Terzo
ciclo
Anno
liturgico C (2009-2010)
Tempo
di Avvento
1a
Domenica
(29 novembre
2009)
_________________________________________________
Ger
33,14-16; Sal
24; 1Ts 3,12-4,2; Lc 21,25-36
_________________________________________________
La Bibbia si conclude
con un grido: “Lo Spirito e la sposa
dicono: Vieni!... Amen. Vieni, Signore Gesù” (Ap
22,17.20). Riassume l’anelito di Dio per l’uomo e quello dell’uomo per Dio di
cui tutte le Scritture sono intessute. L’incompletezza delle cose e
l’insoddisfazione dell’uomo, a qualunque causa si addebitino, rimandano a quel
grido. A noi percepirlo, perché dalle profondità del cuore proviene, eco della
promessa del Signore di dare la vita per la quale siamo fatti.
Qui si innesta
il tema della vigilanza del tempo di
Avvento, tempo che è celebrato nelle sue tre dimensioni attorno alla figura di
Gesù: a) l’evento della nascita di Gesù nella storia; b) il suo ritorno
glorioso alla fine della storia; c) l’oggi della storia vissuto nel Signore che
nasce e cresce nei cuori. Il colore viola dei paramenti liturgici richiama la
fatica storica della rivelazione dello splendore del Cristo in e tra di noi, in
attesa della letizia del Natale con la consuetudine di farci doni perché ci è
stato fatto il Dono per eccellenza: Dio si è fatto uno di noi, la terra può
vivere come il cielo. Proprio come diciamo nel Padre nostro: sia fatta la tua
volontà come in cielo così in terra, cioè perché la nostra terra diventi tutta
cielo.
Possiamo dare
uno sguardo di insieme alla liturgia di oggi partendo dall’esortazione di Paolo
ai Tessalonicesi: “Fratelli, il Signore
vi faccia crescere e sovrabbondare nell’amore fra voi e verso tutti, come
sovrabbonda il nostro per voi, per rendere saldi i vostri cuori e
irreprensibili nella santità, davanti a Dio e Padre nostro, alla venuta del
Signore nostro Gesù con tutti i suoi santi”. La lettera è il più antico
documento letterario del Nuovo Testamento, scritta da Paolo verso l’anno 51,
appena una ventina d’anni dopo la morte e risurrezione di Gesù. La generosità
degli inizi con la partecipazione entusiasta alla carità di Dio rivelata in
Gesù che tutti coinvolge trasformando la vita si riflette nella fede
nell’imminenza del ritorno di Gesù. Il mistero è percepito come nella sua
globalità e nella sua estensione.
La liturgia
rielabora quell’esperienza proclamando Dio come colui che mantiene le promesse.
Lo diciamo nella colletta: “Padre santo, che mantieni nei secoli le tue
promesse”; lo annuncia il profeta: “io
realizzerò le promesse di bene che ho fatto”. Il salmo responsoriale si
apre sulle intenzioni di Dio che parlano al nostro cuore: “Il Signore si confida con chi lo teme: gli fa conoscere la sua alleanza”.
Il testo ebraico è ancora più eloquente: “Il
segreto (l’intimità) del Signore è per chi lo teme”. Come a dire: le vie
del Signore che chiediamo di conoscere sono la verità del suo amore, che in
Gesù si è reso toccabile. Non c’è evento nella nostra vita che possa
cancellarlo o soffocarlo o far desistere il Signore dal suo amore. Temere lui
vuol dire non impedire al cuore di vivere di quel suo desiderio di amore per
noi. Non è proprio agevole né per nulla scontato accettare che i sentieri di
Dio nei nostri confronti siano amore e fedeltà. Ma il Signore Gesù, nato nella
nostra storia, è lì a proclamarlo, a ricordarcelo, a far risplendere il suo amore perché ci conquisti
e ci acquieti, ciascuno e tutti insieme.
La vigilanza
serve a questo: a tenerci desti all’amore del Signore. E l’uomo è colui che alza il capo per essere capace di vedere le promesse di Dio, di vederle
compiersi nel suo cuore. Per tutto l’avvento risuonerà l’esortazione: ‘vegliate
e pregate’, come a dire: abbiate un occhio acuto e un cuore ardente. Non si
tratta solo di un esercizio di intelligenza (vegliate!) ma di un processo di confidenza (pregate!). Un antico saluto degli indiani Hopi suonava: sta’
attento a che la tua testa resti aperta verso l’alto! Tenere aperta la testa
verso l’alto significa allora superare la paura, perché il Dio che siamo
chiamati a conoscere è un Dio di amore per noi. Attende solo – anche Dio
attende! – di incontrare cuori aperti alla sua promessa, fiduciosi di vedere il
bene che la sua promessa ci rivela.
Del resto, è
caratteristico che l’anno liturgico finisca e cominci con la stessa lettura
evangelica del cap. 21 di Luca. Ciò che si attende per la fine è lo stesso di
ciò che si contempla per l’inizio. Ciò vuol dire che tutta la storia riceve
senso a partire da un unico punto: la realtà del Signore Gesù nel suo amore per
noi. Se il canto all’alleluia proclama: “Mostraci,
Signore, la tua misericordia e donaci la tua salvezza”, vuol dire che
possiamo vivere la nostra storia nell’attesa della rivelazione dell’amore di
benevolenza del Signore per i suoi figli! Attesa, che non si riferisce
solamente al premio finale, ma al desiderio di godibilità, nel tempo, di quella
rivelazione, nella quale si incontrano e si consumano due desideri, quello
dell’uomo e quello di Dio.
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Terzo
ciclo
Anno
liturgico C (2009-2010)
Tempo
di Avvento
2a
Domenica
(6
dicembre 2009)
_________________________________________________
Bar
5,1-9; Sal
125; Fil 1,4-11; Lc 3,1-6
_________________________________________________
La chiesa
introduce la testimonianza di un profeta d’eccezione per predisporci ad
accogliere la venuta di Gesù: Giovanni Battista. È definito come la ‘Voce che
grida nel deserto’, voce per una Parola che ancora deve mostrarsi, ma dalla
quale è già conquistato e di cui diventerà testimone.
Il brano del
vangelo di Luca, in questo inizio del capitolo terzo, si espande in continue e
misteriose allusioni. La persona di Gesù è compresa in rapporto a Giovanni
Battista e Giovanni Battista è compreso in rapporto al popolo di Israele che
attende la manifestazione del proprio Dio secondo la sua promessa, ma le
coordinate storiche degli avvenimenti sono situate entro la cornice della
storia pagana, a indicare la centralità dell’evento per la storia umana. Siamo
nell’anno 28/29 d.C. Vengono nominate le autorità che derivano il loro potere
dal beneplacito di Roma: anzitutto Tiberio, poi Ponzio
Pilato (governatore/prefetto della Giudea tra il 26 e il 36 d.C.), Erode Antipa (che governa tra il 4 a.C. e il 39 d.C.), Filippo
(al potere tra il 4 a.C. e il 34 d.C.) e Caifa, sommo
sacerdote, che svolge il suo incarico tra il 18 e il 36, dopo che Anna, suo
suocero, era stato deposto nell’anno 15. Le coordinate di senso, però, sono
definite in rapporto alla storia sacra d’Israele con allusioni, dirette e
indirette, alle Scritture. Il Battista è definito con un riferimento diretto al
profeta Isaia 40,1-5 e con un’allusione alla vocazione di Geremia 1,1 e alla
promessa di Dio in Osea 2,16-22. A questi brani la
liturgia aggiunge il testo di Baruch, essenziale a
cogliere il grido del Battista.
La voce del
Battista risuona forte: “Preparate la via
del Signore, raddrizzate i suoi sentieri!”. Eppure, la colletta fa pregare
così: “O Dio grande nell’amore, che chiami gli umili alla luce gloriosa del tuo
regno, raddrizza nei nostri cuori i tuoi sentieri …”. Identica cosa dice il
profeta Baruc: “Poiché
Dio ha deciso di spianare ogni alta montagna e le rupi perenni, di colmare le
valli livellando il terreno, perché Israele proceda sicuro sotto la gloria di
Dio”.
Se è Dio che
raddrizza i sentieri, come si concilia questo agire di Dio con l’invito del Battista?
Due sono i movimenti che si intersecano: l’azione di Dio e l’azione dell’uomo.
L’azione di Dio riguarda l’invio del Figlio all’umanità, Figlio che riunisce i
figli di Dio dispersi, che diventa segno glorioso dell’amore di Dio per gli
uomini. A questa azione di Dio, che riassume il suo desiderio di stare con gli
uomini e di renderli partecipi finalmente dell’amore suo di cui è ricolmo il
Figlio, corrisponde l’azione dell’uomo che consiste proprio nell’aprirgli le
porte, nell’accoglierlo, nel cogliere il segno
che lui rappresenta. Sarà il Figlio, accolto, ricevuto in casa (pensiamo agli
incontri avuti da Gesù con i vari discepoli e personaggi nei vangeli!), che ‘raddrizza i sentieri di Dio in noi’, nel
senso che nel Signore Gesù e con il Signore Gesù l’uomo ritrova la sua
vocazione divina e la possibilità di compierla in pienezza, per cui torna ad
essere capace di compiere i comandamenti, che costituiscono i sentieri di Dio
per noi.
E quando il
Battista applica all’uomo l’esortazione di raddrizzare i sentieri di Dio non fa
che scuoterlo dai suoi sogni e dalle sue illusioni perché apra il suo cuore a
quel Figlio che sta per venire, che è venuto a portare e a far vivere la vita
di Dio. E aggiungendo: “ogni uomo vedrà
la salvezza di Dio!”, non fa che sottolineare l’estensione del progetto di
Dio per l’umanità. Come non si tratta di una salvezza che riguardi me più degli
altri, così non si tratta di una salvezza che riguarda me senza gli altri. È la
via di Dio per l’uomo, che diventa la via dell’uomo per Dio: lasciare libero il
sentiero tra uomo e uomo è il segno più inequivocabile della rimozione di
ostacoli nel sentiero tra uomo e Dio. Amare il prossimo torna a gloria di Dio
perché è segno dell’esperienza dell’incontro con Dio, segno dell’accoglienza
gioiosa e solidale con l’umanità di quel Figlio, mandato a riunire i figli di
Dio dispersi, di cui ci prepariamo a celebrare il natale tra noi.
L’allusione alla
voce che grida nel deserto riprende il testo di Osea:
“Perciò, ecco, io la sedurrò, la condurrò
nel deserto e parlerò al suo cuore… Là mi risponderà
come nei giorni della sua giovinezza, come quando uscì dal paese d’Egitto… Ti farò mia sposa per sempre, ti farò mia sposa
nella giustizia e nel diritto, nell’amore e nella benevolenza, ti farò mia
sposa nella fedeltà e tu conoscerai il Signore”, dove il brano, reso
pudicamente in italiano, ha un connotato molto più realistico: ti sedurrò,
parlerò sul tuo cuore, con espressioni tipiche dell’intimità delle relazioni
tra l’uomo e la donna; risponderà, nel senso della risposta della sposa che si
dona a suo marito. Allora, portare nel deserto da parte di Dio allude, sì, allo
spogliamento (= penitenza) dei beni e delle cose nei quali ci si è illusi di
trovare felicità, ma soprattutto allude a una nuova storia di amore che Dio è
pronto a intessere col suo popolo su basi nuove, con una nuova alleanza, perché
finalmente il cuore possa godere la vita in modo soddisfacente. Quando il
Battista comincia a gridare nel deserto, nella sua voce c’è l’eco di questo
desiderio di Dio di venire dal suo popolo, un’eco che non rimbomba più da
lontano ma si fa sempre più vicino, fino a tramutarsi nel suono diretto della
Parola d’amore che appare in mezzo al suo popolo quando Gesù si manifesterà.
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Terzo
ciclo
Anno liturgico
C (2009-2010)
Solennità
e feste
Immacolata
Concezione
(8
dicembre 2009)
_________________________________________________
Gn
3,9-15.20; Sal
97; Ef
1,3-6.11-12; Lc
1,26-38
_________________________________________________
“Rallegrati, piena di grazia” è il saluto
dell’angelo Gabriele a Maria. La festa di oggi fa presagire quanto siano
insondabili i confini di questa sua pienezza di grazia: unica tra tutte le
creature non è toccata da ombra di peccato fin dal suo primo istante di
esistenza. Dire che non ha ombra di peccato non è che la modalità per negativo
di dire quanto sia coperta dall’ombra dello Spirito Santo: “Lo Spirito Santo scenderà su di te e la
potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra”.
La liturgia
oggi non fa che proclamare l’insondabile e straordinaria volontà di benevolenza
di Dio per gli uomini in tutto lo splendore d’amore che comporta, che, per dirla con l’espressione di Paolo agli
Efesini, esprime tutto ‘il beneplacito della sua volontà’. Se leggiamo la festa
di oggi sulla falsariga dell’inno di Paolo, nel capitolo primo della sua
lettera agli Efesini, potremo comprendere più adeguatamente sia l’inno del
magnificat pronunciato dalla Vergine che la ragione della profezia rivoltale di
essere ‘la benedetta tra tutte le donne’. Dice Paolo: “In lui siamo stati fatti anche eredi, predestinati - secondo il
progetto di colui che tutto opera secondo la sua volontà – a essere lode della
sua gloria, noi, che già prima abbiamo sperato nel Cristo”. Vediamo in lei
la prima che ha sperato in Cristo e che perciò è stata fatta a lode della sua
gloria, vale a dire adatta a rivelare la sua gloria, adeguata a portare la sua
gloria. E se la gloria non è che lo splendore del suo amore per gli uomini,
allora è lei colei che più di tutti l’ha fatto risplendere con il portare in
grembo, partorire, custodire, condividere il mistero di quel Gesù, suo Figlio,
dato per noi, a rivelazione dell’amore di Dio per gli uomini. La pienezza di
grazia della Vergine è in funzione di quella rivelazione, che costituisce la
ragione per cui lei è chiamata a dare carne a colui nel quale riposa il sommo
beneplacito, la totale compiacenza di Dio, come sarà dichiarato espressamente
nel momento del battesimo e della trasfigurazione del Signore Gesù.
È lei che
può esprimere in tutta la sua profondità ed esultanza quell’amore di
benevolenza di Dio che salva l’uomo, di cui tutti siamo chiamati a fare
esperienza: “Benedetto Dio, Padre del
Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale
nei cieli in Cristo”. Ci può essere per l’uomo motivo più autentico di
benedizione di Dio di questo ‘riconoscimento’ dell’amore Suo per noi, in
Cristo, che ha presieduto alla stessa origine del mondo e che ha avuto nella
Vergine Immacolata il suo segno tangibile?
Riflettendo
sul passo del racconto del peccato narrato dal libro della Genesi si può
osservare come le varie creature si pongano nei confronti di Dio. Quando Dio
chiede ad Adamo se abbia trasgredito il suo comando, lui risponde addossando la
colpa ad Eva. Quando Dio si rivolge ad Eva, lei risponde addossando la colpa al
serpente. Ma quando Dio è davanti al serpente, il serpente tace. Adamo ed Eva
rispondono a Dio, pur giustificandosi, perché hanno nostalgia di Dio. Il
serpente sembra non avere alcuna nostalgia: non semplicemente ha peccato, ma
non è proprio d’accordo sul fatto che Dio conceda i suoi favori agli uomini e
resta quindi avversario di Dio. È avversario di Dio chi è geloso dei beni che
Lui riversa sulle sue creature e perciò resta astioso, astio di cui facciamo le
spese noi continuamente. Chi è capace di far risplendere i doni di Dio solo
godendo dell’immenso amore di Dio per gli uomini è pieno di grazia. E da tale
pienezza di grazia non può non derivare il Salvatore, che è la rivelazione
dell’infinito amore di Dio per gli uomini. Credo voglia dire anche questo la
pienezza di grazia della Vergine, dalla quale nasce Gesù, il Salvatore. Ed è
per questo che la tradizione saluta la Vergine come la gioia dell’universo.
Non avevo
mai riflettuto sul fatto di chiamare ‘nostra Signora’ la Vergine, Madre di Dio.
Qual è il significato di questo appellativo? Un passo di un’omelia di Gregorio Palamas è illuminante: “La Vergine è Signora non solo
perché è libera dalla schiavitù del peccato e partecipe del dominio divino, ma
anche perché è diventata causa e radice della libertà del genere umano” (Omelia
14,8). Così, se l’uomo vuole accedere al regno della libertà, non ha che da
guardare a questa sua sorella, al suo mistero, alla sua storia, alle sue
emozioni, ai suoi dolori, al suo amore perché in lei ritrova tutto il mistero
dell’amore di Dio per l’uomo. E non si può vivere l’amore senza libertà. Nella
sua grandezza non cessa di essere sorella nostra, come noi nella nostra miseria
non cessiamo di essere oggetto dell’amore di Dio. Il suo ‘avere’ il Signore con
lei è motivo di fiducia per noi di trovarlo, di essere accompagnati a lui, di
stare in sua compagnia. ‘Il Signore è con te’
diventa, nella nostra preghiera: “tu che hai il Signore supplicalo perché sia
anche con noi, ora e sempre!”.
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Terzo
ciclo
Anno
liturgico C (2009-2010)
Tempo
di Avvento
3a
Domenica
(13
dicembre 2009)
_________________________________________________
Sof 3,14-18; Sal:
Is 12,2-6; Fil
4,4-7; Lc
3,10-18
_________________________________________________
“Rallegrati, figlia di Sion, grida di gioia,
Israele; esulta e acclama con tutto il cuore, figlia di Gerusalemme! Il Signore
ha revocato la tua condanna, ha disperso il tuo nemico”; “Siate sempre lieti
nel Signore, ve lo ripeto: siate lieti. La vostra amabilità sia nota a tutti.
Il Signore è vicino!”. Così la liturgia, oggi, accoglie i fedeli: li chiama
alla gioia, insistentemente. Con quali ragioni?
Riferire la
gioia a Dio comporta due significati: Dio è pieno di gioia per noi (= noi siamo
la sua gioia) e Dio è fonte di gioia per noi (= Dio è la nostra gioia). La
colletta fa pregare: “O Dio, fonte della vita e della gioia, rinnovaci con la
potenza del tuo Spirito, perché corriamo sulla via dei tuoi comandamenti, e
portiamo a tutti gli uomini il lieto annunzio del Salvatore”. La potenza dello
Spirito è collegata al mistero della letizia che ci rinnova facendoci
‘correre’, non semplicemente ‘camminare’, sulla via dei comandamenti. Se il
cuore non percepisce mai come Dio non si dia pace finché noi vediamo quanto è
contento di poter stare con noi, come potremo fare esperienza che i suoi
comandamenti sono la gioia del nostro cuore? Il profeta Sofonia
lo dice chiaramente: è Dio ad esultare di gioia per noi. La cosa è tanto singolare
che la nostra psicologia interiore sembra non riuscire a produrre una
sensazione del genere. Eppure, la percezione della gioia di Dio per noi è la
radice della nostra dignità.
