stato presente alla prima apparizione di Gesù, non vuol credere ai suoi compagni, non è per mancanza di fede, ma per eccesso di zelo, come ben si attaglia al suo personaggio, fervido e coraggioso. Ha preso sul serio la storia con Gesù e non vuole alcuna illusoria consolazione. Vuole Gesù e basta. Quando Gesù si ripresenta una settimana dopo e si rivolge a lui con le sue stesse parole, Tommaso non ha bisogno di alcuna comprova (di mettere cioè il dito e la mano nelle ferite), riesce solo a sussurrare: “Mio Signore e mio Dio”, che è la professione di fede più solenne e più intima di tutto il vangelo. La frase conclusiva di Gesù: “Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!” è spesso letta come un rimprovero nei suoi confronti, ma niente autorizza a leggerla così. Tommaso ha semplicemente avuto quello che è stato concesso agli altri apostoli e la cosa risponde alla promessa di Gesù nell’ultima cena: “Ancora un poco e il mondo non mi vedrà più; voi invece mi vedrete, perché io vivo e voi vivrete. In quel giorno voi saprete che io sono nel Padre mio e voi in me e io in voi” (Gv 14,19-20).

In questa ottica acquista significato un fatto liturgico caratteristico: in tutto il periodo pasquale la prima lettura delle celebrazioni domenicali non è mai presa dall’Antico Testamento. La Chiesa vive il mistero della presenza del suo Signore risorto nella diretta testimonianza degli apostoli e non più nella profezia. Lo sguardo è diretto sul compimento delle profezie, quello stesso compimento che però non è immediato e evidente per noi tanto che la testimonianza degli apostoli diventa per noi come la nuova profezia.

Il mondo non può vedere, il discepolo sì. Ciò significa che in gioco non è un vedere semplicemente con gli occhi, ma un vedere nella fede, un vedere nella luce della compiacenza di Dio per noi. Tommaso è riconosciuto beato non per aver toccato, ma per aver veduto. L’aveva già preannunciato Gesù a proposito della missione degli apostoli allorquando, esultando nello Spirito, aveva innalzato la sua solenne benedizione al Padre: “In quella stessa ora Gesù esultò di gioia nello Spirito Santo e disse: «Ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza. Tutto è stato dato a me dal Padre mio e nessuno sa chi è il Figlio se non il Padre, né chi è il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo». E, rivolto ai discepoli, in disparte, disse: «Beati gli occhi che vedono ciò che voi vedete»” (Lc 10,21-24).

Quando gli apostoli ‘vedono’ Gesù risorto non significa che hanno ‘visioni’, ma più concretamente che ‘il Signore si fece vedere’, cioè sperimentano degli incontri. Ma come un cuore può aprirsi all’incontro se già non tende a colui che desidera vedere? Per questo, nella proclamazione di fede della chiesa nella risurrezione sempre si aggiunge ‘secondo le Scritture’. Gesù è risorto, secondo le Scritture; Gesù risorto apre la mente all’intelligenza delle Scritture. Non è semplicemente il suo ‘essere ritornato in vita’ che costituisce il mistero della risurrezione. Non per nulla, nella narrazione di Giovanni, quando Lazzaro è risuscitato appare avvolto con bende, impedito di muoversi, mentre quando risorge Gesù le bende (i ‘lenzuoli’ funerari) diventano segno di qualcosa d’altro.

Perché però Gesù proclama beati quelli che non hanno visto e hanno creduto? La narrazione evangelica ha presente non semplicemente la cronaca degli eventi pasquali, ma la storia dei credenti. Finirà il tempo di una certa ‘visione’, come finirà il tempo dei testimoni oculari sulla cui autorevolezza coloro che verranno dopo continueranno a credere al Signore Gesù. Quello che non finisce, perché continua eterno il giorno fatto dal Signore, è la possibilità reale dell’incontro, è la percezione della Presenza in mezzo al suo popolo, a cui il dono della pace fa riferimento e di cui la gioia è il segnale per eccellenza.

La prima lettera di Pietro lo dice chiaro riferendosi a coloro che sono venuti alla fede dopo gli apostoli: “voi lo amate, pur senza averlo visto e ora, senza vederlo, credete in lui. Perciò esultate di gioia indicibile e gloriosa” (1Pt 1,8). Per cogliere a fondo il senso si dovrebbe però tradurre: ‘senza averlo visto, voi l’amate; senza vederlo ancora, ma credendo in lui, voi trasalite di gioia’. L’espressione si riferisce a noi, che siamo venuti dopo l’epoca apostolica. L’accento non è più posto tanto sul ‘vedere’ ma sulla ‘fede’ che permette il vedere in modo da avere la vita, la stessa vita che scorre nel Figlio di Dio, morto e risorto. Si passa dalla gioia della presenza ‘vista’ (apparizioni del risorto agli apostoli) alla gioia della presenza percepita (celebrazione dell’eucaristia) fino alla letizia nello Spirito quando si dovrà soffrire per il nome di Cristo perché la sua pace conquisti il mondo intero e la gioia dell’essere in lui riveli a tutti lo splendore dell’amore di Dio per gli uomini. A questo si riferisce la confessione di Tommaso e della chiesa a proposito di Gesù risorto: “Mio Signore e mio Dio!”. E di qui scaturisce la missione nel mondo. Come Gesù è stato inviato dal Padre, così invia gli apostoli. Ciò significa che i credenti in Cristo sono resi partecipi dello stesso amore con cui il Padre ama il Figlio. Gregorio Magno commenta: “Come il Padre mi ha inviato, così anch'io mando voi, vale a dire: quando io vi invio in mezzo agli scandali e alle persecuzioni, io vi amo di quella carità con cui il Padre mi ama, Lui che mi ha inviato alla Passione”. I segni della passione restano nel corpo glorioso del Cristo, a memoria del Suo amore per noi e a ricordare a noi di custodire quell’amore nella passione che ci sarà richiesta.

 

§*§*§*§*§*§*§*§*§*§

 

Quarto ciclo

Anno liturgico A (2010-2011)

Tempo di Pasqua

 

3a Domenica

(8 maggio 2011)

 

_________________________________________________

At 2,14a.22-33; Sal 15; 1 Pt 1,17-21; Lc 24,13-35

_________________________________________________

 

Nel vangelo di Luca, l’apparizione del Risorto ai discepoli di Emmaus costituisce il racconto più dettagliato ed espressivo delle testimonianze pasquali. I particolari del racconto non esprimono solo quella che potremmo chiamare la relazione dettagliata dell’incontro dei due discepoli con il Risorto, ma tendono a suggerire lo scenario possibile di ogni incontro con Gesù, morto e risorto, per tutti i credenti.

Gesù si accompagna loro nel cammino, spezza loro la sua parola aprendo le Scritture, si ferma a cenare da loro (con tutta probabilità, i discepoli erano arrivati a casa loro quando invitano Gesù a fermarsi da loro per la notte), benedice e spezza il pane per loro e loro lo riconoscono, tornano a Gerusalemme per condividere l’esperienza e insieme si rallegrano: tutti particolari che parlano anche di noi, del nostro incontro con Gesù.

Stando alle prime due letture della liturgia di oggi che riportano le parole di Pietro, l’incontro con Gesù è collocato nel punto di intersezione di due livelli: quanto all’esperienza della fede, Pietro parla, citando il salmo 15, della ‘gioia alla tua presenza’ del credente, partecipazione alla stessa gioia del Cristo risorto, datore di vita, nella sua comunione con il Padre; quanto alla vita quotidiana, Pietro parla di ‘timore’ e dell’essere ‘stranieri’ in questo mondo. La fede ci descrive come ‘cittadini del cielo’ e ‘stranieri’ in questo mondo, sebbene la cittadinanza celeste si giochi in questo mondo e proprio a partire dal fatto che l’esperienza della compagnia del Signore risorto ci accompagna. Non per nulla il corpo glorioso di Gesù reca i segni della sua passione d’amore che soltanto in questo mondo poteva ricevere. Ciò significa che tutto può essere riscattato e attraversato dallo splendore di Dio e il luogo da cui questo si esprime è proprio il nostro cuore.

La vicenda dei due discepoli di Emmaus lo illustra molto bene. Proprio a partire dalla loro fede nel Dio di Israele avevano creduto in Gesù, l’avevano seguito e pur delusi per gli eventi del venerdì precedente non avevano però rinunciato alla loro storia con Gesù. Ne parlano tra di loro, ne discutono, sebbene tristi. Quando il viandante che si accompagna loro (chiamato ‘straniero’dai due discepoli) ritorna alle Scritture che loro stessi conoscevano, pur senza essere capaci di aprirle, il loro cuore torna a ardere, sommessamente; quando vogliono con loro quel pellegrino e lo invitano a cena e Gesù si fa riconoscere, la loro storia si riaccende, tutto si collega e prende vita; devono tornare a Gerusalemme dai compagni che a loro volta hanno fatto la stessa esperienza e nella gioia che tutti insieme provano vivranno ormai la loro storia aperta sul mondo, che ha diritto anch’esso a quella letizia.

La vita è spesso una sequenza di delusioni, anche se il cuore non dimentica ciò che lo aveva acceso. Non è scontato e non sembra facile ritornare ad ardere, ma diventa sempre possibile quando non acconsentiamo a chiuderci su noi stessi, tenendo aperta la nostra storia. Il segno per eccellenza di questa ‘apertura’ possibile è il gesto del pellegrino che spezza il pane con i due discepoli. Quel gesto è il simbolo di tutto il mistero dell’eucaristia. In essa, come scrive papa Benedetto XVI, beneficiamo dell’ospitalità di Dio, che in Gesù Cristo crocifisso e risorto si dona a noi. Spezzare e condividere: proprio il condividere crea comunione. Questo ridà la vista agli occhi e mette ali ai piedi.

I discepoli non riconoscono Gesù quando spiega loro le Scritture, ma quando si dona loro con l’eucaristia e nella loro esperienza la spiegazione delle Scritture da parte del pellegrino diventa per loro apertura e degli occhi e delle Scritture. Il fatto è che non si può assumere il corpo di Gesù se non accogliendolo ‘secondo le Scritture’. Gesù rimanda alla storia di Dio con Israele, nella quale accogliere la storia di Dio con l’umanità e la nostra, personale, singola storia. Il luogo però in cui il rimando avviene è la chiesa, cioè il luogo della comunione. In quella comunione la nostra vita torna ad avere senso, le nostre delusioni diventano come i segni dei chiodi nel corpo glorioso di Gesù.

Il fatto che Gesù sparisca dalla loro vista appena lo riconoscono significa che il desiderio di vedere il Signore non comporta una ‘beata’ contemplazione, ma il movimento di condivisione di quella comunione che ha riacceso i cuori e la nostra storia, che è storia con Gesù ma anche storia con tutti i nostri fratelli. E se Gesù sparisce dalla vista, una volta che è stato riconosciuto, è perché se ne percepisca la presenza dentro e si traduca in radice di vita potente.

 

§*§*§*§*§*§*§*§*§*§

 

Quarto ciclo

Anno liturgico A (2010-2011)

Tempo di Pasqua

 

4a Domenica

(15 maggio 2011)

 

_________________________________________________

At 2,14a.36-41;  Sal 22;  1Pt 2,20b-25;  Gv 10,1-10

_________________________________________________

 

La liturgia di questa domenica è intessuta sull’immagine del buon pastore (cfr. Sal 22; 1Pt 2,25; canto al vangelo e colletta), sebbene il brano di vangelo si incentri più semplicemente sulla figura della porta: “in verità, in verità io vi dico: io sono la porta delle pecore”. Il brano appartiene a uno dei discorsi di Gesù con i Giudei, che nel vangelo di Giovanni costituiscono, insieme agli avvenimenti della vita di Gesù, la trama narrativa della rivelazione del Figlio di Dio.

Solo Dio è il pastore di Israele; solo lui guida il suo popolo perché se l’è scelto, l’ha posto in essere, gli testimonia il suo amore di predilezione e ne esige la santità corrispondente. Ogni altro che ambisce a pascere Israele a titolo proprio è ladro e brigante.       Quando Gesù dice che il pastore delle pecore entra per la porta, vuol alludere al fatto che il Padre in lui si fa vedere e in nessun altro: “Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato” (Gv 1,18); “Chi vede me, vede colui che mi ha mandato” (Gv 12,45).

In che senso allora Gesù è la porta? Forse nelle parole di Gesù c’è l’allusione alla ‘porta delle pecore’ che introduceva nell’atrio del tempio di Gerusalemme. Come a dire: io sono il nuovo tempio, il luogo dove poter adorare Dio in spirito e verità. Probabilmente, però, l’episodio del battesimo al Giordano è qui richiamato in tutta la sua valenza rivelativa: si aprono i cieli, discende lo Spirito, si ode la voce del Padre che lo dichiara luogo della sua compiacenza. Gesù è porta tanto da parte di Dio (lui solo, che ha visto il Padre, lo può rivelare) quanto da parte dell’uomo (lui solo costituisce la chiave di senso che manca all’agire dell’uomo perché lui solo lo apre in verità al compimento della sua vocazione all’umanità come rivelazione di Dio nel mondo). Per questo Gesù dice di sé che è venuto a dare la vita in abbondanza, quella vita che costituisce il supremo desiderio dell’uomo. Non semplicemente la vita, ma la vita in abbondanza, ad indicare quella certa qualità di vita che sola colma i desideri dei cuori. Quando Gesù invita a non darsi pensiero della propria vita, del mangiare, del vestire, ma di cercare piuttosto il regno di Dio, allude proprio a quella abbondanza di vita, che costituisce la risposta al bisogno di pienezza che agita il cuore dell’uomo: “Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto dare a voi il Regno” (Lc 12,32). Con la risurrezione di Gesù, con la scoperta di lui, il Vivente, in mezzo a noi, che si accompagna a noi, che si fa nostro cibo e nostra sostanza, l’anima comincia ad assaporare la portata della compiacenza di Dio, che si riversa, sì, sul Figlio, ma in lui su tutti noi. La vita ormai non può essere vissuta che in quel ‘piacere’ di Dio di fare comunione con noi, in Cristo.

E proprio qui si coglie la consistenza del dono di Dio all’uomo. Gesù, come buon pastore, non dà semplicemente la vita per noi; fa sì che la sua vita diventi vita nostra. Il mistero dell’eucaristia, tipica scoperta del tempo pasquale, risiede proprio qui. La sua vita è vita nostra, non solo vita per noi donata. Siamo cioè invitati a vivere della stessa dinamica di vita che caratterizza lui, vita che compie la vocazione all’umanità come rivelazione dello splendore di Dio. Come ricordava Annalena Tonelli nel decifrare il messaggio rivoluzionario dell’eucaristia: “Questo è il mio Corpo fatto pane perché anche tu ti faccia pane sulla mensa degli uomini, perché, se tu non ti fai pane, non mangi un pane che ti salva, mangi la tua condanna… Se non amo, Dio muore sulla terra, che Dio sia Dio io ne sono causa, (dice Silesio), se non amo, Dio rimane senza epifania, perché siamo noi il segno visibile della sua presenza e lo rendiamo vivo in questo inferno di mondo dove pare che lui non ci sia…”.

Quando il salmo 22 proclama che il pastore fa riposare le pecore in pascoli erbosi e presso acque tranquille, allude proprio al dono della vita eterna, sovrabbondante. Le acque tranquille - in ebraico, le acque di ‘menuchot’- richiamano la creazione del riposo/ristoro nel settimo giorno della creazione. Il testo della Genesi, dopo aver narrato la creazione di tutte le cose, dice: “Dio, nel settimo giorno, portò a compimento il lavoro che aveva fatto”. Ma non era più logico attendersi che avesse terminato la sua opera nel sesto giorno? Gli antichi rabbini hanno concluso evidentemente che vi fu un atto di creazione anche il settimo giorno: “Che cosa è stato creato il settimo giorno? La ‘menuchà’, la tranquillità, la serenità, la pace e il riposo” (cfr. Gen Rabbà, 10, 9). È lo stato in cui non vi è contesa né lotta, né paura né diffidenza; è felicità, pace e armonia; vita nel mondo futuro, vita eterna. Proprio quella ‘vita abbondante’ che Gesù riconsegna agli uomini che lo accolgono. È la gioia di un amore che non sarà più mortificato da nulla, amore che, testimoniato nel suo splendore sul calvario, è donato come Spirito di vita agli uomini che nel ‘crocifisso’ colgono il compimento della promessa di Dio per l’uomo.

A quel dono anelano gli ascoltatori che hanno seguito il discorso di Pietro a Pentecoste sentendosi trafiggere il cuore. “Convertitevi”: tornate alla promessa di Dio che si è compiuta in quel ‘trafitto’, morto e risorto; tornate a sentirvi destinatari della promessa di Dio che ha fatto risplendere in quel ‘trafitto’ lo splendore del suo amore salvatore, riunendo – come buon pastore – i figli di Dio dispersi. Tornate a dar credito alla potenza salvatrice di Dio che per mezzo di quel ‘trafitto’ ha realizzato la sua promessa di vita, la quale non è che l’offerta incondizionata della sua comunione perché tutto e tutti possano godere del suo amore.

 

§*§*§*§*§*§*§*§*§*§

 

Quarto ciclo

Anno liturgico A (2010-2011)

Tempo di Pasqua

 

5a Domenica

(22 maggio 2011)

 

_________________________________________________

At 6, 1-7; Sal 32; 1 Pt 2,4-9; Gv 14,1-12

_________________________________________________

 

Il brano di oggi è ricchissimo di allusioni misteriose e potenti. La richiesta di Filippo: “Mostraci il Padre” riformula la domanda di Mosè: “Mostrami la tua Gloria” (Es 33,18). Contiene l’ardente desiderio del cuore dell’uomo per il Dio di cui porta così intima traccia da averne una nostalgia acuta: “L’anima mia ha sete di Dio, del Dio vivente: quando verrò e vedrò il volto di Dio?” (Sal 43,3). Filippo non si rende conto che chiedere di ‘mostrare il Padre’ significa voler vedere risplendere in Gesù l’amore di Dio per gli uomini dall’alto della croce. La domanda di Tommaso: “ ... come possiamo conoscere la via?” richiama quella di Pietro: “Signore dove vai?”. I discepoli sono ancora turbati, non comprendono bene cosa stia accadendo e non sono ancora pronti a leggere gli avvenimenti che di lì a poco si scateneranno in rapporto al loro Maestro. Giuda ha appena lasciato il cenacolo e Gesù parla della sua glorificazione e del suo ritorno al Padre e comanda ai suoi di amarsi vicendevolmente. Qual è il significato di queste concatenazioni?

Perché Gesù non può accettare che Pietro dia la vita per lui? Quando predice a Pietro il suo rinnegamento, Gesù non vuol mettere in risalto solo la debolezza del discepolo, allude a qualcos’altro, come risalta dalla risposta a Tommaso e a Filippo. È Gesù che dà la vita perché l’amore del Padre per gli uomini sia noto a tutti gli uomini. Quando si segue Gesù, l’uomo non si sacrifica a Dio ma fa di sé il dono di Dio ai suoi fratelli, come Dio stesso, in Gesù, si fa dono all’uomo. L’uomo finisce di percorrere il suo cammino quando giunge a essere dono totale di Dio agli altri. Gesù non chiede la vita del discepolo per lui, ma chiede che il discepolo, in lui, dia la sua vita a tutti perché l’amore di Dio splenda nel cuore di tutti e si faccia una sola famiglia.

È interessante osservare che in questo contesto Gesù non chiami la ‘casa’ del Padre come l’aveva chiamata quando aveva scacciato i venditori dal tempio (cfr. Gv 2,16; in greco, casa si può dire al maschile e al femminile; al maschile indica l’edificio, al femminile l’intimità della famiglia). Oramai, Gesù non si riferisce più al tempio per indicare la casa di Dio, ma all’intimità della famiglia, alla comunanza di vita e sentimenti tra Dio e i suoi figli. Si poteva conoscere la profondità e l’eccellenza di tale intimità e amore prima che Gesù ne rivelasse il mistero?

Quando Gesù spiega il suo ritorno al Padre e il suo venire ai discepoli (un venire che non allude semplicemente al suo ‘farsi vedere’ dopo la risurrezione o al suo ritorno glorioso alla fine dei tempi, ma al suo ‘dimorare’ nei discepoli, alla sua ‘presenza’ potente tra i discepoli, al divenire uno spirito solo con il Signore da parte dei discepoli) usa l’espressione: “perché dove sono io siate anche voi”. L’espressione non significa: io soffro e anche voi soffrirete. Dice piuttosto: io sono nell'amore del Padre, anche voi lo sarete; sono il testimone del suo amore in questo mondo e anche voi lo sarete; risplendo della gloria dell'amore del Padre e pure voi risplenderete dello stesso amore. E questo proprio perché sopportando l'ingiustizia e la violenza senza venir meno alla potenza dell'amore, sarà noto a tutti che io amo il Padre e faccio quello che il Padre mi ha comandato (Gv 14,31) e così l’amore del Padre risplenderà sul mondo.  Di questo amore deve parlare il vostro amarvi vicendevole perché si radica in me.

Di qui si possono comprendere le due affermazioni centrali del brano: “Io sono la via, la verità e la vita”; “chi ha visto me ha visto il Padre”. Gesù è proprio il luogo della manifestazione del Padre, il luogo in cui si disvela il volto del Padre, il suo amore per gli uomini. Quando dice che va a preparare un posto, che deve andare in un certo luogo, allude alla sua gloria presso il Padre perché con la sua morte e risurrezione ne svela tutto il mistero di amore per gli uomini e lui diventa il luogo in cui risplende il volto del Padre; non solo, ma lui diventa anche il luogo in cui l’umanità, rispecchiando quello splendore, trova le sue radici, il suo compimento, sazia i suoi aneliti e la sua tensione. Così si realizza il desiderio di Gesù, che è il desiderio del Padre: “dove sono io siate anche voi”. Quando vale la corrispondenza: lui desidera essere con noi e noi desideriamo essere con lui, lui sta con noi e noi con lui, lui sazia il suo anelito realizzando la comunione con noi e noi saziamo il nostro realizzando la comunione con lui, allora il disegno di Dio sul mondo si compie definitivamente. In lui risplende il Padre, in lui troviamo il Padre, in lui abbiamo riposo nel Padre.

La liturgia di domenica scorsa aveva proclamato Gesù come la porta, l’accesso dischiuso di comunione con Dio e con gli uomini. Oggi proclama: Gesù è  ‘via, verità e vita’. Non sono affermazioni assolute, ma valevoli in rapporto al Padre. Gesù è la via nel senso che conduce al Padre (implica il bisogno di orientare gli sforzi del vivere); è la verità nel senso che fa conoscere il vero volto del Padre (implica il bisogno di relazione assoluta, il bisogno di intimità, così essenziale al vivere dell’uomo); è la vita nel senso che ci ottiene di condividere la stessa vita trinitaria di cui il Padre ci fa dono nello Spirito (implica il bisogno di pienezza, di una qualità di vita non soggetta a diminuzioni e che si traduca in gioia piena, condivisa, duratura). L’esito del percorrere quella via, del conoscere e riconoscere il vero volto di Dio, del condividerne la vita in pienezza di amore, non può che essere, come ripete diverse volte l’apostolo Paolo: essere uno con Cristo e in Cristo essere uno con tutti perché Dio sia tutto in tutti. Così il Cristo diventa l’ubi consistam, il dove trovarsi, il dove permanere, il dove essere rigenerati.

 

§*§*§*§*§*§*§*§*§*§

 

Quarto ciclo

Anno liturgico A (2010-2011)

Tempo di Pasqua

 

6a Domenica

(29 maggio 2011)

 

_________________________________________________

At 8,5-8.14-17;  Sal 65;  1Pt 3,15-18;  Gv 14,15-21

_________________________________________________

 

Il brano di vangelo di oggi è denso di misteri che la liturgia legge in riferimento alla prossima ascensione di Gesù e all’invio dello Spirito Santo, che chiude il periodo pasquale.