Essa è appunto
il frutto della conversione, vale a
dire della impossibilità di negare che Dio viene a noi con gioia, non si stanca
di venire a noi con gioia, gioia che è frutto del suo amore per noi che
conquista il nostro cuore. Quando il Battista riconosce in Gesù l’Inviato di
Dio lo riconosce appunto come riflesso della gioia che quell’incontro gli
procura. Fin dal grembo materno Giovanni ha esultato di gioia alla presenza di
Gesù. Da adulto, ormai al termine del suo cammino, di sé dice: “Ma l’amico dello sposo, che è presente e lo
ascolta, esulta di gioia alla voce dello sposo” (Gv
3,29). Così, quando Luca vuol descrivere la premura di Dio per gli uomini, non
ha di meglio che narrare la parabola del figlio ritrovato, della pecorella e
della dramma ritrovate (Lc 15) dove la rivelazione
del cuore di Dio si fa evidente proprio attraverso la sua gioia per noi. Ciò
vuol dire ancora che la nostra gioia non può derivare dalla nostra innocenza,
perché davanti a Dio suonerebbe solo come una pretesa di giustizia, mentre
deriva dal suo amore per noi.
Alla gioia
esultante di Dio che descrive il profeta Sofonia dopo
l’annuncio del terribile giorno del
Signore, tra le pagine più buie dell’Antico Testamento, fa riscontro la
gioia del popolo descritta dal profeta Isaia che oggi fa da salmo
responsoriale, gioia che parla dell’esultanza del popolo dopo la traversata del
Mar Rosso e la liberazione dall’esilio babilonese. Della stessa gioia, data dal
Signore Gesù riconosciuto e accolto, parla la lettera ai Filippesi, gioia che
si traduce in un tratto di dolcezza verso tutti e tutto, tanto da gustare una
pace che sovrasta ogni afflizione e ogni contrasto.
Dove trovare nel
vangelo di oggi l’allusione a questa gioia? In un’allusione misteriosa. La
liturgia mostra il motivo della gioia nella proclamazione che il Signore è in
mezzo a noi come un salvatore potente, dove potente
significa ‘capace di dare letizia’ e salvatore
‘pieno della gioia che arriva anche a noi’, capaci finalmente di condividerla.
Giovanni chiama Gesù ‘colui che è più forte di me’ e mette in relazione quella
forza allo Spirito Santo nel quale Gesù battezzerà. Come riporterà Luca più
avanti, cap. 11, v. 22, il definire Gesù ‘il più forte’ significa riconoscergli
la dignità di Messia. E la forza del Messia sta nel fatto che fa vedere Dio
presente, che fa vedere il Regno che si compie. Ma il Regno che si compie è
proprio l’amore di Dio che si fa condiviso, apertamente e fraternamente
condiviso con tutti gli uomini, nello Spirito, cioè nella letizia che non viene
più tolta. E la letizia che non viene più tolta (si pensi alla ‘perfetta
letizia’ di s. Francesco di Assisi) è proprio quella che custodisce la gioia di
Dio per noi perché il suo amore ormai risplende senza farsi più turbare o
distrarre da altro. È la letizia come segno del Regno che viene, come l’opera
di Dio che si fa manifesta. I nostri peccati annegano in questa gioia di Dio
per noi.
Insieme allo
Spirito Santo viene nominato il fuoco. È l’altra faccia della medaglia:
condividere la gioia di Dio per l’uomo comporta evidentemente il bruciare tutto
quello che a quella gioia si oppone o che quella gioia contraddice. E poi
scopriamo che ciò che contraddice alla gioia di Dio è la chiusura nei confronti
dell’umanità, prima di tutto del nostro Dio e poi di tutti i suoi figli, per
cui l’indicazione delle varie opere che il Battista indica come segno
dell’incipiente conversione si muove nella prospettiva di una dinamica di
solidarietà con gli uomini.
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Terzo
ciclo
Anno
liturgico C (2009-2010)
Tempo
di Avvento
4a
Domenica
(20
dicembre 2009)
_________________________________________________
Mic
5,1-4; Sal
79; Eb
10,5-10; Lc
1,39-48
_________________________________________________
La liturgia
di oggi si apre con l’antifona tradizionalmente cantata nella novena in
preparazione del Natale: “Rorate coeli desuper et
nubes pluant justum: aperiatur terra, et germinet salvatorem”;
“Stillate dall’alto, o cieli, la vostra
rugiada e dalle nubi scenda a noi il Giusto; si apra la terra e germogli il
Salvatore” (Is 45,8). Si tratta della versione
della Volgata che interpreta messianicamente
l’espressione più neutra dell’ebraico e del greco della LXX: “Stillate, cieli,
dall’alto e le nubi facciano piovere la giustizia; si apra la terra e produca
la salvezza”.
Siamo ormai
prossimi alla festa del Natale e tutta la liturgia oggi è un invocare il
compimento del ‘volere’ la nostra salvezza da parte di Dio. Non è l’uomo a
muovere Dio, ma è il volere salvatore di Dio che investe l’uomo. Il salmo 79
riassume bene gli aneliti dei cuori: “Risveglia
la tua potenza e vieni a salvarci ... Guarda dal cielo e vedi e visita questa
vigna”. Quel ‘volere’ si rivela in un volto di cui godremo finalmente la
vista. Quel Giusto, quel Salvatore, di cui si invoca la discesa
contemporaneamente dall’alto e dalla terra, è colui che di sé dice entrando in
questo mondo: “Ecco, io vengo per fare la
tua volontà” (Eb 10,7). La sua non è una
dichiarazione puntuale, che avviene cioè in un determinato momento
sottintendendo che prima non pensava in questi termini, ma è una dichiarazione
eterna, frutto del colloquio eterno tra il Padre e il Figlio nell’amore che li
lega tra loro e al mondo. L’apparire finalmente di Gesù nella storia umana non
riguarda semplicemente la cronaca storica, ma concerne la dimensione eterna
della storia umana. Lui ne è il fulcro, ne è la radice ed insieme il frutto.
Si invoca la
sua discesa dall’alto: Dio si avvicina all’uomo, non l’uomo a Dio; Dio si fa
figlio dell’uomo, non l’uomo Figlio di Dio. Ma si invoca pure dal basso, dalla
terra: Dio non sopraggiunge come un meteorite, come importato da fuori, benché
dall’alto; Dio, nel suo agire, sempre accondiscende all’uomo e quando si
avvicina all’uomo lo fa in modalità umana, da dentro quella storia che ha messo
in moto per condividere con l’uomo il suo Bene. Invocare la sua discesa dalla
terra è proclamare la santità dell’umanità della Vergine che Dio stesso si è
preparato perché finalmente si compia quel ‘volere’ che ha costituito il
desiderio di Dio dall’eternità: Dio e l’uomo in uno, tutto Dio per l’uomo e
tutto l’uomo per Dio.
A quel
‘volere’ si appella la Vergine con le sue parole all’angelo: “Ecco la serva del Signore: avvenga per me
secondo la tua parola” (Lc 1,38), come proclama
il canto al vangelo. Il volere di benevolenza di Dio per l’uomo, che si era
espresso nel volere di intimità del Figlio con il Padre per essere il testimone
del suo amore per gli uomini tra gli uomini, si rispecchia nel volere di
obbedienza della Vergine che sta unita al suo Dio. Si rivela qui la santità
dell’umanità della Vergine che diventa lo spazio di realizzazione del desiderio
di Dio per gli uomini, ritrovando in ciò tutta la sua dignità di creatura e
tutto lo splendore nel quale era stata concepita fin dall’inizio. E non per
nulla l’elogio di Elisabetta si appunta proprio su questo: “beata colei che ha creduto nell’adempimento
di ciò che il Signore le ha detto”. E parafrasando potremmo aggiungere:
beata colei che ha fatto esperienza così forte e totale dell’amore di
benevolenza di Dio per l’umanità da non ricercare altro nel suo vivere se non
che quell’amore di benevolenza avesse tempo e modo di riversarsi su tutto e su
tutti, su di lei come sul mondo. É da tale consapevolezza che sgorgano le
parole del magnificat e il canto di esultanza della creatura che vede lo spazio
di vita ormai totalmente occupato da
quell’amore. Anche nella preghiera del Padre nostro, quando invochiamo: ‘sia
fatta la tua volontà come in cielo così in terra’,
per prima cosa chiediamo di fare esperienza di quell’amore di benevolenza da
parte di Dio, amore nel quale siamo stati concepiti e voluti e che costituisce
tutto il nostro splendore.
Se si
accoglie il Verbo di Dio, se ne accoglie anche la dinamica di amore che l’ha
spinto a venire a noi, dinamica che investe il mondo e che costituisce il suo
splendore. Ecco perché in quell’“avvenga
per me secondo la tua parola” c’è anche l’impeto di carità che muove la
Vergine ad andare da sua cugina Elisabetta. Le parole del magnificat alludono
anche alla carità che ha investito il suo cuore e del cui splendore il suo
agire è ormai testimone, segno della presenza fatta carne del Figlio di Dio. Di
quell’amore Lui è il rivelatore per eccellenza perché conoscendo il Padre in
verità sa che è amore per noi. Proprio questo è venuto a ‘far vedere’! E in
questo sta la nostra salvezza e la nostra pace.
Nel salmo 79
il versetto che fa da ritornello responsoriale “Fa’ splendere il tuo volto e noi saremo salvi”, viene ripetuto tre
volte. Quel volto che risplende su di noi è il Messia cantato come ‘figlio
dell’uomo che per te hai reso forte’. Forte da vincere ogni nemico e farci
godere la pace, cioè ricondurci all’esperienza dell’amore di Dio così forte da
non concepire la vita in altri termini se non nella logica di quell’amore. La
pace non è evidentemente assenza di afflizioni, ma condivisione dell’amore,
amore che esprime tutto il volere di Dio per l’uomo e da parte sua e da parte
nostra.
È
interessante osservare che l’espressione della lettera agli Ebrei: “entrando
nel mondo, Cristo dice: Tu non hai voluto
né sacrificio né offerta, un corpo
invece mi hai preparato…
Allora ho detto: Ecco, io vengo - poiché di me sta scritto nel rotolo del libro
- per fare, o Dio, la tua volontà” riprende la versione greca del salmo 40,
ma l’ebraico porta: “gli orecchi mi hai aperto”, ad indicare la disponibilità
totale al volere di Dio. Ma se Gesù prende un corpo, lo prende non solo per
compiere il volere di salvezza di Dio per l’uomo, ma anche per mettersi in
condizioni di compiere quella salvezza in termini di splendore di amore e di
nient’altro. Non c’è ombra di ‘potenza’ nell’amore che Gesù manifesta nascendo
come un bambino, vivendo da uomo e morendo sulla croce; eppure, non c’è potenza
più forte di quell’amore che non si fa vincere da nulla. È l’amore che
‘magnifica’ il Signore davanti all’uomo e l’uomo davanti a Dio.
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Terzo
ciclo
Anno
liturgico C (2009-2010)
Tempo
di Natale
Natale di
N. S. Gesù Cristo
(25
dicembre 2009)
_________________________________________________
Messa
della notte: Is 9,1-6; Sal 95; Tt 2,11-14; Lc 2,1-14
Messa
dell’aurora: Is 62,11-12; Sal 96; Tt 3,4-7; Lc 2,15-20
Messa
del giorno: Is 52,7-10; Sal 97; Eb 1,1-6; Gv 1,1-18
_________________________________________________
La liturgia
natalizia, con i suoi tre formulari della messa nella notte, all’aurora e di
giorno, illustra il mistero della nascita di Gesù a Betlemme nella luce di tre
sguardi: lo sguardo del profeta, lo sguardo del discepolo e lo sguardo dei
testimoni oculari.
Anzitutto lo
sguardo del profeta, quello di Isaia. Il suo sguardo potente si affissa sulla
promessa di Dio e sulla visione di consolazione per il popolo. Se la promessa
riguarda un bambino che deve nascere: “un
bambino è nato per noi, ci è stato dato un figlio”, l’immagine di fondo dei
brani è invece un’immagine nuziale, che possiamo riassumere nell’espressione: “Nessuno ti chiamerà più Abbandonata, né la
tua terra sarà più detta Devastata, ma sarai chiamata Mia Gioia e la tua terra
Sposata, perché il Signore troverà in te la sua delizia e la tua terra avrà uno
sposo”. Dio è lo sposo che gioisce della sua sposa, la quale passa da una
percezione di angosciosa solitudine, di abbandonata
e sola, all’emozione di essere
svelata a se stessa in una dolcezza di riposo che la fa sentire abitata, mio compiacimento e sposata (forse,
meglio: abitata in dolcezza). La
percezione di quella nuova realtà, di cui è indegna, ma di cui gode
nell’intimo, grata e consegnata, costituisce il contenuto del nome nuovo con la
quale è chiamata. È la situazione dell’umanità dopo la nascita di quel Bambino
che è nato per svelare quanto è grande l’amore di Dio per l’uomo e come l’uomo
possa accogliere e vivere questo amore in tutta umanità.
Poi c’è lo
sguardo del discepolo, di Paolo, che nella sua lettera a Tito riassume la
rivelazione del natale di Gesù con le espressioni: “è apparsa la grazia di Dio, che porta salvezza a tutti gli uomini”,
“quando apparvero la bontà di Dio,
salvatore nostro, e il suo amore per gli uomini”. Con la nascita di Gesù,
con il Figlio di Dio fatto uomo, questa ‘apparizione’ è diventata visibile,
toccabile. Potremmo intendere: proprio la vita umana di Gesù rivela la bellezza
di Dio; proprio la pratica di umanità conforme alla volontà di Dio, in Gesù,
racconta la salvezza e il progetto di Dio su tutta l’umanità.
Infine c’è lo
sguardo dei testimoni oculari: la Vergine, gli angeli, i pastori. Gesù nasce
povero, in condizioni disagiate e senza riconoscimenti, nonostante la potenza
delle immagini messianiche che lo preannunciavano. La Vergine, sua madre, però,
non gli ha fatto mancare la grazia dell’umanità, quell’umanità che poi lui, da
grande, svelerà in tutta la sua portata divina nel suo passaggio pasquale. Gli
angeli svelano tutta la preferenza di Dio per l’umanità e la loro gioia deriva
dalla condivisione di questo segreto della creazione con il loro Dio. I pastori
rappresentano l’umanità che non possiede titoli di gloria o di merito. Sentiamo
l’emozione dei loro cuori, che passa ai loro piedi e riempie i loro occhi:
quando ritornano ai loro greggi a riprendere la vita di sempre hanno la
sensazione che la vita non può essere come quella di prima. Lo intuiamo dalla
gioia della condivisione con altri di quanto hanno sperimentato.
A dire il vero,
la liturgia propone nella messa del giorno un altro sguardo, quello
dell’apostolo Giovanni, che guarda alla storia da dentro una profondità
inattingibile, la stessa vita divina intratrinitaria.
La particolarità però è che quella vita a noi appare nell’umanità di quel
Bambino, perché la luce del Natale rimanda alla Pasqua, come un poema natalizio
di s. Efrem canta: “Gloria al Nascosto che non
potrebbe essere intravisto con l’intelligenza, ma che si è reso palpabile nella
sua bontà tramite la sua umanità! La natura che non fu mai toccata, per le mani
fu legata e appesa, per i piedi fu fissata e crocifissa: come a lui è piaciuto,
ha preso corpo perché lo si potesse prendere”. Proprio a questo, con tutta la
potenza di rivelazione che comporta quanto all’amore di Dio per l’uomo, vanno
riferite le parole dell’apostolo Giovanni: “Dalla
sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto: grazia su grazia”. È la luce di
tale splendore, fonte della nostra dignità, che rifulge nel Natale. La luce, la
gioia, la pace che caratterizzano il clima della festività natalizia, tanto da
indurre pressoché tutti a riversarle nelle case, nelle strade, nelle città,
hanno a che fare proprio con quel Figlio, nato bambino, che vuol condividere
all’uomo il segreto di Dio.
Sempre s. Efrem canta: “Sia benedetto Colui che ha fatto del nostro
corpo una tenda per la sua Invisibilità! Sia benedetto Colui che nella nostra
lingua ha tradotto i suoi segreti!”.
Cosa hanno visto
i pastori e tutti i discepoli? Qualcosa che ha a che fare con l’apertura di un
orizzonte e la possibilità di una esperienza fino ad allora impraticabili: “Dio, nessuno l’ha mai visto: il Figlio
unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato”.
Quell’orizzonte e quell’esperienza costituiscono il dono natalizio della pace.
Se l’amore che ha originato quel dono è intravisto, allora si possono risanare
le ferite della storia, si è abilitati a costruire un altro tipo di storia, si
è raggiunti così nel profondo da non volere altro per sé e per tutti. È
l’esperienza che farà dire all’apostolo: se Dio ci ha dato il suo Figlio
unigenito, come non ci darà anche tutti gli altri beni? Come a dire: in lui potremo
trovare tutti i beni ai quali anela il nostro cuore. È il perenne annuncio
profetico dei credenti in Cristo al mondo.
Buon Natale a
tutti!
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Terzo
ciclo
Anno
liturgico C (2009-2010)
Tempo
di Natale
Santa
Famiglia
(27
dicembre 2009)
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1Sam
1,20-28; Sal
83; 1Gv 3,1-2.21-24; Lc 2,41-52
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Celebrare la
festa della santa famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe, è un altro modo di
sottolineare la verità e la veridicità dell’incarnazione del Figlio di Dio. Per
porre la sua tenda tra di noi, Dio ha assunto la storia di una determinata
genealogia (Gesù è ascritto alla discendenza davidica),
carica delle promesse divine ma intessuta anche di peccato e di miserie umane e
ha assunto pure la struttura che ha consentito a quella storia di svolgersi,
cioè la famiglia. L’uomo che viene al mondo senza ritrovarsi in una famiglia
che l’accoglie porta i segni dello strappo subito perché non garantito nel suo diritto
a vivere e a crescere. Anche per Gesù, che è nato da una Vergine, è stato
essenziale il contesto famigliare per crescere e scoprire il senso della sua
vita. E tutto questo ha attinenza non solo con il bisogno dell’uomo, ma con il
mistero di Dio. Voglio dire che il fatto che Gesù abbia avuto una famiglia non
significa solo che Dio abbia voluto assumere la realtà umana della famiglia, ma
ancor più che la famiglia nella sua realtà umana parla di Dio. Con tutti i
misteri che comporta.
Nel racconto del
ritrovamento al tempio di Gesù da parte dei suoi genitori ne abbiamo un indizio
rivelatore. Al padre e alla madre che lo cercavano angosciati Gesù non teme di
rispondere: “Perché mi cercavate? Non
sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?”. Altre volte nel
vangelo Gesù risponderà con questo tono a sua madre. Quando gli dicono che lo
cercano sua madre e i suoi fratelli, egli dichiara: “Mia madre e miei fratelli sono questi: coloro che ascoltano la parola
di Dio e la mettono in pratica” (Lc 8,21).
Oppure, a Cana, durante il banchetto di nozze, a sua
madre che lo sollecitava ad intervenire risponde: “Donna, che vuoi da me? Non è ancora giunta la mia ora” (Gv 2,4). Gesù rimanda continuamente, da dentro gli affetti
familiari, ad una dimensione ancor più profonda che costituisce la radice
stessa di quegli affetti e la garanzia più sicura. Rimanda cioè a quel ‘Padre’,
di cui ogni affetto parla, al quale ogni affetto rimanda e nel quale ogni
affetto trova la sua radice più appropriata ed il termine verso il quale ogni
affetto anela.