Possiamo intuirli cogliendo le corrispondenze sulle quali è intessuto tutto il cap. 14 di Giovanni. “Se mi amate, osserverete i miei comandamenti; e io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paraclito perché rimanga con voi per sempre”. In Gesù il Padre compie le sue opere e nei discepoli Gesù compie le sue. Ma l’opera di Dio è il suo amore per gli uomini ed è questo che ci viene partecipato con l’osservanza dei comandamenti. Ed è per questo che la promessa di Gesù a chi pratica i suoi comandamenti suona: “Chi ama me sarà amato dal Padre mio e anch' io lo amerò e mi manifesterò a lui”.

È la promessa solenne di Gesù ai suoi discepoli, il frutto segreto ricercato da chiunque voglia fare il bene se non vuole ripararsi semplicemente dalle sue paure od esibirsi in qualsiasi forma: godere dell'intimità con Colui che il cuore ricerca, con Colui di cui professi la bontà ma ne vuoi sentire dentro il balsamo ristoratore. La promessa è modellata sulla realtà stessa goduta da Gesù. Come se dicesse: io ascolto ciò che dice il Padre e perciò compio i suoi comandamenti in forza dell'intimità di comunione con Lui. Così il mondo sa che amo il Padre e che il Padre è in me. L'uno svela la realtà dell'altro e l'amore ne custodisce la verità. Se anche voi, miei discepoli, ascoltate le mie parole e le compirete in forza dell'intimità di comunione con me, allora diventerete partecipi di quella stessa intimità di comunione con il Padre che io vivo e vedendo il mio volto potrete entrare in quei segreti di amore tenuti in serbo per voi fin dalla fondazione del mondo. I segreti di questo amore sono gli stessi segreti di verità e di vita che andate inseguendo nei vostri cuori, ancora opachi per ora, come il mondo che vi circonda, ma perché non volete ancora aprire le porte alla mia venuta.

L’espressione che mi pare più rivelativa di questo mistero è quella conclusiva del cap. 14: “viene il principe del mondo; contro di me non può nulla, ma bisogna che il mondo sappia che io amo il Padre, e come il Padre mi ha comandato, così io agisco”. La frase che viene tradotta: ‘contro di me non può nulla’, in greco è resa più semplicemente: ‘in me non ha nulla’. Vale la stessa cosa per i comandamenti. La frase: ‘chi accoglie i miei comandamenti’ andrebbe resa con: ‘chi ha i miei comandamenti’. Parola e comandamento evocano la verità di un legame, di un’alleanza; evocano la volontà di bene di Dio per l’uomo tanto che l’uomo, se li accoglie, può ottenere la visione di quella verità piena d’amore, espressa in un volto, il volto del Cristo. Il comandamento non ha a che fare con un dovere morale; ha a che fare con l’esperienza di un amore. Come a dire: chi ha in sé la parola, il comandamento di Dio, non offre presa alcuna al potere del demonio e quindi il demonio non può rapirgli quell’amore che lo abita. Come è per Gesù, così per i discepoli.

Per questo l’apostolo Giuda, non l’Iscariota, aveva domandato: “Signore, come è accaduto che devi manifestarti a noi, e non al mondo?”. In effetti c'è opposizione tra lo Spirito della verità (che è amore) e il mondo. Mondo è ciò che si contrappone alla verità del Figlio e della sua opera, ciò che vuol contrastare la dinamica divina in atto nella storia, quel mistero cioè di riconciliazione tra Dio e l'uomo in Cristo. I comandamenti di Gesù sono in funzione della rivelazione al nostro cuore di questo mistero di riconciliazione, che ci mostra in tutto il suo splendore il vero volto di Dio e ci apre al suo mistero. Lo Spirito di verità è lo Spirito che ci guida a questa rivelazione del vero volto di Dio e che noi possiamo cogliere solo partecipando in prima persona al mistero della riconciliazione tra Dio e l'uomo in Cristo. In questo è Consolatore, perché compie l'anelito supremo dei nostri cuori, quello di una comunione suprema. Man mano che accogliamo lo Spirito, il mondo in noi si ritira o, meglio, si fa Chiesa, cioè sempre più e sempre più estesamente tutto di noi asseconda l'opera di Gesù, si fa luogo di trasparenza dell'amore di Dio per tutti, in Cristo.

La percezione di questa verità è però drammatica nel senso che risplende nel contesto del ‘processo’ del mondo a Gesù e ai suoi discepoli. La giustizia si rivela se non acconsente all’ingiustizia; l’amore si rivela se non si fa disperdere dall’odio o dall’invidia. Gesù diventa ‘il re della gloria’ dall’alto della croce. Quando Pietro, nella sua prima lettera, parla di coloro che domandano ragione ai cristiani della speranza che è in loro, allude proprio a questo ‘processo’ del mondo contro i seguaci di Gesù. Non allude alle possibili discussioni sulla fede, ma alle sofferenze che il seguace di Gesù patisce per testimoniare l’amore di Dio agli uomini, non cedendo all’ingiustizia e non venendo meno alle ragioni di questo amore. La testimonianza ha valore se viene praticata con dolcezza e rispetto, nella coscienza cioè di non abbandonare quella benevolenza di amore che Dio ha testimoniato in Gesù per gli uomini. La forza di quella testimonianza deriva dall’azione dello Spirito nel cuore dei discepoli, che li rende insieme ‘concordi, partecipi degli stessi sentimenti, fraternamente affettuosi, misericordiosi, con un sentire umile e sempre benedicenti’. È lo spazio della chiesa che diventa credibile, rispetto alla testimonianza che porta, se fa trasparire la ‘benedizione’ di Dio sull’umanità, che è Gesù, vivo e operante nel cuore dei discepoli.

 

§*§*§*§*§*§*§*§*§*§

 

Quarto ciclo

Anno liturgico A (2010-2011)

Tempo di Pasqua

 

Ascensione

(5 giugno 2011)

 

_________________________________________________

At 1,1-11;  Sal 46;  Ef 1,17-23;  Mt 28,16-20

_________________________________________________

 

Probabilmente oggi non esprimeremmo i desideri profondi del nostro cuore con le parole della liturgia nella preghiera dopo la comunione: “Dio onnipotente e misericordioso, che alla tua Chiesa pellegrina sulla terra fai gustare i divini misteri, suscita in noi il desiderio della patria eterna, dove hai innalzato l’uomo accanto a te nella gloria”. Eppure, questa preghiera corrisponde profondamente all’anelito dei cuori.

Tutto dipende dalla prospettiva in cui guardiamo ai misteri della vita del Signore. Possiamo guardarli da spettatori, come da fuori campo o da attori in gioco, dentro la scena. I misteri della vita di Gesù, ascensione compresa, vanno tutti letti nella loro potenza di rivelazione dell’amore del Padre per noi uomini. La colletta lo illustra molto bene: “Esulti di santa gioia la tua Chiesa, o Padre, per il mistero che celebra in questa liturgia di lode poiché nel tuo Figlio asceso al cielo la nostra umanità è innalzata accanto a te, e noi, membra del suo corpo, viviamo nella speranza di raggiungere Cristo nostro Capo nella gloria”. Se guardiamo al mistero come rimirando un quadro vediamo Gesù in alto e immaginiamo, oranti e fiduciosi, di poter partecipare un giorno alla sua gloria. Se guardiamo da dentro la scena la vista cambia. Dov’è il cielo o che cosa è cielo? Il cielo non è un luogo ma una dimensione e non per nulla quando Gesù dice che va al Padre dice anche che viene a noi. Cielo è il cuore dove Dio è adorato in tutta la sua gloria e la sua gloria è l’amore per gli uomini che in Gesù, morto e risorto, risplende e che il suo Spirito ci partecipa perché possiamo conoscere il Padre nel suo immenso amore per noi e avere la vita. Così, vedere Gesù asceso al cielo significa vedere compiersi l’umanità nella gloria dell’amore, amore che è la vita di Gesù che viene a noi e agisce dal di dentro dei nostri cuori, riempiendo ogni spazio in modo da far risplendere la presenza di Dio.

La finale del vangelo di Matteo è rivelativa: “Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”. Riguarda il compimento della promessa di Dio al suo popolo, riportata all’inizio del vangelo con la citazione di Is. 7,14: “Ecco, la vergine concepirà e darà alla luce un figlio: a lui sarà dato il nome di Emmanuele, che significa Dio con noi” (Mt 1,23). Era già stato annunciato in Es 3,12 (“Io sarò con te”), ripreso da Ger 1,8 in chiave di protezione personale e riformulato sovente in tutto l’AT. Gesù si presenta come il compimento del disegno di Dio per l’uomo. La cosa che può suonare strana è che questa verità è proclamata nel momento stesso in cui Gesù si sottrae alla vista dei discepoli per ascendere al Padre.

Ciò significa che nella percezione degli apostoli l’ascensione è colta come un dono di presenza, come un’interiorizzazione di rapporto, che non solo non perde nulla della sua realtà con la sottrazione della fisicità di Gesù, ma acquista profondità e intensità insospettate. Anche perché il contesto in cui è vissuta quell’emozione è chiaramente missionario: “Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli”. Se potessi allora riassumere con mie parole la sensazione degli apostoli, direi che si è trattato dell’esperienza di una gioia assolutamente dinamica, capace di allargare i confini del cuore e le energie corrispondenti in maniera illimitata. Resta sottolineata sia una dimensione di azione, in rapporto diretto con la missione alle genti, sia una dimensione di essere, in rapporto all’esperienza della presenza potente di Gesù in loro e con loro.

Le parole di Gesù non esprimono semplicemente che resta con noi, ma che resta con noi efficacemente, potentemente. Non semplicemente, come discepoli suoi, ci riferiremo o faremo ricorso a lui nella vita, ma ne godremo la presenza con l’assicurazione che potremo restare nella dinamica del suo amore sempre e comunque, perché prevalga l’amore di Dio per tutti.

Il testo evangelico contiene ancora una sottolineatura speciale. Per quattro volte si ripete la parola tutto: “ogni potere ... tutti i popoli ... tutto ciò che vi ho comandato ... tutti i giorni”. Viene sottolineata la compiutezza, l'universalità, la totalità del mistero che si compie.

Potremmo comprendere così: il tempo della missione mira a rendere evidenti per i cuori gli effetti del saper riconoscere che a Gesù è stato dato ogni potere. Perché il nostro cuore rivendica così sovente i suoi diritti, giustifica così sovente le sue ire, resta schiacciato dalla vergogna per le sue colpe ed ha così paura di consegnarsi alla promessa di Gesù? Non è scontato per noi arrivare a dire: riconosco, Signore, che ogni momento del mio vivere e ogni punto del mio cuore si può aprire allo splendore della tua presenza; riconosco che non c'è nulla in me che non possa essere liberato dalla paura e dalla vergogna perché tu sei in noi e con noi!

La menzione del monte dove Gesù ascende al cielo richiama l’altro monte, quello della tentazione, da dove si potevano vedere tutti i regni di questo mondo. Ora, il potere che Gesù dichiara di avere è quello che il Padre gli ha concesso, il potere cioè di mostrare in verità il volto di Dio e il potere di soddisfare appieno il cuore dell’uomo. Se non troviamo scontato il potere di Gesù è perché la gloria del mondo affascina comunque. L’unico antidoto al suo fascino è la gioia di una presenza custodita, come Luca annota per i discepoli: “tornarono a Gerusalemme con grande gioia” (Lc 24,52). Non possiamo non notare che sarà proprio questa gioia a trasformarsi presto nella potenza dell’annuncio. Senza questa gioia l’annuncio risulterebbe insignificante.

 

§*§*§*§*§*§*§*§*§*§

 

Quarto ciclo

Anno liturgico A (2010-2011)

Tempo di Pasqua

 

Pentecoste

(12 giugno 2011)

 

_________________________________________________

At 2,1-11;  Sal 103;  1Cor 12,3b-7.12-13;  Gv 20,19-23

_________________________________________________

 

L’evento della pentecoste è narrato in At 2,1-11, ma secondo il vangelo di Giovanni Gesù ha già effuso il suo Spirito morendo sulla croce e alitandolo sui discepoli la sera di Pasqua (cfr. Gv 19, 30.34 e 20, 19-23), gesto che allude alla nuova creazione (cfr. Gn 2,7).

Il gesto del soffiare lo Spirito sui discepoli da parte di Gesù non comporta solo l’assicurazione alla chiesa che potrà, nel suo nome, esercitare il potere sacramentale di rimettere i peccati. Allude soprattutto all'essenza stessa dell'esperienza cristiana. Come possiamo fare esperienza dell'incontro con Dio? “Dio ha fatto grazia di sé a voi in Cristo” (Ef 4,32), è l’annuncio evangelico che riassume l’opera di Dio per l’uomo. Quando nella preghiera del Padre nostro domandiamo: ‘rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori’, domandiamo prima di tutto di diventare così coscienti del nostro essere peccatori da poter gustare l’amore perdonante di Dio ogni giorno, a tal punto da condividerne l’esperienza con tutti. In effetti, più questa esperienza è profonda e veritiera, più possiamo accedere a quello stile di vita divina che corrisponde al far grazia di noi a tutti in Cristo, nell’imitazione di Dio, e così ritrovarci veri figli dell’Altissimo. Come dice la beatitudine: “Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio” (Mt 5,9): beati coloro che non hanno altro scopo nel loro vivere se non di perseguire la pace ottenutaci dal Figlio di Dio, perché saranno come lui che, venuto a testimoniare quanto è grande l’amore di Dio per gli uomini, non ha preferito se stesso e ha accettato di essere consegnato nelle mani degli uomini.

Chi abilita noi peccatori a essere come il Figlio? Lo Spirito di Gesù, lo Spirito che Gesù ci invia. Perciò egli ci è inviato a doppio titolo:

- per portarci ad una coscienza sempre più viva e bruciante del nostro essere peccatori davanti a Dio e introdurci alla conseguente esperienza del perdono che ci inonda e ci rinnova in Cristo;

- per abilitarci a vivere in Cristo, secondo lo scopo dell'agire stesso di Dio: fare di tutti una cosa sola, finché Dio sia tutto in tutti (cfr. 1Cor 15,28). Sarà l’opera specifica dello Spirito Santo, l’opera della fraternità come rivelazione della paternità di Dio. Come direbbe Francesco di Assisi: ‘avere lo Spirito del Signore e la sua santa operazione’.

Nell’inno alle lodi abbiamo cantato: “Vieni, o divino Spirito, con i tuoi santi doni e rendi i nostri cuori tempio della tua gloria”. E in una colletta che precede la festa abbiamo pregato: “crei in noi un cuore nuovo perché possiamo piacere a te e cooperare alla tua volontà”. È la gloria di un cuore che fa splendere l’amore di Dio per tutti, di un cuore sempre rinnovato dall’amore perdonante di Dio a tal punto da non rivendicare alcun diritto per sé perché l’unico suo tesoro è appunto quell’amore; di un cuore che piace a Dio perché si trova unito al suo Figlio sul quale riposa tutta la sua compiacenza, mentre si fa portatore di quella volontà di Bene da parte di Dio verso tutti perché tutti possano conoscere il Suo amore. La responsabilità della testimonianza non sarà più vissuta come impegno o dovere ma come sovrabbondanza: lo Spirito riempirà di Gesù i nostri cuori fino a che tutta la sua verità risplenda e conquisti, me come tutti. La testimonianza è in funzione di uno splendore, non di un impegno!

Quando, a Pentecoste, compaiono sul capo degli apostoli le lingue, l’annuncio evidente risulta essere questo: ormai tutti possono percepire che è l’opera di Dio a unire gli uomini. E l’opera di Dio è la verità del suo amore per noi, che in Gesù si è fatto visibile e accessibile. Il miracolo che a Pentecoste acquista una rilevanza fisica, tanto che ognuno sente proclamare l’opera di Dio nella sua lingua nativa (da notare che ogni lingua, pur essendo diversa, proclama la stessa ed unica cosa!), è lo stesso miracolo che viene operato nei cuori dallo Spirito quando li convince a muoversi nella carità, aprendo la diversità alla comunione. Riconoscere, assecondare, favorire tale dinamica, significa aver ricevuto lo Spirito Santo e agire nella sua potenza. Lo Spirito non può che condurre alla conoscenza del mistero del Signore Gesù, che dell’amore di Dio per gli uomini è il testimone per eccellenza. Quando gli apostoli, davanti ai persecutori, preferiscono la carità di Gesù, non scelgono solo di stare dalla parte di Gesù, ma anche dalla parte degli uomini che della sua carità devono poter vedere lo splendore in atto.

Nella preghiera: “Vieni, santo Spirito, riempi i cuori dei tuoi fedeli e accendi in essi il fuoco del tuo amore”, il fuoco esprime la condivisione di un segreto capace di far ardere il cuore. È la preghiera perenne della chiesa perché si conosca il Signore come amore per noi, capace di unire gli uomini in un’unica famiglia, la famiglia di Dio.

 

§*§*§*§*§*§*§*§*§*§

 

Quarto ciclo

Anno liturgico A (2010-2011)

Solennità e feste

 

Ss. Trinità

(19 giugno 2011)

 

_________________________________________________

Es 34, 4b-6. 8-9;  Dn 3,52.56;  2Cor 13, 11-13;  Gv 3, 16-18

_________________________________________________

 

La benedizione conclusiva della seconda lettera ai Corinzi riporta la formula più chiaramente trinitaria di tutto il Nuovo Testamento: “La grazia del Signore Gesù Cristo, l’amore di Dio e la comunione dello Spirito Santo siano con tutti voi”, formula che la liturgia eucaristica riprende per il saluto del celebrante all’inizio della celebrazione: ‘La grazia del Signore nostro Gesù Cristo, l’amore di Dio Padre e la comunione dello Spirito Santo sia con tutti voi’. In questa formula è singolare che Gesù, che pur rappresenta per noi l’espressione stessa dell’amore (“li amò sino alla fine”, Gv 13,1), non sia definito in rapporto all’amore, termine che invece è riservato al Padre. Se Gesù tanto ci ha amato, quanto ci amerà il Padre, che è l’Amore stesso? È esattamente il punto di rivelazione della festa di oggi.

Il brano evangelico è tratto dal colloquio notturno di Gesù con Nicodemo. L’affermazione: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio, unigenito ...” in realtà è la spiegazione (nel testo si trova: ‘Dio infatti ha tanto amato ...’) della precedente affermazione: “ ... così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo”, che soltanto ‘nascendo dall’alto’ l’uomo può accogliere e comprendere, vale a dire accogliendo la rivelazione di Gesù e partecipando con il battesimo alla sua morte e risurrezione.

La singolarità di queste verità, che hanno a che vedere con la rivelazione di Dio che Gesù compie, risaltano in tutta la loro intensità e drammaticità con il brano dell’Esodo che riporta la manifestazione di Dio a Mosè. Mosè era salito sul Sinai una seconda volta, dopo il tradimento dell’alleanza da parte del popolo con il vitello d’oro, con una pressante richiesta: “Mostrami la tua gloria” (Es 33, 18). La richiesta è partita dalla consapevolezza dell’indegnità del popolo dopo il suo grave peccato e dopo che Mosè, solidale con il popolo, aveva interceduto per lui presso Dio. Il passo che leggiamo oggi è la risposta a quella richiesta con la proclamazione del ‘nome’ di Dio: “Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà”. La ‘gloria’ di Dio non è che lo splendore del suo amore per i suoi figli. E solo dalla consapevolezza della propria indegnità risalta tutta la qualità dell’amore di Dio per l’uomo: un amore perdonante, un amore ricco in misericordia. Tanto che in tutto l’Antico Testamento, di nessun uomo si riporta che sia ‘misericordioso’, ma solo di Dio.

Gesù svela proprio la profondità e l’incommensurabilità di questo ‘amore pieno di misericordia’ da parte di Dio, mostrando al tempo stesso la possibilità per l’umanità di parteciparne la dinamica: sarà quella ‘vita eterna’ che chi sta unito al Figlio, crocifisso e risorto, godrà come radice di vita e di azione, dentro un amore non più mortificato da nulla e da nessuno.

Il nome che Dio proclama: “Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di grazia e fedeltà” si riassume nell’esperienza che ‘il Signore è per noi’, esperienza che Gesù fa splendere in tutta la sua bellezza. Chi ci apre a quella esperienza è proprio lo Spirito Santo il quale ci mette in comunione con l’amore del Padre, di cui il Figlio è la grazia di verità per noi. Lo Spirito ritorna a scrivere direttamente sul nostro cuore le parole di Dio di modo che noi non le professiamo semplicemente ricordando che sono parole di Dio, ma vivendole direttamente come mozione di Dio in noi. Si torna alle primitive tavole della legge che aveva scritto direttamente il dito di Dio, tavole che Mosè aveva poi infranto dopo il peccato del vitello d’oro.

Non dobbiamo tuttavia dimenticare che il contesto della rivelazione di Dio sul Sinai come sul Calvario, se esprime l’immensità dell’amore di benevolenza di Dio per i suoi figli, per noi diventa esperibile solo ‘facendo lutto’, solo riconoscendo la nostra insensata idolatria e consegnandoci di nuovo interamente nelle mani del Dio Vivente. Tutta la Scrittura ricorda come quell’esperienza sia la più sublime e la più tormentosa, la più agognata e la più temuta. Non è così facile spiegarne il perché nonostante non ci manchino le ragioni di comprensione, che però il cuore stenta ad accogliere. Eppure, anche per noi risulta vera la proclamazione evangelica: “Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto: grazia su grazia. Perché la Legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo” (Gv 1,16-17). Se l’uomo cerca la verità, la verità di cui ha sete il suo cuore è una verità di grazia e contemporaneamente una grazia di verità. La festa di oggi invita ciascuno a vivere la propria vita nell’atteggiamento di chi si dispone ad accogliere nel suo cuore la grazia di verità che il Signore Gesù testimonia rivelando l’amore del Padre e donandoci il suo Spirito.

È caratteristico che il cristiano, tracciando il segno di croce sulla propria persona, l’accompagni con la confessione trinitaria: Padre, Figlio, Spirito Santo. Come a dire: l’amore di Dio per gli uomini, che si è rivelato in tutto il suo splendore a partire dalla croce di Gesù, riempia e copra tutta la mia persona partecipando alla stessa comunione di vita che intercorre tra le tre Persone divine. E quando quel segno si traccia sulle cose o prima delle varie azioni si intende accedere alla dimensione di rivelazione dell’amore di Dio per il nostro cuore che quegli atti comportano nella sua provvidenza per noi.

 

§*§*§*§*§*§*§*§*§*§

 

Quarto ciclo

Anno liturgico A (2010-2011)

Solennità e feste

 

Ss. Corpo e Sangue di Cristo

(26 giugno 2011)

 

_________________________________________________

Dt 8,2-3.14b-16a;  Sal 147;  1Cor 10,16-17;  Gv 6,51-58

_________________________________________________

 

L’origine della festa, propria dell’Occidente latino, è legata al possente risveglio della devozione eucaristica che si sviluppò dal secolo XII in poi, accentuando particolarmente la presenza reale di Cristo nel sacramento e quindi la sua adorazione. Furono le visioni di Giuliana di Cornillon, monaca agostiniana di Liegi, ad avere un influsso decisivo nell’introduzione della festività, che per la prima volta si celebrò nella diocesi di Liegi nel 1247. Urbano IV, già arcidiacono di Liegi e confessore di Giuliana, la prescrisse per tutta la Chiesa nel 1264.

Quando s. Agostino si domanda quale sia la virtù specifica dell'Eucarestia, non può che rispondere: "La virtù propria di questo nutrimento è quella di produrre l'unità, affinché, ridotti ad essere il corpo di Cristo, divenuti sue membra, siamo ciò che riceviamo". In effetti, quando ci accostiamo alla comunione eucaristica, l’amen che il fedele risponde non significa : sì, credo che quel pezzo di pane è il corpo di Cristo, ma, più in verità: sì, so che faccio parte di quel corpo e accetto di vivere come un corpo solo!

Un corpo solo con il Signore Gesù, che si è consegnato agli uomini perché gli uomini conoscessero la grandezza dell’amore di Dio per loro! La liturgia oggi sottolinea fortemente la realtà di quell’essere un corpo solo, nella consegna al mondo. Il brano di Giovanni, con un realismo perfino provocatorio, lo rivela chiaramente. Gesù, che si presenta come il pane vero disceso dal cielo, raffigurato nella manna che gli ebrei ebbero in dono nella loro traversata del deserto, non dice semplicemente che chi ‘mangia’ di lui avrà la vita. Dice più specificamente: chi lo ‘mastica rompendo con i denti’, azione tipica del mangiare a livello corporale. Ebbene, nello spirito, l’azione del ‘mangiare’ il corpo del Signore, è ancora più reale del mangiare fisico. Tra l’altro, Giovanni sottolinea come il primo effetto del mangiare la carne del Signore immolato non sia quello di avere il Signore in noi, ma di dimorare noi in lui, di essere noi presi in lui. E proprio questo effetto primario, tipicamente spirituale e assolutamente reale, fonte di energia e di vita, induce a collegare l’essere un corpo solo con il Signore con l’essere un corpo solo anche tra di noi. Essere nel Signore significa essere assunti nella dinamica di rivelazione dell’amore di Dio al mondo (questo significa l’essere inviati da Dio) per cui la vita stessa non può essere vissuta che a servizio dello splendore di quell’amore.

L’Eucaristia è la rivelazione del mistero delle cose. Nell'inno ai vespri della festa si canta: "Frumento di Cristo noi siamo .... In pane trasformaci, o Padre, per il sacramento di pace: un Pane, uno Spirito, un Corpo, la Chiesa una-santa, o Signore". E Francesco d'Assisi, nel suo commento al Padre Nostro, annuncia: "Il nostro pane quotidiano, il tuo Figlio diletto, il Signore nostro Gesù Cristo, dà a noi oggi: in memoria, comprensione e reverenza dell'amore che egli ebbe per noi e di tutto quello che per noi disse, fece e patì".

Un uomo non si rivela in tutta la sua totalità se non dentro un mistero più grande di lui, che gli offre uno spazio di movimento, infinito quanto il suo desiderio. Il chicco di frumento non conosce la sua vera natura se non viene trasformato in farina, impastata, cotta in pane e poi assunto in sacramento di pace. L'uomo non coglie la sua verità se non nel suo porsi con gli altri uomini ed accogliersi ed offrirsi e farsi punto di comunione,  luogo in cui crescere in comunione, assunto nel corpo di Cristo. Cosa diventa il nostro cuore compreso nella logica eucaristica? Un amore donato che si fa dimora per tutti nella gioia. E da dove si pesca la potenza e la freschezza di quell’amore se non nell’essere un corpo solo con il Signore Gesù, che di quell’amore è il testimone per eccellenza?

È l'Eucarestia, come dice s. Francesco, a comunicare al cuore dell'uomo credente, che fa affidamento alla logica che viene dall'alto, la potenza di una memoria, di una intelligenza e di un sentimento per un amore grande che ci ha toccati, per Colui che si è rivelato al nostro cuore come capace di amore per noi. Sperimentando questo, allora le sue parole, il suo agire ed il suo soffrire, si impastano con il nostro, lo lievitano e, mossi ormai dalla sua stessa dinamica di vita, impariamo a stare solidali con tutti, in quell’umanità che ci rende un unico corpo, un corpo solo con il nostro Dio.

 

§*§*§*§*§*§*§*§*§*§

 

Quarto ciclo

Anno liturgico A (2010-2011)

Tempo Ordinario

 

14a Domenica

(3 luglio 2011)

 

_________________________________________________

Zc 9,9-10;  Sal 144;  Rm 8,9-13;  Mt 11,25-30

_________________________________________________

 

Nel vangelo di Matteo e di Luca il brano di oggi costituisce forse la rivelazione più esplicita di Gesù quanto al suo rapporto con il Padre. Matteo non specifica la circostanza di questa solenne benedizione di Gesù, ma il passo parallelo di Lc 10,21-22 lo riporta chiaramente. Gesù prorompe nel suo grido di esultanza davanti ai 72 discepoli che tornano dalla predicazione: “Ti rendo lode, o Padre … perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli”. È l’esultanza di fronte all’accondiscendenza di benevolenza del Padre per gli uomini, che possono godere del suo amore senza averne alcun titolo. L’uomo non deve conquistare Dio, ma aprirsi alla sua rivelazione. Dio è già dalla sua parte: la presenza di Gesù, l’Inviato del Padre, lo dimostra. L’unica conquista è quella di acquisire quell'atteggiamento del cuore che consente di ricevere la rivelazione del suo amore. Questo caratterizza i ‘piccoli’, la cui qualità è definita in rapporto ai ‘sapienti’ che si affannano invece a volere che Dio sia come è stabilito che sia, come a cercare le condizioni possibili per una presenza accettabile di Dio.

I pensieri degli uomini non corrispondono ai pensieri di Dio e chi preferisce quelli di Dio ai propri appartiene al numero dei ‘piccoli’. La condivisione da parte di Gesù del piacere di Dio, non allude semplicemente al fatto che a Dio piace rivelarsi ai piccoli, ma alla condizione essenziale perché Dio possa rivelarsi, come a dire: appena ci si fa piccoli, nella misura in cui ci si fa piccoli, Dio si rivela a noi. Qui si cela il segreto dell’obbedienza al Padre di Gesù, dell’obbedienza del discepolo al suo Maestro, dell’obbedienza della fede. L’esultanza di Gesù come del credente deriva da qui, come la preghiera alla comunione testimonia: “fa’ che viviamo sempre in rendimento di grazie” per l’esperienza che ci è stato dato di fare in Gesù. 

È l’esultanza che deriva dalla grazia di venir messi a parte dei segreti di Dio, in Gesù. Segreti, che la profezia di Zaccaria, compiuta con l’ingresso di Gesù a Gerusalemme la domenica delle palme, collega al mistero pasquale; che il salmo responsoriale descrive come il compimento della rivelazione del nome di Dio a Mosè sul Sinai; di cui la lettera ai Romani ci fa ‘debitori’ per la vita che ne scaturisce. Se teniamo presente che il brano evangelico di oggi è lo stesso brano che viene proclamato nella festa del S. Cuore, allora possiamo intuire la verità della testimonianza di Gesù sul Padre: “di generazione in generazione durano i pensieri del suo Cuore” (antifona di ingresso, che riprende sal 32,11) e la testimonianza su se stesso: “Tutto è stato dato a me dal Padre mio” (Mt 11,27), ripresa alla fine del vangelo: “A me è stato dato ogni potere in cielo e in terra” (Mt 28,18).

Le espressioni ‘tutto’ e ‘ogni potere’ si riferiscono ai misteri del regno dei cieli di cui Gesù può svelare la verità e con la conoscenza dei quali portare felicità ai cuori, che di quei misteri sono intessuti, benché incapaci di viverli. Ciò che rende, però, accoglibile per i nostri cuori la rivelazione di Gesù è la sua ‘mitezza e umiltà’, che parla dell’amore di compassione di Dio che in lui risplende e tutto investe. L’unione tra mitezza e umiltà costituisce la cifra divina dell’umanità perché al mite e all’umile sono svelati i segreti di Dio, che sono i segreti di amore per gli uomini di cui il Figlio è il Testimone per eccellenza. Il ‘ristoro’ che il cuore cerca non può che venire da quella ‘mitezza e umiltà’ perché generatrice di comunione, di condivisione in benevolenza.

La colletta interpreta assai bene il movimento di rivelazione che ci è dato gustare: “O Dio, che ti riveli ai piccoli e doni ai miti l’eredità del tuo regno, rendici poveri, liberi ed esultanti, a imitazione del Cristo tuo figlio, per portare con lui il giogo soave della croce e annunziare agli uomini la gioia che viene da te”. Tre le caratteristiche dell'imitazione del Cristo: 'poveri, liberi ed esultanti'. Poveri di tutto ciò che ci allontana dalla rivelazione dell’amore del Padre, liberi da tutto ciò che si oppone a quella rivelazione ed esultanti per tutto ciò che la consente. E quando gli uomini coglieranno da noi l'eco di quell'esultanza, allora sapranno che la gioia viene da Dio e la desidereranno anche loro. Anche loro torneranno piccoli per non perdere la possibilità di godere della stessa gioia.

 

§*§*§*§*§*§*§*§*§*§

 

Quarto ciclo

Anno liturgico A (2010-2011)

Tempo Ordinario

 

15a Domenica

(10 luglio 2011)

 

_________________________________________________

Is 55,10-11;  Sal 64;  Rm 8,18-23;  Mt 13,1-23

_________________________________________________

 

Per tre domeniche successive la Chiesa farà proclamare la lettura del cap. 13 di Matteo, il capitolo delle sette parabole del Regno. Oggi viene proclamata la prima parabola, quella del seminatore.

Quel giorno Gesù uscì di casa … Ecco, il seminatore uscì a seminare”. Gesù, Verbo del Padre, lascia il Padre e viene tra gli uomini, non solo seminando la Sua parola nei cuori, ma seminando Sé, Sua Parola Vivente, nei cuori. C'è identità tra il seminatore e il seme, perché Colui che semina e la cosa che viene seminata è la stessa realtà, Gesù stesso. Ognuno è chiamato a far nascere e far crescere Gesù dentro il proprio cuore. E questo è il significato profondo della parabola.

Questo significato non può essere colto per ragionamento, ma solo per rivelazione. La comprensione della parabola ha a che vedere con la grazia appunto di una rivelazione perché c’è chi la può comprendere e chi no. È chiara la distinzione tra i discepoli ai quali è dato di comprendere e la folla alla quale resta velato il senso misterioso della parabola, nonostante la semplicità apparente del racconto.

Due sono gli aspetti principali della parabola: la generosità del seminatore e i vari tipi di terreno. Il seminatore non è meno generoso con il terreno sassoso che con il terreno buono. Ce lo rammenta la prima lettura di Isaia: sempre la Parola produce quello per cui è mandata. Ma - e questo è il dramma - se in chi l'accoglie, produce salvezza, in chi la rifiuta produce la condanna di non vedere compiuti i desideri del proprio cuore perché impenetrabile alla tenerezza della Parola. È il dramma della relazione mancata con il proprio Dio!

Forse non riusciamo più a cogliere il mistero di Bene che il Signore ci squaderna. Possiamo ancora sentire la verità di quel “beati i vostri occhi perché vedono e i vostri orecchi perché ascoltano”, eco della preghiera di lode di Gesù: “Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli” (Mt 11,25) e della comunanza di vita che Gesù ci offre: “chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, egli è per me fratello, sorella e madre” (Mt 12,50)? Con le parabole del Regno Gesù ci invita appunto alla sua comunanza di vita con il Padre, che è amore per noi.

Ogni dono dell’Amato è sempre presenza dell’Amato; dietro ogni Parola annunciata, ascoltata, sta sempre il desiderio di Dio di essere accolto e l’invito suo ad accoglierlo. Questa alleanza di Dio con l’umanità costituisce il quadro di riferimento della parabola del seminatore. Lo proclama anche il passo di Isaia che precede il brano letto oggi: “O voi tutti assetati venite all’acqua…Porgete l’orecchio e venite a me, ascoltate e voi vivrete. Io stabilirò con voi un’alleanza eterna” (Is 55,1.3). In quel contesto prende significato la prodigalità del seminatore (non si stanca mai di seminare, non teme di buttar via il seme, si rivolge a ogni tipo di terreno, evidentemente perché sempre Dio ricerca la conversione del cuore dell’uomo che da un tipo di terreno può passare a un altro) e la potenza di crescita del seme (che può sempre produrre fino a 100 volte tanto), mostrando in questo il compimento dei desideri del cuore dell’uomo: “Chiunque avrà lasciato case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi per il mio nome, riceverà cento volte tanto e avrà in eredità la vita eterna” (Mt 19,29).

Ci sono terreni che non portano frutto e ci sono terreni che lo portano, sebbene in misura diversificata (30,60,100 per uno). Il frutto è in rapporto all'accoglienza del seme, come a dire: tutto il lavorio del cuore è per accogliere e far crescere in noi il Cristo. La progressione è data dalla potenza della gioia della scoperta del Regno, gioia che, nell’incontro con Gesù, diventa radice di nuova umanità fino a condividere la vita stessa del Figlio dell’Uomo.

I terreni, che possiamo intendere come le possibili condizioni di una conversione sempre più coinvolgente e radicale, sono: la strada, i sassi, le spine, la terra buona. Dobbiamo operare tre passaggi per arrivare a produrre qualche frutto.

Dobbiamo prima lasciare l'essere come la strada, terreno calpestato, quando diamo diritto d’accesso al cuore a qualsiasi pensiero, senza imparare a distinguere e a lottare per non andar dietro ad ognuno che passa e subire vessazioni di ogni tipo.

Poi dobbiamo lasciare l'essere come i sassi, il terreno con poca terra, quando il cuore teme di soffrire per seguire il Signore, quando non ha fiducia nella sua promessa e cedendo a questa paura non conoscerà mai l'amore e la vita!

Poi dobbiamo lasciare il terreno con le spine, il terreno infestato, quando nel cuore si fa sentire la resistenza al distacco da tutto ciò che momentaneamente ci alletta. Troppi beni finiscono per nascondere il vero Bene; le pretese impediscono al cuore di godere. Lavorando per non compromettere il cuore in cose che ritardano o addirittura soffocano i suoi aneliti più genuini, la terra diventa buona.

La terra buona dà frutto per il 30, il 60 e il 100 per uno. La tradizione ebraica ha visto in questa distinzione la fedeltà di chi crede e uniforma la sua vita ai precetti del Signore, di chi lo fa spendendo tutti i suoi beni per il regno di Dio, di chi lo fa fino al dono di se stesso, capace di morire pur di star fedele al suo Dio. Nella tradizione cristiana si sono visti i credenti in generale, i vergini, i martiri. In sostanza, tutto dipende dal livello di profondità e di verità del cuore nell'aderire alla Parola; direi, tutto dipende da quanto si vuole investire della propria vita nella relazione con il Signore. Il godimento viene appunto in ragione della maggior o minor totalità di questo investimento, fatto che cela il mistero dell'invito di Dio al cuore dell'uomo e la sua totale libertà di risposta.

 

§*§*§*§*§*§*§*§*§*§

 

Quarto ciclo

Anno liturgico A (2010-2011)

Tempo Ordinario

 

16a Domenica

(17 luglio 2011)

 

_________________________________________________

Sap 12,13.16-19;  Sal 85;  Rm 8,26-27;  Mt 13,24-43

_________________________________________________

 

Vengono oggi proclamate altre tre parabole del Regno: quella della zizzania, del lievito e del granellino di senapa. Notiamo subito un particolare. Gesù, quando racconta le parabole, spesso conclude con l’avvertimento: chi ha orecchi intenda! Ma qui, l’avvertimento non è dato alla fine del racconto della parabola, ma dopo la spiegazione stessa della parabola che avrebbe dovuto chiarirne adeguatamente i significati nascosti. Il passaggio dal nascosto al chiaro è continuo, non è mai dato una volta per tutte e segue l’evoluzione del rapporto di intimità con Gesù, il Figlio di Dio, ‘potenza e sapienza’ di Dio. La spiegazione della parabola in effetti non racconta semplicemente l’evento che succederà alla fine della storia, ma illustra la prospettiva nella quale vivere il presente della storia, segnata dalla presenza dei malvagi e dall’imperversare del male. Come convivere con i malvagi è domanda più pertinente del perché ci sono i malvagi (i servi della parabola chiedono al padrone da dove viene la zizzania). L’unico buon atteggiamento possibile resta quello del padrone: “Lasciate che l’una e l’altro crescano insieme fino alla mietitura”.

La ragione? La si può desumere dal libro della Sapienza, proclamato nella prima lettura. La domanda che angoscia i giusti: “Perché Dio non toglie di mezzo i malvagi? Perché Dio lascia spazio al male?”, nel brano della Sapienza è formulata in questo modo: “Con tale modo di agire hai insegnato al tuo popolo che il giusto deve amare gli uomini, e hai dato ai tuoi figli la buona speranza che, dopo i peccati, tu concedi il pentimento”. ‘Tale modo di agire’ fa riferimento all’indulgenza e alla mitezza con cui Dio, dotato di forza onnipotente, agisce verso gli uomini e li giudica. Quel ‘deve amare gli uomini’ sarebbe, letteralmente, ‘è necessario che il giusto sia amante degli uomini’. Dove la Scrittura segnala un ‘deve’, un ‘è necessario’, vuol dire che allude a una radice e a un compimento divini, a un esito divino della vita umana.

Quando il salmo 85 riprende, come a commento del brano della Sapienza, la lode di Dio compassionevole, pieno di amore, fedele e misericordioso, lo fa in un contesto preciso, che è il seguente: “Mio Dio, mi assalgono gli arroganti, una schiera di violenti attenta alla mia vita, non pongono te davanti ai loro occhi”. E continua: “Ma tu, Signore, Dio di pietà, compassionevole, lento all’ira e pieno di amore, Dio fedele, volgiti a me e abbi misericordia: dona al tuo servo la tua forza”. L’invocazione a Dio misericordioso nasce dal fatto che il giusto subisce l’azione dei malvagi e l’invocazione si traduce nella richiesta della ‘forza’, tipica di Dio, che è quella della ‘indulgenza, mitezza, pazienza …’. È esattamente il contesto della parabola della zizzania. Dio non toglie di mezzo i malvagi perché sono oggetto della sua pazienza, perché i giusti possano rivelare ai malvagi la forza di Dio che non rinuncia al suo amore perché l’uomo lo disattende e i giusti saranno tanto più giusti quanto più faranno risplendere la potenza di amore paziente di Dio.

La possibilità stessa del pentimento del malvagio è in qualche modo vincolata all’amore del giusto. Se un uomo può essere buono con me, che sono cattivo, allora posso sperare di diventare buono anch’io. La ragione della pazienza del giusto, nella sua somiglianza con la pazienza di Dio, sta nella lucidità dell’accorgersi che se oggi lui agisce da giusto, non è detto che agisca allo stesso modo domani, come per il malvagio, se oggi agisce da malvagio, domani potrebbe agire da giusto, proprio per la pazienza di Dio che gli può toccare il cuore.

All’uomo giusto il malvagio non interessa per il giudizio ma per la segreta provvidenza che comporta. Là dove il male imperversa si acuisce la sofferenza, ma chi accoglie la sofferenza degli altri permette alla propria umanità di splendere. Solo così il mondo è passibile della rivelazione del Regno e se il malvagio non viene meno è solo perché, nella pazienza di Dio, il bene risplenda nella scoperta di nuove dimensioni di umanità, cosa che fa presagire la presenza accompagnatrice di Dio nel mondo.

La fonte di tale ‘pazienza’ dei giusti è basata sulle altre due parabole, quella del granellino di senapa e del lievito, parabole che rispondono alla domanda: perché l’inizio del Regno è così insignificante? Dove si rivela l’evidenza del Regno?

La parabola del seme non insiste tanto sulla sua piccolezza, ma sulla potenza che possiede nonostante la sua piccolezza. Quella del lievito, invece, mostra come l’evidenza del Regno non riguardi una cosa o l’altra. Del Regno non si può dire: eccolo qui, eccolo là. Riguarda l’insieme del mondo, della vita, dei rapporti, dell’agire e del sentire, dell’essere e del fare.

La deduzione da trarre è che la parola del Signore ha tanta potenza che basta accoglierne in verità una sola ed essa sarà capace di riunificare attorno e dentro di essa tutto di noi. Lo stesso significato veicola l'immagine della pasta fermentata. Secondo s. Girolamo, la potenza del lievito è quella di portare tutto all’unità: all’unità delle potenze dell’anima, all’unità di spirito/anima/corpo, all’unità della famiglia umana. È la tensione divina che attraversa la nostra storia, che per questo è sempre storia sacra.

Così, davanti al dramma del male che non ci abbandona, resta la fiducia ancora più grande nella potenza della parola di Dio, di quel Verbo, fatto uomo, accolto in cuore e capace di portare tutto a Lui e in Lui. Solo coloro che preferiscono i pensieri di Dio ai propri (“Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli”, Mt 11, 25) possono confidare sulla forza paziente di Dio, messi a parte dei segreti di amore per gli uomini da parte del Signore Gesù. Lo preghiamo con l’orazione sui doni: “ … ciò che ognuno di noi presenta in tuo onore giovi alla salvezza di tutti”. Come a dire: sono graditi a Dio solo i doni che procedono da quella ‘forte pazienza’ nel rispondere con il bene al male perché a tutti sia reso noto il mistero di amore di Dio per gli uomini.

 

§*§*§*§*§*§*§*§*§*§

 

Quarto ciclo

Anno liturgico A (2010-2011)

Tempo Ordinario

 

17a Domenica

(24 luglio 2011)

 

_________________________________________________

1Re 3,5.7-12;  Sal 118;  Rm 8,28-30;  Mt 13,44-52

_________________________________________________

 

La proclamazione del vangelo contiene le ultime tre parabole del Regno, a completare il quadro delineato nelle due domeniche precedenti. Consideriamo oggi in particolare quelle del tesoro nascosto in un campo e della perla preziosa. La colletta ci apre direttamente l'intelligenza: "O Padre, fonte di sapienza, che ci hai rivelato in Cristo il tesoro nascosto e la perla preziosa ...". Il tesoro e la perla sono il Cristo stesso. Le parabole rispondono alla domanda: potrà mai l'uomo aprirsi per davvero alla rivelazione del Regno di Dio se è necessario attraversare molte tribolazioni per accedervi? Potrà l'uomo portare il giogo del Regno dei cieli? Non c'è contraddizione tra il suo istinto alla felicità e l’asprezza dell'esigenza evangelica?

Non che il regno dei cieli siano paragonati a un tesoro o a un mercante. Il paragone si gioca sulla situazione che si è invitati a vivere, come a dire: il regno dei cieli è simile a ciò che succede quando si scopre un tesoro o quando un mercante trova una perla di gran valore. Il punto nevralgico per la comprensione è dato appunto dalla gioia della scoperta. Tutta l'azione successiva scaturisce dalla gioia prorompente della scoperta. Senza quella gioia non è possibile concepire nessuna azione significativa a livello dell'orientamento della propria vita, sebbene le parabole alludano anche ad altre dinamiche, più nascoste ma non meno vere.

Alla dinamica di ricerca, anzitutto. Non si scopre a caso. Ci deve essere, di fondo, una passione per ciò che è prezioso, una inquietudine che non ti lascia vaneggiare o istupidire. Non sono sufficienti, al cuore dell'uomo, le cose che arriva a possedere; ha bisogno di cogliere quello che dentro le cose vive e attira, quello che solo può colmare il suo desiderio.

Alla dinamica di compravendita. Ciò che è prezioso non sta insieme a ciò che è vile, ciò che è profondo a ciò che è superficiale, ciò che ha sostanza con ciò che ha solo apparenza. Perlomeno, insieme non possono stare tanto tempo e difatti viene il momento in cui ci si deve disfare di una cosa per comprare l'altra. E' inevitabile.

Alla dinamica di rischio. Più grosso è l'affare, più alto il rischio. E quando il tesoro o la perla trovata sono incomparabilmente più preziosi di tutto quello che ci si sarebbe potuti immaginare di trovare, allora ci si disfa di tutto. Il tutto di cui ci si disfa è direttamente proporzionale alla preziosità del tesoro trovato. La molla che permette, anzi che spinge al rischio della compravendita è appunto la gioia, percepita così profonda e piena da cacciare ogni timore.