Gli orizzonti
sono mantenuti larghi, è un continuo andare oltre la cronaca e la materialità
degli eventi, dentro la necessità e la difficoltà di un superamento continuo di
quello che si pensava ovvio. Tutti i genitori conoscono questa ambivalenza
nella crescita dei figli: fanno tutto per i figli e la loro gioia sta in
questo, ma sanno che i figli sono chiamati a realizzare un loro progetto,
spesso senza poterlo condividere, almeno all’inizio. Ma corrisponde al progetto
di Dio sia la premura dei genitori che la libertà dei figli e se entrambi,
genitori e figli, sono consapevoli di questa unità di progetto in Dio, tutti e
due trovano la loro gioia, misteriosamente. Diventa così essenziale, per i
genitori e per i figli, la consapevolezza della verità di questo rimando. La
comprensione non è immediata, ma è assicurata. Della Vergine si annota nei
vangeli: “Maria, da parte sua, custodiva
tutte queste cose, meditandole nel suo cuore”. Non comprendere subito il
piano di Dio non significa non accoglierlo. Trattenere perciò eventi e parole,
misteriose, che vengono da Dio, significa accogliere in cuore il suo piano in
attesa di comprenderne il senso. E questo vale soprattutto negli affetti, negli
affetti familiari in particolare, quando la forza del legame farebbe valere il
legame tra madre e figlio, a volte in senso perfino ricattatorio e non invece con Colui che di quel legame è la
Sorgente ed il Criterio di verità. Se un legame non sta aperto ad un progetto
superiore rischia di soffocare.
Forse non
è inutile sottolineare che la prima e l’ultima parola di Gesù nel vangelo di
Luca è una evocazione del Padre. Nel tempio, quando è ritrovato dai suoi
genitori: “Non sapevate che io devo
occuparmi delle cose del Padre mio?”; sulla croce, prima di morire: “Padre, nelle tue mani consegno il mio
spirito” (Lc 23,46); oppure, prima
dell’ascensione: “Ed ecco, io mando su di
voi colui che il Padre mio ha promesso” (Lc
24,49). Gesù fa vedere come in tutto ciò che vive, in tutto ciò che possiamo
vivere noi, quello che è essenziale è scoprire e far valere la radice di vita,
di senso, di sentimenti, che è il Padre dei cieli, Colui dal quale ogni bene
riceviamo e verso il quale porta ogni bene vissuto. Senza questo
‘sconfinamento’, da dentro i legami degli affetti, l’uomo si insacca su se
stesso e non trova più slancio e passione per un progetto grande di vita. In
altre parole, non ritrova più lo Spirito donato da Gesù. Lo dice assai bene la
seconda lettura tratta dalla prima lettera di s. Giovanni: “Chi osserva i suoi comandamenti rimane in
Dio e Dio in lui. In questo conosciamo che egli rimane in noi: dallo Spirito
che ci ha dato”. In altri termini, osservare i comandamenti risulta
possibile in forza dello Spirito che ci fa una cosa sola con Gesù, nel quale abita
la pienezza della divinità. E lo Spirito è Colui che continuamente tiene aperti
gli orizzonti verso il Padre, tanto in Gesù quanto in noi perché il desiderio
di comunione di Dio con gli uomini si compia finalmente. Così è stato per la
santa famiglia di Nazareth, così è stato per Gesù e così è per noi tutti. E
solo così gli uomini possono vivere i loro affetti senza sottrarre loro quel
vigore e quello slancio che li apre ad aneliti sempre più profondi e veritieri,
dentro un’umanità così larga di orizzonti da sentire tutti della stessa
famiglia.
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Terzo
ciclo
Anno
liturgico C (2009-2010)
Tempo
di Natale
Maria ss.
Madre di Dio
(1 gennaio
2010)
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Nm
6,22-27; Sal
66; Gal 4,4-7; Lc 2,16-21
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Con la riforma
liturgica del 1969, l’antica festività di “Maria Santissima Madre di Dio” venne
ripristinata in tutta la sua solennità il 1° gennaio. La chiesa, sottolineando
la verità e la veridicità dell’incarnazione del Figlio di Dio, celebra, da una
parte, la gloria della madre nella sua divina maternità, ‘madre del Cristo e di
tutta la chiesa’, come recita la preghiera dopo la comunione espressamente
voluta da papa Paolo VI e, dall’altra, il rito della
circoncisione e dell’imposizione del nome al bambino nell’ottavo giorno.
Consacrando poi la giornata all’intercessione per la pace, la chiesa annunzia
al mondo che in Cristo è fatta pace tra cielo e terra e che la pace tra gli
uomini ne è come il riverbero, lo splendore di benedizione.
Con lei, la
Vergine Madre, che ha dato alla luce il Salvatore, si è compiuta in tutta la
sua estensione l’antica benedizione di Israele: “Ti benedica il Signore e ti custodisca …”. Dante, nell’ultimo canto
del Paradiso, dopo aver innalzato una lode sublime alla Regina del cielo, di
lei dice: “Gli occhi da Dio diletti e venerati …”. Chi ha provato l’estasi di
uno sguardo amoroso sa a quale intimità si allude, quale ‘benedizione’ si
riceve e quale gioia ciò procura. Il mistero grande è il fatto che anche Dio è
rapito dallo splendore dello sguardo della Vergine tanto è puro e sconfinato,
specchio limpidissimo dell’amore di Dio per lei e per tutta l’umanità. Sì,
perché la bellezza della Vergine allude alla bellezza, resa visibile, del
Figlio Unigenito, nostro Salvatore, il cui amore per noi lo renderà disposto a
perdere ogni ‘bellezza d’uomo’ per ridare a noi quella bellezza che attira il
suo sguardo. In questo sguardo di Dio su di lei si concentra tutto il senso
della sua intercessione allo scopo di ottenerci la suprema benedizione che si
risolve nel voler vedere Dio, vedere il volto di Dio che risplende su di noi.
‘Il nome di Dio
è ormai posto su di noi’: non c’è più motivo di paura e se la paura non fa più
presa sui cuori, allora vengono meno anche la violenza e l’ingiustizia che di
quella paura sono gli strumenti di offesa per autodifesa. Quel nome di Dio, pur
nel suo mistero, ha un volto, risponde a un nome che è stato scelto umanamente,
anche se dietro suggerimento angelico: Gesù. Quel ‘Gesù’, che ora adoriamo
bambino nella stalla di Betlemme –
questa è la bella notizia per il mondo intero! – è ormai la benedizione e la
custodia di Dio per gli uomini, è il volto di Dio che risplende benevolo e
misericordioso, è il sigillo della pace di Dio sugli uomini, come la solenne
preghiera di benedizione israelita profetizzava: “Ti benedica il Signore e ti custodisca. Il Signore faccia risplendere
per te il suo volto e ti faccia grazia. Il Signore rivolga a te il suo volto e
ti conceda pace”. Ora possiamo vedere che il Signore ha effettivamente
benedetto, ha rivolto il suo volto e ci ha concesso la sua pace. È un bambino
‘nato da donna’, a sottolineare che è veramente figlio, contemporaneamente suo
e del Padre, motivo per cui coloro che come tale lo riconosceranno, a loro
volta saranno chiamati figli di Dio. Ma chi sono coloro che sono chiamati figli
di Dio? Coloro che lo Spirito Santo guida, coloro che lo Spirito Santo governa,
coloro che in forza di quello Spirito saranno operatori di pace (‘beati gli operatori di pace perché saranno
chiamati figli di Dio’).
Nella lettera ai
Galati s. Paolo scrive: “… Dio mandò nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio, il quale grida: «Abbà! Padre!». Quindi non sei più schiavo, ma figlio e, se
figlio, sei anche erede per grazia di Dio”. Non schiavi di nessuno e di
nessuna ideologia, non schiavi per comodo o per paura, non schiavi di beni,
esteriori o interiori, che non procedano da quell’unico Bene, che è Cristo
stesso, pace di Dio, il cui godimento sorpassa ogni intelligenza e custodisce
cuori e pensieri (cfr. Fil 4,7). La pace che viene da Dio non tollera
mascheramenti o ambiguità, perché porterà tutti a riconoscere la stessa dignità
condivisa che deriva dall’unico Padre, l’unico che è Giusto perché Misericordioso.
Il Figlio, Gesù, che fa risplendere il suo volto tra gli uomini, ha fatto
vedere come sia possibile declinare la pace di Dio nella storia degli uomini.
Coloro che vogliono vivere e gustare la sua eredità non hanno che da seguirlo
e, a loro volta, far risplendere il suo volto tra gli uomini: è il dono più
bello che possono regalare ai loro fratelli, come la Vergine che, dandoci il
Verbo di Dio, ha fatto il regalo più bello all’umanità.
Così la
preghiera non può che essere quella della colletta: “ Padre buono che in Maria,
vergine e madre, benedetta fra tutte le donne, hai stabilito la dimora del tuo
Verbo fatto uomo tra noi, donaci il tuo Spirito, perché tutta la nostra vita nel segno della tua benedizione si renda
disponibile ad accogliere il tuo dono”, cioè la pace del tuo Cristo e nulla
resti fuori.
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Terzo
ciclo
Anno
liturgico C (2009-2010)
Tempo
di Natale
2a
Domenica
(3 gennaio
2010)
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Sap
24,1-12; Sal
147; Ef
1,3-6.15-18; Gv
1,1-18
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Nelle liturgie
natalizie non manca mai il riferimento alla benedizione divina che in Gesù
scende sull’uomo e che dall’uomo sale copiosa a Dio. Gesù è il Dono fatto da
Dio all’umanità e contemporaneamente il frutto dell’umanità che nella Vergine
raggiunge il suo esito esemplare. Nelle sue poesie sul mistero del Natale s. Efrem lo sottolinea egregiamente: “Maria è il giardino sul
quale discese dal Padre la pioggia della benedizione; di quella effusione lei
asperse il volto di Adamo”. O ancora, facendo parlare la stessa Madre di Dio,
vede nel riferimento a Cristo lo scopo supremo della vita, capace di una
visione nuova, trasformante: “Se una madre ha un bambino, questo diventa
fratello del mio diletto. Se ha una figlia o una congiunta, questa diventa la
sposa del mio Signore. Colui che ha un servo, gli conceda la libertà, affinché
venga per servire il suo Signore … A causa tua una serva diventa libera. Se una
ti ama, c’è nel suo seno una invisibile liberazione”.
Nel contesto di
quel Dono fatto da Dio all’umanità, che costituisce il mistero del Natale del
Verbo di Dio in mezzo agli uomini, va letto il primo capitolo della lettera
agli Efesini. In quel suo procedere solenne, spazioso, Paolo delinea l’orizzonte
di benedizione nel quale è compresa la vita dell’uomo: “Benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha
benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo. In lui ci ha
scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte
a lui nella carità, predestinandoci a essere per lui figli adottivi mediante
Gesù Cristo, secondo il disegno d’amore della sua volontà, a lode dello
splendore della sua grazia, di cui ci ha gratificati nel Figlio amato”. Con
l’attestazione dell’apostolo Giovanni: “E
il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi abbiamo
contemplato la sua gloria”, che di quella benedizione fa l’oggetto
specifico dell’esperienza della vita.
Come a dire: se
prima della creazione del mondo, l’uomo è stato pensato da Dio in funzione
della capacità di portare la bellezza del Figlio di Dio, allora come non vedere
nell’esperienza della conoscenza di quel Figlio, ormai diventato Figlio
dell’uomo, l’esito supremo della vita, il compimento di ogni desiderio di
verità e bellezza? È in ragione di questa possibilità che l’annuncio evangelico
si rivolge a tutti, a tutte le genti, a tutto l’uomo. Quando s. Gregorio di Nissa si domanda quale sia quel regno dei cieli che si
trova dentro di noi (cfr. Lc 17,21) non può che
rispondere: “Di cos’altro si può trattare, se non della gioia che si riversa
dall’alto nelle anime tramite lo Spirito? Essa è come l’immagine, la garanzia e
la prova della gioia eterna di cui godranno le anime dei santi nel secolo che
attendono”. Proprio come chiediamo nella colletta della liturgia di oggi:
“Padre di eterna gloria … illuminaci con il tuo Spirito, perché accogliendo il
mistero del tuo amore, pregustiamo la gioia che ci attende, come figli ed eredi
del regno”. È la richiesta di fare anche noi l’esperienza dell’apostolo
Giovanni: “venne ad abitare in mezzo a noi e noi abbiamo contemplato la sua
gloria”; di entrare anche noi in quel circolo di benedizione che descrive
Paolo: “Benedetto Dio … che ci ha benedetti con ogni benedizione …”. A tal
punto che, se davvero quella benedizione è sopra di noi e sgorga profonda dal
nostro cuore, come non attraversare le afflizioni del vivere custoditi, come
cercare altrove quello di cui ha bisogno il nostro cuore, come avere paura di veder
scemare la speranza che portiamo, come volere dal prossimo quello che invece a
lui dobbiamo nel segno della condivisione di quella benedizione? Del resto è
proprio questo l’argomento e l’orizzonte della preghiera, luogo di adorazione e
di memoria perché e finché quella benedizione ci conquisti e conquisti il mondo
con la sua pace.
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Terzo
ciclo
Anno
liturgico C (2009-2010)
Tempo
di Natale
Epifania
del Signore
(6 gennaio 2010)
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Is 60,1-6; Sal 71;
Ef 3,2-6;
Mt 2,1-12
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Epifania vuol
dire manifestazione. La festa di oggi ingloba tre momenti della manifestazione
del Signore: la manifestazione di Gesù alle genti con la venuta dei magi; la
manifestazione del Signore all’inizio della sua carriera messianica con il
battesimo al fiume Giordano; la manifestazione del Signore con il primo
miracolo alle nozze di Cana. Recita l’antifona al Magnificat: “Tre prodigi celebriamo in questo giorno santo:
oggi la stella ha guidato i magi al presepio, oggi l’acqua è cambiata in vino
alle nozze, oggi Cristo è battezzato da Giovanni nel Giordano per la nostra
salvezza”. E l’inno ai Vespri canta: “I
magi vanno a Betlem e la stella li guida: nella sua
luce amica cercan la vera luce. Il Figlio
dell’Altissimo s’immerge nel Giordano, l’Agnello senza macchia lava le nostre
colpe. Nuovo prodigio a Cana: versan
vino le anfore, si arrossano le acque mutando la natura”. Ma ancora più
significativa è l’antifona al Benedictus: “Oggi
la chiesa, lavata dalla colpa nel fiume Giordano, si unisce a Cristo, suo
Sposo; accorrono i magi con doni alle nozze regali e l’acqua cambiata in vino
rallegra la mensa”.
Lasciando da
parte ogni considerazione sul battesimo di Gesù, la cui festa ricorre domenica
prossima, immergiamoci nel racconto dell’adorazione dei magi. Da notare la differenza degli atteggiamenti
dei vari personaggi in questione. I magi non sanno ma il loro cuore si è mosso
tanto che si mettono in viaggio, arrivano a Gerusalemme, chiedono, cercano.
Invece la Gerusalemme colta, gli scribi e gli anziani, sa le cose ma non si
muove. Se Erode sembra muoversi lo fa solo per paura di perdere il potere e
quindi in realtà non si muove per cercare in verità. Sono i possibili atteggiamenti
che può assumere l’uomo davanti al mistero ed alla storia di Dio. I magi sono
la figura della manifestazione di Dio alle genti; portando i loro doni, si
aprono al mistero di Dio (con l’oro riconoscono la regalità misteriosa di quel
‘bambino nato per noi’, con l’incenso riconoscono la sua divinità, con la mirra
la sua umanità pronta a soffrire la passione per la nostra salvezza) e
permettono al loro cuore di vedere la gloria di Dio. Fanno ritorno a casa loro
per altra strada, come a dire che chi si apre all’adorazione di Dio riscopre la
casa propria in altro modo, con altro sguardo, sotto altri orizzonti.
Questo mi induce
a due osservazioni: 1) se il Messia è promesso alle genti, di che cosa noi
credenti siamo debitori al mondo? Siamo debitori proprio della conoscenza del
Signore. E questo debito pende sulla nostra testa. Qui si ricollega la
responsabilità della testimonianza dei credenti di fronte al mondo; 2) se il
Messia è promesso alle genti, vuol dire che fin tanto che tutte le genti non
l’hanno conosciuto, la nostra stessa conoscenza del Messia è manchevole, resta
limitata. Come in amore: fin tanto che non ho trovato qualcuno che voglia bene
a me, io non potrò scoprire quello che sono in verità, quello che porto e di
cui sono capace. Così è con Dio. Fin tanto che tutti non l’hanno conosciuto,
Dio non ha ancora avuto modo di manifestarsi in tutta la sua ricchezza.
Attendere questa manifestazione, nel cuore di tutti, rende umili e adoranti e
risponde al comandamento dell’amore verso tutti, anche verso i nemici, finché
la gloria di Dio si manifesti compiutamente.
Quanto al
mistero della trasformazione dell’acqua in vino alle nozze di Cana (cfr. Gv 2,1-10), simbolo
delle nozze del Signore Gesù con l’umanità nostra, anche questo ha a che vedere
con la manifestazione della gloria di Dio nella nostra vita. Potremmo
chiederci: quando siamo acqua e quando siamo vino? Essere acqua significa
accettare, sì, i comandamenti del Signore, ma limitarsi all’esecuzione
esteriore. Passare dall’essere acqua al diventare vino significa passare dalla
volontà di osservanza del comandamento al gusto del frutto che il comandamento
comporta. La promessa nascosta in ogni parola di Dio è questa: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il
Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14,23). Come a dire: ogni comandamento ha
un’ispirazione; senza cogliere tale ispirazione non potremo mai gustare la
promessa che è nascosta dentro ogni comandamento, la promessa della conoscenza cordiale del Signore, la promessa del
gusto della sua compagnia. Come in un rapporto d’amore. Non basta fare delle
cose, neanche farle per l’altro; se non si coglie l’ispirazione che muove il
cuore ad agire, se non si coglie l’effetto che il nostro agire ha sul cuore
dell’altro, se non ci viene rimandata la gioia dell’altro che coglie il
movimento del nostro cuore, si resta acqua. Il vino invece, dice la Scrittura,
rallegra il cuore dell’uomo. E nel gustare quel vino, il cuore si apre alla
conoscenza della gloria del Signore: proprio quello che i magi hanno
sperimentato, che gli apostoli hanno testimoniato, di cui i credenti in Cristo
sono debitori al mondo. Nel Cristo divinità e umanità sono inscindibilmente
unite, Dio finalmente risplende nell’uomo e l’uomo risplende del suo Dio. E se
tutto diventerà più svelato con la
morte e risurrezione di Gesù, già però se ne può intravedere il mistero fin
dalla sua nascita dalla Vergine Maria, almeno per coloro che gli si avvicinano
con stupore e sanno vedere nelle parole e negli eventi che lo riguardano gli
indizi della sua gloria.
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Terzo
ciclo
Anno
liturgico C (2009-2010)
Tempo
di Natale
Battesimo
del Signore
(10 gennaio 2010)
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Is
40,1-11; Sal 103; Tt 2,11-14; 3,4-7; Lc 3,15-22
_________________________________________________
Con la festa del
battesimo di Gesù si chiude il ciclo natalizio. L’Avvento si era aperto con
l’invocazione del profeta: “Se tu
squarciassi i cieli e scendessi!” (Is 63,19). I
cieli si sono effettivamente squarciati lasciando ‘piovere il Giusto’, come
oggi la scena del Battesimo di Gesù fa intravedere: “il cielo si aprì e discese sopra di lui lo Spirito Santo in forma
corporea, come una colomba, e venne una voce dal cielo: «Tu sei il Figlio mio,
l’amato: in te ho posto il mio compiacimento»”. I cieli che si aprono non
preludono ad una visione del mondo celeste, ma alla discesa sulla terra dei
beni divini, beni che dovevano caratterizzare il popolo di Dio dell’era
messianica, dei quali il principale è proprio lo Spirito Santo, effuso su
tutti, attraverso quel Figlio che lo possiede in pienezza.