In queste parabole l'accento non è posto sul fatto che l'uomo è chiamato a lasciare tutto per il Regno dei cieli, ma che lascia tutto perché trasportato dalla gioia di una scoperta che gli riempie il cuore. Non solo, ma che una realtà capace di riempire il cuore non può essere che insieme esigente e gioiosa: esigente perché gioiosa e gioiosa perché esigente. D’altra parte, il Regno non si contrappone a nulla di per sé. Non è la perla più bella delle altre. È, più semplicemente ma più potentemente, la perla di ‘gran valore’; è il tesoro tra i beni e non un bene più prezioso degli altri beni. Saper cogliere questo è frutto di ‘sapienza’ e la colletta fa pregare: “concedi a noi il discernimento dello Spirito, perché sappiamo apprezzare fra le cose del mondo il valore inestimabile del tuo regno, pronti ad ogni rinunzia per l’acquisto del tuo dono”.

È il tema della prima lettura, dove il re Salomone chiede la sapienza del giudicare, con la conseguenza di avere insieme anche quello che non ha chiesto: regno, vittoria e stabilità. Chiedere sapienza per il cuore per ben discernere significa predisporsi a vivere la vita per il verso giusto, per il verso santo, per il verso beato. E la sapienza va impetrata dall'alto perché il tesoro e la perla di gran valore sono come nascosti; realmente si possono trovare, ma solo dentro una rivelazione che fa aprire gli occhi.

Ora, per quale via si accede alla sapienza del discernimento? Lo indica il canto al vangelo: “Ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché ai piccoli hai rivelato i misteri del Regno” (cfr. Mt 11,25). Se colleghiamo questo versetto alla suggestione del serpente nel giardino: “Dio sa che quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio, conoscendo il bene e il male” (Gen 3,5) insieme all’ingiunzione di Dio ai progenitori: “Il Signore Dio disse allora: Ecco l' uomo è diventato come uno di noi, per la conoscenza del bene e del male. Ora, egli non stenda più la mano e non prenda anche dell' albero della vita, ne mangi e viva sempre!” (Gen 3,22), scopriamo che la sapienza che non porta alla vita non è degna dell’uomo. Conoscere il bene e il male significa conoscere le vie della vita. Ma chi può illudersi di conoscerle? Se l’uomo non si fa piccolo, non si dispone cioè alla confidenza nel suo Dio, come potrà godere dei segreti della vita per cui è fatto? Il dramma dell’uomo sta appunto nel volere la vita senza fidarsi del suo Dio che gliel’ha preparata. Chi non vede in Gesù la promessa di vita che si compie per l’uomo da parte di Dio, non sarà disposto ad accoglierlo e non vedrà il tesoro che costituisce per la sua umanità.

Un’ultima annotazione. La scena delle parabole è presentata come avvenisse in un momento determinato. Invece interessa tutto il corso della vita. Sempre troviamo averi che occorrerà vendere per godere appieno del nostro tesoro dove far riposare il cuore in tutta pace. E sarà sempre la stessa dinamica in gioco: una nuova gioia ci farà accettare il rischio, fino a che tutto di noi risplenderà della luce di quel tesoro e via via scopriamo come il cuore si possa costantemente rinnovare e aprire alla rivelazione del suo Signore, mai sazio di Lui come mai sazio di vita e di amore.

 

§*§*§*§*§*§*§*§*§*§

 

Quarto ciclo

Anno liturgico A (2010-2011)

Tempo Ordinario

 

18a Domenica

(31 luglio 2011)

 

_________________________________________________

Is 55,1-3;  Sal 144;  Rm 8,33.37-39;  Mt 14,13-21

_________________________________________________

 

Il brano evangelico incastona l’episodio della moltiplicazione dei pani nel movimento di compassione di Dio per l’uomo: “e sentì compassione per loro”.

Dietro ogni parola di Gesù, dietro ogni gesto sta la sua ‘compassione’, che rimanda direttamente all’amore sconfinato di Dio per i suoi figli, per i quali non ha esitato a mandare il suo Figlio. Proprio come annotava Origene in un suo commento a Ezechiele: “Egli è disceso sulla terra mosso a pietà del genere umano, ha sofferto i nostri dolori prima ancora di patire la croce e degnarsi di assumere la nostra carne; se egli non avesse patito, non sarebbe venuto a trovarsi nella condizione della nostra vita di uomini. Prima ha patito, poi è disceso e si è mostrato. Qual è questa passione che per noi ha sofferto? È la passione dell’amore”. È a partire da quella ‘passione’ che Gesù si ‘muove nelle viscere’ davanti allo smarrimento, alla sofferenza, alla fatica degli uomini. Ed è per aver percepito quella ‘passione’ che san Paolo dirà con la convinzione dell’esperienza di una vita: “Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione ...? … Io sono infatti persuaso che né morte né vita … né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore”.

Quando il profeta Isaia, sempre percependo quella ‘passione’ di Dio per il suo popolo, riassumerà l’invito di Dio per gli uomini alla comunione con Lui, dirà: “Ascoltate e vivrete”. L’eco di quell’invito risuona ancora nelle parole di Gesù: “Venite … e io vi ristorerò”. Ed è proprio quell’invito che fa da porta di accesso all’intelligenza del brano evangelico di oggi.

“Ascoltate” significa: abbandonate la calca e il rumore, venite in disparte, godetevi la mia pace. “Vivrete”: tornerete all’essenziale, gusterete di nuovo intimità e avrete riposo perché pienezza. La parola del Signore, ascoltata nel cuore, porta a gustare l’alleanza di Dio e l’alleanza di Dio è compiutamente rivelata nel Signore Gesù Cristo. E proprio Gesù torna a dire: se venite a me, troverete riposo. Il riposo che dà Gesù non si riferisce al riposo dopo una fatica, dopo un lavoro. Si riferisce a quel ‘riposo’ che Dio ha voluto per il settimo giorno dopo aver creato in sei giorni tutte le cose. Ha il sapore di un compimento, di una pienezza e di una pace che attraversa tutte le cose e ne rivela il senso ultimo, lo splendore nascosto. Rivela la ‘passione’ di Dio che ha toccato i cuori degli uomini e li ha convertiti al suo splendore.

Così, quando Gesù, dopo aver guarito molti, si accinge a dar loro da mangiare moltiplicando le poche cose di cui disponevano i discepoli (solo il pane distribuito è un pane goduto e moltiplicato), a quel mistero si allude. Dando loro da mangiare li fa ‘riposare’, li introduce nel mistero del suo ‘riposo’.

Tutto il brano evangelico è attraversato da un movimento di contrapposizioni e di rimandi. È stabilita distanza tra il palazzo di Erode dove si consuma il martirio del testimone dell’Agnello e il luogo deserto dove si ritira Gesù; c’è contrapposizione tra le città dove abita la gente e il deserto dove la gente si reca per incontrare Gesù; come il popolo nel deserto aveva ricevuto da Dio la manna per poterlo attraversare, così Gesù dà il pane alla gente nel deserto. Ancora non è detto chiaramente, ma l’allusione è potente: il pane dato da Gesù è l’eucaristia, il suo corpo ‘dato per noi’. E dall’eucaristia scaturisce la responsabilità dell’amore, la condivisione con i fratelli, ma non semplicemente la condivisione dei nostri beni, bensì la condivisione della fede in Lui, della conoscenza di Lui, tanto che i beni scambiati non parleranno tanto del nostro impegno di generosità, ma dello splendore dell’amore di Gesù che ha conquistato i cuori. In quello splendore consiste il ‘riposo’, speranza vera per il mondo, riposo che diventa rigeneratore di vita e lievito di umanità.

Come per il mangiare, così per l’ascoltare. L’ascoltare riguarda sempre l’ascoltare una ‘parola viva’ per avere la vita. Ma che cosa fa vivere il cuore dell'uomo? Con il salmo 144, apprendiamo che Dio è paziente e misericordioso con gli uomini, mentre gli uomini, con se stessi e con i loro simili, non lo sono; Lui è buono verso tutti, comunque, mentre gli uomini sono buoni solo ogni tanto e verso qualcuno piuttosto che verso altri. Tenendo conto di come sono fatti i nostri cuori, che si confondono con le loro azioni passate, proprie e altrui, incapaci di aprirsi al futuro come allo spazio di verità e di bene offerto loro da Dio, questa verità è estremamente vivificante per i cuori. Proprio come dice s. Giovanni nella sua lettera: "Dio è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa" (1Gv 3,20).

Va notato che il miracolo avviene nella sua materialità, vale a dire Gesù ha la capacità di compierlo, l'effetto però non è ancora quello sperato da Gesù. La gente non interpreta secondo i pensieri di Dio, ma secondo i propri e non s’avvede che quel pane distribuito è segnale della consegna di Dio agli uomini perché gli uomini vivano da figli di Dio. Gesù, dopo il miracolo, si ritrova solo. Quando allora tale mistero diventerà accessibile? Lo riferisce s. Paolo: “Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi, come non ci donerà ogni cosa insieme con lui?”. Quando, nell’amore del Signore per noi, che ci ha rigenerati nel perdono, sapremo accogliere con gratitudine la vita; quando non permetteremo a nulla, nemmeno ai nostri ‘nobili’ sensi di colpa, di sopraffare il nostro cuore al di sopra dell'amore del nostro amato Signore, che a noi si è consegnato.

 

§*§*§*§*§*§*§*§*§*§

 

Quarto ciclo

Anno liturgico A (2010-2011)

Tempo Ordinario

 

19a Domenica

(7 agosto 2011)

 

_________________________________________________

1Re 19,9a.11-13a;  Sal 84;  Rm 9,1-5;  Mt 14,22-33

_________________________________________________

 

La rivelazione del Signore avviene sempre dentro un contesto drammatico. La celebrazione liturgica ne è come l’eco che apre il cuore alla conoscenza del Signore. Il brano evangelico di oggi è narrato in Matteo, Marco e Giovanni, ognuno apportandovi dettagli estremamente rivelatori. Gesù aveva appena operato il miracolo della moltiplicazione dei pani, che aveva scatenato l’immaginario messianico della gente. Gesù accetterà di essere proclamato re solamente durante la passione, davanti a Ponzio Pilato e sulla croce. Deve quindi rifiutare il delirio della gente e si premura di salvaguardare i discepoli costringendoli a partire subito. Lui si ritira sul monte, da solo, a pregare (sembra che si tratti del monte dove Gesù aveva proclamato le beatitudini!). È l’unica volta, se escludiamo il racconto del Gethsemani, che Matteo descrive Gesù in preghiera solitaria. L’annotazione è carica di mistero perché indica la prossimità di una rivelazione. Quando si ricongiunge ai discepoli camminando sul mare, vuole rivelare qualcosa di sé a loro e a noi. Matteo non dice che i discepoli faticavano ai remi per il vento contrario; parla della barca agitata dalle onde, della barca in cui Pietro e i discepoli fanno la loro confessione di fede, della barca che, una volta accolto a bordo Gesù, non ha più il vento contrario. Tutti particolari che danno all’episodio una forte valenza simbolica: la barca è la Chiesa che, con la presenza del suo Signore, non teme alcuna traversata, alcun vento contrario.

L’intervento di Pietro e dei discepoli è collocato dentro una linea di sviluppo della loro fede in Gesù che si fa via via più coinvolgente e totale. L’evangelista aveva notato come i discepoli, al miracolo della tempesta sedata, siano rimasti colmi di stupore; qui, riconoscono Gesù come Figlio di Dio; poi riconosceranno Gesù il loro Signore. Pietro, in particolare, attira l’attenzione dell’evangelista Matteo. Pietro è affascinato dalla figura di Gesù, vuole seguirlo, ma stenta ad accettare la rivelazione di Dio. Cammina anche lui sulle acque, ma ha paura e affonda. Nell’ultima cena non vuole essere lavato, al Gethsemani estrae la spada, segue Gesù nella sua cattura, ma per paura lo rinnega. Tuttavia, sempre ritorna a Gesù, vuole seguire Gesù, piange il suo tradimento e finalmente il Maestro lo rassicura sulla sua fedeltà a Lui, ormai conquistato alla fede in Lui e al suo amore fino a dare la vita per Lui.

La preghiera di Gesù sul monte ha a che fare appunto con la rivelazione della sua persona e dell’amore salvatore di Dio, rivelazione che ha bisogno di tempi e spazi per conquistare i cuori, cosa che il Signore sa benissimo e che con fantasia persegue pazientemente. Il credente si vede identificato nella fede di Pietro, nelle sue generosità e nelle sue debolezze.  Pietro crede di poter imitare Gesù (“Signore, se sei tu, comandami di venire verso di te sulle acque”), ma Gesù può essere solo seguito. Gesù accoglie la richiesta di Pietro perché conosce il suo cuore e sa che Pietro scoprirà la verità del suo cuore e la verità dell’amore di Gesù quando griderà: “Signore, salvami!”. È il tono della preghiera quando è sincera. Non c'è allora ombra di sfida, di pretesa, di vanità. È il momento della verità ed invece di affondare, sentiremo una mano tesa che ci sottrae ai gorghi. Quante stupide pretese ci condannano a restare nei gorghi! Ed è allora che capiremo qualcosa di più di quel Signore che abbiamo accolto venirci incontro e sentiremo il suo nome che si rivela al nostro cuore : “il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all'ira, ricco di grazia e di fedeltà ...” (Es 34,6).

La proclamazione di questo nome sarà avvertita, come dice la prima lettura a proposito della rivelazione di Dio al profeta Elia, minacciato di morte, angosciato e pur pieno di zelo, come il sussurro di una brezza leggera, che letteralmente suonerebbe ‘come il fruscio di un silenzio leggero’. Il mormorio non allude solamente alla modalità con cui Dio si rivela, nel senso che ciò che di Lui appare non risulta mai evidente e benché la traccia di questo mormorio si imprima indelebilmente nel solco dell'anima non impedisce agli altri rumori di disturbare ed opprimere, bensì alla natura stessa del rapporto tra Dio e l'uomo. Se Dio tende a mostrarsi Salvatore è perché vuole la risposta dell'uomo in amore, senza costrizioni. L'amore grande non è quello che travolge, ma quello che sa e permette e favorisce e suscita l'amore nell'altro finché tutto, nell'altra persona, sia espressione di amore.

Elia si trova nella caverna in cui ha soggiornato Mosè, nel luogo dove Dio è apparso a Mosè. Anche loro si trovavano sul monte, in preghiera. La preghiera ha sempre a che vedere con la rivelazione del volto di Dio e la rivelazione del volto di Dio ha sempre a che vedere con la missione ai propri fratelli, in quanto, se Dio si rivela, si rivela solo come amante e salvatore degli uomini. In effetti, la voce che viene rivolta al profeta: “Che fai qui, Elia?” precede e segue la manifestazione di Dio. Nulla è detto di quanto avviene tra il profeta e il suo Signore nel momento misterioso della manifestazione. Quello che sappiamo è che Dio rimanda il profeta sui suoi passi, tra i suoi fratelli, a continuare l’opera di cui lui, forse presuntuosamente, si era immaginato essere l’unico testimone credibile. Così l’accento non è posto sulla testimonianza del profeta, ma sulla fedeltà di Dio alla sua alleanza. Stessa cosa fa Gesù con Pietro, con i suoi discepoli, con noi.

La denominazione del ‘Dio che passa’, come Gesù fa mostra di assumere (Marco annota di Gesù che cammina sulle acque : “e voleva oltrepassarli”), rivela il fatto che Dio può essere conosciuto solo stando dietro, solo seguendolo, solo camminando dietro a Lui, solo osservando la sua parola. Ed è quello che fa la Chiesa nel mondo: seguire Cristo, che rivela al mondo lo splendore dell’amore di Dio. E sarà solo seguendo Gesù che l’amore agli uomini comporterà lo splendore della presenza di Dio in questo mondo.

 

§*§*§*§*§*§*§*§*§*§

 

Quarto ciclo

Anno liturgico A (2010-2011)

Tempo Ordinario

 

20a Domenica

(14 agosto 2011)

 

_________________________________________________

Is 56, 1.6-7;  Sal 66;  Rm 11, 13-15.29-32;  Mt 15, 21-28

_________________________________________________

 

Il tema della liturgia di oggi è l'ingresso dei pagani nell'alleanza del Signore: a tutti si rivolge la salvezza operata dal Signore. Come l'annuncia il profeta Isaia: " .. il mio tempio si chiamerà casa di preghiera per tutti i popoli". Il capitolo 56 inizia la terza parte del libro di Isaia. Siamo a Gerusalemme, pochi decenni dopo la tragedia dell’esilio, in attesa che la promessa di liberazione si compia. La visione del profeta non riguarda però semplicemente la liberazione dall’esilio, ma la valenza profetica di quella liberazione: sarà estesa a tutti i popoli; tutti, pagani e eunuchi (categoria di persone che erano escluse dal culto in Israele), tutti potranno godere della misericordia di Dio, tanto che il Dio di Israele non sarà più indicato come il Dio che trasse Israele dall’Egitto, come il Dio che liberò Israele dall’esilio, ma come il Dio che raduna il suo popolo ‘da tutte le nazioni’.

A dire il vero, siamo abituati a considerare l’universalità della salvezza del Signore nella sua dimensione storica: da una persona a tutto un popolo (Abramo e Israele), da un popolo a tutti i popoli (Israele e le genti). Comporta però anche una dimensione personale. Il che significa: se io ho accolto l'alleanza del Signore, non tutto di me l'ha accolta; se io ho accolto la buona novella, non tutto di me è stato evangelizzato e poco a poco l'insieme di me deve poter godere dei beni di questa alleanza. Se le mie qualità e virtù mi riportano al Signore, anche i miei difetti e peccati devono potermi riportare a Lui. Se un pensiero buono mi svela qualcosa del mio Signore, mi introduce nella sua intimità, anche un pensiero cattivo cela qualcosa da scoprire per il mio cuore in rapporto al Signore, così un mio peccato, una mia debolezza. "Tutti i confini della terra" del salmo 66 alludono proprio alla totalità degli aspetti che ci compongono e ci strutturano: tutti appartengono al Signore, tutti sono destinati a essere riportati al Signore.

Il brano del vangelo lo mostra splendidamente. I pagani sarebbero entrati nell'Alleanza non con la predicazione o i miracoli, ma attraverso la morte redentrice di Gesù. L'ora però non era ancora giunta e Gesù respinge sulle prime la richiesta della donna cananea. Era ancora il tempo riservato alle pecore perdute della casa di Israele. Ma allora perché Gesù cede all'insistenza della donna, come se lui fosse costretto ad accelerare, ad anticipare la sua ora? Era già successo con la richiesta del centurione (cfr. Mt 8) che Gesù aveva esaudito. Ma qui Gesù sembra alzare il prezzo, sembra voler accentuare una distanza, una inopportunità che tende a suonare ai nostri orecchi, oltre che sgradevole, dura e irrispettosa. Non è però stato così per la donna cananea che non recede, non si fa intimidire, ha la risposta pronta, nella quale Gesù vede la fede del suo cuore a cui non resiste. Addirittura, si potrebbe pensare che la fede della cananea faccia presagire alla coscienza di Gesù l’orizzonte universale della salvezza che solamente più tardi si farà evidente. La donna, da pagana, sa che può contare sulla generosità di Dio, sebbene sia perfettamente cosciente di non poter avanzare alcun titolo di pretesa. Non solo, ma sa che nel banchetto messianico il pane sarà sovrabbondante, tanto che lei si può accontentare delle briciole, sebbene Gesù alla fine le dà proprio il pane dei figli. Va notato che nel racconto precedente della moltiplicazione dei pani per gli israeliti, gli apostoli passano a raccogliere gli avanzi. Ma il racconto successivo dell’altra moltiplicazione dei pani sarà per i pagani,  anche se in terra di Israele.

La particolarità dell'atteggiamento della cananea sta in quel grido 'Signore figlio di Davide' dove compare tutto lo stridore della distanza tra lei, pagana e quel profeta, ebreo. Non minimizza la distanza, la sottolinea, la rimarca e quando Gesù le rinfaccia che non si dà il pane ai cagnolini (i pagani erano chiamati 'cani' dai giudei), non si lamenta e non si ritrae sdegnata del paragone, sviluppa anzi il paragone a suo favore. Riconosce che non ha diritto a quel pane, ma che per la sua sovrabbondanza alcune briciole possono cadere anche per lei. Grande era la sua fiducia in quel profeta e nello stesso tempo era priva di qualsiasi pretesa.

La fede della cananea proveniva poi dall'urgenza del suo bisogno. Non vedeva altri rimedi, troppo era l'amore per sua figlia e allora perché non rivolgersi a quel 'profeta' di cui sentiva dire cose meravigliose, sebbene non possedesse alcun titolo per trovare soddisfazione?

L’aspetto misterioso che va colto è il fatto che fiducia e indegnità vanno di pari passo, mentre normalmente, nelle dinamiche interiori che possiamo osservare, tendiamo a separarle. Invece l'una è custode dell'altra, l'una dice la sincerità dell'altra. Davanti al Signore il nostro cuore è come la donna cananea. È vero, noi siamo nella grazia, abbiamo già incontrato il Signore, ma tutto di noi non è ancora nella luce del suo vangelo. Per molti aspetti siamo cananei, pagani. E possiamo trovare accesso al Signore, Salvatore nostro, solo come la donna cananea, dove la fiducia nella potenza di Gesù sta in stretta compagnia con la coscienza della propria indegnità e l'urgenza del bisogno di guarigione e di vita. L'insincerità del nostro cuore, quello che indebolisce la nostra fede e l'annacqua, è la pretesa di trovar soddisfazione comunque. È la debolezza dell'israelita 'fariseo' che crede di avere la vita perché Dio gliela deve. In questo modo non scoprirà nulla e il miracolo non avverrà. Ci si avvicina a Dio più si ha coscienza di essere peccatori e meno scusanti si adducono ai nostri guai. Quando finiremo di giustificarci accusando gli altri, gli eventi, il mondo, allora saremo sinceri davanti a Dio e scopriremo che Dio non potrà resistere al nostro grido perché indegnità e fiducia accelereranno la sua manifestazione di grazia al nostro cuore.

 

§*§*§*§*§*§*§*§*§*§

 

Quarto ciclo

Anno liturgico A (2010-2011)

Solennità

 

Assunzione della Beata Vergine Maria

(15 agosto 2011)

 

_________________________________________________

Ap 11,19a; 12,1-6a.10ab;  Sal 44;  1Cor 15,20-27a;  Lc 1, 39-56

_________________________________________________

 

In un inno anonimo del VII secolo, la prima esclamazione degli angeli nei riguardi della Vergine suona: “Ave, nutrimento della gioia degli uomini”, mentre gli antichi testi agiografici parlano della Vergine in rapporto ai fedeli come della Regina, della Madre del Signore, della loro sorella. La liturgia bizantina sottolinea il parallelo tra il parto verginale e l’assunzione gloriosa in questi termini: “Nel parto, hai conservato la verginità, con la tua dormizione non hai abbandonato il mondo, o Madre-di-Dio. Sei passata alla vita, tu che sei Madre della vita e con la tua intercessione riscatti dalla morte le anime nostre”.

La festa di oggi modula la devozione alla Vergine su due registri: la gioia come radice di speranza per l’umanità e la sua intercessione universale. Nella sua lettera ai Corinzi Paolo ricorda il dato della fede nella risurrezione. E tratteggia tutto il corso della storia fino alla fine del mondo nel senso di una rivelazione progressiva, anche se misteriosa e drammatica, della signoria di Cristo che prevarrà su tutto. Noi siamo nel tempo della sottomissione a Cristo di tutti i nemici di Dio, morte compresa. Il regno di Cristo coincide con la riduzione a nulla di ogni potere della morte. La cosa va vista nel suo succedersi temporale in ciascuno di noi oltre che nella storia. Tutta l'ascesi e la lotta interiore non sono altro che l'espressione di questo potere di Cristo che riduce a nulla il potere della morte che ci assilla e ci impasta. E man mano che questo potere di Cristo prevale, la vita sgorga fluente e incontenibile.

Ora, nella Vergine Maria, tutto questo non è più in fieri, non ha più spazi o dinamiche da conquistare. È compiuto. E siccome è compiuto, può essere consegnata a Dio Padre, fulgida di tutto lo splendore che la salvezza operata da Dio comporta. Il disegno di Dio in tutto il suo amore per l'uomo, dalla creazione alla glorificazione finale nel suo Regno, solo questa nostra sorella, la Vergine, l'ha potuto godere compiutamente. Oggi, festa dell'assunzione, ella lo sa e può dichiarare: ora so per esperienza tutto l'amore che Dio ha portato all'umanità, che ha portato a me perché sia vivibile da tutti e quindi posso glorificarlo compiutamente. E proprio perché la sua lode per Dio è piena, allora anche l'esultanza del suo cuore è piena e la sua intercessione potente. Quando i credenti guardano alla Vergine gloriosa, assunta in cielo, non possono non considerarla, come canta il prefazio: "primizia e immagine della Chiesa … un segno di consolazione e di sicura speranza". In lei possono magnificare l'amore di Dio per l'uomo, la grandezza della salvezza operata da Dio che anche in noi si dispiegherà a suo tempo, come in lei, che per noi intercede. E a lei rivolti, fiduciosi possiamo pregarla, come le antiche comunità cristiane: "Sotto la tua protezione troviamo rifugio, santa Madre di Dio: non disprezzare le suppliche di noi che siamo nella prova, e liberaci da ogni pericolo, o Vergine gloriosa e benedetta".

Da dove deriva alla Vergine tutta la sua gloria? L’elogio alla madre da parte della donna che ascoltava affascinata Gesù: “Beato il grembo che ti ha portato e il seno che ti ha allattato!” è trasformato da Gesù nell’elogio ai discepoli: “Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano!” (Lc 11,27-28). Gesù sembra spostare l'attenzione sui discepoli, ma in realtà definisce esattamente in che cosa consiste la beatitudine di sua madre. Come i Padri sottolineano spesso: prima di essere madre fisicamente di Gesù, Maria lo è spiritualmente, perché il suo cuore ascolta e osserva la Parola, l'ha sempre ascoltata e osservata. Se però colleghiamo il commento di Gesù all’espressione pronunciata da Elisabetta nel saluto alla Vergine: “Beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto”, ci viene svelato un altro aspetto fondamentale. Ascoltare e osservare la Parola non è semplicemente un mettere in pratica quello che Dio dice. È assai di più. Significa permettere alla promessa di Dio racchiusa nella sua parola di compiersi, di rivelarsi finalmente al cuore e al mondo. Significa acconsentire al desiderio di Dio di compiersi, significa fare in modo che il desiderio che Dio ha di incontrare l'uomo finalmente trovi compimento. Ora, da dove deriva la vita all'uomo se non da un incontro d'amore? Sia in senso fisico, un figlio, sia nel senso di procurare vitalità, gioia di vivere, visione di speranza, forza ed energia. Più questo consenso da parte dell'uomo è totale, più la vita che deriva da Dio è fluente e incontenibile. Vince la morte. Per sempre.

In quel “ha creduto” è indicata tutta la disponibilità della Vergine all’azione di Dio (“Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola”) dove il proprio essere è vissuto come risposta al desiderio di Dio, come spazio di compimento all’agire di Dio. Nell’“adempimento” è adombrata la generazione del Verbo che in lei prende forma. Accogliere il Verbo nella propria umanità significa ritrovarsi nel mistero di Dio Trinità, che è amore comunicato; significa far risplendere l’amore di Dio nel mondo e compiere la propria umanità permettendole di far trasparire la divina Presenza. La grazia di questa 'maternità' spirituale è estesa a tutti i credenti: tutti possono ereditare la beatitudine che deriva dall'ascoltare e osservare la Parola. Nella dinamica dell’obbedienza della fede, l’ascolto della Parola equivale alla fin fine ad accogliere e generare in noi il Verbo, di cui risplendono tutte le parole della Scrittura.

Ora, la vera meraviglia di Dio per gli uomini è proprio il dono del Figlio, che di quell’umanità che ci costituisce svela i confini e le sorgenti divine. Chi, più della Vergine, ha goduto tutta la potenza di splendore di questo dono per l’umanità? Così l’intercessione della Vergine va nella direzione dell’invocazione della preghiera ‘sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra’, interpretata ‘si compia il tuo amore  finché la terra diventi tutta cielo’: nulla rimanga inaccessibile all’amore di Dio che si dispiega potente. Lei, la serva del Signore, terra come noi, ma totalmente disponibile all’agire di Dio, è diventata tutta cielo. Intercede perché anche la nostra umanità, in ciascuno e in tutti, si allarghi agli spazi e alle profondità della sua stessa umanità, nella comunione con il suo Dio.

 

§*§*§*§*§*§*§*§*§*§

 

Quarto ciclo

Anno liturgico A (2010-2011)

Tempo Ordinario

 

21a Domenica

(21 agosto 2011)

 

_________________________________________________

Is 22,19-23;  Sal 137;  Rm 11,33-36;  Mt 16,13-20

_________________________________________________

 

I brani evangelici di oggi e di domenica prossima andrebbero letti insieme. Siamo a Cesarea di Filippo, la città costruita da Erode Filippo presso le sorgenti del Giordano, in una zona rocciosa, alle pendici del monte Hermon. Gesù, come annota l’evangelista Luca, ha appena terminato la sua preghiera, segno evidente dell’imminenza di una rivelazione. Gesù intende manifestare ai discepoli qualcosa del mistero della sua persona.

Matteo incastona la confessione di Pietro: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio Vivente” dopo la seconda moltiplicazione dei pani e l’ammonizione ai discepoli di guardarsi dal lievito dei farisei, i quali sanno leggere il tempo guardando il cielo ma non sanno guardare in alto per riconoscere il segno dei tempi messianici. L’insegnamento della Legge era teso all’affrettare i tempi messianici, ma quando l’ora di Dio si manifesta non ne riconoscono i segni. In questo contesto la domanda di Gesù ai discepoli: “Ma voi, chi dite che io sia?” acquista particolare risonanza. Se lui è il segno, perché chiedere altri segni? Se lui è l’inviato, perché aspettare ancora qualcuno che prepari la strada? Ecco quello che Pietro ha compreso: no, è proprio lui l’inviato, è proprio lui che farà vedere la salvezza di Dio.

Gesù allora lo proclama beato. Questa beatitudine richiama la benedizione proferita in precedenza da Gesù per i discepoli: “Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così è piaciuto a te” (Mt 11,25-26). È la benedizione/beatitudine per i ‘piccoli’, per coloro che stanno aperti al pensiero e all’azione di Dio in tutta confidenza, capaci perciò di ricevere senza filtri l’atto di rivelazione di Dio. Si tratta di una ‘conoscenza’ per rivelazione, per confidenza e non per convinzione. Come a dire: Pietro lascia che il tuo cuore si alimenti della promessa della rivelazione di Dio, che si manifesta in Gesù, senza addurre ragioni che sanno ancora troppo di questo mondo. Il seguito del racconto, che leggeremo domenica prossima, svelerà però che ancora troppe ragioni di questo mondo albergano nel cuore di Pietro, il quale si vedrà severamente ammonito da Gesù in vista dell’accoglienza piena della sua rivelazione.

Tra l’altro, è da dentro questa ‘beatitudine’ che Gesù cambia il nome a Pietro (sembra che all’epoca di Gesù il nome Pietro, traduzione greca del nome aramaico Kepha, che significa roccia, non venisse usato come nome di persona). Pietro potrà conoscere il suo cuore e il compito della sua vita nel processo di fedeltà a quella beatitudine che lo condurrà, dopo la risurrezione di Gesù, alla sua triplice confessione di amore, superando ogni dubbio e tradimento. Non sarà Pietro a diventare più forte, ma sarà la forza di quella beatitudine a conquistare completamente il suo cuore, dal momento che non lo chiude mai alla confidenza del suo Signore, nonostante le sue perplessità e debolezze.

Sulla verità di quella beatitudine è fondata la chiesa, luogo della fede nel Signore Gesù, Salvatore. La promessa di Gesù: “E io ti dico: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa” significa che niente e nessuno può rapirci al Signore. L’espressione ‘le porte degli inferi non prevarranno’ sarebbe forse meglio renderla con ‘il potere della morte non prevarrà’, intendendo: il perdono e l’accesso al Regno, in Gesù, non verrà mai meno. Se siamo suoi, di lui che è il più forte, allora nessuno può rapirci; se prendiamo la vita da lui, che è il Vivente, Colui sul quale la morte non ha più potere, allora la vita che ci attraversa non cederà davanti a nulla perché non è più soggetta alla morte. Quella promessa è da raccordare con l’altra, alla fine del vangelo: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”, parole con cui si chiude il vangelo di Matteo (Mt 28,20). E nelle parole di Gesù è adombrata la promessa che non mancheranno mai uomini e donne che faranno risplendere in mezzo a noi quella Presenza.

Rispetto alla confessione di Pietro, che è anche la nostra, noi preghiamo dopo la comunione: “Porta a compimento, Signore, l’opera redentrice della tua misericordia e perché possiamo conformarci in tutto alla tua volontà, rendici forti e generosi nel tuo amore”. Possiamo interpretare: la conoscenza del tuo amore conquisti i nostri cuori e informi il nostro agire così da vivere del tuo amore sempre e comunque, perché in tutto prevalga lo splendore della tua Presenza salvatrice, umilmente riconosciuta e adorata. È il contenuto dell’azione pastorale della chiesa nel mondo, ieri come oggi e sempre, fino alla fine dei tempi.

 

§*§*§*§*§*§*§*§*§*§

 

Quarto ciclo

Anno liturgico A (2010-2011)

Tempo Ordinario

 

22a Domenica

(28 agosto 2011)

 

_________________________________________________

Ger 20, 7-9;  Sal 62;  Rm 12,1-2;  Mt 16,21-27

_________________________________________________

 

Il brano di vangelo di oggi va ascoltato come continuazione di quello della domenica precedente. Gesù ha preso così sul serio la confessione di Pietro che decide di svelare il suo mistero. Pietro, però, non comprende e si prende il rimprovero di Gesù. E quando Gesù, subito dopo, invita i discepoli a rinnegare se stessi, prendere la croce e seguirlo, non fa che estendere a tutti il rimprovero rivolto a Pietro.

Potremmo intendere le cose così. Pietro, nel rimproverare Gesù, aveva probabilmente temuto per sé. Se Gesù, confessato come il Messia, avesse dovuto patire e morire ignominiosamente, certamente sarebbe svanito il prestigio dell’essere ‘compagno’ del Messia. E allora che ne sarebbe stato di lui? Il ‘rinnegare se stessi’ vale in rapporto al mistero di Dio che in Gesù si fa prossimo agli uomini per la potenza del suo amore tanto da far scaturire la vita proprio là dove gli uomini mai la cercherebbero. Se gli uomini pensano in prospettiva mondana come potranno vedere i segreti di Dio? La rinuncia a ogni prospettiva mondana è la condizione per accogliere il mistero di Gesù che sulla croce rivela lo splendore dell’amore, motivo di ogni rinuncia a qualsiasi cosa che non sia collegabile o derivante da quell’amore. D’altronde qui risiede tutta la dignità della vita. Ma, per quanto desiderabile, come resta velata ai nostri occhi! Siamo sempre nella condizione di dover essere istruiti dall’alto per afferrare la verità dell’umanità di Gesù consegnata agli uomini e scoprire vero per noi e per tutti lo splendore dell’amore. Così il portare la croce non si riferisce primariamente alla fatica del vivere, ma alla condizione perché la fatica del vivere risulti fruttuosa: la rinuncia ad ogni prospettiva mondana ci apre alla rivelazione dell’amore di Dio nella nostra vita, amore che possiamo cogliere in tutto il suo splendore proprio nella croce di Gesù. Seguire Gesù significa essere partecipi di questa rivelazione fino a viverla nel concreto della propria vita per dare spazio alla stessa dinamica di amore.

La rinuncia ad ogni prospettiva mondana corrisponde al fatto di seguire il Signore o, nel linguaggio dell’AT, al fatto di servirlo. La sottolineatura di senso è la seguente: imparare a custodire il cuore nella sua promessa e a godere della sua rivelazione perché la vita torni bella e desiderabile sempre.

È per questa visione e dentro questa potenza che san Paolo, nella sua lettera ai Galati, proclama: “Quanto a me invece non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo della quale il mondo per me è stato crocifisso, come io per il mondo” (Gal 6,14). Come a dire: rispetto a quell’amore, rivelato dall’alto e colto nel seguire il Signore Gesù, di cui ho avuto la visione nel guardarlo trafitto in croce, non c’è nulla nel mondo che meriti la preferenza e non c’è nulla in me che può trovare adeguato compimento a partire dal mondo. La preghiera della chiesa tende a rendere vivace per il nostro cuore tale verità.

Va notato però che Gesù può svelare la ‘necessità’ della sua passione dopo la promessa di beatitudine. Pietro è proclamato beato perché ‘piccolo’, cioè nella disposizione di accogliere e non di suggerire; è chiamato ‘satana’ perché si fa grande: vuole suggerire, vuole stare davanti, vuole condurre. E Gesù lo rimprovera: “Va’ dietro a me”, eco dell’invito di Dio all’uomo in tutte le Scritture a seguirlo, ad ascoltarlo [Dio dice a Mosè: “Vedrai le mie spalle, ma il mio volto non lo si può vedere” (Es 33,23)]. Prima è chiamato pietra di fondazione, poi pietra di scandalo, perché non esiste altro fondamento se non Gesù (cfr. 1 Cor 3,11; 1 Pt 2).

Quando Gesù spiega ai discepoli che lui ‘dovrà’ molto soffrire, non intende illustrare nessuna ragione misteriosa, ma più semplicemente e più direttamente intende implicarli nella rivelazione dell’amore di Dio per l’uomo. Per Gesù, che parla secondo la lingua delle Scritture, si tratta di reinterpretare tutte le Scritture in modo globale, si tratta di realizzarle nella loro tensione di rivelazione dell’amore salvatore di Dio per l’uomo in ragione di quel sigillo ultimativo che lui costituisce quanto all’azione di Dio nel mondo. Da parte nostra, la resistenza ad accogliere la portata rivelativa di quel ‘è necessario’, detto da Gesù e aperto ad essere condiviso dai suoi discepoli, indica tutta la distanza tra il sogno di un amore e la concretezza nel viverlo.

L’anelito del salmo lo esprime a meraviglia: ‘il tuo amore vale più della vita’ e ‘a te si stringe l’anima mia’. A questo alludono le parole di Gesù sul rinnegamento, sul portare la croce. Non è la vita il valore supremo, tanto meno la mia vita, ma l’amore di Qualcuno che attraversa la mia vita e rende la vita degna di essere donata, condivisa, perché la vita possa risplendere in me e in tutti. È quanto mai ‘realistica’ l’affermazione di Gesù: “Chi vuol salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà”. La dinamica del perdere/trovare è essenziale alla vita. La vita che si vuole difendere risulta vuota, fasulla, mentre la vita vera, quella desiderabile e che la fa desiderabile, è soltanto quella ‘donata’, cioè trovata. Dire ‘trovata’ significa alludere a quella gioia della scoperta che rende capaci di lasciare tutto il resto, di vendere tutto, come le parabole del tesoro nascosto in un campo e della perla preziosa rivelano.

Nella reazione di Pietro vediamo la nostra stessa contraddizione. Per esprimerla con le parole della liturgia di oggi: è vero che nel profondo del cuore diciamo "tu sei il mio Dio, all'aurora ti cerco, di te ha sete l'anima mia, a te anela la mia carne" (Sal 62) ma è vero anche che, nel concreto delle situazioni e nel nostro animo, preferiamo i nostri pensieri ai pensieri di Dio. Lo esperimenta anche il profeta Geremia in tutta drammaticità: "Mi hai sedotto Signore, e io mi sono lasciato sedurre", ma davanti alla fatica di star fedeli alla parola del Signore si dice in cuor suo "Non penserò più a lui, non parlerò più in suo nome". A differenza però del profeta Geremia il quale continua dicendo: "Ma nel mio cuore c'era come un fuoco ardente, chiuso nelle mie ossa; mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo", noi fin troppo bene riusciamo a 'contenere' quel fuoco, lo mortifichiamo, lo spegniamo e non riusciamo a volte nemmeno più a sentirne la presenza. Ed è per questo che non riusciamo a liberarci dal bisogno di difenderci, impedendoci però di ‘godere’ la vita e impedendolo in qualche modo anche agli altri.

 

§*§*§*§*§*§*§*§*§*§

 

Quarto ciclo

Anno liturgico A (2010-2011)

Tempo Ordinario

 

23a Domenica

(4 settembre 2011)

 

_________________________________________________

Ez 33,7-9;  Sal 94;  Rm 13,8-10;  Mt 18,15-20

_________________________________________________

 

La liturgia celebra oggi la chiesa come mistero di riconciliazione. L’annuncio gioioso, misterioso, significativo, per il mondo non è che questo: Dio ha tanto amato il mondo da mandare il suo Figlio, testimone dell’amore che ridà dignità e fa vivere il cuore dell’uomo!

Nell'inno di Lodi del Comune degli Apostoli si canta: “Su voi, resi saldi in eterno, s'edifica e innalza la Chiesa che eterna, riversa sul mondo da Dio, come un fiume, la pace”. La storia della chiesa, la nostra piccola storia quotidiana rivela questa verità: ‘che eterna, riversa sul mondo da Dio, come un fiume, la pace’? Chi ci avvicina, chi vive con noi, sente anzitutto questo? Perché questo è il segno dell’apertura di credito al vangelo nella nostra vita.

Il brano evangelico di oggi segue la domanda degli apostoli: “Chi dunque è più grande nel regno dei cieli?” (Mt 18,1) con la risposta di Gesù a farsi (letteralmente: umiliarsi) piccoli. Come dicesse: non sapete nemmeno se potete entrare e vi sognate di essere grandi? La domanda vera suona: come si fa a entrare? Stando piccoli, cioè godendo della benevolenza di Dio e fidandosi dei suoi segreti. Sarebbe il senso della parabola del pastore che va in cerca della pecorella smarrita. Da dentro l’esperienza vissuta di quella premura amorosa le parole di Gesù diventano fonte di beatitudine e di moralità per i discepoli: “Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te …”. È l’invito al perdono vicendevole, a vivere da riconciliati, a gustare il segreto di Dio che in questo comandamento si nasconde. Tanto che il progresso nella fede è concepito come un crescere nella condizione di vivere il perdono come segno di quella vita immortale condivisa con il Cristo.

Così, al di là del suo valore ecclesiale e sacramentale, l’espressione ‘Quello che legherete sulla terra sarà legato in cielo’ assume il senso: se tu leghi, sarai legato; se tu sciogli, sarai sciolto. Proprio come preghiamo nel Padre Nostro: ‘rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori’. Dio si muove nei nostri confronti secondo il potere che ci ha accordato: perdoniamo? Saremo perdonati. Non tratteniamo un'ingiustizia? Anche Dio non la trattiene nei nostri confronti. Siamo generosi con un fratello? Anche Dio lo sarà con noi. Da questo punto di vista, non è importante preoccuparsi di fare bene, ma di non trattenere, di non legare il male di nessuno.

E l’altra espressione ‘dove sono due o tre riuniti nel mio nome’ non allude principalmente alla preghiera, ma al perdono scambievole, alla riconciliazione accolta che testimonia proprio la presenza di Cristo non solo in noi, non solo in mezzo a noi, ma nel mondo, perché l'evento della riconciliazione parla direttamente al mondo della presenza di Dio. La pace fra fratelli, data e accolta, costituisce l'unica condizione di sincerità della preghiera e quindi del suo esaudimento.

Il canto al vangelo lo proclama solenne: “Dio ha riconciliato a sé il mondo in Cristo, affidando a noi la parola della riconciliazione” (cfr. 2Cor 5,19). Se Dio affida all’uomo il ministero della riconciliazione, vuol dire che ritiene l’uomo suo compagno. Con la rivelazione di Gesù, che svela, mentre compie, questo supremo desiderio di Dio, possiamo scorgere all'opera nel mondo le segrete intenzioni di Dio nei confronti delle sue creature. Noi tutti siamo appunto chiamati a concorrere alla realizzazione di questa 'opera'. In questo senso dobbiamo imparare a giudicare ogni cosa in base alla convergenza verso questo supremo scopo divino. Imparare a diventare coscienti di questa realtà significa passare dal livello psicologico a quello spirituale, diventare compagni di Dio. Per questo ci è affidata la parola della riconciliazione. Non però la parola da dire, ma la parola come fondamento dell’essere, come le ragioni che convincono il cuore della realtà di quella pace ottenuta da Dio che, per sua stessa dinamica interna, tende a coinvolgere tutti e tutto. È la parola come forza d’attrazione, come potenza d’irradiazione, come rivelazione del segreto di quel ‘far grazia di sé’ di Dio a noi, di noi a tutti. È il mistero della carità condiviso.

Paolo lo vive come l’unico debito di cui i fratelli portano credito sempre nei nostri confronti. Assolto ogni altro dovere di lealtà, di onestà, di onore, verso tutti, nella società e nella chiesa, per i discepoli di Gesù rimane insolvibile sempre questo: la carità. Ma questo debito è percepito tale se la carità riguarda la condivisione del segreto di Dio che vuole gli uomini suoi figli alla tavola della vita. Se Paolo dice: “pienezza della Legge infatti è la carità”, non allude alla punta di una virtù umana, costituita dall’osservanza della legge, ma all’ispirazione divina, alla potenza divina che opera in noi nell’obbedienza alla legge allargando i confini della nostra umanità sulla misura divina che in Gesù diventa accessibile. Paolo dice appunto: ‘chi ama l’altro’, dove altro sta per straniero e non semplicemente ‘chi ama il prossimo’ entro l’appartenenza ad uno stesso popolo.

Non che la cosa sia così naturale per gli uomini. Lo dice il profeta Ezechiele riportando la critica del popolo al suo Dio: “Non è retta la via del Signore”. L’uomo non è garantito dal bene che ha compiuto come non è condannato dal male che ha fatto. Quello che lo salva è la conversione al suo Dio: “convertitevi e vivrete”. Al centro c’è sempre il mistero dell’amore perdonante di Dio, che ridà gioia e dignità alla creatura liberandola dalle sue rivendicazioni. La carità parla di quella gioia e di quella dignità custodita per sé come per tutti.

 

§*§*§*§*§*§*§*§*§*§

 

Quarto ciclo

Anno liturgico A (2010-2011)

Tempo Ordinario

 

24a Domenica

(11 settembre 2011)

 

_________________________________________________

Sir 27,30-28,9;  Sal 102;  Rm 14,7-9;  Mt 18,21-35

_________________________________________________

 

L’immagine di fondo che emerge è la stessa delle domeniche precedenti: la chiesa come comunità di riconciliati, di uomini e donne che hanno fatto esperienza della grande misericordia di Dio e che non possono non condividerla tra di loro.

La bellissima preghiera dopo la comunione ci introduce nella dinamica divina che attraversa il cuore dei credenti: “La potenza di questo sacramento, o Padre, ci pervada corpo e anima, perché non prevalga in noi il nostro sentimento, ma l'azione del tuo Santo Spirito”. E qual è l’azione dello Spirito nella storia?  La riconciliazione del mondo in Cristo. Quel mistero è l’unico argomento di interesse per il cuore se vuol vivere in pace. Lo ricorda anche il libro del Siracide: “Ricorda i precetti e non odiare il prossimo, l’alleanza dell’Altissimo e dimentica gli errori altrui”. In gioco è proprio l’esperienza dell’alleanza dell’Altissimo, che in Gesù mostra tutto il suo splendore.

Gesù racconta la parabola del debitore spietato in risposta alla domanda stupita di Pietro sulla nostra capacità reale di offrire il perdono ai fratelli. Il passo parallelo di Luca rivela il sottofondo che fa da contesto: “Gli apostoli dissero al Signore: «Accresci in noi la fede!». Il Signore rispose: «Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: “Sràdicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirebbe” (Lc 17,5-6). Il perdono è questione di fede, non di generosità. Il perdono è in funzione dell'esperienza di Dio, non della nostra generosità. Il perdono parla di Dio, non di noi.