Il simbolismo
della colomba sembra alludere al carattere escatologico della visione che
indica in Gesù il Messia e il punto di partenza della comunità messianica.
Ricorda la colomba del Cantico dei Cantici, sposa di Yahvé
e Giovanni Battista potrà poi esclamare: “Lo
sposo è colui al quale appartiene la sposa; ma l’amico dello sposo, che è
presente e l’ascolta, esulta di gioia alla voce dello sposo. Ora questa mia
gioia è piena. Lui deve crescere; io, invece, diminuire” (Gv 3,29). Se nel racconto di Luca sembra che Gesù solo veda
in visione la colomba, in quello di Giovanni anche il Battista vede lo Spirito
discendere su Gesù sotto forma di colomba e comprende che Gesù aveva la
missione di far apparire la colomba,
cioè il nuovo popolo di Dio animato dallo Spirito Santo.
Il primo gesto
di Gesù, nel dare inizio alla sua missione, è quello di stare solidale con i
peccatori. Lui, l’Innocente, l’Agnello che toglie i peccati del mondo, è in
fila con i peccatori per ricevere il battesimo di penitenza di Giovanni. Non ha
bisogno del battesimo, eppure viene a farsi battezzare. Perché? Viene per
celebrare il suo sposalizio: nella
sua umanità oramai è lavata tutta l’umanità, che può stare unita a lui e
godere, come lui, di quello Spirito che come colomba si posa sul suo capo, capo
del suo corpo che siamo noi. Nessuno può ancora vedere lo Spirito però; solo
Gesù, uscendo dalle acque, lo può vedere perché ne è ripieno ed anche Giovanni,
che con quel battesimo dato a Gesù finisce la sua opera di battezzatore per
lasciare posto a lui, al suo nuovo battesimo nello Spirito. La cosa si farà
evidente a Pentecoste allorquando lo Spirito verrà effuso come lingue di fuoco
sugli apostoli.
La chiesa prega
che il Signore, come ha squarciato i cieli, si degni squarciare i nostri cuori
perché anche a noi appaia, finalmente, in tutta la sua bellezza, il volto del
Figlio di Dio, testimone supremo dell’amore di Dio per gli uomini. E come dice
Paolo a Tito “… nell’attesa della beata
speranza e della manifestazione della gloria del nostro grande Dio e salvatore
Gesù Cristo”, noi aspettiamo la manifestazione del Signore al nostro cuore
in ogni circostanza della nostra vita, in ogni azione e non soltanto alla fine
della vita. Come se pregassimo: “fa’ che possiamo vedere il volto del tuo
Figlio, fa’ che il nostro cuore sia rapito dalla sua bellezza, apri il nostro
cuore alle sue parole perché venga rivelato al nostro cuore il tuo amore e
possiamo venire risanati, facci fare l’esperienza viva del tuo perdono perché
possiamo vivere un corpo solo e un’anima sola con tutti, nel suo Spirito, ormai
popolo nuovo”.
“Tu sei il Figlio mio, l’amato”. Nelle
Scritture si parla del figlio, l’amato, a proposito di Isacco, figlio di Abramo
(Gen 22,2), quando Dio gli chiede la sua vita e nella
parabola dei vignaioli assassini (Mc 12,6) quando il padrone della vigna pensa
di mandare loro il figlio, che poi mettono a morte. Quell’aggettivo l’amato, se
rivela la radicalità della fede di Abramo, rivela a maggior ragione la
radicalità dell’amore di Dio per l’umanità.
L’aggiunta: “in te ho posto il mio compiacimento”, si
può tradurre: ‘in te il mio Amore è perfetto’. In te, però, non è più solo rivolto al Figlio nella sua divinità,
ma nella sua umanità: l’amore di Dio e dell’uomo si corrispondono ormai
perfettamente. Oppure, si può anche tradurre: ‘in te la mia volontà si compie,
perfetta’. E la volontà di Dio non è che l’amore per l’uomo e nella vita e
nella persona di Gesù questo amore risplende nella sua radicalità e totalità.
Se noi stiamo in lui, allora anche in noi la volontà del Padre si compirà
perché anche in noi il suo amore risplenderà. È ciò che comporta l’essere nati
dallo Spirito, il vivere mossi e guidati dallo Spirito di cui Gesù è ricolmo e
che ci ha effuso con la sua morte e risurrezione. Proprio come s. Francesco di
Assisi proclamerà della nostra vita in Cristo: “ciò che devono desiderare sopra ogni cosa è di avere lo Spirito del
Signore e la sua santa operazione”.
La figura di
Gesù, nel racconto del battesimo, è definita da tre termini:
figlio/servo/agnello. Il compiacimento del Padre si risolve nel fatto che Gesù
viene a fare la sua volontà, vale a dire fa riferimento all’obbedienza del
servo che accetta fino in fondo il compito affidatogli, ma allude anche
all’intimità ed alla libertà del figlio che condivide intensamente con il Padre
la sua passione d’amore per gli uomini. Per noi accogliere i due riferimenti
contemporaneamente è proprio difficile! Per noi la volontà di Dio non suona
subito come una volontà di Bene, come un Bene che vuole condividere con noi,
come una gioia di Bene che riposa i cuori e di Dio e degli uomini. Ma se
riconosciamo lo splendore dell’amore di Dio che rifulge dal volto di quel figlio/servo/agnello,
potremo anche noi, come lui e in lui, cogliere e compiere il volere di bene di
Dio in favore degli uomini e godere della sua gioia che consiste nell’unire ‘i
figli di Dio dispersi’. Quando il cuore dell’uomo non si lascia guidare da alcun’altra
ragione nel suo agire, saprà che la fraternità con gli uomini è il supremo
desiderio di Dio e il luogo di manifestazione del suo splendore. Così si
compiono i misteri di Dio, così l’uomo torna alle radici della sua gioia, nel
suo Dio. Cose misteriose, certo, ma veritiere e fondanti il senso stesso del
nostro vivere e del nostro desiderare.
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Terzo
ciclo
Anno
liturgico C (2009-2010)
Tempo
Ordinario
2a
Domenica
(17
gennaio 2010)
_________________________________________________
Is
62,1-5; Sal
95; 1Cor 12,4-11; Gv 2,1-12
_________________________________________________
Il brano
evangelico di oggi termina con questa annotazione: “Questo, a Cana di Galilea, fu l’inizio dei
segni compiuti da Gesù; egli manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui”. Se ci rifacciamo a Gv 1,14: “E il Verbo
si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi abbiamo contemplato la
sua gloria, gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre, pieno di
grazia e di verità”, ci possiamo domandare: che cosa hanno visto i
discepoli, a Cana, di questa gloria? Quando Giovanni
usa il termine ‘segno’, non intende riferirsi al miracolo come se si trattasse
di vedere la potenza straordinaria di Gesù in atto; allude a un’altra cosa, a
qualcosa che sia in relazione con la ‘gloria’.
Possiamo
afferrare meglio la rivelazione di Cana se
incastoniamo l’episodio nella narrazione di Giovanni. Gli eventi che
intercorrono dal riconoscimento di Gesù da parte di Giovanni Battista al
Giordano fino alle nozze di Cana sono racchiusi nello
spazio di una settimana, la settimana della nuova creazione, in riferimento
alla settimana della creazione narrata dalla Genesi. L’episodio di Cana segue il riconoscimento di Gesù da parte di Natanaele, il quale segue quello da parte di Andrea e
Giovanni, i quali seguono quello di Giovanni Battista. Per cogliere la portata
del miracolo di Cana, bisogna percepire la densità di
quel ‘andarono e videro’ di Andrea e
Giovanni, i quali svelando a Pietro tutta l’emozione che li abitava riferiscono
la loro scoperta in questi termini: ‘abbiamo
trovato il Messia’. E ancora, bisogna intuire la sorpresa di Natanaele, che risiedeva proprio a Cana,
quando Gesù gli si rivolge con quelle parole: ‘vedrai cose più grandi di queste!’. Tutti i segni che Gesù compie
sono collocati nella scia di questo ‘vedere cose più grandi’ fino alla
rivelazione suprema, con la morte e risurrezione di Gesù, allorquando le ‘cose
più grandi’ sono ormai le ‘cose ultime’, definitive, supreme, a partire dalle
quali tutto prende senso e splendore. La sua ‘gloria’ finalmente è svelata in
tutto il suo splendore, la gloria del suo amore per gli uomini.
I segni sono dunque in relazione con la gloria dentro un movimento di
rivelazione di cose sempre più grandi fino alla rivelazione suprema, la
morte/risurrezione di Gesù. I segni sono allora gesti simbolici che hanno la
funzione di indicare che in Gesù si realizza l’evento escatologico (“In verità, in verità io vi dico: vedrete il
cielo aperto e gli angeli di Dio salire e scendere sopra il Figlio dell’uomo”,
compiendo il sogno di Giacobbe di Gen 28,17);
invitano tutti gli uomini a percepire la filiazione divina di Gesù, come dirà
Giovanni alla fine del suo vangelo riferendosi ai segni che ha descritto nella
sua narrazione: “Ma questi sono stati
scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché,
credendo, abbiate la vita nel suo nome”. Il mistero di Gesù allude al
mistero della Trinità, la quale si rivela nel suo amore agli uomini tramite
Gesù e nel dono dello Spirito Santo che ci rende atti a vivere di e dentro
quell’amore.
A Cana Gesù viene invitato alle nozze, simbolo dell’antica
alleanza. Ma manca il vino, quello che solo il Messia avrebbe portato, il vino
simbolo dell’amore e della gioia, compimento delle promesse di Dio al suo
popolo. Se ne accorge sua madre, che appartiene all’antica alleanza, ma la cui
fedeltà a Dio la rende capace di vedere in Gesù il Messia, per cui si rivolge
fiduciosa ai servi: “Qualsiasi cosa vi
dica, fatela”. Gesù, che fa riempire d’acqua le giare e fa attingere e
portare in tavola, realizza il passaggio dall’antica alla nuova alleanza con il
dono del vino che simboleggia l’esperienza diretta e personale, nella gioia e
nell’amore, della relazione tra Dio e l’uomo: “Perché la legge fu data per mezzo di Mosé, la
grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo” (Gv
1,17). Non per nulla, l’episodio che segue alle nozze di Cana
è la purificazione del Tempio a Gerusalemme da parte di Gesù che scaccia
venditori e cambiamonete. Quello che la legge prometteva, Gesù lo rende
possibile in sovrabbondanza; quello a cui anelava il cuore dell’uomo ora
diventa vivibile, gustosamente esperibile: l’uomo vive finalmente la pace con
il suo Dio, in un amore ritrovato e condivisibile. E questo si vedrà proprio
nella sua ‘ora’ quando dalla croce risplenderà il suo amore infinito, amore che
con il dono dello Spirito Santo diventa radice di vita e di azione nel suo
discepolo e segno di Dio per il mondo intero.
Il miracolo di Cana con la trasformazione dell’acqua in vino, mentre
allude al passaggio dalla Legge alla Grazia, allude anche al mistero
dell’intelligenza delle Scritture. Tutte le Scritture parlano di lui (‘Voi scrutate le Scritture pensando di avere
in esse la vita eterna: sono proprio esse che danno testimonianza di me’, Gv 5,39): tutte le parole alludono alla Parola fatta carne.
E quando si incomincia a intravedere questa tensione profonda che percorre
tutta la Scrittura, allora si passa dal bere l’acqua al gustare il vino. Così
come nel compiere i comandamenti di Dio: un conto è praticarli materialmente,
un conto è praticarli cogliendo l’ispirazione e la rivelazione di vita che
comportano.
L’immagine di
fondo è quella delle nozze, a illustrare il mistero della comunione di Dio con
l’uomo. Le nozze alludono al compimento dei desideri del cuore ormai abitati
dal desiderio di Dio che ci è venuto incontro, che ci ha guadagnati al suo
amore e che ci ha conquistati al suo splendore.
Quest’ultimo
aspetto è ben delineato nel brano di Isaia che descrive Dio come lo Sposo che
gioisce della sua sposa, la quale passa da una percezione di angosciosa
solitudine, di ‘abbandonata’, all’emozione di essere svelata a se stessa in una
dolcezza di riposo perché ‘sposata’ ( forse, meglio: ‘abitata in dolcezza’). La
percezione di quella nuova realtà, di cui è indegna, ma di cui gode
nell’intimo, grata e consegnata, costituisce il contenuto del nome nuovo con la
quale è chiamata.
Così possiamo
pregare con la chiesa: “… la santa chiesa sperimenti la forza trasformante del
suo amore e pregusti nella speranza la gioia delle nozze eterne” allorquando
tutti ci relazioneremo come figli di Dio nell’esperienza assoluta e sovrana
dell’amore di Dio per noi.
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Terzo
ciclo
Anno
liturgico C (2009-2010)
Tempo
Ordinario
3a
Domenica
(24
gennaio 2010)
_________________________________________________
Ne
8,2-10; Sal
18; 1Cor 12,12-31; Lc 1,1-4; 4,14-21
_________________________________________________
Nel racconto di
Luca la predicazione a Nazaret assume il valore di
avvenimento emblematico, collocato all’inizio dell’attività apostolica di Gesù,
subito dopo il battesimo e le tentazioni nel deserto, come se l’evangelista
volesse riassumere in una immagine premonitrice il senso del messaggio
messianico di Gesù. Il lettore viene posto subito in una posizione ‘critica’ di
fronte all’agire di Dio tramite Gesù.
L’inizio del
brano comporta un particolare significativo. Il testo dice che Gesù ritorna in
Galilea ‘con la potenza dello Spirito’, mentre in precedenza aveva riportato
che Gesù, dopo il battesimo al Giordano, ‘pieno di Spirito’, era stato spinto
nel deserto per essere tentato da diavolo. Avendo vinto il maligno, avendo
accettato di condursi, come Messia, secondo i segreti di Dio e non del diavolo,
Gesù inizia la sua missione. E quando si presenta nella sinagoga a Nazaret riferisce a se stesso il passo di Isaia: “Lo Spirito del Signore è sopra di me … Oggi
si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato”. Gesù si presenta
come l’Inviato, capace di dare compimento alle promesse di Dio, come riporta il
canto al vangelo: “Il Signore mi ha
mandato ... ”. Quello che forse non cogliamo più della manifestazione di
questa autocoscienza di Gesù è il suo carattere dinamico. L’invio non rimanda
semplicemente all’opera per la quale è inviato, ma all’intimità che vive con il
Padre nel mostrare, con le parole e l’agire, il suo grande amore agli uomini.
La profezia
messianica di Isaia 61, che parla di poveri, di prigionieri/oppressi, di
ciechi, allude alle ‘deficienze’ del nostro vivere che Gesù è venuto a
redimere: a) la nostra vita è mancante, soffre di limiti; b) viviamo sotto
l’oppressione di una schiavitù imposta o procurata, subita o provocata; c)
camminiamo all’oscuro, non distinguiamo bene nulla. Gesù si presenta, dalla
parte di Dio, capace di rinnovare la letizia, di offrire la libertà e di
suggerire un senso. Sono le coordinate di un vivere felicemente la propria
vocazione umana, in comunione con Dio. La felicità, come la vita stessa di Gesù
mostrerà, è ‘dire bene Dio’ con la premura della cura dell’uomo fino a dare la
vita perché la vita dell’altro cresca. Ma come vivere questa felicità senza la
rivelazione del volto di Dio che si fa conoscere come ‘cura per l’uomo’? Per
questo Origene annota come sia da invidiarsi l’assemblea
che tutta intera, alla lettura della parola di Dio, tiene gli sguardi fissi su
Gesù! Come accogliere – come Gesù rivelerà in molte parabole – la felicità di
Dio per il pentimento del peccatore senza accusarlo di ingiustizia e senza
sentire la gioia dell’altro come un’offesa alla mia di uomo giusto?
Tutti i frutti
dello Spirito “amore, gioia, pace,
pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé” (Gal 5,22)
sono espressione della cura per l’uomo e chi più li possiede, più si prende cura.
E più ci si prende cura, più il volto di Dio è rivelato nella sua verità e la
letizia riempie il cuore dell’uomo, secondo l’invito di Neemia
al popolo dopo la lettura della Legge: “Non
vi rattristate, perché la gioia del Signore è la vostra forza”. Gli ebrei
erano appena ritornati dall’esilio di Babilonia, avevano ricominciato a
costruire il tempio e le mura di Gerusalemme, ma la vita si prospettava piena
di insidie sia sociali che religiose. Il popolo viene ricompattato con la
proclamazione del libro della legge, la lettura del quale suscita un’emozione
grandissima. Il popolo piange, si rattrista, si accorge di quanto sia stato
infedele al suo Dio. Come era successo al re Giosia:
“Udite le parole del libro della legge,
il re si stracciò le vesti” (2Re 22,11); come succederà alla gente che
aveva ascoltato il discorso di Pietro a Pentecoste: “all’udire queste cose si sentirono trafiggere il cuore” (At 2,37).
Ma Esdra e Neemia invitano
alla gioia, sia perché quello era un giorno di festa e nella festa è prescritto
di stare lieti insieme alla mensa, invitando anche i poveri sia perché la
parola di Dio proclamata, spiegata, vissuta e condivisa nella sua potenza di
letizia rende solidali gli uomini, non avendo più nulla da rivendicare in senso
egoistico.
La gioia cela
un’energia potente, diventa la forza che il salmo 18 descrive e che potremmo
interpretare sinteticamente: la giustizia del Signore, il contenuto cioè della
parola di Dio, è quella di portare gioia al cuore e questa gioia è quella che
consente al nostro cuore di vivere secondo la sua giustizia, cioè di
manifestare la sua presenza con il prenderci cura di ognuno fino a dare la vita
perché l’altro possa averla abbondante. Solo il Messia poteva rivelare che
consisteva in questo la manifestazione del Signore e che in questo risiedeva e
il compimento del desiderio dell’uomo e la felicità di Dio.
L’esito della
predicazione di Gesù a Nazaret sarà però drammatico e
questo sarà il tema delle letture di domenica prossima.
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Terzo
ciclo
Anno
liturgico C (2009-2010)
Tempo
Ordinario
4a
Domenica
(31
gennaio 2010)
_________________________________________________
Ger
1,4-5.17-19; Sal
70; 1Cor 12,31-13,13; Lc 4,21-30
_________________________________________________
La scena è la
medesima della domenica precedente: Gesù predica nella sinagoga di Nazaret. Interessa però sottolineare l’esito di
quell’evento: un fiasco! Ma Luca, che ne ha fatto l’immagine emblematica della
predicazione di Gesù, annota molti particolari che introducono alla comprensione
della figura di quel profeta singolare. Se viene fatto conoscere il rifiuto di
Gesù da parte dei suoi concittadini, la sottolineatura si deve al valore
‘profetico’ di quel rifiuto, che l’evangelista Giovanni descriverà come “Venne fra la sua gente, ma i suoi non lo
hanno accolto” (Gv 1,11). Oltre ad alludere alla
passione di Gesù, allorquando il rifiuto comporterà la sua messa a morte,
allude anche all’universalità di quella morte che toglierà il muro di
separazione tra Israele e Gentili, aprendo Israele ai Gentili, pena
l’esclusione del dono di grazia. In quella prospettiva Gesù si applica il
proverbio riferito al medico, che suonava ironico sulle labbra dei suoi
concittadini, ma che lui realizzerà in verità: “Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati” (Lc 5,31).
La richiesta dei
miracoli da parte dei suoi concittadini era forse una supplica? Evidentemente
no, come non sarebbe suonata supplica la richiesta “È il re d' Israele, scenda ora dalla croce e gli crederemo” (Mt
27,42). Si supplica se si apre il proprio cuore perché oppresso, malato,
afflitto. Diversamente, si provoca. Può compiersi un miracolo dietro
provocazione? Lo scopo del miracolo è proprio quello di aprire il cuore al
Signore che mi è venuto incontro e mi può guarire. Ma se il cuore non è
disposto ad aprirsi, quale miracolo si può vedere? Non per nulla, il brano in
Matteo termina con “E lì, a causa della
loro incredulità, non fece molti prodigi” (Mt 13,58) e in Marco con “E lì non poteva compiere nessun prodigio, ma
solo impose le mani a pochi malati e li guarì. E si meravigliava della loro
incredulità” (Mc 6,5-6). È la meraviglia del profeta che non si capacita
della insensibilità dei cuori degli uomini che davanti all’apertura del cuore
di Dio tengono chiusi i loro.
Gesù non si era
limitato a constatare la diffidenza dei suoi concittadini. Ne trae uno spunto
profetico e allarga l’evento di cronaca alla storia di Israele perché i cuori
si rendano conto di cosa sia in gioco. Il passaggio è segnalato da un parlare
solenne con le formule ‘Amen, in verità vi dico’. Vi invito a guardare più nel
profondo, a rendervi conto di cosa vi giocate. E anche quando riferisce il
proverbio del profeta che non è ben visto in casa propria, usa un termine che
si riferisce al brano del profeta Isaia che aveva appena letto all’assemblea:
il Servo di Dio avrebbe proclamato l’anno di grazia del Signore. Quello che
traduciamo con ‘di grazia’ in greco corrisponde a ‘gradito, bene accetto’, termine che Gesù si applica come profeta. Ora, è
accogliendo un profeta che si può accogliere il messaggio di grazia che porta,
la grazia che porta. La liturgia rinforza questa comprensione con l’annuncio
della prima lettura dove viene presentata la vocazione del profeta Geremia.
Quel testo descrive il contenuto di quell’essere pieno dello Spirito, come Gesù
si era presentato a Nazaret. Il profeta è
scelto/conosciuto da Dio, gode cioè di una intimità grande con Dio; è inviato
alle nazioni, cioè ha il compito di togliere il muro di separazione
nell’umanità; è come un muro di bronzo davanti a coloro che lo contrastano,
cioè è pronto alla passione, perché lo splendore dell’amore di Dio conquisti i
cuori. Così la ‘buona novella’ che Gesù annuncia come profeta non consiste
semplicemente in buone parole o in determinati miracoli, ma rimanda a quella
passione/morte/risurrezione in cui risplende in tutto il suo splendore l’amore
di Dio all’uomo, rendendo l’uomo capace di muoversi verso i suoi simili da
dentro quello stesso amore.
Nella preghiera
dopo la comunione diciamo: “O Dio, che ci hai nutriti alla tua mensa, fa’ che
per la forza di questo sacramento, sorgente inesauribile di salvezza, la vera
fede si estenda sino ai confini della terra”. Preghiamo per diventare partecipi
della potenza di quell’amore che ci è fatto conoscere in Gesù e di cui tesse
l’elogio s. Paolo nel suo inno alla carità. Non c’è conoscenza che tenga, non
c’è fede che conti, non c’è generosità che salva: solo la carità esprime lo
splendore che deriva dalla fede in Gesù. Quando Paolo dichiara che senza la carità
non sono nulla, non dice semplicemente che io non conto nulla davanti a Dio
senza la carità, ma che tutte le cose eccelse, senza la carità, non hanno alcun
valore presso Dio. E se non l’hanno presso Dio, vuol dire che non possono
costituire strumenti di comunione tra gli uomini. La sapienza evangelica è
radicale, ma consona al cuore dell’uomo, se si accoglie la buona novella del
profeta di Nazaret.
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Terzo
ciclo
Anno
liturgico C (2009-2010)
Tempo
Ordinario
5a
Domenica
(7 febbraio
2010)
_________________________________________________
Is
6,1-8; Sal
137; 1Cor 15,1-11; Lc 5,1-11
_________________________________________________
Luca descrive i
primi passi della predicazione di Gesù e si premura subito di indicare come
Gesù si sia associato alcuni discepoli, quelli che lo seguiranno ovunque,
nonostante le loro manchevolezze e che verranno a loro volta inviati (=apostoli) come testimoni del loro Signore. Il brano di
oggi evidentemente verte sulla ‘vocazione’ di Pietro, Giacomo e Giovanni: “Tirate le barche a terra, lasciarono tutto e
lo seguirono”. La pesca miracolosa è funzionale al racconto della vocazione
dei discepoli. Solo Luca, a differenza di Marco e Matteo, riferisce della pesca
miracolosa. Ritroviamo quel racconto anche nel vangelo di Giovanni, al cap. 21,
quando Gesù, risorto, si manifesta agli apostoli. Si tratta di due episodi
diversi o della diversa interpretazione di uno stesso episodio? Nella
prospettiva degli evangelisti la domanda è del tutto secondaria. La domanda principale
è la seguente: cosa ha comportato per i discepoli la manifestazione di Gesù? O,
ancora più precisamente: cosa ha comportato per i discepoli la decisione di
Gesù di manifestarsi a loro? Perché di questo essenzialmente si tratta: Gesù si
manifesta e ‘succede’ qualcosa. Sia agli inizi della vita pubblica di Gesù sia
dopo la risurrezione l’evento è della stessa natura.
C’è un
particolare assolutamente eloquente che si richiama nei due racconti di Luca e
di Giovanni. Davanti all’evento prodigioso della pesca abbondante Pietro è
colto da profonda emozione: “Al vedere
questo, Simon Pietro si gettò alle ginocchia di Gesù, dicendo: ‘Signore,
allontanati da me, perché sono un peccatore’”. L’apparizione della ‘gloria’
di Dio suscita sempre timore. Ma il contenuto di quel ‘sono peccatore’, nel
cuore di Pietro, si cristallizza attorno al suo rinnegamento, che Gesù, dopo la
sua risurrezione, evoca dolcemente al suo apostolo quando gli chiede per la
terza volta se lo ama. Al gesto di gettarsi alle ginocchia di Gesù e di
stringerle mentre dice di non essere degno di stare alla sua presenza,
corrisponde il sussurro di Pietro, addolorato: “Signore, tu conosci tutto; tu sai che ti voglio bene” (Gv 21,17).
Se è vero,
allora, che il racconto di Luca tende a presentare la vocazione degli apostoli,
il contesto che giustifica tale vocazione è però la ‘manifestazione’ di Gesù ai
discepoli con l’episodio della pesca miracolosa. La liturgia correla i due
aspetti facendoci leggere, come prima lettura, il brano della vocazione del
profeta Isaia. Il profeta si trova nel tempio, ha una visione ‘esaltante’ e
‘terribile’: partecipa alla liturgia celeste davanti al trono di Dio (le parole
udite da Isaia sono quelle che ripetiamo ancora oggi nella liturgia
eucaristica: “Santo, santo, santo il Signore degli eserciti! Tutta la terra è
piena della sua gloria”) e si sente perduto perché peccatore, ma viene
purificato (la tradizione ha visto, nell’immagine del carbone ardente che
purifica, la realtà della comunione eucaristica) e successivamente inviato: “Ohimè! Io sono perduto, perché un uomo dalle
labbra impure io sono e in mezzo a un popolo dalle labbra impure io abito;
eppure i miei occhi hanno visto il re, il Signore degli eserciti”.
La domanda di
fondo che sorge può essere questa: perché la manifestazione della gloria di Dio
ha sempre a che fare con una missione? ‘Vedere’ Dio non può non comportare la
partecipazione ai suoi segreti, i quali non sono che i segreti dell’amore suo
per gli uomini. ‘Vedere’ Dio non può non comportare allora l’invio agli uomini
perché la sua promessa di Bene e di Vita sia condivisa da tutti e la Sua gioia
sia piena. I passaggi sarebbero perciò questi: Dio manifesta la sua gloria -
l’uomo confessa il suo peccato e viene purificato – si è inviati ai fratelli.
La tensione
interiore della missione, allora, è direttamente proporzionale all’intensità
della ‘visione’ di Dio. E la ‘visione’ di Dio è direttamente proporzionale alla
confessione del proprio peccato. Questo, perché l’azione dell’uomo risulti
pulita e non si appropri la gloria di Dio. È per questo che il segnale della
fedeltà all’opera di Dio, tra gli uomini, non sarà costituito dal fatto che i
cuori si convertono, ma dal fatto che un uomo non si allontana dalla carità
anche quando viene oltraggiato e messo a morte. La missione comporta la
condivisione di un ‘compito’ di intimità col proprio Signore finché la sua
gloria risplenda e si manifesti.
Quando la
liturgia ci fa pregare: “Dio di infinita grandezza, che affidi alle nostre
labbra impure e alle nostre fragili mani il compito di portare agli uomini
l’annunzio del Vangelo” ci invita non tanto ad essere pieni di zelo da andare
in tutto il mondo, ma a ripetere l’esperienza di Isaia e di Pietro che ‘vedono’
la gloria del Signore e non possono non disporsi all’opera di Dio, in modo tale
che un’esperienza del genere risulti così radicale e fondante per la vitalità
del nostro cuore da diventare unica sorgente del nostro agire. Di questa
‘esperienza’ la missione vive e gli uomini ne attendono gli effetti ristoratori.
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Terzo
ciclo
Anno
liturgico C (2009-2010)
Tempo
Ordinario
6a
Domenica
(14
febbraio 2010)
_________________________________________________
Ger
17,5-8, Sal
1; 1Cor 15,12-20; Lc 6,17-26
_________________________________________________
In cosa consiste
la felicità che Gesù promette ai suoi
discepoli? Quale beatitudine nella povertà, nella fame, nel pianto e nella
vessazione, se tutta la fatica degli uomini, nella loro ricerca di giustizia e
di dirittura morale, consiste proprio nel combattere quelle situazioni che
prostrano la dignità delle persone? C’è qualcosa di assolutamente affascinante,
ma paradossale, nelle parole di Gesù, come del resto gli stessi discepoli
noteranno sempre rispetto alla vita e al comportamento del loro Maestro.
Tutta la folla cercava di toccarlo, perché da lui usciva una
forza che guariva tutti.
Con questa annotazione Luca introduce la proclamazione delle beatitudini e la
conclude con l’esemplificazione concreta del ‘dove’ si esercita quella forza
che da lui usciva e che guariva: “Ma a
voi che ascoltate, io dico: amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che
vi odiano, benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi
trattano male”. Il punto di raccordo è dato dalla promessa e
dall’esperienza della ‘beatitudine’. Per noi, seguaci di Gesù, la domanda
allora suona: ha forza per il nostro cuore la gioia che viene dall’incontro con
Gesù? Ciò che in realtà Gesù proclama per i discepoli non è che la condivisione
di quello che lui vive. Così, l’essere beati comporta l’essere in lui, l’essere
a lui solidali, l’essere come il Figlio dell’uomo che è venuto per testimoniare
quanto è grande l’amore di Dio per gli uomini.
La chiave di
lettura la possiamo dedurre dall’apostrofe del profeta Geremia ai suoi concittadini:
“Maledetto l’uomo che confida nell’uomo …
Benedetto l’uomo che confida nel Signore e il Signore è la sua fiducia”.
Nel linguaggio di Gesù l’apostrofe diventa la proclamazione della felicità
accessibile all’uomo. È come se Gesù dicesse: so che il vostro cuore anela alla
felicità, ma per quanto vi angosciate per trovarla o per imporvela è assai
facile rimanere nell’amarezza invincibile dell’illusione. Quando Gesù parla
della ricompensa grande nei cieli allude alla natura della felicità che partecipa
dell’eterno e che si esprime nella nostra storia con uno splendore che ha a che
fare con l’eterno.
Gesù sta
parlando ai discepoli, come a dire: ciò che vi sto annunciando vale in ragione
del fatto che avete accolto in me l’Inviato di Dio, colui che dalla parte di
Dio non solo vi richiama al mistero del Regno ma vi concede di gustarlo e di
condividerlo. Nei termini delle beatitudini, la parola di Gesù si può
intendere: chi cerca la sua felicità senza che la Mia gioia lambisca il suo
cuore resterà nella fame e nel pianto; chi vuole a tutti i costi la sua
felicità, solo calcolando come una eventuale aggiunta il dono della Mia gioia,
finirà per trovarla traditrice e si troverà ingannato dai suoi fratelli e
perderà la sua integrità. Perché la felicità di cui parla Gesù, quella alla
quale anela profondamente, sebbene con mille contraddizioni, il nostro cuore,
ha a che fare con la scoperta della prossimità di Dio che in Gesù rivela tutto
il suo mistero di amore e accondiscendenza per noi e che sana i nostri cuori.
In effetti, le
beatitudini sono costruite in un contrasto tra prospettiva mondana e
prospettiva spirituale. Se gli uomini pensano in prospettiva mondana come
potranno vedere i segreti di Dio che Gesù rivela e a cui i nostri cuori anelano
nella sete di felicità che li tormenta? Il contrasto è tra una logica mondana e
una logica divina, secondo l’espressione di Paolo ai Galati:
“Quanto a me invece non ci sia altro
vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo della quale il
mondo per me è stato crocifisso, come io per il mondo” (Gal 6,14). Rispetto
all’amore, rivelato dall’alto e colto nel seguire il Signore Gesù, non c’è
nulla nel mondo che meriti la preferenza e non c’è nulla in me che può trovare
adeguato compimento a partire dal mondo.
S. Gregorio di Nissa commentando la prima beatitudine scrive: “Siccome
tutti gli uomini sono abitati dalla superbia, il Signore comincia le
beatitudini, eliminando il male iniziale dell’orgoglio e invitando a imitare il
vero Povero volontario che è beato in verità, in modo da rassomigliargli,
secondo quanto sta nelle nostre possibilità, attraverso una povertà volontaria
per aver parte alla sua beatitudine”. E dopo aver descritto l’ascesa di tutte
le beatitudini, commentando l’ottava, dice: “Qual è lo scopo che perseguiamo?
Quale la ricompensa? Quale la corona? Mi sembra che ogni oggetto della nostra
speranza non è nient’altro che il Signore stesso … è lui l’eredità ed è lui che
ti dona la tua parte; è lui che arricchisce ed è lui la ricchezza; è lui che ti
mostra il tesoro e che è il tuo tesoro …”. La beatitudine allora è vivere
quella comunione con colui che è l’Amato del tuo cuore. E tale amore risalterà
in tutto il suo splendore proprio quando tutto e tutti cercheranno di rapirtelo
e tu non cederai a niente e a nessuno. La cosa strana sarà che ti accorgerai
che non te lo farai rapire quando lo custodirai per tutti, senza separarti da
nessuno proprio a causa di quell’Amore. È quanto di più paradossale possa
succedere a un uomo, ma è proprio questa la verità di Dio per il cuore
dell’uomo.
La prima
beatitudine comporta il verbo al presente, le altre al futuro: “perché vostro è il regno di Dio”, “perché sarete saziati”. Il presente
sottolinea che il dono è reale, ci appartiene; il futuro sottolinea che siamo
chiamati a viverne la dinamica in tutta la sua estensione, a realizzarne i
frutti, con la pazienza di chi sa di non essere lasciato solo e confuso, ma
felicemente accompagnato. Così voler essere felici per poi vivere bene è
un’assurdità, come voler prima vedere il Signore per poi seguirlo. L’unica
possibilità è quella della promessa: accetto di vivere per essere felice perché
la felicità è la promessa della vita. E questa suona veritiera nella parola di
Gesù perché è venuto a dare la vita e a darla in abbondanza. È l’abbondanza di
un amore non più soggetto a oppressioni, invincibile davanti ad ogni tormento o
afflizione o ingiustizia perché il nome del Signore sia rivelato ad ogni cuore,
al mondo intero. È lo spazio di tensione della promessa che riempie la nostra
vita di discepoli di Cristo.
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Terzo
ciclo
Anno
liturgico C (2009-2010)
Tempo
di Quaresima
1a
Domenica
(21 febbraio
2010)
_________________________________________________
Dt
26,4-10; Sal
90; Rm
10,8-13; Lc
4,1-13
_________________________________________________
Il tema portante
del periodo quaresimale nel ciclo C è la conversione, mentre nel ciclo A era il
cammino catecumenale e nel ciclo B era l’alleanza ricostituita.
Nella liturgia
di oggi la resistenza di Gesù al diavolo è considerato come un atto di fedeltà
verso Dio suo Padre, così come la lettura del Deuteronomio presenta il grido
del popolo nell’afflizione come la confessione della sua fiducia in Dio che lo
salva.
Per cogliere il
dramma dell’evento delle tentazioni di Gesù nel deserto, possiamo farci questa
domanda: quale potere comporta la verità dell’essere ‘Figlio di Dio’? Il
diavolo riconosce a Gesù questa verità. Ne può però comprendere la reale
portata? In effetti, le tentazioni seguono l’esperienza di una pienezza, quella
del battesimo, con la manifestazione dello Spirito che riposa su Gesù, come se
lo zelo per il Signore che muove Gesù nel suo compito messianico potesse
risultare equivoco. Il diavolo lo tenta non nel senso di distoglierlo da Dio
inducendolo al male, ma nel senso di suggerirgli che c’è un modo molto più
diretto ed efficace per arrivare al suo scopo. L’inganno starebbe nel fatto di
fargli fare qualcosa in nome di Dio senza condividere il segreto di Dio, senza
il compiacimento di Dio.
Il perno dell’equivoco
tra Gesù e il diavolo è proprio il ‘potere’. L’offerta del diavolo è un’offerta
di potere: conquistare gli uomini, ma assoggettandoli. Conquistarli facendoli
strabiliare; servirsi di Dio piuttosto che servire Dio. Il diavolo riconosce
che Gesù è Figlio di Dio. “Se tu sei
Figlio di Dio” significa: dato che tu sei Figlio di Dio, allora puoi … hai
il potere di .... Quando gli offre la gloria del mondo, è consapevole che Gesù
è inviato al mondo, ma il diavolo non conosce i segreti di Dio né desidera averne
parte, per cui tratta Gesù da par suo ed è disposto a passare in sordina
davanti al mondo, per bearsi del fatto che chi conquista il mondo riconosca che
lo deve alla sua nefasta liberalità.
Passiamo
brevemente in rassegna le tre tentazioni considerando le risposte di Gesù. “Non di solo pane vivrà l’uomo”: ecco la
prima risposta. Riprende la citazione di Dt 8,3: “Egli dunque ti ha umiliato, ti ha fatto
provare la fame, poi ti ha nutrito di manna, che tu non conoscevi e che i tuoi
padri non avevano mai conosciuto, per farti capire che l’uomo non vive soltanto
di pane, ma che l’uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore”. Gesù
proclama la sua fiducia nel Dio che sempre soccorre perché la sua parola è
‘potente’ nella sua fedeltà. Gli israeliti non avevano nulla da mangiare e Dio
dà loro la manna. Gesù si fida di Dio e non dei suoi ‘poteri’, come
maliziosamente il diavolo gli riconosce.