Il primo servo della parabola, quello che deve al padrone diecimila talenti, allude a ciascuno di noi in rapporto a Dio. Diecimila talenti sono una cifra spropositata, a sottolineare l'assoluta impossibilità della restituzione. Davanti a Dio ognuno si trova in questa condizione, sebbene non sia così evidente la cosa per la nostra coscienza. È  così forte la paura di Dio che, pur avendo coscienza dei propri peccati, si confida più nella propria giustizia che nel perdono umilmente chiesto e ricevuto e quindi non si è disposti a perdonare al proprio fratello, dal quale si esige la giustizia a tutti i costi. Non ci si rende conto che l'operazione è impossibile e che risponde solo alle proprie paure nascoste e quindi alla grettezza del proprio cuore.

Il secondo servo, quello che deve al suo compagno cento denari (nel confronto tra i diecimila talenti e i cento denari si è calcolato che la differenza è di uno per seicentomila!), indica ciascuno di noi in rapporto agli altri. In gioco non è la disistima della giustizia, ma la grettezza di cuore, la giustizia perpetrata in nome di sentimenti ignobili. Di più ancora, in gioco non è semplicemente una questione tra compagni, ma la stessa dignità della conoscenza di Dio. Il primo servo è cattivo nei confronti del compagno perché non solo non ricorda quello che lui per primo ha ricevuto, ma soprattutto perché ferisce i sentimenti del padrone ed agisce infischiandosi di lui, rinnegando i legami che ha con lui. Se i doni di Dio non sono percepiti dentro l’offerta di una storia di alleanza, di comunione e di vita per noi, dimentichiamo Dio e ci chiudiamo nei doni ricevuti rivendicandoli come di diritto. Ciò ci impedisce di vivere l’alleanza con i nostri fratelli e facciamo pagare a loro le conseguenze di quello spirito di rivendicazione che ci attanaglia.

Ecco perché il sottofondo di comprensione della parabola è la fede. L'esempio del granellino di senapa non vuol suggerire che basta avere una fede tanto piccola quanto un granellino, ma che la fede racchiude la stessa potenza di crescita di un granellino. La fede non è che la coscienza dell'alleanza con Dio che ci viene rivelata proprio nel perdono del nostro peccato e nella capacità a vivere in comunione con Lui ed il miracolo che si impone al nostro cuore è proprio quello di vivere il perdono al fratello come un segno di quella vita divina di cui siamo diventati partecipi. Il tutto è rappresentato dall'invocazione del Padre Nostro: ‘rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori’, in modo così vero che, una volta capaci di risplendere della luce del perdono perfetto, senza più accusare nessuno, non si subisce più la tentazione e non si è più preda del male, come la successione delle invocazioni della preghiera suggeriscono: ‘non ci indurre in tentazione, ma liberaci dal male’.

 

§*§*§*§*§*§*§*§*§*§

 

Quarto ciclo

Anno liturgico A (2010-2011)

Tempo Ordinario

 

25a Domenica

(18 settembre 2011)

 

_________________________________________________

Is 55,6-9;  Sal 144;  Fil 1,20c-27a;  Mt 20,1-16a

_________________________________________________

 

Cosa impedisce ai nostri cuori di fidarci di Dio? È questo il tema della liturgia di oggi. E lasciandoci guidare dall’antifona di introduzione possiamo domandarci: è proprio vero che la salvezza che desideriamo è quella che il Signore ci offre? Perlomeno, non arriva forse tardi per noi la sua salvezza? La dimensione di scandalo dell’agire di Dio nei nostri confronti non viene mai meno per i nostri cuori. Quanta verità contiene la beatitudine proclamata da Gesù: “E beato è colui che non trova in me motivo di scandalo!” (Mt 11,6).

Quello che il salmo 144 proclama: “Giusto è il Signore in tutte le sue vie e buono in tutte le sue opere” rivela il frutto di un cammino consumato alla scoperta del nostro Dio; non indica la condizione di partenza. Non per nulla la verità della bontà di Dio è tema di rivelazione: la si può scoprire solo accettando di relazionarsi al proprio Dio, secondo quella radicalità di rapporto che una relazione d’amore comporta. E come in tutte le relazioni d’amore, il mondo interiore viene rivoluzionato. Senza accettare questa ‘rivoluzione’ non si vive l’amore e non si troverà il senso del vivere. Il salmo riporta la definizione di Dio “misericordioso e pietoso è il Signore, lento all’ira e grande nell’amore” che era stata rivelata a Mosè sul Sinai. E proprio perché tale ‘Nome’ di Dio non è evidente per il nostro cuore, la liturgia si premura di richiamarcela in vari modi.

Quando Dio proclama con le parole del profeta Isaia che le sue vie non sono le nostre, Dio vuole conquistare i nostri cuori alla sua bontà. Il cap. 55 conclude il secondo libro di Isaia con l’assicurazione che il popolo verrà liberato da Babilonia e tornerà gioioso. Nessun indizio lo faceva presumere, la realtà diceva il contrario, ma Dio insiste: “Voi dunque partirete con gioia, sarete ricondotti in pace” (Is 55,12). E così è avvenuto.

La parabola evangelica odierna risponde alla promessa, misteriosa ma feconda, che chi avrà lasciato beni e affetti per il suo Signore, riceverà 100 volte tanto (cfr Mt 19,29). Da notare: si riceve in abbondanza rispetto a quello che si è disposti a lasciare. Il che significa: non possiamo domandare a Dio quello che siamo invitati a lasciare. Non si può servirsi di Dio, ma solo servire Dio. Tanto è vero che il seguito della parabola comporta il terzo annuncio della passione con il successivo ingresso in Gerusalemme dove avrà luogo il dramma della morte di Gesù. Eppure, proprio così risplende l’agire amoroso di Dio nei confronti degli uomini. Perché i nostri cuori non comprendono?

La parabola di Gesù è costruita proprio per sorprendere gli operai della prima ora nei loro pensieri segreti. Se il fattore avesse cominciato a pagare gli operai dai primi, non sarebbero stati svelati quei pensieri. Si sarebbero conosciuti solo quelli degli ultimi. Ma la parabola insiste proprio sui primi; il che significa che in quei ‘primi’ siamo compresi tutti noi, per un verso o per l’altro. Dal punto di vista ecclesiale, si può interpretare la parabola come un avvertimento agli israeliti (gli operai della prima ora) rispetto ai pagani (gli operai dell’ultima ora), ai giudeo-cristiani rispetto agli ellenisti, ai pastori rispetto ai fedeli, ecc. La parabola però ha un’estensione molto più larga e allude agli atteggiamenti dei cuori nei confronti di Dio. Tutti vengono pagati nella stessa misura: è proprio questo che urta la nostra sensibilità. Notiamo subito che il padrone della parabola non manca di giustizia perché ai primi dà esattamente quello che avevano pattuito. Semplicemente, non si attiene solo a quella giustizia e dà anche agli altri la stessa paga. Dove sta allora la malizia dei pensieri dei primi?

Tutto dipende da come leggiamo l’agire di Dio nei nostri confronti. Le vite degli uomini sono effettivamente diseguali, la sua provvidenza è misteriosa, la conoscenza di lui è misteriosa, le nostre sorti sono diverse, le gioie e le sofferenze sono amministrate nella nostra vita in modo così diverso gli uni dagli altri! Perché tutto questo? Porci questa domanda significa rapportarci agli altri e non a Dio. Non è certamente una domanda maliziosa, ma rivela la difficoltà di cogliere la bontà di Dio e per ciò stesso rivela la natura del nostro rapportarci a Dio in rivendicazione. Ma la rivendicazione esprime gelosia, come dice il padrone della parabola ai primi operai. Il segno della purità di cuore è proprio la mancanza di gelosia, vale a dire la gioia della felicità altrui. La punta segreta di questa gioia sta nella confidenza nel proprio Dio di cui si spera il godimento della promessa fatta a noi. Così, nonostante le diseguaglianze delle nostre vite, nulla ci manca se Dio è con noi.

Potremmo anche domandarci: quando i primi restano i primi? Pensiamo agli apostoli. Sono tra i primi e primi sono restati. Essere primi significa rallegrarsi del fatto che gli ultimi sono preferiti, godere con Dio della sua misericordia per gli ultimi. Anche perché l’invito a scoprire e gustare la bontà di Dio salva i cuori dai confini angusti e li libera da ogni forma di rivendicazione in modo da partecipare ai sentimenti di Dio che vuole tutti suoi amici, senza distinzione.

 

§*§*§*§*§*§*§*§*§*§

 

Quarto ciclo

Anno liturgico A (2010-2011)

Tempo Ordinario

 

26a Domenica

(25 settembre 2011)

 

_________________________________________________

Ez 18,25-28;  Sal 24;  Fil 2,1-11;  Mt 21,28-32

_________________________________________________

 

Gesù è appena entrato trionfalmente in Gerusalemme, ha scacciato i venditori dal tempio, ha guarito ciechi e storpi e in seguito alla discussione sull’origine della sua autorità (“Con quale autorità fai questo? Chi ti ha dato questa autorità?”) racconta la parabola dei due figli, tipica del vangelo di Matteo. Chi compie la volontà del padre? Chi acconsente ma poi non fa o chi alla fine fa anche senza aver acconsentito prima? Non è un invito all’obbedienza in generale, ma una riflessione profetica sulla storia che va dritta al cuore degli ascoltatori. Era morto da poco Giovanni Battista e Gesù ne aveva raccolto l’eredità. Aveva predicato un battesimo di penitenza e chi gli aveva creduto? I pubblicani e i peccatori, coloro che di fronte alla sua predicazione si erano ricreduti quanto alla loro vita. I capi e i farisei si sentono invece dire da Gesù: “Voi, al contrario, avete visto queste cose, ma poi non vi siete nemmeno pentiti così da credergli”. Da notare che in questo caso, il verbo ‘pentire’ è espresso con un termine che significa ‘ricredersi’, ‘cambiare parere’, ‘rivedere le cose nella loro verità’. È come se Gesù dicesse: avviene con me come per il Battista. Voi vedete le cose meravigliose che compio, ma non volete vedere l’agire di Dio che compie la sua opera di salvezza. Voi l’aspettate da un’altra parte e resterete sulla vostra fame.

Pentirsi allora significa aprire il cuore al momento di Dio: riconoscere che attraverso quella predicazione il Regno di Dio si approssimava, riconoscere che in Giovanni Dio voleva parlare al suo popolo, riconoscere che Giovanni aveva indicato Gesù come l'agnello di Dio, come colui che veniva da Dio per riscattare l'uomo dal peccato e portargli la sua salvezza. Significa riconoscere in quel Gesù colui che Dio aveva inviato per la salvezza, riconoscere in quel Gesù la venuta del Regno di Dio. Dal punto di vista di Dio non ha alcuna importanza che l'uomo riconosca questo partendo da una sua giustizia o da una sua situazione di peccato: l'unica cosa importante è quel riconoscimento, perché da lì scaturiscono i beni di Dio per l'uomo. E la 'giustizia' dell'uomo per Dio non può provenire che da quel 'pentimento' che induce l'uomo ad accogliere prima di tutto la volontà di Dio su di lui, volontà che esprime il desiderio di Dio di stare con gli uomini, indipendentemente da come o dove si trovano. Tutto ciò che si pone al di fuori o contro o a lato di questo pentimento significa dare più importanza all'uomo che a Dio e in definitiva corrisponde a costruirsi un'immagine di Dio che non è veritiera. E se ci si fida di un'immagine di Dio non veritiera si finisce per costruire anche un'umanità che non ha consistenza di verità e perciò fasulla, quando non distorta.

Ma per il cuore dell'uomo non è così agevole 'conoscere le vie di Dio'. E la preghiera del salmo ci invita: 'fammi conoscere le tue vie, insegnami i tuoi sentieri', come del resto la lettura della lettera ai Filippesi ci mostra tutta l'ampiezza del mistero che esse rappresentano: “Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù: egli, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini”. Perché? Perché sia fatta la sua volontà, compiutamente ed il suo amore si riveli al cuore dell'uomo, inducendolo a pentirsi finalmente!

Dire ‘avere gli stessi sentimenti di Cristo Gesù’ e dire ‘la volontà del Padre’ è dire la stessa cosa. Se l’apostolo ci invita ad avere gli stessi sentimenti di Gesù è perché solo in quel modo possiamo riconoscerci nella volontà del Padre, possiamo acconsentire a quella volontà e goderne lo splendore di amore che ci viene riversato e che ci spinge a riversarlo su tutti. Gesù costituisce quel punto di incandescenza nella storia dove la volontà del Padre muove l’umanità e questa risplende per l’amore che l’investe e di cui si capacita.

Le parabole delle domeniche successive dicono fino a che punto l’umanità di Gesù vive la volontà di salvezza per gli uomini da parte del Padre, allorquando il dramma si consuma. L’accento però non è posto sulla sofferenza che dovrà subire, ma sullo splendore di amore di cui si fa testimone. Avviene per i discepoli come per Gesù: se il Figlio, secondo le parole di Paolo ai Filippesi, ‘svuotò se stesso assumendo una condizione di servo’, lo può fare perché gode di un amore. Quello ‘svuotamento’ è la condizione perché l’amore si compia e trascini tutti nello stesso movimento. Ci si può svuotare dei propri peccati come delle proprie sicurezze; ciò che conta è svuotarsi perché quell’amore torni a splendere, perché Dio possa essere adorato come il Salvatore, ricco di misericordia per noi. Quello che i capi del popolo e i farisei, interlocutori di Gesù, non avevano potuto capire. E lo svuotarsi attira la grazia perché assimila al movimento che Gesù ha vissuto e che Dio vive in se stesso. L’obbedienza ha a che fare con la percezione di questo mistero di amore che porta vita, la vita che viene da Dio e che attraversa la storia perché tutti ne possano gustare lo splendore. Ed è per questo che la colletta prega: “ ... il tuo Spirito ci renda docili alla tua parola e ci doni gli stessi sentimenti che sono in Cristo Gesù”.

 

§*§*§*§*§*§*§*§*§*§

 

Quarto ciclo

Anno liturgico A (2010-2011)

Tempo Ordinario

 

27a Domenica

(2 ottobre 2011)

 

_________________________________________________

Is 5,1-7;  Sal 79;  Fil 4,6-9;  Mt 21,33-43

_________________________________________________

 

La parabola di oggi va letta insieme a quella della domenica precedente e a quella di domenica prossima. La serie delle tre parabole illustra il dramma ormai in atto che, letto dalla parte di Dio, svela proprio la grandezza dell’amore del Signore. Forse, più che una parabola, il brano evangelico di oggi esprime una allegoria profetica. Ciò rende ancora più drammatico il contesto narrativo, come la conclusione, tirata dagli stessi ascoltatori, capi dei sacerdoti e anziani del popolo, lascia perfettamente intendere. Avviene come nel caso di Davide, dopo il peccato di adulterio e assassinio, il quale si condanna con le sue stesse parole rispondendo all’apologo del profeta Natan (cfr. 2 Sam 12,1-13). L’intensità emotiva dello scontro non deriva però dall’ira, ma da una passione d’amore, la stessa passione d’amore di Dio per il suo popolo per il quale non si stanca mai di tornare alla carica.

Il testo di Matteo si dovrebbe leggere in parallelo con quello corrispondente di Luca 20,9-19 dove alcuni particolari risultano particolarmente illuminanti. Si veda, ad esempio, nel testo di Luca, come i vignaioli percuotono, insultano, feriscono i servi mandati dal padrone della vigna, ma solo del figlio del padrone si dice che lo uccidono; il figlio è presentato come il figlio dilettissimo. Come non cogliere il valore profetico di questi particolari applicati a Gesù stesso, lui, il Figlio prediletto, come viene testimoniato dalla voce misteriosa al battesimo e alla trasfigurazione?

Il tono d’insieme della parabola, nonostante l’asprezza delle espressioni, è dato dalla citazione del profeta Isaia dell’inizio. L’immagine dell’uomo che pianta una vigna, la circonda di cure e si attende di raccoglierne i frutti è l’immagine di Dio che, preso d’amore per il suo popolo, stabilisce un’alleanza con lui, vuol condividere con lui il suo Bene. Il legame è così profondo che l’immagine assume sfumature ‘coniugali’ ad indicare la profondità e la totalità di questa passione d’amore. Così, quando il popolo si ribella e non lo segue, Dio si sentirà ferito non solo nel suo diritto e nella sua proprietà, ma nei suoi affetti, nel suo cuore. Gesù sfrutta questa immagine celebre del profeta Isaia che canta per Dio l’inno d’amore per il suo popolo.

È da dentro questo contesto d’amore che va letto il seguito della parabola. Nonostante il rifiuto da parte dei contadini di consegnare il raccolto, cioè nonostante la resistenza e la ribellione contro i profeti che erano stati inviati da Dio al popolo perché riprendesse il sentiero dell’alleanza con Lui, Dio non viene meno al suo amore; anzi, si fa temerario, invia il suo proprio figlio, il Dilettissimo, che viene non solo rifiutato, ma ucciso. Gesù commenta la sua parabola con la citazione dei versetti 22-23 del salmo 118: “La pietra che i costruttori hanno scartata è diventata testata d’angolo; dal Signore è stato fatto questo ed è mirabile agli occhi nostri”, salmo che inizia e finisce con l’acclamazione: “Rendete grazie al Signore perché è buono, perché il suo amore è per sempre”. Lui, la Pietra, è scartata da coloro che erano stati chiamati ad edificare il popolo di Dio, ma con la sua morte e risurrezione diventa la ‘Pietra angolare’, quella nella quale si congiungono ebrei e pagani, a formare quel ‘popolo nuovo’ da tutta l’umanità che ha in Cristo il suo Capo e Fondamento. Non ha più ragion d’essere la distinzione ebrei/pagani perché in Cristo tutte le cose sono nuove e tutti, ebrei e pagani, ritrovano l’alleanza rinnovata e definitiva che Dio offre all’umanità. Dio non ha rigettato Israele a favore delle nazioni pagane (che passione d’amore sarebbe per il suo popolo!). In Cristo non ha più ragion d’essere questa distinzione.

Il giudizio di Gesù: “Perciò io vi dico: a voi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che ne produca i frutti” andrebbe reso meglio: a voi, che vi ostinate nel rifiuto di riconoscere l’alleanza di Dio nell’invio del suo Figlio dilettissimo, sarà tolta la comprensione dell’amore di Dio con tutte le conseguenze che ciò comporta per il cuore dell’uomo e sarà dato ad un’altra generazione, a quanti saranno disposti ad accogliere tutto il mistero di questo amore di Dio per l’uomo e a formare quell’unico popolo, per il quale il Figlio è venuto, nel quale tutto finalmente e definitivamente si compie.

I frutti di cui si parla sono da vedere proprio in rapporto alla meraviglia che suscita l’opera del Signore, meraviglia che suona come canto di vittoria il giorno di Pasqua e che deriva dal pentimento suscitato dal vedere trafitto il Signore della gloria. Sono questi esattamente i frutti che Dio si attende: accogliere il Figlio e diventare un unico popolo, vivere la fraternità come mistero di rivelazione dell’amore di Dio in Cristo per noi. Non si tratta semplicemente di credere che Gesù è il Figlio di Dio, ma di crederlo a tal punto da non tollerare che la propria esistenza non affondi le proprie radici di vitalità ed energia se non in Lui. E quando questo non avviene, risuona anche per noi il giudizio di Gesù: “Perciò io vi dico: a voi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che ne produca i frutti”, perché veniamo scossi, perché ci si possa pentire e ritrovare la freschezza della rivelazione di quell’amore.

Nella parabola emergono aspetti che suonano tragici. Il ragionamento dei contadini alla vista del figlio mandato dal padrone - “Costui è l’erede. Su, uccidiamolo e avremo noi la sua eredità” - ne è un esempio. Proprio il Figlio è stato inviato per metterci in possesso della nostra eredità (cfr. Gal 4,4-7)! Come possono illudersi di ottenere diversamente quello che già era stato loro destinato? Spesso ci si ritrova nella vita in tale posizione: volere a tutti i costi un certo risultato, senza immaginare nemmeno che ci verrebbe dato in dono se solo lo sapessimo accogliere dalle mani di Dio! I nostri desideri di gioia, di felicità, di fraternità, non sono forse così spesso disattesi dai nostri comportamenti? Il nostro guardare al ‘Figlio’ non è forse così spesso appiattito sulle pretese che avanziamo senza poter mai aver sentore della bontà di quell’amore che in Lui ci viene donato? L’amore di Dio non risponde al buon senso, non è contenuto nei limiti del giusto; è proprio folle, folle come quel padrone che, dopo aver visti picchiati e scacciati i suoi servi, non teme di mandare il suo unico figlio. Lui, almeno, lui sì che non deluderà le sue attese, Lui sì resterà sempre testimone di quell’amore folle proprio nel subire la morte e poter riscattare, con la sua risurrezione che lo rende pietra angolare per tutti, la malvagità di quei contadini, la nostra malvagità di uomini peccatori.

 

§*§*§*§*§*§*§*§*§*§

 

Quarto ciclo

Anno liturgico A (2010-2011)

Tempo Ordinario

 

28a Domenica

(9 ottobre 2011)

 

_________________________________________________

Is 25,6-10a;  Sal 22;  Fil 4,12-14.19-20;  Mt 22,1-14

_________________________________________________

 

La domanda di fondo che emerge dalla liturgia di oggi potrebbe suonare: la dignità dell’uomo su cosa si misura? Nella parabola, altamente drammatica anche per l’accenno alla catastrofe subita da Gerusalemme nel 70 d.C. ad opera dei Romani (“Allora il re si indignò: mandò le sue truppe, fece uccidere quegli assassini e diede alle fiamme la loro città”), il re sentenzia: “La festa di nozze è pronta, ma gli invitati non erano degni”.

Le nozze dell’Agnello (“sono giunte le nozze dell’Agnello”, Ap 19,7) sono l’immolazione del Figlio nella sua dimensione di compimento e vivibilità della comunione tra Dio e gli uomini dentro lo splendore di un amore goduto. Perché il re proclama che gli invitati non erano degni? Non ci sono condizioni previe da osservare; c’è semplicemente il fatto di non aver accolto l’invito. L’indegnità corrisponde dunque al rifiuto dell’invito del proprio Signore. L’uomo non è mai indegno rispetto all’amore del Signore perché è il Signore che prende l’iniziativa di rivolgergli il suo amore, senza condizioni. Ma l’uomo può sempre opporre le sue ragioni, può ripararsi dietro la nobiltà ostentata delle sue ragioni e non aderire.

La parabola allude sia al possibile rifiuto di Israele come al possibile rifiuto della Chiesa: gli invitati rinunciano, il commensale, che non porta la veste nuziale, verrà estromesso dalla sala di nozze. Tra la vocazione gratuita e il giudizio escatologico, che appartiene solo a Dio, sussiste lo spazio che possiamo chiamare della dignità cristiana. Sono chiamati tutti, buoni e cattivi; non c’è alcuna distinzione rispetto all’invito. Anzi, come prega la colletta: “O Padre, che inviti il mondo intero alle nozze del tuo Figlio …”, la dignità dell’uomo si misura sul fatto di non impedire a nessuno l’accesso all’invito: siamo chiamati tutti alla stessa tavola del re. Quando però disprezziamo il nostro fratello, quando portiamo rancore, quando creiamo distanza con i nostri fratelli, è come se impedissimo a qualcuno di ricevere l’invito del re ad andare alla stessa tavola della vita. Disprezziamo la volontà del padrone e noi non possiamo più goderla. E questo avviene perché qualche ragione ‘nobile’ ci ha impedito di accogliere l’invito del re, perché non abbiamo conosciuto la premura dell’amore di Dio per noi.