Davanti
all’offerta dello splendore dei regni di questo mondo, Gesù risponde: “Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo
renderai culto”, riprende Dt 6,13: “Temerai il Signore, tuo Dio, lo servirai e
giurerai per il suo nome”. Dio si adora per nessun altro motivo che per lui
stesso, non in vista di qualcos’altro. Evidentemente, come fa supporre il
diavolo, chi cerca potere e gloria non adora Dio.
Dall’alto del
pinnacolo del tempio, ecco la terza risposta: “Non metterai alla prova il Signore Dio tuo”, che riprende Dt 6,16: “Non
tenterete il Signore, vostro Dio, come lo tentaste a Massa”. La fiducia in
Dio è proclamata senza bisogno alcuno di certificazione di nessun genere. Non
ha bisogno di dimostrare nulla a nessuno, se stesso compreso, chi si fida del
suo Dio.
La testimonianza
suprema di questa ‘fiducia’ di Gesù risalterà nella sua passione quando tutti
dovranno sapere come lui ama il Padre e come sia grande l’amore del Padre per
gli uomini.
Le risposte di
Gesù frantumano l'illusione con la quale il diavolo irretisce per impedirci di
essere liberi e veritieri. E lo scopo del vincere l'illusione lo rivela assai
bene s. Francesco nel commentare il Padre Nostro: “sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra: finché ti
amiamo con tutto il cuore, sempre pensando a te; con tutta l'anima, sempre
desiderando te; con tutta la mente, orientando a te tutte le nostre intenzioni
e in ogni cosa cercando il tuo onore. E con tutte le nostre forze, spendendo
tutte le nostre energie e sensibilità dell'anima e del corpo a servizio del tuo
amore e non per altro; e affinché amiamo il nostro prossimo come noi stessi,
trascinando tutti con ogni nostro potere al tuo amore, godendo dei beni altrui
come dei nostri e compatendoli nei mali e non recando offesa a nessuno”.
È davvero
condotto dallo Spirito di Dio chi prima, durante e dopo il suo agire sta sempre
dalla parte di Dio. Per vivere questo è necessario rinunciare ad ogni forma di
esercizio di potere, sotto qualsiasi forma esso si esprima. Il cammino
penitenziale mira precisamente a liberare gli spazi interiori all’agire dello
Spirito che ci guida alla e nella alleanza con il Dio che salva, senza aver
bisogno di dimostrare nulla a nessuno in nessun modo. E quando con la colletta
preghiamo: “O Dio, nostro Padre … concedi a noi tuoi fedeli di crescere nella
conoscenza del mistero di Cristo e di testimoniarlo con una degna condotta di
vita”, è come domandassimo: concedici di entrare in quella intimità di sentire
e volere del tuo Figlio con il tuo amore per noi da trovarvi le radici del
nostro vivere.
Un’ultima
annotazione. Il diavolo si serve del salmo 91 per convincere Gesù. Nella
tradizione ebraica il salmo 91 è proclamato come chiusura del sabato
allorquando, ritornando alla vita quotidiana settimanale, si teme di perdere la
santità di Dio goduta. Quel salmo è proclamato proprio per essere difesi dalla
santità di Dio contro gli assalti del maligno.
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Terzo
ciclo
Anno
liturgico C (2009-2010)
Tempo
di Quaresima
2a
Domenica
(28 febbraio
2010)
_________________________________________________
Gen
15,5-18; Sal
26; Fil 3,17-4,1; Lc 9,28-36
_________________________________________________
L’antica
colletta ci fa supplicare: “purifica gli occhi del nostro spirito perché
possiamo godere la visione della tua gloria”, mentre il canto al vangelo
proclama: “Questi è il mio Figlio,
l’amato: ascoltatelo!”. Viene delineato l’intero arco del percorso del
discepolo di Gesù: ascoltarlo, conoscerne il mistero e vederne la gloria. Tutto
il cammino quaresimale è teso a questo obiettivo.
A quale
condizione possiamo essere ammessi alla visione? Solo chi dal fondo del cuore,
nonostante le sue resistenze e confusioni, dice con il salmista: “Di te ha detto il mio cuore: "Cercate
il suo volto"; il tuo volto, Signore, io cerco” potrà intuire
l’esperienza dei tre discepoli sul monte della trasfigurazione. Qualcosa della
bellezza di quel Volto ha ferito allora i cuori dei discepoli, come del resto
ogni nostro cuore aspetta di esserne ferito. Intervengono gli occhi, ma sono
guidati dagli orecchi: la contemplazione del Signore avviene nello spazio
creato nel cuore dalla voce misteriosa di cui gli occhi ne vedono i contorni di
bellezza. Già al battesimo era stata udita la voce dal cielo, che proclamava
Gesù come il Figlio prediletto, ma ora, per i discepoli, viene aggiunto:
“ascoltatelo!”. I discepoli ancora non possono sapere fin dove li porterà
l'ascoltare il loro Maestro e ancora non possono conoscere tutta la profondità
di quell'espressione: “il mio Figlio, l’Amato”, come poi si rivelerà alle loro
coscienze e ai loro occhi con la passione-morte-risurrezione
di Gesù e con la testimonianza della loro vita, resa capace di portare quello
stesso amore di Dio, visto in Gesù e da lui partecipato, in se stessi e per
tutti gli uomini. Anzi, tutta la scena della trasfigurazione sembra abbia lo
scopo, nella narrazione evangelica, di segnare i cuori dei discepoli in vista
della prova della croce. Così non può che seguire la consegna del silenzio,
perché l'evento divino, ancora misterioso al loro cuore, non si trasformi in un
motivo di vanto o di confusione.
Il racconto
della trasfigurazione segue la confessione di Pietro a Cesarea e il primo
annuncio della passione da parte di Gesù ai discepoli increduli. Soltanto Luca
però annota che Gesù aveva preso i discepoli con sé per passare la notte in
preghiera sul monte, descrivendoli in preda all’oppressione del sonno e soltanto
lui svela il contenuto del colloquio tra Gesù e i due uomini apparsi nella
gloria con lui, Mosè ed Elia. Il tutto, evidentemente, allude alla scena futura
del giardino degli ulivi nella notte del tradimento di Gesù. I discepoli
sembrano accorgersi dell’evento della trasfigurazione all’ultimo momento,
allorquando, svegliandosi, vedono Gesù, Mosè ed Elia in colloquio mentre si
stanno congedando. Quasi nello stesso tempo li sorprende la nube e sentono la
voce: “Questi è il mio Figlio, l’amato:
ascoltatelo!”, voce che costituisce il punto di fuga della visione.
La proclamazione
della voce misteriosa, già sentita al battesimo di Gesù nel Giordano, è
costruita sul salmo 2,7: “Egli mi ha
detto: Tu sei mio figlio” e su Isaia 42,1: “Ecco il mio servo che io sostengo, il mio eletto di cui mi compiaccio.
Ho posto il mio spirito su di lui”. Lo conferma il redattore della seconda
lettera di Pietro: “Infatti, vi abbiamo
fatto conoscere la potenza e la venuta del Signore nostro Gesù Cristo, non
perché siamo andati dietro a favole artificiosamente inventate, ma perché siamo
stati testimoni oculari della sua grandezza. Egli infatti ricevette onore e
gloria da Dio Padre, quando giunse a lui questa voce dalla maestosa
gloria:«Questi è il Figlio mio, l’amato, nel quale ho posto il mio
compiacimento».Questa voce noi l’abbiamo udita discendere dal cielo mentre
eravamo con lui sul santo monte” (2Pt 1,16-18).
L’annotazione
della preghiera sul monte allude alla rivelazione che sta per compiersi. Di per
sé, però, la rivelazione non riguarda la visione della gloria, ma il senso
misterioso di quella gloria. In un attimo folgorante, i discepoli vedono, sì,
la gloria di Gesù, ma senza rendersi ben conto. La rivelazione della gloria ha
a che fare invece con il segreto di Dio per l’uomo, che costituisce il
colloquio tra Gesù e i due personaggi: “e
parlavano del suo esodo, che stava per compiersi a Gerusalemme”, ma che
Pietro e i suoi compagni non sanno ancora reggere. Pietro, che non aveva potuto
accettare una settimana prima l’umiliazione e la sofferenza del suo Maestro,
ora davanti al Signore trasfigurato, non sa quel che dice. Se l’evento della
Pasqua del Signore sta al centro del mondo, del senso del mondo, come possono i
discepoli comprendere che fin dalla creazione del mondo il colloquio tra il
Padre, il Figlio e lo Spirito Santo verte sull’immolazione dell’agnello, figura
dell’amore che Dio riversa sul mondo e di cui la gloria della trasfigurazione è
l’allusione misteriosa? Sanno solo che quel Figlio, l’Eletto, è degno di Dio,
custodisce il segreto di Dio per l’uomo e attendono di conoscerlo per davvero
imparando ad ascoltarlo, ad ascoltarlo per seguirlo e a seguirlo per ascoltarlo
finché si manifesti finalmente al cuore. Il senso della paura che prende i
discepoli è appunto il segno del desiderio e del rischio insieme che
caratterizza l’avventura dell’uomo toccato dalla presenza di Dio.
Eppure, nel
riconoscere Mosè ed Elia in colloquio con Gesù, intuiscono che tutte le
Scritture, di cui Mosè ed Elia costituiscono l’espressione riconosciuta,
tendono a quella rivelazione, che tutte le Scritture si compiranno in
quell’evento. Non solo, ma presentare il colloquio che avviene ‘nella gloria’
significa collocare quell’evento nella dimensione divina, nella quale si radica
la storia degli uomini.
L’esperienza
misteriosa dei discepoli è la stessa che vive Abramo, con una fede così
radicale nella promessa di Dio che si compie, nonostante l’evidenza umana
contraria, da permettere anche a noi di fidarci dell’alleanza di Dio che in
Gesù si rivela in tutta la sua profondità ed estensione. Così, se domandiamo,
come nella colletta, di vedere la sua gloria, in realtà non facciamo che
domandare a Dio di credere alla sua promessa, di fare esperienza del suo amore
a tal punto da esserne tutti riverberati perché la gloria di Dio è l’amore che
risplende dal trono della croce e la gloria dell’uomo è vivere di quello
splendore.
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Terzo
ciclo
Anno
liturgico C (2009-2010)
Tempo
di Quaresima
3a
Domenica
(7 marzo
2010)
_________________________________________________
Es
3,1-15; Sal
102; 1Cor 10,1-6.10-12; Lc 13,1-9
_________________________________________________
Nel vangelo
risuona forte oggi il grido di Gesù: convertitevi!
Tutto il capitolo 13 di Luca tende a dirigere gli sguardi sulla rivelazione che
comporterà la sua passione a Gerusalemme. Quando Gesù sollecita i cuori alla
conversione, la posta in gioco è proprio la possibilità di partecipare ai
segreti di Dio che si svelano al mondo, la possibilità di un’esperienza di
umanità ritrovata e guarita nell’accoglienza dell’amore salvatore di Dio che in
Gesù ha appunto il suo sigillo ultimativo. La cosa è così essenziale per la
vita dell’uomo che non è più possibile tergiversare, non è più possibile far
finta, pena la rovina.
Quando la gente cerca
di ottenere da Gesù la conferma di un senso plausibile alle crudeltà della
storia (vedi l’esempio dei Galilei uccisi da Pilato e degli altri periti in un
incidente di vita quotidiana), riceve una risposta paradossale. È assurdo
pensare che, se io sono risparmiato dal dolore, significa che ho Dio dalla mia
parte! L’uomo non ha alcun potere su Dio e quindi è perfettamente inutile che
cerchi di avere Dio dalla sua parte. Dio è già dalla sua parte, ma in un modo
che non è scontato vedere e vivere. L’esempio di Gesù è lì a evidenziarlo. Lui
è l’Inviato di Dio, Lui è la rivelazione dell’amore di Dio. Da come accogliamo
Lui, accogliamo la vita. Gesù è tutto teso a quel ‘gridare’: ‘convertitevi!...’. Senza la conversione
all’alleanza di Dio, di cui Lui costituisce il sigillo, periremo tutti nel
senso di non poter saziare il desiderio del nostro cuore e di venire lasciati
in balia delle nostre ossessioni, rendendoci la vita impossibile gli uni contro
gli altri.
Ora, la
conversione si gioca proprio nell’accogliere la rivelazione di Dio, nello
scoprire chi sia Dio per noi. Il grido di Gesù sale dalla profondità del
mistero di Dio rivelato a Mosè nel roveto ardente, che il salmo responsoriale,
il salmo 102, modula in mille sfumature. Dio confessa a Mosé:
“Ho osservato la miseria del mio popolo
in Egitto … conosco le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo …”. In quel
‘conosco le sue sofferenze’ si rivela tutta la partecipazione dell’amore di Dio
per le sue creature, tutta la sua prossimità all’uomo, tutta l’accondiscendenza
che lo muove nei confronti dell’uomo. Gli antichi commentatori ebraici spiegano
così i sentimenti di Dio: ‘io pure soffro come soffrono loro … le loro pene mi
riguardano; vedo anche le pene che non dicono, ma che opprimono i loro cuori…’. E quando Mosè chiede a nome di chi dovrà
presentarsi, Dio risponde: “Io sono colui
che sono! … il Signore, Dio dei vostri padri, Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio
di Giacobbe mi ha mandato a voi”. Il Nome di Dio esprime ciò che l’uomo di
Lui può sperimentare quando lo invoca, quando, avendolo invocato, ne coglie la
vicinanza e la sua potenza di liberazione e di favore. L’espressione,
misteriosa nella sua disarmante semplicità ‘Io sono colui che sono’ può voler dire allora: ‘Io sono colui che sarò’; ‘Io
sono là con voi come voi vedrete’; ‘io sono colui che tu vedrai quando
invocandomi io ci sarò’; ‘chi io sia voi lo saprete da quello che farò per
voi’. Il nome di Dio non rinvia semplicemente all’essere di Dio, ma al suo
essere per noi. Tanto che Dio è sempre Dio di: Dio di Abramo, Dio di Isacco,
Dio di Giacobbe, Dio di Israele, Dio di Gesù Cristo, Dio di ciascuno di noi… Così il popolo fa parte del nome di Dio, come Dio, El, fa parte del nome del popolo, Isra-El.
‘Nostro’ o ‘mio’ ed ‘unico’ in rapporto a Dio stanno sempre insieme. Tale è
l’alleanza di Dio con l’uomo. Tanto che, secondo la bellissima espressione di Origene, in questa alleanza che si rivela nel Nome di Dio è
sottesa tutta la dinamica della nostra crescita spirituale: “Magari venisse
concessa anche a me l’eredità di Abramo, Isacco, Giacobbe e divenisse mio il
mio Dio allo stesso modo che è diventato Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di
Giacobbe, in Cristo Gesù, Signore nostro”.
Se il salmo 102
lo mettiamo in bocca allo stesso Mosè, quante sfumature di senso si potrebbero
cogliere! Lui può comprendere quello che Gesù dice di sé nelle parole di
benedizione dei credenti che lo riconoscono come l’Inviato: “Benedetto colui che viene nel nome del
Signore”. La nostra lode al Signore è l’eco di quella benedizione: “Benedici il Signore, anima mia, quanto è in
me benedica il suo santo nome”. Tutto il mio intimo lo benedica; la
benedizione di Lui salga dal mio cuore, dalla mia storia, dal mondo che per
quella benedizione vive. Quando proclamiamo: “Egli perdona tutte le tue colpe, guarisce tutte le tue malattie… Buono e pietoso è il Signore, lento all’ira e
grande nell’amore”, noi intendiamo esprimere la scoperta del Nome di Dio
per il nostro cuore che ha cambiato tutta la nostra vita, ce l’ha fatta
apparire sotto tutta un’altra luce, trasfigurandola. E ancora: quello che
proclamiamo con il salmo 102 corrisponde alla preghiera dopo la comunione: “O
Dio, che ci nutri in questa vita con il pane del cielo, pegno della tua
gloria”, vale a dire: quando ci attrai alla comunione con te e con i fratelli e
noi gustiamo il tuo perdono nella capacità di condividerlo con tutti, allora
scopriamo la dolcezza del tuo Nome, allora portiamo frutti degni di conversione
e tutta la nostra vita risplende di un’altra luce. Proprio alla scoperta del
Nome di Dio che si rivela in Gesù ci rimanda l’invito evangelico: “Convertitevi!”.
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Terzo
ciclo
Anno
liturgico C (2009-2010)
Tempo
di Quaresima
4a
Domenica
(14 marzo
2010)
_________________________________________________
Gs
5,9-12; Sal
33; 2Cor 5,17-21; Lc 15,1-3.11-32
_________________________________________________
Il mistero che
s. Paolo proclama essere il contenuto stesso della rivelazione (“Tutto questo però viene da Dio, che ci ha
riconciliati con sé mediante Cristo e ha affidato a noi il ministero della
riconciliazione”) la parabola del vangelo lo narra splendidamente.
Gesù risponde
alle lamentele, che diventano perfino accuse, dei farisei di fronte al suo
agire: “I farisei e gli scribi
mormoravano: Costui riceve i peccatori e mangia con loro” (Lc 15,2). Non si davano pena dei sentimenti di Dio come
rivela il profeta Isaia: “Sion ha detto:
"Il Signore mi ha abbandonato, il Signore mi ha dimenticato". Si
dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il
figlio delle sue viscere? Anche se costoro si dimenticassero, io invece non ti
dimenticherò mai” (Is 49, 14-15) Non si
ricordavano più il rimprovero che Dio aveva rivolto al profeta Giona per la sua irritazione a causa della pianta di ricino
seccata (cfr Gio 4,10-11).
Più che
denominare la parabola ‘del figlio prodigo’, dovremmo
parlare di parabola ‘del padre misericordioso’ o ‘del figlio ritrovato’.
L’accento non è posto sul o sui figli, ma sul padre. La parabola è costruita su
tre personaggi: i due figli, il minore e il maggiore ed il padre. I personaggi
si caratterizzano tanto per i silenzi che per le parole proferite. Possiamo
notare subito che non esiste dialogo diretto tra i due figli, ma solo tra i
figli e il padre. Questa parabola, come le due precedenti della pecora e della
moneta ritrovate, finiscono sull’invito a condividere la gioia del
ritrovamento.
Le parabole,
prima che di noi, parlano di Dio, di Dio in rapporto a noi. Siamo a metà del
cammino quaresimale e la chiesa si interroga: come Dio agisce con i peccatori?
Possono i peccatori trovare salvezza? O, più direttamente: ha diritto alla
gioia l’uomo peccatore? In cosa consiste il segreto della gioia? Oppure ancora:
come si riconosce la vera devozione?
La risposta a
questi interrogativi si potrebbe riassumere così: nel partecipare ai sentimenti
di Dio; nel prendere parte alla gioia di Dio che vuole i suoi figli con lui.
Ogni altro motivo del proprio agire risulterebbe alla fine discriminatorio tra
fratelli e quindi non gradito a Dio. Non per nulla i due figli non si parlano
mai direttamente, in quanto il loro rapporto o deriva dalla condivisione dei
sentimenti del padre e sarà vicendevolmente benevolo oppure è corroso dalla
gelosia tra loro e rivelerà l’incomprensione dei sentimenti del padre.
La parabola è
viva e rimane aperta. Possiamo farci allora due domande.
La prima: se la
comunione con il padre resta il segreto della felicità dei due figli, come si
collocano rispetto ad essa? Il figlio minore l’ha disprezzata e l’ha rotta; il
figlio maggiore, che sembra averla mantenuta, non l’ha però mai goduta e quindi
in fondo anche lui la disprezza. Tutti e due falliscono la loro felicità. Il
padre tuttavia accoglie entrambi, segue premuroso entrambi: come corre incontro
al figlio minore che torna pentito, così esce per convincere il figlio maggiore
a partecipare alla sua festa.
La seconda: cosa
sarebbe successo se il figlio minore, ritornato pentito, si fosse stizzito per
l’atteggiamento del fratello maggiore che non poteva accettare quel trattamento
di riguardo del padre a suo favore? Se avesse preteso comprensione anche dal
fratello maggiore, non sarebbe stato sincero nel suo pentimento verso il padre.
E se il figlio maggiore si fosse sentito solidale con il padre nella sua gioia,
avrebbe potuto rivendicare qualcosa per sé? Evidentemente non si è mai trovato,
insieme al padre, durante tutto il tempo dell’assenza del fratello, a dire:
‘speriamo non gli capiti qualcosa di irreparabile …’.
Il punto è esattamente questo allora: stare solidali con il padre, con la sua
premura e la sua angoscia per poter godere della sua gioia.
In questa
prospettiva, tutte le annotazioni a proposito dei sentimenti del padre sono
particolarmente preziose perché rivelano la natura dell’amore di Dio per i suoi
figli. Voglio rimarcare solo due particolari. Del padre si dice che, vedendo da
lontano il figlio che tornava, ‘ebbe compassione’, vale a dire: si lasciò
commuovere fin nelle viscere. Quel movimento del cuore è così intenso che non
lascia respiro al figlio, nel senso che tutto quello che il figlio aveva da
dire nella sua vergogna non ha più bisogno di essere ascoltato perché il suo
cuore l’ha già accolto e ristabilito nella sua dignità, di nuovo erede di tutti
i beni. Dietro tutte le parole della Scrittura sta quello stesso movimento di
compassione di Dio per l’uomo; dietro le parole e l’agire di Gesù sta quello
stesso movimento, come spesso si annota nei vangeli (cfr Mt 14,14; 18,27; Mc
1,41; 6,34; 8,2; Lc 7,13; 15,20). La stranezza sta
nel fatto che l’uomo può cogliere gli effetti di quel movimento di compassione
per lui proprio quando gli brucia la vergogna di essersi perso. La conversione
inizia con la coscienza di aver disprezzato la sua dignità di figlio e di non
meritarsi più nulla, senza però chiudersi in se stesso. L’amore che si riceve
non è dovuto, ma ‘sorprendente’.
Del padre si
dice ancora che vuole fare festa, che chiama alla festa ed esce per invitare
anche il figlio maggiore alla festa. Quella festa è però misteriosa. È la festa
della grande cena per gli invitati che non vogliono venire (Lc
14,15-24), la festa del banchetto di nozze che il re vuole per il figlio (Mt
22,1-14). Ma soprattutto è la festa in cui si uccide il vitello grasso. Come
non pensare al ‘sacrificio’ del figlio amato, inviato dal padre a riscuotere i
frutti della vigna (Lc 20,9-19)? Così, il far festa
non richiama semplicemente alla gioia, ma alla gioia dell’amore di Dio che
vuole radunare i suoi figli e non teme di vedere il figlio ‘sacrificato’ perché
l’amore deve rivelarsi in tutta la sua immensità. La gioia ha a che vedere con
l’esperienza di quell’amore sconfinato che solo permette di attraversare il
male senza restarne vittime e che in Gesù ha il suo testimone per eccellenza.
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Terzo
ciclo
Anno
liturgico C (2009-2010)
Tempo
di Quaresima
5a
Domenica
(21 marzo
2010)
_________________________________________________
Is
43,16-21; Sal
125; Fil 3,8-14; Gv 8,1-11
_________________________________________________
Con quale
sincerità e intensità sarebbero risuonate sulla bocca di quella donna spiata,
scoperta, strattonata, minacciata, giudicata e poi lasciata sola perché potesse
essere perdonata da Gesù, le parole del salmo: “Grandi cose ha fatto il Signore per noi: eravamo pieni di gioia” (Sal 125,3)! È da dentro questa gioia inattesa, confusa, che
si apre per il cuore uno spazio di intimità tutto nuovo, secondo quella novità
di cui parla il profeta Isaia: “Ecco, io
faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?... Il popolo
che io ho plasmato per me celebrerà le mie lodi” (Is
43,19.21). È lo spazio di una ritrovata dignità, che si percepisce dal tono
dolce con cui ci viene rivolta la parola in quella intimità di benevolenza con
cui veniamo accolti e che ci guarisce dal di dentro: “Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più”.
Nell’antica
colletta preghiamo: “Vieni in nostro aiuto, Padre misericordioso, perché
possiamo vivere e agire sempre in quella carità, che spinse il tuo Figlio a
dare la vita per noi”. All’inizio (forse è meglio dire: lungo il percorso della
nostra vita), ancora confusi per il nostro peccato, non riusciamo a sentire
l’amore che ci viene donato, non siamo ancora in grado di rispondere a
quell’amore con il cambiamento dei nostri comportamenti. Ma la percezione della
dignità ritrovata costituisce il punto di partenza nuovo. Tutto ciò che di male
abbiamo commesso, se lo mettiamo davanti al Signore Gesù, resta scritto sulla
polvere. Soltanto però il male riconosciuto, quello che non viene taciuto o
giustificato, resta scritto sulla polvere! Quello che non è riconosciuto, che
si mantiene nascosto, che si annida nelle rivendicazioni irose o latenti, resta
in cuore e impedisce la scoperta della benevolenza di Dio. Tutti gli accusatori
della donna se ne devono andare perché, effettivamente, non sono così stupidi
da immaginare di essere senza peccato. Ma essi non hanno potuto fare esperienza
della benevolenza di Dio.
Gesù ridà senso
al dramma del peccato. Il peccato non è una semplice trasgressione della legge
né una questione personale di inclinazioni o scelte. La posta in gioco è assai
più alta, ma senza l’esperienza della benevolenza perdonante del Signore non si
esce dal tranello che i farisei avevano preparato a Gesù: se si pronuncia per
l’assoluzione, va contro la legge; se approva la condanna, va contro l’immagine
di Dio che va predicando, con la conseguenza che allora è un falso nuovo
profeta, non è degno di credito. Con il peccato non è in gioco semplicemente la
nostra vera o supposta rettitudine, bensì la nostra fiducia nella promessa di
Dio per noi. Se l’uomo viene condannato per il suo peccato, gli si impedisce di
credere alla promessa di Dio per lui; e lo stesso avviene se il peccato è
banalizzato. Il peccato, riconosciuto da dentro una relazione col proprio Dio,
diventa la porta della grazia.
La logica
interiore di questa esperienza è ben descritta da Paolo, nella lettera ai
Filippesi: “ritengo che tutto sia una
perdita a motivo della sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore.
... So soltanto questo: dimenticando ciò che mi sta alle spalle e proteso verso
ciò che mi sta di fronte, corro ...”. Non puoi non tendere a ciò da cui è
venuto per te il senso della tua dignità. Non puoi più stare riverso sul tuo
passato, ormai abbandonato alla polvere: non puoi che guardare al futuro di Dio
che viene a te nella condivisione del suo progetto di bene e di salvezza per
gli uomini.
Ma la conoscenza
di cui parla Paolo in termini così coinvolgenti è la conoscenza dell’amore
perdonante di Dio che in Gesù si rivela in tutta la sua intensità e
drammaticità. È l’esperienza di una vita, che oramai non può più essere vissuta
diversamente tanto è stata segnata in profondità.
L’inganno che
può ancora nascondersi nelle pieghe dell’anima resta ormai quello di
‘dimenticare’ il proprio peccato e perdere così la solidarietà con i nostri
fratelli peccatori. Il segno di tale dimenticanza è ravvisabile nel momento in
cui mi difendo dai miei fratelli, rivendico qualcosa a Dio contro i miei
fratelli. Ciò significa che la benevolenza di Dio è diventata per me un diritto
e quindi ha perso tutta la profondità dell’intimità con cui mi era stata
rivolta.
S. Cipriano
ricorda, nel suo commento al Padre Nostro, che all’invocazione ‘rimetti a noi i
nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori’, la prima cosa che
domandiamo non è la generosità per essere capaci di perdonare, ma la coscienza
di essere peccatori, bisognosi noi di misericordia. Sentendoci peccatori, non
abbiamo titolo di avanzare diritti e possiamo sperimentare in tutta la sua dolcezza
il perdono di Dio. Resteremo allora solidali con tutti i nostri fratelli, non
avendo alcun motivo di rivendicazione nei loro confronti e quindi non
separandoci da loro per nessun motivo. E così facendo restiamo nella carità di
Dio per gli uomini. E tutto prende le mosse da quella dignità ritrovata: “Donna, nessuno ti ha condannata? ... Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più”.
§*§*§*§*§*§*§*§*§*§
Terzo
ciclo
Anno
liturgico C (2009-2010)
Tempo
di Quaresima
Domenica
delle Palme
(28 marzo
2010)
_________________________________________________
Lc
19,28-40// Is 50,4-7;
Sal 21;
Fil 2,6-11; Lc
22,14-23,56
_________________________________________________
Con la liturgia
delle palme si dà inizio alle celebrazioni della Settimana Santa. Un sentimento
di esultanza, di euforia quasi, introduce agli avvenimenti pasquali: Gesù entra
trionfalmente in Gerusalemme acclamato da ali festanti di discepoli. Presto
l’euforia cederà il passo alla paura, al tradimento. E quando tutto sembrerà
ormai definitivamente cancellato nel silenzio della morte, risuonerà ancora un
grido di gioia la domenica di Pasqua, ma questa volta senza nessuna euforia,
come strappato a forza, trasfigurante nella sua assoluta imprevedibilità. Sarà
il grido, non che vince la morte, ma che l’attraversa, che l’assume, che la
libera dai suoi confini mondani aprendola allo splendore del mistero di Dio.
Tutti i vangeli
riportano il solenne ingresso di Gesù in Gerusalemme, nell’ottica del
compimento della profezia di Zaccaria, unico testo messianico dove il Messia è
umile: “Esulta grandemente, figlia di
Sion, giubila, figlia di Gerusalemme! Ecco, a te viene il tuo re. Egli è giusto
e vittorioso, umile, cavalca un asino, un puledro figlio d’asina” (Zc 9,9). L’accentuazione di Luca cade sulla ‘regalità’ di
Gesù, con le allusioni alla consacrazione di Salomone (cfr 1Re 1,33-40) e alla
proclamazione di Ieu re di Israele con lo stendere da
parte dei grandi i mantelli per terra (cfr 2Re 9,13), regalità che la liturgia
latina sottolinea con la solenne processione.
È assolutamente
significativo che Gesù accolga il riconoscimento del suo essere re soltanto a
partire da questo ingresso in Gerusalemme che introduce la sua passione. Nel
racconto di Luca Gesù aveva puntato diritto a Gerusalemme nel corso del suo
ministero. Quando sta per entrarvi, i discepoli lo acclamano festosi pensando
evidentemente altra cosa rispetto a quello che ha in mente lui, pur
sottolineando comunque la Benedizione che rappresenta per loro tutti da parte
di Dio. La liturgia, prima segue i pensieri dei discepoli con la solenne
processione e, subito dopo, quelli di Gesù - quei pensieri che i discepoli non
potevano ancora leggere - facendo intravedere i pensieri di Dio sul suo Figlio
venuto a rivelare l’amore del Padre per gli uomini. Gesù si proclamerà re
davanti a Pilato quando ormai nessuna ambiguità impedirà la comprensione di
quel titolo e verrà proclamato re dalla croce con il titolo che compare sugli
antichi crocifissi: ‘re della gloria’.
È curioso
osservare che l’esultanza dei discepoli richiama l’esultanza degli angeli a
Betlemme: la proclamazione della pace, dono di Dio all’umanità, là annunciata,
qui si delinea in tutta la sua drammaticità, senza che alcuno ancora se ne
renda conto, eccetto Gesù. Forse, la sua risposta ai farisei, sorpresi e
intimoriti per le possibili conseguenze di fronte all’occupante romano: “Io vi dico che, se questi taceranno,
grideranno le pietre”, allude al ‘giudizio’ della storia nella tragedia
della prossima distruzione di Gerusalemme. Gesù si rivolge alla città, piange
su di essa, la richiama a riconoscere la visita del suo Dio. Già altre volte
Gerusalemme era stata richiamata dai profeti a leggere gli avvenimenti tragici
nell’ottica della storia con il suo Dio.
La liturgia si
fa carico di mostrarci tale drammaticità, subito dopo la solenne processione,
con la colletta: “Dio onnipotente ed eterno, che hai dato come modello agli
uomini il Cristo tuo Figlio, nostro Salvatore, fatto uomo e umiliato fino alla
morte di croce …”. Non c’è più ombra dell’esultanza di prima. Viene letto il
terzo canto del Servo del Signore del profeta Isaia: “Ho presentato il mio dorso ai flagellatori ... non ho sottratto la
faccia agli insulti e agli sputi”. Si canta il salmo 21: “hanno scavato [forato] le mie mani e i miei piedi... Si dividono le
mie vesti”. S. Paolo canta la figura di Gesù nella sua passione d’amore per
gli uomini: “… svuotò se stesso assumendo
una condizione di servo ... umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla
morte e a una morte di croce”. E viene proclamato solennemente il racconto
della passione di Gesù.
Proprio su
questo Gesù la chiesa invita a fissare gli sguardi, in tutta la potenza della
sua rivelazione quanto all’amore di Dio per gli uomini. Quanto sono preziosi
gli uomini per lui! Quanto può essere rivoluzionata la vita se vissuta dentro e
a partire dal suo amore! Quando la colletta ci propone l’immagine di Gesù
umiliato non è per suggerirci un modello di umanità sofferente. Gesù resta
modello perché, per realizzare la nostra vocazione all’umanità, non possiamo
non rifarci a lui che di questa umanità ha svelato tutta la bellezza nel suo
stare fedele in comunione con Dio, dalla parte degli uomini ed in comunione con
gli uomini, dalla parte di Dio. E la sua bellezza traspare proprio nel momento
in cui, sfigurato dal dolore e calpestato, non rinnega l’alleanza di Dio ed
apre, per lui e per tutti, la promessa di una vita inattaccabile dalla morte.
Ed è la sua bellezza a generare speranza, quella di cui il mondo oggi, come
sempre, ha tremendamente ed urgentemente bisogno.
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Terzo
ciclo
Anno
liturgico C (2009-2010)
Tempo
di Pasqua
Domenica
di Pasqua
Risurrezione
del Signore
(4 aprile
2010)
Aveva introdotto
le celebrazioni del triduo sacro la messa del crisma, che sottolinea l’unità
della chiesa attorno al suo vescovo che consacra il sacro crisma con cui i candidati
al battesimo e alla cresima verranno unti, per essere testimoni nel mondo dello
splendore del nome di Cristo.
La cena del
Signore del giovedì santo, incastonando l’istituzione dell’eucaristia e del
sacerdozio con il sacramento del servizio attraverso il rito della lavanda dei
piedi, ha celebrato il mistero della comunione con Dio e tra gli uomini, scopo
supremo dell’agire del cuore, profumo della conoscenza del Cristo. La
proclamazione della passione del Signore e l’adorazione della croce il venerdì
santo hanno rivelato l’intimità e la tenacia dell’amore di Gesù per gli uomini,
colte nel mistero della sua obbedienza fino alla morte di croce. Con la
conseguenza: se il Figlio di Dio non ha preferito nulla a noi, come possiamo
noi preferire qualcosa a Lui?
Il sabato santo
trascorre nel silenzio liturgico in attesa della solenne veglia pasquale che
annuncia la restituzione ai discepoli del loro Signore, il Vivente, con i segni
indelebili nel corpo della sua passione salvatrice. Il senso specifico di tutte
le letture della grande veglia pasquale mi sembra quello di collocare e leggere
la nostra storia personale dentro la grande storia d’amore di Dio per i suoi
figli di cui sentiamo narrare le gesta, storia che in Gesù, annunciato dai
profeti, si fa esperibile per noi. Tutta la veglia pasquale è imperniata sulla
‘luce’, la luce del Signore risorto che arriva ad accendere i nostri cuori.
Abbiamo così bisogno di una luce calda, amica, tenera, per vedere la vita e le
sue angosce! La liturgia tende proprio a infondere nei cuori la sovrabbondanza
della luce amica, calda, del Signore Gesù che è il Dono di Dio per la nostra
umanità.
Se viva è stata
la compassione per l’Uomo dei dolori, prorompente sarà la gioia per la notizia
della risurrezione del Signore. È una notizia certa, ma non evidente. È una
notizia vera, ma non apodittica. Quella notizia ha bisogno di tempo per
apparire in tutta la sua potenza, per convincere i nostri cuori e scoprir loro
la sorgente di gioia inesauribile che costituisce. Ha bisogno di spazi per
espandersi, ha bisogno di condivisione per rafforzarsi, ha bisogno di
testimonianze per risplendere. Sono i tempi della chiesa, gli spazi
dell’umanità, la condivisione e le testimonianze dei credenti, perché i nostri
cuori finalmente si convincano a vedere
e a riconoscere il Signore Gesù in
tutta la sua bellezza, morto e risorto per noi.
Così esulta la
chiesa nell’inno pasquale: “Irradia sulla
tua Chiesa la gioia pasquale, o Signore, unisci alla tua vittoria i rinati nel
battesimo”. La gioia, quella vera, stabile, agognata, non può che essere
pasquale; non solo nel senso che ci deriva dall’evento della Pasqua del
Signore, che rende nota al cuore dell’uomo la motivazione inconfutabile della
possibilità ritrovata di essere nella gioia, ma anche nel senso che la gioia è
strettamente correlata al dramma, alla fatica, alla fedeltà di un amore che
svela il mistero stesso della vita e che si esprime nel suo rivelare la potenza
d’intimità con il Padre, autore della vita. Gioia che per noi si risolve nel
dolce perdono che Gesù ci riversa: “Tu, o Cristo, sei il nostro dolce perdono.
Fa’ che di Te in ogni istante io mi sappia rivestire e non abbia potere su di
me la miseria con cui mi vedo e mi sento. Con le tue ferite risanami, che io
respiri e viva del tuo sguardo verso il Padre. Nelle tue piaghe nascondimi, che
il sentimento della mia malinconia non si erga a obiezione della tua grandezza.
Lasciami entrare nel tuo cuore, che io mi avvolga della sua benevolenza e mi
faccia rinascere, finiti i terrori della notte, al mattino della tua presenza”.
Accenno solo a
un particolare del brano evangelico che viene proclamato nella messa del giorno
di Pasqua. Giovanni parla della pietra tolta via dal sepolcro per sottolineare,
in questo Giorno della Risurrezione, che viene tolto l’ultimo impedimento alla
vista, alla visione, come poi il brano dirà a proposito del discepolo entrato
nel sepolcro. L’episodio dei due discepoli che corrono al sepolcro lo conferma
in una tensione crescente per giungere, alla fine, alle straordinarie parole: “Allora entrò anche l’altro discepolo, che
era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette”.
È come una richiesta che viene sussurrata al cuore dei possibili lettori del
vangelo, la richiesta di avanzare nella conoscenza del mistero, di salire fino
all’intelligenza della risurrezione che viene svelata poco a poco: “Vide e credette”.