Il parallelo con il brano di Isaia è illuminante. Il profeta descrive il lauto banchetto imbandito sul monte Sion per tutte le genti. L’elezione di Israele è per attirare tutte le genti all’amore del Signore, amore che il Signore farà gustare a tutti. Nella visione del profeta tre sono gli aspetti che caratterizzeranno la gioia della vita: la conoscenza del Signore invaderà i cuori (‘il velo strappato), la morte non avrà più potere, ognuno godrà personalmente (‘lacrime asciugate). Allora si dirà: “Ecco il nostro Dio”, sottolineando nostro come espressione di una esperienza goduta. Allorquando le nozze del Figlio saranno celebrate, guardando a Colui che è stato trafitto, allora si potrà dire: “Ecco il nostro Dio”, ecco dove l’amore ha condotto il nostro Dio, ecco l’amore che fa vivere il nostro cuore. La visione di quell’amore non vale semplicemente per me, ma per me se vale contemporaneamente per tutti. Così, non si tratta di credere semplicemente al Figlio di Dio, ma di vedere il suo amore per noi che diventa in noi radice di vita per tutti. Così custodiamo per tutti l’invito alla tavola del re.

Quando il salmo 22 riprende la visione di Isaia usa l’immagine del pastore che ci procura ristoro. In realtà allude alla rivelazione di Gesù: “Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero” (Mt 11,29-30). L’invito alle nozze corrisponde al ‘venite’ di Gesù e per noi si traduce nell’andarci in compagnia di tutti i nostri fratelli perché il suo desiderio di comunione con noi si compia nel suo splendore.

Se ancora ci perseguita l’idea di indegnità rispetto alla chiamata all’amore, allora valgono le parole del canto di ingresso:  Se consideri le nostre colpe, Signore, chi potrà resistere? Ma presso di te è il perdono, o Dio di Israele” (Sal 130,3-4). Il perdono di Dio corrisponde all’invito alla sua stessa tavola in compagnia di tutti. Così sono custodite la preziosità dell’invito e l’umiltà per l’invitato.  Come suggeriva il versetto dell’alleluia tratto dalla lettera agli Efesini, il cui passo completo suona: “il Dio del Signore nostro Gesù Cristo, il Padre della gloria, vi dia uno spirito di sapienza e di rivelazione per una più profonda conoscenza di lui; illumini gli occhi del vostro cuore per farvi comprendere a quale speranza vi ha chiamati, quale tesoro di gloria racchiude la sua eredità fra i santi …” (Ef 1,17-18). Possa davvero il nostro cuore aprirsi al dono di speranza e di gloria che il Signore ha preparato per noi! Quello che il passo dice ai nostri orecchi, l’icona della Trinità di Rublev lo fa vedere ai nostri occhi: i tre angeli in dolce colloquio, uniti nell’amore all’uomo per il quale il Padre celebra le nozze del Figlio e invita tutti, nella forza dello Spirito, a partecipare alla sua gioia. Sulla mensa giace l’Agnello immolato, simbolo e mistero di questo infinito amore che siamo tutti invitati a gustare.

Alle nozze del Figlio fa riscontro la nostra gioia, non la nostra perfezione. Ma la gioia dice l’apertura del nostro cuore all’invito del Padre, nonostante la nostra patente indegnità. In questo contesto suona strana la dichiarazione finale della parabola: ‘molti sono chiamati, ma pochi eletti’. Di tutta la moltitudine che riempiva la sala, solo uno è stato trovato senza la veste appropriata! Se non è un invito alla speranza questo, a fidarci dell’amore di Dio!!!

 

§*§*§*§*§*§*§*§*§*§

 

Quarto ciclo

Anno liturgico A (2010-2011)

Tempo Ordinario

 

29a Domenica

(16 ottobre 2011)

 

_________________________________________________

Is 45,1.4-6;  Sal 95;  1Ts 1,1-5b;  Mt 22,15-21

_________________________________________________

 

La vita di Gesù volge al termine e i suoi avversari stanno cercando un pretesto per riuscire a metterlo fuori gioco. Lo provocano sulla questione del tributo da pagare all’occupante romano. Si tratta della tassa pro capite (in latino, census) che i romani esigevano da tutti gli abitanti (uomini, donne e schiavi) di Giudea, Samaria e Idumea, dai 12/14 anni fino ai 65. La tassa versata corrispondeva a un denaro d’argento, l’equivalente della paga giornaliera di un operaio, pagata con una moneta speciale che portava l’immagine dell’imperatore Tiberio (14-37 d.C.) con l’iscrizione: TIBERIUS CAESAR DIVI AUGUSTI FILIUS AUGUSTUS PONTIFEX MAXIMUS (Tiberio Cesare, augusto figlio del divino Augusto, sommo sacerdote).

Il tranello consisteva nel costringere Gesù a prendere posizione pro o contro l’obbligo del pagamento della tassa: se rispondeva a favore del pagamento, lo si poteva accusare di antipatriottismo; se rispondeva contro, poteva essere accusato di sedizione contro l’autorità costituita. Gesù, pur conoscendo la malizia della domanda, risponde in verità.

Il senso della sua risposta è illuminato dal canto al vangelo, tratto da un passo della lettera ai Filippesi 2,15-16: “Risplendete come astri nel mondo, tenendo salda la parola di vita”. I credenti in Cristo devono al mondo la luminosità dell’annuncio evangelico, segnale di quella vita eterna che Gesù ci partecipa con il suo amore perché conquisti tutti. Come dicesse: la vita che vivete nel mondo è aperta alla gloria di Dio, le vostre azioni devono restare aperte all’Eterno se non volete restare oppressi e opprimere. Del resto, è caratteristico che nella tradizione ebraica il salmo 95, cantato dopo la lettura di Isaia che presenta un re pagano, Ciro, come il servo di Dio mandato a consolare il suo popolo liberandolo dalla schiavitù di Babilonia, sia tra i salmi recitati in famiglia per il ricevimento dello shabbat. Il ‘sabato’ ci si espone alla luce del Regno perché si possa percepire la presenza del Signore in mezzo al suo popolo, cessando ogni altra attività. Il ‘riposo’ del sabato allude alla luminosità del Regno che attraversa la vita sebbene le preoccupazioni mondane ce ne impediscono la percezione. L’invito a lodare il Signore nella storia quotidiana, tanto da proclamare che cieli, terra, mare, campagna, alberi, tutto gioisca nella lode del Signore (sal 95), è l’invito a vedere la luce del Regno. Come se il cuore, nella preghiera, invocasse la fatica che prolunghi nel quotidiano la luce dello shabbat.

L’elogio che viene tributato a Gesù (“Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità. Tu non hai soggezione di alcuno, perché non guardi in faccia a nessuno”) non risponde solo alla cattiva intenzione dei suoi accusatori, ma esprime anche la condizione per poter discernere l’eterno nel temporale. Diversamente, la storia soffoca o temerariamente esalta, ma non si apre alla salvezza. Aprirsi alla salvezza, alla fin fine, vuol dire sfuggire alla malizia del potere che vuole tutti ‘soggetti’, senza sapere bene in nome di che cosa. L’aspetto straordinario e straordinariamente potente della presa di posizione da parte di Gesù è dato dal fatto che lui è proclamato come non soggetto a nessuno e tuttavia, lui, di se stesso, si proclama sottomesso a tutti (pensiamo all’immagine di lui che si cinge il grembiule e lava i piedi ai discepoli), servo di tutti perché l’amore del Padre conquisti tutti. La libertà che gli è attribuita gli deriva dalla perfetta comunione con il Padre, che vuole tutti salvi e che lo abilita a vivere la vita nel servizio di questa straordinaria provvidenza di amore per l’umanità. Quando Gesù dice di dare a Dio quello che è di Dio allude proprio a quel Padre da cui lui proviene, che lui conosce, di cui testimonia l’amore e di cui mette anche noi in condizione di essere in comunione. Di qui scaturisce quella libertà che, non rendendoci soggetti alle cose, è capace di aprire gli spazi adeguati perché gli eventi si schiudano all’eternità, cioè a quella dimensione del vivere un amore nella storia perché tutti si possa dire: “Grande è il Signore e degno di ogni lode”.

Rispetto al “Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio” possiamo allora notare tre cose.

La prima: Gesù riconosce la legittimità dell’autorità dello Stato, ma svincola il potere da una legittimità autoreferenziale. Nell’antichità lo Stato si presentava come fonte dei diritti e dei doveri in assoluto, compresa la sfera religiosa. Gesù spezza l’alleanza tra religione e Stato che il paganesimo e l’impero esigevano.

La seconda: non separa semplicemente Dio e lo Stato, ma riorienta il temporale, la politica, alla dimensione spirituale che è costituita dal bene delle persone; non solo, ma riaggancia la politica all’eterno nel senso che nella storia è in gioco il compimento del piano divino di salvezza per l’uomo. Come dice Giovanni Crisostomo: “Il precetto di dare a Cesare quello che è di Cesare va inteso come riferito a quanto non si oppone al servizio di Dio. Diversamente, non sarebbe più un tributo pagato a Cesare, ma al demonio” (Omelia 70,2 su Matteo ).

La terza: l’uomo è sopra il cittadino, il prossimo sopra il connazionale, la coscienza sopra la norma, la persona sopra la collettività. Conseguenze che scaturiscono dalla proclamazione: “Io sono il Signore e non c’è alcun altro” che abbiamo letto nel profeta Isaia. Essere discepoli di Cristo significa prima di tutto vedere la vita dal punto di vista di Dio: la possibilità di partecipare al dono del suo Regno nella responsabilità della storia.

 

§*§*§*§*§*§*§*§*§*§

 

Quarto ciclo

Anno liturgico A (2010-2011)

Tempo Ordinario

 

30a Domenica

(23 ottobre 2011)

 

_________________________________________________

Es 22,20-26;  Sal 17;  1Ts 1,5c-10;  Mt 22,34-40

_________________________________________________

 

Possiamo notare anzitutto le due novità della risposta di Gesù nella formulazione evangelica di Matteo. Era usuale nell’ambiente rabbinico la domanda attorno al comandamento grande, quale fosse il primo comandamento e comunemente condivisa la risposta sulla base del testo di Dt 6,4-5: “Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, unico è il Signore. Tu amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze”. Gesù mette insieme il testo del Deuteronomio con Lv 19,18: “Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso. Io sono il Signore” (cfr. anche i passi paralleli, nel contesto più cordiale di Mc 12,28-34 e Lc 10,25-28). La prima novità di Gesù sta nel raccordare i due comandamenti, dichiarando il secondo simile al primo ed estendendone la portata a tutti gli uomini. L’altra novità consiste nell’uscire dallo schema di riferimento usuale per le Scritture con il porre i Profeti sullo stesso piano della Legge, con l’allusione all’unità delle Scritture che in lui trova ormai la sua chiave di lettura.

Il comandamento di sempre, tipico del Dio dell’alleanza che intesse con il suo popolo una storia, acquista con Gesù una risonanza particolare. Non si tratta più solo di richiamare la fedeltà di Dio al suo popolo e la fedeltà del popolo al suo Dio, ma di percepire la fedeltà a Dio come la fedeltà al suo amore per i suoi figli che splende in quell’Inviato, mandato a mostrare quanto è grande l’amore di Dio per gli uomini e a ‘riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi’ (cfr. Gv 11, 52). Ecco perché i due comandamenti sono simili, hanno la stessa importanza.

Il canto al vangelo (Gv 14,23: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui”) fa però intravedere una dimensione ancora più potente nella novità portata da Gesù. Il comandamento allude alla possibile rivelazione del volto di Dio al nostro cuore. Ci potremmo chiedere: la rivelazione è data dall’osservanza o da altro? L’abbinamento del passo di Giovanni al brano di Matteo vuol significare che non è la pratica a produrre la rivelazione, ma l’amore che presiede alla pratica e che alla pratica conduce. Perché? Nella risposta a questo interrogativo si cela anche la ragione dell’abbinamento dei due comandamenti nella sequenza che dà Gesù: Dio, prima e il prossimo, dopo, sebbene non ci sia alcuna distanza tra i due.

La frase di Gv 14,23 è la risposta di Gesù alla domanda dell’apostolo Giuda: “Signore, come è accaduto che devi manifestarti a noi, e non al mondo?”. Una manifestazione che procede da un amore è ravvisabile da chi non partecipa a questo amore? Poco prima Giovanni aveva scritto: “Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama” (14,21). Frase che si contrappone all’altra, a conclusione del discorso di Gesù: “... viene il principe del mondo; contro di me non può nulla, ma bisogna che il mondo sappia che io amo il Padre” (14,30). Purtroppo la traduzione italiana non fa cogliere la contrapposizione, che è essenziale per comprendere il ragionamento di Gesù. La contrapposizione riguarda la frase: ‘chi ha i miei comandamenti...’(v. 21) e l’altra: ‘in me non ha nulla’ (v. 30). Chi fa l’esperienza dell’essere amato dal Padre, non ha bisogno di nulla e nulla cerca per sé: pratica i comandamenti che sono l’espressione di questo amore nel tempo e nello spazio e niente e nessuno gli può sottrarre questo amore. Solo in Gesù questo si compie assolutamente, ma la promessa di Gesù è che la stessa cosa varrà per i discepoli, se stanno in lui. La pratica dei comandamenti è in funzione del fatto che il mondo possa scoprire l’amore del Padre e così vivere la dimensione della fraternità nella sua radicale luminosità.

Il senso dell’amore al prossimo sta tutto nel fatto di far ‘sapere al mondo’ che l’amore del Padre è per lui. Per questo, se il primo comandamento esprime la radice di un’umanità che ha scoperto l’amore del Padre, il secondo ne segnala l’orizzonte di tensione, perché l’amore del Padre è per il mondo. Lo scopo della pratica dei comandamenti non è in funzione della mia perfezione, ma dello splendore dell’amore del Padre che a tutti è rivolto e di cui posso ammirare l’accondiscendenza per noi.

In questa prospettiva risulta illuminante anche la prima lettura, ripresa dall’Esodo nella parte che riporta le norme del Codice dell’alleanza, e precisamente rispetto alla cura dei deboli. Presentare Dio come il difensore dei deboli significa cogliere il mistero del regno di cui Dio si fa promotore. Richiama la rivelazione del Signore riportata da Is 41,4: “Io, il Signore, sono il primo e io stesso sono con gli ultimi”.

Così il comandamento, in particolare quello rivolto a favore del debole, ha sempre a che fare con la rivelazione dell’amore del Signore. La risposta di Gesù sottolinea almeno due cose. La prima. Egli cita la confessione di fede del pio israelita, che costituisce la parte più solenne della preghiera quotidiana di ogni ebreo praticante, formata da tre passaggi. Anzitutto: ‘Ascolta’! La Parola di Dio è fondante, la mia esistenza riceve senso da quella Parola, da lì prende vigore il mio cuore. ‘Il Signore è il nostro Dio’: prima ancora che possa cogliermi nella mia individualità, devo riconoscermi dentro una comunione, dentro una solidarietà. È il mistero dell’alleanza di Dio con noi che mi precede, dentro il quale mi posso raggiungere e riconoscere e accogliere. Prima c’è quello che Dio ha fatto per noi, poi in quel noi posso sentire anche me che vengo raggiunto dall’agire di Dio. Quindi ‘Tu amerai’, cioè finalmente posso rispondere e godere tutta l’intimità di quella alleanza. A questo punto il comandamento non è più un imperativo morale, ma la porta di accesso ad un segreto, ad un mistero di cui sono chiamato a divenire partecipe. Noi spesso leggiamo il comandamento dalla parte della paura, del sacrificio, della rinuncia a qualcosa, ma in realtà bisogna imparare a leggerlo dalla parte della passione del cuore, dell’anelito e del desiderio che ci muovono dentro e della possibilità finalmente di viverli compiutamente.

La seconda. Nel comando di amare il prossimo come se stessi, cosa comporta quel ‘come te stesso’? Se devo guardare a come amano certe persone, sempre aspre e piene di disprezzo per se stesse, io non voglio certo essere amato così da loro! Non significa quindi che dobbiamo amare gli altri come amiamo noi stessi semplicemente. Nemmeno significa che dobbiamo amare gli altri allo stesso modo con cui amiamo noi stessi, perché nel nostro amarci mescoliamo anche le nostre illusioni ed i nostri peccati e non così dobbiamo amare gli altri. Quel ‘come te stesso’ ha un significato di rivelazione, cioè ama il tuo prossimo in quanto ti appartiene e tu appartieni a lui, in quanto tu godi dello stesso amore di Dio di cui anche lui gode, sei raggiunto da quell’unico far grazia di Sé, in Cristo, da parte di Dio all’umanità, a te come a lui, a te perché si estenda a lui e viceversa, in quanto formi un unico corpo con lui per il mistero dell’ umanità che condividi allo stesso titolo con lui e che Dio condivide allo stesso titolo con noi tutti, in Cristo.

Come stupendamente spiega s. Francesco di Assisi nel suo commento al Padre Nostro: “Sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra: affinché ti amiamo con tutto il cuore, sempre pensando a te; con tutta l’anima, sempre desiderando te; con tutta la mente, orientando a te tutte le nostre intenzioni e in ogni cosa cercando il tuo onore; e con tutte le nostre forze, spendendo tutte le nostre energie e sensibilità dell’anima e del corpo a servizio del tuo amore e non per altro; e affinché possiamo amare i nostri prossimi come noi stessi, trascinando tutti con ogni nostro potere al tuo amore, godendo dei beni altrui come dei nostri e nei mali soffrendo insieme con loro e non recando nessuna offesa a nessuno” (FF 270).

 

§*§*§*§*§*§*§*§*§*§

 

Quarto ciclo

Anno liturgico A (2010-2011)

Tempo Ordinario

 

31a Domenica

(30 ottobre 2011)

 

_________________________________________________

Ml 1,14-2,2b.8-10; Sal 130; 1 Ts 2,7-9.13; Mt 23,1-12

_________________________________________________

 

Il brano di vangelo di oggi si inserisce nello scontro tra Gesù e i dirigenti della nazione. Oramai è scontro aperto. I farisei e i capi si sono ritirati a complottare, Gesù nemmeno più parla a loro direttamente; si rivolge alle folle, che ancora per un po’ lo seguono e ai discepoli. Le parole di Gesù sono una perorazione per una devozione sincera, per un discepolato autentico.

La forza delle sue parole deriva da un mistero profondo che appena si intravede ma comanda tutto il brano. Il versetto 8 suona: “voi non fatevi chiamare “rabbì”, perché uno solo è il vostro maestro e voi siete tutti fratelli”. L’allusione è all’evento che Gesù rappresenta nella storia della salvezza: Dio ha tanto amato il mondo da mandare il suo Figlio, Colui nel quale risplende tutto l’amore e la gloria di Dio. Proprio come dice il profeta: “tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande, dice il Signore; poiché io perdonerò la loro iniquità e non mi ricorderò più del loro peccato” (Ger 31,34). Sarà in quel Figlio, dato per noi, che i peccati ci sono perdonati ed è per questo che, essendo tutti perdonati allo stesso titolo, siamo tutti figli allo stesso titolo, fratelli allo stesso titolo. A partire da qui le parole di Gesù non sono semplici invettive di un riformatore. Del resto, già gli stessi farisei avevano stigmatizzato i loro difetti e gli uomini migliori sapevano distinguere una buona da una falsa devozione.

Gesù si presenta al mondo, nella sua unicità per il compito messianico di cui è investito, quale ‘esegeta’ e ‘guida’ (il termine greco significa formatore, istruttore, precettore, nel senso di guidare in un cammino di vita) all’intima conoscenza del Padre. Gesù riconosce l’ordine di Dio nel ministero di Mosé, come lo riconosce nel ministero della Chiesa. Ma l’uno e l’altro sono finalizzati alla gloria di Dio, che nulla ha di che spartire con la gloria ricercata presso gli uomini. Lui solo ricerca la gloria di Dio perché fa quel che dice e dice quel che fa, perché conosce quello che fa e fa quello che conosce (cfr. Gv 5,18-23), secondo l’affermazione del prologo di Giovanni; “Perché la Legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo. Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato” (Gv 1,17-18).

L’invettiva del profeta Malachia contro i sacerdoti che profanavano il nome di Dio va compresa nella stessa linea. Quando li rimprovera da parte del Signore: “Se non mi ascolterete e non vi darete premura di dare gloria al mio nome” minacciando la maledizione, vuol dire: se non mostrate a tutti il nome di Dio che è misericordia per noi, voi non godrete la gioia del perdono e resterete nei vostri peccati, che vi opprimeranno. Si può, sì, sacrificare a Dio (= offrire una pratica pia) ma guai a presentare un’offerta ingiusta, vale a dire: quando ci si attiene a un atto esteriore, allorché l’offerta non è accompagnata dalla conversione del cuore; quando si offre ciò che si è rapinato; quando si dà ciò che si scarta (cfr. Sir. 35). Con queste disposizioni, come accogliere con simpatia e benevolenza i propri fratelli, figli dello stesso Padre?

Ed è caratteristico che la liturgia, a commento di un brano di invettiva, faccia seguire come salmo responsoriale il salmo 130, un inno di fiducia serena e invincibile nel proprio Signore. Come ci si dicesse: non c’è alcun motivo di affidarci all’ingiustizia per esaltarci affannandoci a cercare grandezza e importanza presso gli uomini se l’anima può riposarsi come un bambino nel suo Dio, che ha misericordia di noi. Si rinuncia a guardare in modo superbo e concupiscente quando si può stare presso il proprio Dio come un bambino che ha preso il latte e dorme beato fra le braccia della mamma o come un bambino svezzato che sta appoggiato ai seni della mamma solo per goderne la tenerezza senza cercare di mangiare.

Quando Gesù si proclama unico Maestro e Guida è ormai prossimo alla sua passione. In lui si realizzerà quello che prima aveva proclamato: “Venite a me … e io vi darò ristoro” (cfr. Mt 11,28). Sarà riferendosi proprio a questo Maestro, nella stessa dinamica che vive questo Maestro, che i suoi discepoli potranno insegnare o, meglio, annunziare il suo insegnamento. Non ci può essere, per gli uomini, alcun maestro in proprio e se gli uomini accettano un maestro del genere ne patiranno le conseguenze, perché si troveranno impediti nella vera conoscenza e non potranno più sentirsi tutti fratelli. L’illusione dell’ ideologia, che può essere definita una devozione fasulla, nasce proprio dal fatto che per imporsi dovrà dividere gli uomini. Il segno invece della devozione sincera, del collegamento all’unico Maestro di tutti, è dato dal fatto di farsi servo di tutti allo scopo di non dividerci da nessuno. Si innalza chi prende le distanze e Dio prenderà le distanze da lui perché possa imparare a non dividere i suoi figli (cfr. antifona di ingresso). Ma chi non si divide da nessuno è abitato da Dio, opera con lo Spirito di Dio, risplende della sua gloria tanto che non ha più alcun bisogno di cercarla presso gli uomini. La sua devozione è sincera.

Oltre alla sincerità del cuore, l’unica condizione è che si annunci la parola per amore verso i quali è destinata, con lo stesso amore con il quale è stata pronunciata. Questo atteggiamento permette di cogliere la parola oltre colui che la dice e diventa invito a ricevere la rivelazione del volto di Dio.

 

§*§*§*§*§*§*§*§*§*§

 

Quarto ciclo

Anno liturgico A (2010-2011)

Solennità e feste

 

Tutti i Santi

(1 novembre 2011)

 

_________________________________________________

Ap 7,2-4.9-14;  Sal 23;  1Gv 3,1-3;  Mt 5,1-12a

_________________________________________________

 

Le preghiere e le letture di oggi mostrano in cosa consiste la gioia della santità: godere dello splendore dell’amore di Dio per noi. E tutti gli sguardi si accentrano sulla figura dell’Agnello glorioso e immolato ‘fin dalla fondazione del mondo’ (Ap 13,8). Il mondo è uscito dall’amore di Dio, di esso è intessuto e percorso, di esso parla, ma quanta tenebra ne impedisce la visione! Ebbene, oggi la chiesa mostra al mondo la sua visione: è l’Agnello che attira gli sguardi e gli uomini si ritrovano uniti nella stessa visione e possono risplendere della santità di Dio, che è splendore di amore immolato.

L’antifona di ingresso e la preghiera dopo la comunione fanno come da cornice alla visione aperta dalle letture della festa di oggi. “Rallegriamoci tutti nel Signore in questa solennità di tutti i santi: con noi gioiscono gli angeli e lodano il Figlio di Dio”. È motivo di gioia la santità perché non può esserci gioia se non a partire da un amore accolto e condiviso. E la santità, come proclamano i beati davanti al trono dell’Agnello, è questo amore accolto e condiviso. Perché anche gli angeli sono implicati nella stessa gioia? E perché tutto si risolve nella lode del Figlio di Dio? La gioia degli angeli esprime il mistero del loro essere in adorazione: adorano un Dio che è pieno di amore per gli uomini, non per loro. L’amore di Dio per gli uomini l’ha indotto a farsi uomo come loro, di modo che l’uomo potesse, nella sua umanità, essere come il Figlio di Dio. Ne scaturisce una conseguenza: se l’amore che gli uomini si portano non parla di questo amore di Dio lodato dagli angeli, allora vuol dire che non si è più capaci di adorazione, cioè della gioia di vedere splendere l’amore di Dio per tutti gli uomini, non si è più figli di Dio. Un amore che non allude all’adorazione di Dio diventa tiranno.

Nella preghiera dopo la comunione diciamo: “... fa’ che raggiungiamo anche noi la pienezza del tuo amore”. Non preghiamo semplicemente per arrivare anche noi in paradiso, ma preghiamo perché quell’amore costituisca l’orizzonte della nostra vita. La proclamazione dei santi, come viene descritta nella prima lettura, non si riferisce ad un futuro dopo la storia, ma esprime la verità della nostra storia, verità che non passerà e riempirà tutto del suo splendore. Ma quello splendore costituisce già il senso della nostra storia, anche se spesso i nostri occhi sono così velati da non accorgercene più. Sarebbe il senso della preghiera: renderci accorti di quella verità.

La lettura della prima lettera di Giovanni parla di noi come dei ‘figli di Dio’, di cui il brano di vangelo, con le beatitudini, mostra la dinamica profonda di vita. Dice Paolo in Rm 8,14: “tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, questi sono figli di Dio”. Se ci chiediamo verso dove ci guida lo Spirito di Dio, non possiamo che rispondere: al Figlio di Dio, il quale ci ha riconciliato con Dio (cf. 2Cor 5,18; Ef 4,32). La santità parla di quel mistero di riconciliazione in atto nella storia, nella carne della propria vita, perché risplenda per tutti la possibilità della visione dell’amore di Dio per l’uomo.

È caratteristico che l’antifona alla comunione, riprendendo la serie delle otto beatitudini proclamate nel vangelo,  le riduca a tre: puri di cuore, operatori di pace, perseguitati a causa della giustizia. La purità di cuore capace di vedere Dio è quella che scaturisce dall’esperienza della compassione, della misericordia, così tipica della santità di un cuore che consola e conforta, che accoglie in benevolenza e solidarietà, che rimanda a tutti quello che lui stesso riceve, cioè il perdono rigenerante del suo Signore, che viene così conosciuto come il Salvatore, come l’Amore che ti sottrae all’abisso. La purità però, intrisa di gioia, è solo quella che si traduce in un agire che porta pace a tutti, che rende capaci i cuori di pace, che si fa dono di pace, capace di far grazia di sé come il Figlio di Dio che fa dono di sé perché l’amore di Dio risplenda. E la pace donata è a prova di persecuzione, perché niente è più caro al cuore di colui che gli ha restituito la dignità di uomo e di figlio di Dio. L’amore a prova di persecuzione procede dal fatto di sentire la mia dignità sullo stesso piano della dignità di tutti. Dire che di questi è il regno di Dio significa proclamare che il cuore dell’uomo non può saziarsi che della verità di quell’amore che giunge sanante e potente, sebbene ora si sia sempre nell’occasione di perderlo di vista, di impedirci di goderlo, di impedire agli altri di farne esperienza. Eppure, così proclama tutta la liturgia di oggi, quella verità è la verità del mondo come dei cuori. È la verità di felicità per il cuore dell’uomo, che intravede nelle beatitudini evangeliche le coordinate precise per non fallirla.

 

§*§*§*§*§*§*§*§*§*§

 

Quarto ciclo

Anno liturgico A (2010-2011)

Tempo Ordinario

 

32a Domenica

(6 novembre 2011)

 

_________________________________________________

Sap 6,12-16;  Sal 62;  1Ts 4,13-18;  Mt 25,1-13

_________________________________________________

 

L’anno liturgico volge al termine e in queste ultime tre domeniche vengono proclamate le tre parabole del cap. 25 di Matteo: la parabola delle dieci vergini, oggi, quelle dei talenti e del giudizio finale nelle prossime domeniche. Tre immagini di Dio: quella dello sposo, del padrone e del giudice, a fronte della vita dell’uomo che si gioca nella profondità dei desideri, nell’esercizio di una responsabilità e nella maturità di un frutto che diventa criterio di discernimento dell’autenticità di una vita ben spesa.

L’atteggiamento di fondo più eloquente per cogliere il senso profondo della parabola delle dieci vergini è descritto dal salmo responsoriale: “Ha sete di te l’anima mia, desidera te la mia carne … il tuo amore vale più della vita”. La vita non è che la tensione al compimento di quello struggente desiderio. Se la parabola invita alla vigilanza è perché l’anima può perdersi dietro illusioni fascinose ma inconsistenti. La Sapienza, nella prima lettura, proclama che facilmente è contemplata da chi l’ama. Il che significa che la sapienza è connaturale al cuore dell’uomo, creato per godere di Dio. E se l’uomo deve constatare che nel concreto non è per nulla facile trovare la sapienza, a dispetto di quanto dice il libro della Sapienza, ciò significa che il desiderio di lei, la vigilanza sul desiderio di lei è venuta meno. Questo la parabola vuole scongiurare.

Il contesto della possibile illusione è dato dal fatto che il Signore tarda, come già aveva mostrato Matteo con la parabola dei servi che aspettano il ritorno del loro padrone (cfr. Mt 24,45-51). Il regno di Dio non è immediato né evidente. Non riusciamo più a cogliere l’immagine straordinaria del padrone che si mette a servire i suoi servi (cfr. Lc 12,37); è la descrizione di Dio a servizio dell’uomo, servizio che in Gesù acquista tutto il suo splendore. La vita nostra non è che attesa del Signore nel senso di poter godere insieme del suo servizio che costantemente invita tutti alla sua tavola. Noi non siamo più capaci di vedere la vita in questo modo e così riusciamo anche a fare il nostro dovere, ma senza aprirci al bene che fa splendere l’amore. La parabola, con l’olio per le lampade, allude proprio a questo: un vivere la comunione con il Signore, che ci ha amati e che continuamente ci cerca, nella condivisione dei sentimenti Suoi verso i suoi figli, in solidarietà con l’umanità di tutti. L’immagine delle nozze ne sottolinea l’intensità e l’intimità. Quello che nel linguaggio quotidiano esprimiamo con: sto proprio bene con te!

Suona strano che nella parabola si parli di nozze senza parlare della sposa, perché sono nozze speciali, le nozze del Figlio dell’Uomo: con Lui l’umanità è ormai unita a Dio. È l’evento più gioioso della storia che sbocca nella condivisione della gioia di Dio stabilmente goduta nel suo regno, segno di quell’amore che ci ha raggiunti e lievitati dal di dentro. Per questo la vita non può essere che un uscire incontro a. Le vergini escono incontro allo sposo, come Abramo esce dalla sua terra, come Israele esce dall’Egitto. È la vocazione della vita da viversi come un continuo uscire da per andare incontro a. Ciò significa che la vita non la si possiede, ma la si riceve, continuamente. Ciò comporta la fatica di separarsi da qualcosa per poter godere l’avventura sacra della vita.

L’immagine dello sposo e delle vergini allude al mistero di intimità tra Dio e l’uomo, unico motivo di storia seria per l’anima alle prese con i suoi desideri. La divisione in due gruppi delle vergini allude alla doppia possibilità concessa all’anima: a tale incontro ci si può predisporre con intelligenza o con stoltezza, in modo conveniente o in modo sbadato. Matteo aveva già parlato di questa doppia possibilità a proposito di chi costruisce la sua casa sulla roccia o sulla sabbia (cfr. Mt 7,24-27).

La parabola è raccontata come immagine di ciò che avverrà alla fine ma per mostrare ciò che avviene quotidianamente nella nostra storia terrena in rapporto al desiderio del cuore di godere pienezza perché è nella storia terrena che noi giochiamo il desiderio del cielo. Non per nulla la punta della parabola è proprio la vigilanza, vale a dire quell’attenzione del cuore a far convergere sul vero obiettivo i desideri del cuore perché possano trovare pienezza. L’ammonizione finale invita a stare pronti, da intendersi secondo l’immagine di predisporre le lampade con l’olio, immagine che corrisponde all’altro invito di Gesù a far splendere le nostre opere buone. Non semplicemente però nel fare le opere buone, ma nel far sì che le nostre opere facciano splendere l’amore di Dio per il mondo, che in Gesù, Sposo, si svela in tutta la sua bellezza. L’olio corrisponde a quell’amore fraterno, frutto dell’agire dello Spirito e nello Spirito, che san Paolo descrive nell’inno alla carità in 1Cor 13. Potremmo fregiarci di altre grandezze o altri vanti rispetto agli uomini, ma davanti a Dio non conterebbero nulla e ci farebbero restare con le lampade spente, con il cuore vuoto.

Come molto significativamente spiega Gregorio di Nissa che paragona le vergini stolte alla pratica virtuosa che non porta i frutti dello Spirito enumerati dall’apostolo in Gal 5,22-23:  « … nelle loro anime non c’era la luce, frutto della virtù, e nel loro pensiero non c’era il lume dello Spirito. Giustamente quindi la Scrittura le ha chiamate stolte: in loro la virtù si era spenta prima ancora che giungesse lo Sposo, e per questo lo Sposo tenne fuori le misere dalla camera nuziale celeste; fece bene a non prendere in considerazione il loro impegno nella verginità, giacché non si faceva sentire in loro l’attività dello Spirito».

In primo piano dunque non è l’impegno di una vita buona, ma il frutto di quell’impegno, che corrisponde ai desideri del cuore, vale a dire la solidarietà con lo Spirito del Signore, la possibilità di intimità con il Signore che per primo ci ha amati e nel cui Volto il cuore desidera fissare gli sguardi. Come dice s. Francesco di Assisi: “Avere lo Spirito del Signore e la sua santa operazione”. Se l’attesa è questa, tutta la vita sarà giocata nella vigilanza a che nulla e nessuno possa impedire quello sguardo, a che nulla e nessuno possa separarci da quell’amore, nonostante i sonni e gli addormentamenti che inevitabilmente ci sorprenderanno.

 

§*§*§*§*§*§*§*§*§*§

 

Quarto ciclo

Anno liturgico A (2010-2011)

Tempo Ordinario

 

33a Domenica

(13 novembre 2011)

 

_________________________________________________

Pr 31,10-13.19-20.30-31;  Sal 127;  1Ts 5,1-6;  Mt 25,14-30

_________________________________________________

 

Tutte le parabole parlano di Dio o del Signore Gesù più che dell’uomo. Anche nella parabola dei talenti, in primo piano non è la risposta dei servi ma la liberalità del padrone. Il padrone distribuisce i suoi beni per mettere gli uomini nella opportunità di giocare la loro vita, concepita nei termini di un esercizio di responsabilità. La domanda che ci fa accedere al mistero della parabola può essere la seguente: cosa è in gioco nella nostra operosità? In che cosa siamo servi? Servi per che cosa?

Il padrone, che parte per un lungo viaggio, è lo stesso Signore Gesù che, con la sua morte-risurrezione-ascensione lascia i suoi discepoli e affida loro i suoi beni, ciò che di più prezioso ha: i misteri del Regno. Il padrone è lo stesso personaggio del buon Samaritano che accudisce l’uomo colpito dai briganti, è il Maestro che serve, è il padrone che vuole far entrare a tutti i costi quanti più può nella sala del banchetto nuziale, ecc. Il Signore Gesù non solo lascia ai suoi la testimonianza più luminosa dell’amore di Dio per l’uomo, ma infonde in loro la stessa capacità di vivere di quell’amore, come lui stesso è vissuto, nella potenza dello Spirito che ci ha lasciato in eredità. In quell’ amore, nella luce di quell’amore il discepolo gioca la sua vita.

I talenti affidati sono i doni che scaturiscono dalla fede in Gesù. Trafficarli significa accoglierli come fonte di vita, esaltarne la potenza di vita che racchiudono, tradurli in vita concreta finché tutto di me sia conquistato. La potenza di vita si risolve nel compimento dell’amore, di quell’amore che è tanto più vivo e sincero quanto meno è consapevole della ricompensa, quanto più semplicemente è solidale con tutti. E ancora, i talenti sono in funzione della gioia del cuore, nostro e degli altri, nel senso che ogni volta che sulla base della fede si gioca la propria vita la promessa di Dio si compie e Dio appare più manifestamente nel suo splendore. È un movimento continuamente in evoluzione, mai concluso, che sempre richiede la fedeltà di uno sguardo limpido e di un cuore sincero. Anche di questa gioia siamo i servi, come di sé dice l’apostolo: “siamo invece i collaboratori della vostra gioia” (2Cor 1,24). Collaborare alla gioia non significa ipotizzare un mondo idilliaco, che non sarà mai, ma contribuire a renderlo più vivibile, luogo dove può ancora risplendere la presenza del Signore, seppur nascosto.

I talenti sono dati diversamente a ciascuno, perché ciascuno fa un’esperienza particolare di quell’amore sia nel senso di sperimentarne la grandezza come dono ricevuto sia nel senso di misurare con esso tutta la propria vita. Ma al Signore non fa dispiacere tale diversità: lui stesso ne tiene conto. Difatti, quando il padrone loda i due servi che hanno trafficato i loro talenti, non fa alcuna differenza quanto alla ricompensa: è sempre la stessa, vale a dire ‘prendi parte alla gioia del tuo padrone’. È la stessa liberalità, così mal compresa da noi uomini, che vuole dare all’operaio dell’ultima ora quello che aveva promesso all’operaio della prima ora. Noi proiettiamo i nostri desideri di giustizia su Dio invece di accogliere il suo amore che dilata la giustizia fino alla condivisione piena della gioia comune. Così all’uomo non resta che accogliere in pace la differenza perché ciò che accomuna davanti a Dio è il fatto che ciascuno possa dare quello che ha, cioè se stesso. E quando dà se stesso entra nella gioia del suo padrone, condividendo con Lui e con tutti la stessa gioia, che è la gioia dell’amore.

La ‘responsabilità’ del dare se stessi è esercitata di fronte a Colui che per noi ha dato se stesso, ma l’esercizio di tale responsabilità è volto direttamente verso i fratelli per i quali, come per noi, il Signore ha dato se stesso. Così, per cogliere la natura del trafficare i talenti, bisogna rivolgersi alla parabola di domenica prossima, quella sul giudizio finale, allorquando il Signore Gesù dirà a ciascuno: ‘avevo fame e mi hai dato da mangiare …’. La vita si gioca nel dare amore e scoprirsi figli dello stesso Padre. Quando l’uomo teme di dare se stesso,  come nel caso del servo cattivo, in gioco non è semplicemente la sua pigrizia verso gli altri uomini, ma il fallimento della vita perché dietro la sua pigrizia sta il cattivo giudizio sul padrone, come ritenesse il padrone causa della sua paura perché troppo esigente. Ma così ragionando non fa che proclamare che lui non ha mai creduto alla generosità del suo padrone, non ha mai sperimentato l’amore del Signore e soprattutto che rifiuta di vedere nell’agire del padrone l’amore per i suoi servi. E così la vita non assurge mai a quel livello di dignità che la rende desiderabile, feconda e fruttuosa. Il servo che ha nascosto il talento è colui che non vuol seguire la dinamica della fede, ne svigorisce il potere e chiude agli uomini la possibilità di cogliere, almeno per la parte di cui è responsabile, lo splendore dell’amore di Dio. Non è più buono a nulla ed è malvagio perché impedisce a Dio di essere conosciuto dai suoi figli!

La parabola suggerisce anche qualcosa d’altro. Quando l’uomo, che ha ricevuto i misteri del Regno dal Signore Gesù, li sperimenta nell’amore agli uomini suoi fratelli, diventa solidale con il Padre, il quale ci serve nel Figlio che ha inviato per noi. Servendo, nell’amore, l’umanità di tutti, non facciamo che esercitare quel servizio divino che ridà dignità all’uomo e rende la vita davvero desiderabile. L’insidia maggiore a questo sogno di Dio è la nostra paura, la paura che Dio sia così esigente con noi da toglierci ogni illusione di riuscire a compierlo. Non solo, ma la paura ci impedisce di condividere la gioia del Signore. Quando Gesù, nell’ultima cena, affida ai discepoli i suoi segreti e li invita a rimanere nel suo amore rivela che lo scopo del suo agire è la condivisione della sua gioia (Cfr. Gv 15). E ci può essere gioia nel Signore senza l’amore per i fratelli per i quali sono svelati i suoi segreti?

 

§*§*§*§*§*§*§*§*§*§

 

Quarto ciclo

Anno liturgico A (2010-2011)

Tempo Ordinario

 

34a Domenica

N.S. Gesù Cristo Re dell’universo

(20 novembre 2011)

 

_________________________________________________

Ez 34,11-12.15-17;  Sal 22;  1Cor 15,20-26a.28;  Mt 25,31-46

_________________________________________________

 

Più che una parabola, il brano di vangelo di oggi è una descrizione profetica. La nostra mente, purtroppo, corre verso il futuro immaginando la scena di ciò che avverrà invece che aprirsi alla rivelazione che la descrizione di quella scena comporta.

La collocazione del brano nella struttura della narrazione di Matteo fornisce una luce tutta speciale per la sua comprensione. Alla parabola segue immediatamente il racconto della passione di Gesù. Quel Gesù, di cui si comincia a raccontare la passione e la morte in croce, è lo stesso Figlio dell’uomo che siederà glorioso a giudicare le genti. Stessa cosa sottolinea la liturgia, che si introduce con la visione dell’Agnello immolato  e glorioso (cf. Ap 5,12; 1,6), canta la figura del buon pastore con il salmo 22 a commento del brano di Ez 34, ripete con il canto al vangelo l’osanna della folla che vede la venuta di Gesù a Gerusalemme come il presagio del Regno di Dio che viene (cf. Mc 11,9-10).

Prima di tutto va colta una doppia rivelazione. La prima, quella che dà il nome alla stessa festa odierna, si riferisce al fatto che quel Gesù, che è vissuto, ha patito, è morto e risorto per noi, è proprio il Figlio di Dio: il suo essere Dio risplenderà in tutta evidenza, per tutti, per sempre e in ragione del fatto che è Dio per noi. La nostra immaginazione si ingannerebbe però se interpretasse la gloria che circonda il Figlio dell’uomo come la manifestazione della potenza divina, come se l’apparizione diretta di Dio rendesse tutti ammutoliti e soggiogati.

La seconda rivelazione consiste nel fatto che il re, che esprime la sua signoria con un giudizio inappellabile, vuole svelare la ragione profonda del suo giudicare. Manifesterà il segreto sul quale si regge il mondo e che ne costituisce la dignità assoluta: Dio ha voluto farsi solidale con l’umanità a tal punto che chi tocca l’uomo tocca Dio, chi onora l’uomo onora Dio, chi disprezza l’uomo disprezza Dio. Tale segreto rifulge nella vita del Figlio dell’uomo, perché è Lui che appare davanti agli occhi di Dio in ogni uomo. In un baleno apparirà tutta la verità dell’uomo e, contemporaneamente, tutta la gloria di Dio, che è gloria di amore per noi.

Se poi tendiamo l’orecchio a cogliere le risonanze dello straordinario invito del re: “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo”, possiamo percepirne le infinite sfumature, tutte particolarmente eloquenti per il nostro cuore. Il tono con cui la frase è pronunciata è il tono di tutte le Scritture: che il desiderio di Dio si incontri con quello dell’uomo e si possa gioire insieme. L’atto del separare le pecore dalle capre riprende l’atto della creazione come compiendola; il ‘Venite’ riprende il desiderio dello sposo e della sposa del Cantico dei Cantici, l’anelito dello Spirito e della Sposa alla fine dell’Apocalisse, l’invito di Gesù ai suoi discepoli; ‘benedetti del Padre’ riprende la volontà di benevolenza di Dio per l’uomo di cui Gesù è il Testimone per eccellenza, l’elezione di Israele come un mistero di intimità condiviso e esteso a tutte le genti; ‘ricevete in eredità il regno’ equivale alla stessa eredità del Figlio (ciò che Gesù vive ci appartiene e ci costituisce) e allo stesso Figlio che è costituito nostra eredità; ‘preparato per voi’ corrisponde alla gioia per la quale Dio si è dato premura, per la quale ha fatto il nostro cuore; ‘fin dalla creazione del mondo’: da sempre, non esiste altro segreto, altra promessa che interessi seriamente il cuore dell’uomo.

Una tale pienezza non può derivare dall’uomo. Per questo i buoni non se ne sentono in diritto, si schermiscono, semplicemente sono stati solidali con i loro fratelli: quando mai abbiamo fatto questo e quest’altro proprio a te? Proprio questa indegnità rivelerà la purità di cuore alla quale è stata promessa la visione di Dio, perché la visione di Dio è la visione di un amore per noi sconfinato di cui nessuno può sentirsi degno. All’opposto, i malvagi, che risponderanno con lo stesso interrogativo dei buoni al re, non intenderanno schermirsi, ma giustificarsi e proprio questo rivela la non disponibilità all’amore.

Il racconto evangelico vuole introdurre al segreto di Dio per il mondo. Forse possiamo anche capirlo, ma come siamo lontani dal viverne la potenza e lo splendore!  Non esiste però altra norma del bene, altro segreto di felicità: chi vive solidale con l’umanità di tutti è arrivato al segreto di Dio, in attesa di goderne la sovrabbondanza di grazia perché quel segreto inondi e sommerga ogni altro sentire, ogni altro giudizio, ogni altro pensiero, in noi stessi e in tutti, nel mondo intero.

Aggiungo anche una suggestione particolarissima di Origene. L’immagine delle pecore richiama il mistero della passione di Gesù che come pecora muta di fronte ai suoi tosatori (Is 53,7) manifesta il mistero della sua mansuetudine che lui stesso rivela: “Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore” (Mt 11,28-29). La bontà consiste nella partecipazione alla sua mansuetudine tanto da restare solidali con la debolezza degli uomini e in questa solidarietà ciò che Dio vede è la mansuetudine del suo Figlio. Un versetto di un salmo canta: “Beato l'uomo che ha cura del debole, nel giorno della sventura il Signore lo libera”, che l’antica versione greca rende con: “Beato colui che ha intelligenza del povero e del misero …”. Il debole non è semplicemente il fratello bisognoso, straniero, malato, carcerato, ma è proprio il Figlio dell'uomo, che ha sacrificato la sua vita per invitare tutti e ciascuno alla comunione con lui, che non abbandona pur quando è abbandonato, che non si rifiuta pur quando è rifiutato.

Così la parabola ha a che fare con la rivelazione della dignità degli atti umani, definiti in rapporto alla prossimità in umanità, di cui l’uomo non coglie mai veramente la portata infinita, perché non può mai cogliere fino in fondo la profondità e l’assolutezza del mistero dell’amore di Dio che si confonde con i suoi figli, mistero che porta il sigillo del Figlio dell’uomo, morto e risorto per noi.