La tensione del racconto punta qui. Un invito per noi alla gioia della sua conoscenza
perché profumi la nostra vita e ne manifesti lo splendore. Possiamo tutti
essere custoditi e accompagnati dalla tenacia dell’amore del Signore per noi,
che, come ha promesso: “ecco, io sono con
voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”.
Il Signore è
risorto! È davvero risorto!
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Terzo
ciclo
Anno
liturgico C (2009-2010)
Tempo
di Pasqua
2a
Domenica
(11 aprile
2010)
_________________________________________________
At
5,12-16; Sal
117; Ap
1,9-19; Gv
20,19-31
_________________________________________________
Se il proverbio
popolare, di Tommaso, ha ritenuto la sua incredulità e testardaggine, la
liturgia ne ha colto l’audacia e l’ardore: “Attingendo ricchezza
dall’inviolabile tesoro del tuo divino costato trafitto dalla lancia, Didimo ha
riempito il mondo di sapienza e conoscenza”. La valenza simbolica del suo
mettere la mano nel costato di Gesù è la medesima del reclinarsi di Giovanni
sul petto di Gesù nell’ultima cena: “O straordinario prodigio! Giovanni ha
riposato sul petto del Verbo, Tommaso ha ottenuto di toccare il suo costato: e
l’uno ne ha tremendamente tratto l’abisso della teologia, mentre l’altro è
stato reso degno di iniziarci all’economia, perché chiaramente ci presenta le
prove della sua risurrezione, esclamando: O mio Signore e mio Dio, gloria a
te”.
Se, da parte di
Gesù, il suo rivolgersi ai discepoli e poi a Tommaso con il mostrare le sue
cicatrici significa: ‘sono proprio io, colui che per voi, per te, ha patito’,
il riconoscimento da parte dei discepoli significa: ‘Dio ha proprio amato il
mondo, le nostre vite hanno senso solo come risposta a quell’amore che in Gesù
ha svelato il vero volto di Dio pieno di accondiscendenza per gli uomini, solo
l’amore che da lui deriva e a lui si volge sazia il cuore fino alla letizia di
vedere che tutti i cuori si possano di lui saziare’.
Tommaso non è un
pavido, un insicuro. Le altre due volte che il vangelo di Giovanni parla di
Tommaso ce lo presenta come un uomo generoso, pronto ad andare a morire con
Gesù. Il suo dubbio procede da un cuore che ha preso molto sul serio la vicenda
di Gesù. Quando Gesù, ricomparendo, gli dice di mettere la mano nel costato e
nelle cicatrici, non ha bisogno di ricredersi o di scusarsi: è tutto teso a
quel Signore che ha sempre voluto seguire e che ora riconosce per davvero
"mio Signore e mio Dio", la più solenne professione di fede del
vangelo di Giovanni e, nello stesso tempo, la più intima delle professioni. In
quel mio, c'è tutto l'anelito del suo
cuore, la sua appassionata esperienza di lui; in quel Signore e Dio, c'è tutta la rivelazione di Gesù al suo cuore,
l’intelligenza di tutte le Scritture.
La sua
esclamazione ricalca quella di Maria Maddalena: “Hanno portato via il mio Signore” (Gv
20,13) e quella di Gesù: “Salgo al Padre
mio e Padre vostro, al Dio mio e Dio vostro” (20,17). Non solo, ma in essa
si avverte la risposta alla domanda che nell’ultima cena l’apostolo Giuda aveva
rivolto a Gesù: “Signore, come è accaduto
che devi manifestarti a noi, e non al mondo?” (Gv
14,22). Gesù si rende presente a coloro che lo amano, non si manifesta al
mondo: questo è il mistero da accogliere. In effetti, Tommaso riceve la
rivelazione del Signore risorto dentro
la comunità degli apostoli, divenuta il luogo della sua manifestazione nel
mondo a partire dall’amore che gli apostoli esprimono al loro Signore e tra di
loro, come segno della vita nuova ricevuta con il dono dello Spirito. È
caratteristico che la conoscenza del Signore, ormai, non si riferisca più alla
modalità con cui i discepoli hanno conosciuto Gesù nella sua storia terrena, ma
si riferisca all’esperienza della sua presenza tra loro come Messia crocifisso
(con le cicatrici sul corpo), nella pace che rassicura e accompagna nelle
difficoltà dell’impegno nel mondo. La sua presenza è esperita a partire dalla
comunità dei credenti, che diventano testimoni e nello stesso tempo ‘donatori’
al mondo della possibilità della visione del Signore.
Gesù aveva
promesso nell’ultima cena: “Ancora un
poco e il mondo non mi vedrà più; voi invece mi vedrete, perché io vivo e voi
vivrete. In quel giorno voi saprete che io sono nel Padre mio e voi in me e io
in voi” (Gv 14,19-20). E quando rimprovera
Tommaso gli dice: “Perché mi hai veduto,
tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!”. Eppure,
tutti i credenti sono chiamati a vedere
il loro Signore. La visione, però, deriva ormai dallo sperimentare la vita che
egli comunica, vita che diventa nostra praticando il suo comandamento e
accogliendo il suo amore.
Qui si innesta
la missione di cui ci fa portatori il Signore: “Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi”. La
pace che dà il Signore è quella per la quale gli apostoli sono inviati nel
mondo, per la quale viene loro dato lo Spirito Santo in modo che l’innocenza
ottenuta da Dio e con Dio confermi la fraternità degli uomini, segno dello
splendore della presenza di Dio ormai riconosciuto. Spiega Gregorio Magno: “Come il Padre ha mandato me, anch’io mando
voi, cioè: come il Padre Dio ha inviato me Dio, così io uomo mando voi
uomini. Il Padre inviò il Figlio, avendo stabilito che questi si incarnasse per
la redenzione del genere umano: volle che entrasse nel mondo per subire la
passione, e tuttavia amò il Figlio, che pure era stato inviato per affrontare
la morte. E anche gli Apostoli non furono destinati dal Signore ai piaceri del
mondo, ma vi furono inviati per subire dolori come era avvenuto per Lui. Così
il Figlio è amato dal Padre, e tuttavia è mandato alla passione; come i
discepoli sono amati dal Signore, ma inviati nel mondo per affrontare le
sofferenze. Per questo Egli dice: Come il
Padre ha mandato me, anch’io mando voi, cioè, quando vi espongo alle
ingiustizie dei persecutori vi amo con lo stesso amore che ha verso di me il
Padre, che pure mi ha inviato a subire tanti dolori”.
Se la liturgia
pasquale proclama insistentemente: “eterna è la sua misericordia”, ciò
significa non soltanto che Dio sarà eternamente fedele alla sua misericordia,
che la sua misericordia durerà per sempre, ma soprattutto che, essendo la sua
misericordia dall’eternità, si trova alle origini del nostro mondo, ne
racchiude il senso e il mistero fino alla fine, finché il mondo sussisterà.
Gesù rivela la verità di questa realtà e Tommaso si situa in quella verità con
la sua sussurrata e potentissima confessione di fede: mio Signore e mio Dio!
§*§*§*§*§*§*§*§*§*§
Terzo
ciclo
Anno
liturgico C (2009-2010)
Tempo
di Pasqua
3a
Domenica
(18 aprile
2010)
_________________________________________________
At
5,27-42; sal
29; Ap
5,11-14; Gv
21,1-19
_________________________________________________
Il brano di
vangelo di oggi chiude il vangelo di Giovanni. Sembra quasi un’appendice, che
racchiude però un alto valore simbolico, soprattutto se incentriamo
l’attenzione sull’apostolo Pietro. Nel vangelo di Giovanni, il primo incontro
di Gesù con Pietro viene narrato in 1,42 quando “fissando lo sguardo su di lui, Gesù disse: "Tu sei Simone, il
figlio di Giovanni; sarai chiamato Cefa" - che
significa Pietro”. Nel corso della narrazione evangelica viene sempre
denominato Simon Pietro o Pietro. Solo alla fine, di nuovo, Gesù lo chiama: “Simone, figlio di Giovanni ...” per tre
volte. Perché? Sembra che Pietro, con tutto l’amore che porta al suo Maestro,
abbia ancora bisogno di qualcosa di essenziale, di decisivo, per realizzare
quello che il nome, Pietro, impostogli da Gesù, significa per lui e per la
comunità dei suoi fratelli.
Gesù lo chiama
con il vecchio nome rammentandogli l’amore che gli ha sempre protestato senza
però essere stato capace di viverlo fino in fondo. Nell’ultima cena aveva
protestato: “Signore, perché non posso
seguirti ora? Darò la mia vita per te!” (13,37) e poi, nella stessa notte,
l’aveva rinnegato tre volte. Ma Giovanni non dice nulla del suo pentimento,
come gli altri evangelisti hanno annotato: “E,
uscito fuori, pianse amaramente” (Lc 22,62).
Sembra che Pietro conservi ancora qualcosa dell’antico discepolo del Battista,
almeno nella sua visione messianica su Gesù, il Messia che avrebbe stabilito il
regno di Dio, come d’altronde fa fede la sua prontezza nel difendere Gesù con
la spada nell’orto degli ulivi e nella volontà di seguirlo fin dentro il
cortile del sommo sacerdote. Pietro ha sempre preteso giocare un ruolo di primo
piano per la sua generosità nella sequela del Maestro – cosa che Gesù e gli altri
compagni gli riconoscono. Quando vuole uscire a pescare, e gli altri compagni
lo seguono, lavora invano. Invece, quando si presenta Gesù sulla spiaggia e gli
dice di gettare le reti alla destra della barca, la pesca è oltremodo
sovrabbondante. Ma lui non capirà se non dopo il colloquio con Gesù: “Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di
costoro?”. Era chiaro a tutti che Pietro amava il Signore più di tutti per
la sua impetuosità, ma ora Pietro non lo può più riconoscere perché era stato
l’unico a rinnegarlo. E quando, la terza volta, Gesù gli dice: “Simone, figlio di Giovanni, mi vuoi bene?”
Pietro non può che restare addolorato perché evidentemente si rendeva conto
della sua posizione e, finalmente conquistato alla nuova modalità di sequela
che Gesù esigeva, risponde affidandosi: “Signore,
tu conosci tutto; tu sai che ti voglio bene”.
Solo ora la sua
sequela diventa quella voluta da Gesù. Qui avviene la trasformazione definitiva
di Pietro. In effetti, per l’apostolo, non si tratta semplicemente di dare la
vita per Gesù – cosa che può avvenire anche dentro una visione delle cose
mondana o ideologica! - ma di darla condividendo i suoi segreti, il suo
sentire, la sua modalità di azione nel mondo perché tutti abbiano la vita.
Potremmo anche interpretare: “Signore, non sono degno del tuo amore, e del mio
non posso fare gran conto, ma tu conosci il mio cuore, tu sai che ti vuole
bene”. Quando un uomo professa il suo amore come balbettando, appena
sussurrando, vuol dire che il suo amore va oltre ogni forma di orgoglio o di
pretesa e sarà immune dal tarlo del predominio, sotto qualsiasi forma si
cerchi: in quell’amore c’è tutto il suo cuore perché si fida totalmente
dell’accoglienza dell’altro. E non ha da esibire altro di sé. E quando l’amore
è di tal fatta, allora può assumere il compito pastorale in nome del Signore: “Pasci le mie pecore”. A tutti verrà
inviato, di tutti si prenderà cura, e di gran cuore, perché tutti e ciascuno
appartengono a quel Signore, il cui amore l’ha conquistato e l’amore per il
quale costituisce il vero obiettivo del suo interessamento per tutti perché
tutti lo riconoscano e trovino riposo. Gesù può predirgli tranquillamente il
suo martirio: l’intimità goduta, finalmente, non sarà più insidiata, così come
è avvenuto per Gesù.
Allora avverrà,
nelle afflizioni o nelle persecuzioni, come riporta la prima lettura, di essere
“lieti di essere stati giudicati degni di
subire oltraggi per il nome di Gesù”, con l’allusione al fatto che la
letizia nella persecuzione rivela la dignità ottenuta dall’anima, dignità che
si esprime nel suo splendore quando gli altri la calpestano e non viene meno. E
non è un fatto personale, ma ecclesiale. Vale a dire: non è in gioco la virtù
di una persona, ma la fede, una fede condivisa dentro uno stesso progetto di vita
e di missione evangelica per il mondo. L’obbedienza è così dovuta a Dio prima
che agli uomini e comporta appunto la condivisione del segreto di Dio per gli
uomini nell’amore che ha mosso Gesù e che perdura nei suoi discepoli. Nel brano
evangelico il pasto comune dopo la pesca miracolosa comporta due ‘offertori’ di
sapore eucaristico: c’è il pesce preparato prima da Gesù e il pesce portato dai
discepoli. Vi si può ravvisare il dono di Gesù ai suoi e il dono degli uni agli
altri nell’amore che risponde a quello di Gesù.
§*§*§*§*§*§*§*§*§*§
Terzo
ciclo
Anno
liturgico C (2009-2010)
Tempo
di Pasqua
4a
Domenica
(25 aprile
2010)
_________________________________________________
At
13,43-52; Sal
99; Ap
7,9-17; Gv
10,27-30
_________________________________________________
Le ultime
domeniche del tempo pasquale sono tutte incentrate sulla comunità dei discepoli
unita attorno al suo Signore, testimone del suo amore, pervasa dalla gioia
dello Spirito Santo, in missione apostolica nel mondo fino alla fine dei tempi.
La liturgia di oggi ruota attorno all’immagine del gregge e del suo pastore,
tema del cap. 10 di Giovanni, insistendo sul fatto che la comunità è unita
saldamente al suo pastore, che non può essere dispersa, che possiede ormai la
vita dal suo Signore, per cui vive.
Gli ascoltatori
sono divisi nei riguardi di Gesù: è vero, le sue parole suonano piuttosto
strane, ma sono proferite da uno che ha guarito un cieco dalla nascita (cap. 9)
e che è capace di ridare la vita a un morto (cap. 11, a Lazzaro). Cosa pensare
di lui? Quale mistero divino sta svelando?
Gli uomini sono
sempre in ricerca e si accorgono della ‘stranezza’ di Gesù: “Non potrebbe
parlare più chiaramente?”, pensa il gruppo dei Giudei che lo attornia. Ma
appena Gesù risponde, l’incertezza si trasforma in avversione e rifiuto. È
vicino il dramma finale. Il punto centrale può essere espresso in questi
termini: voi non mi potete capire perché non volete essere dalla mia parte; voi
vi appellate a Dio per respingermi, ma è proprio lui che mi ha inviato a voi e
se non accogliete me non potete nemmeno capire quanto è grande il suo amore per
voi. Invece, chi mi ascolta, è perché mi appartiene, conosce in verità la
grandezza dell’amore di Dio e nessuno potrà privarlo di questa certezza,
nessuno potrà dividerlo da me. Come nessuno ha potuto rapire Gesù dalle mani
del Padre, sebbene tutto congiurasse contro questa fedeltà del Figlio al Padre
suo, soprattutto nel dramma della passione e della morte in croce, così nessuno
potrà rapire i discepoli di Gesù dalle sue mani, per quanto si scateni la
violenza degli avversari.
In effetti,
l’unico impedimento risulta essere quello che l’uomo si giudichi non degno
della vita eterna, come dicono Paolo e Barnaba ai
convenuti in sinagoga ad Antiochia: “… poiché la respingete e non vi giudicate
degni della vita eterna ...” (At 13). Il dramma dell’uomo consiste proprio
in un giudizio cattivo su di sé, che nasconde un cattivo giudizio su Dio: non
ci si ritiene degni dei misteri di Dio! Quando l’uomo non accoglie umilmente questa
‘dignità’ si fa violenza e la eserciterà su tutti: sarà in preda del tormento
della morte. E il mondo è prostrato dagli effetti di questo tormento. I
discepoli invece sono “pieni di gioia e
di Spirito Santo” perché partecipano all’opera dello Spirito Santo che è
l’edificazione di un’umanità con ‘un cuor solo e un’anima sola’. La
partecipazione al mistero stesso della vita di Dio e in Dio non dipende
minimamente da quello che fa il mondo o da quello che ci fa il mondo.
Quando cantiamo
con il salmo responsoriale: “noi siamo
suo popolo, gregge che egli guida”, non vogliamo dire che siamo
semplicemente quelli che lui guida individualmente, ma che siamo coloro che
hanno in lui una stessa vita e fanno risplendere la fraternità nel mondo come
espressione della rivelazione del Padre ai loro cuori. Riconoscere con il
salmo: “egli ci ha fatti” significa
proclamare tutta la dignità dell’uomo di cui il gregge del Signore, che noi
siamo, ha la responsabilità, in questo mondo, di far risplendere nella sua
bellezza. L’esperienza dell’amore di Dio per l’uomo, rivelatasi in Cristo,
condivisa e partecipata dai suoi discepoli, ha rivoluzionato la percezione
interiore delle prime generazioni cristiane a tal punto da costituire la radice
di una nuova umanità di cui essere fermento nel mondo intero. Qui si colloca la
sfida della speranza per il mondo da parte della comunità dei discepoli del
Cristo risorto.
In questa luce
le parole di Gesù risuonano in tutta la loro densità. Gesù è amato dal Padre
perché ‘dà la sua vita’ per le pecore (Gv 10,17) e
questo comporta il suo ‘dare la vita eterna’ (10,28), vale a dire la vita come
espressione di un amore che non cede davanti a nulla e che diventa la radice di
vita di coloro che da lui l’accolgono. Se aggiunge che nessuno ‘strapperà’ le
pecore a lui affidate vuol dire che per quanto si scateni il male contro di
loro, all’interno e all’esterno, non verrà meno la percezione di quello che
Gesù dirà nell’ultima cena: “Se uno mi
ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e
prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14,23).
Anche per noi, uniti a Gesù, varrà quello che lui dice di sé a conferma delle
sue parole: “Io e il Padre siamo una cosa
sola”, perché: “le mie pecore
ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono”. Da intendere
secondo questi tre passaggi:
1) ‘le mie
pecore ascoltano la mia voce’: non semplicemente ascoltano quello che dice, ma
riconoscono che quello che dice viene da Dio. Sentono che la sua parola e la
sua vita confermano tutte le parole della Scrittura e ne svelano il mistero;
2) ‘io le
conosco’: vedendo l’intimità tra lui e il Padre, le pecore si sentono conosciute, cioè amate e cercate da lui.
Il movimento di amore di Dio per l’uomo riguarda tutti e perciò dire ‘io le
conosco’ comporta la sfumatura di senso: io conosco tutti, ma di quella
conoscenza che fa godere l’intimità con lui sono capaci solo le pecore che si
lasciano raggiungere, portare in spalla, come la parabola della pecorella
perduta dirà. Ne consegue che chi non accetta questo, si trova come escluso
dalla sua conoscenza e proprio perché escluso non può sentirsi amato;
3) ‘esse mi
seguono’: solo lui può mostrare il segreto di Dio in tutta la sua estensione e
bellezza. In gioco è sempre la disponibilità alla fede e la fede si gioca
nell’accogliere il mistero di accondiscendenza di Dio, per l’uomo, in Gesù,
rivelatore del Volto del Padre.
§*§*§*§*§*§*§*§*§*§
Terzo
ciclo
Anno
liturgico C (2009-2010)
Tempo
di Pasqua
5a
Domenica
(2 maggio
2010)
_________________________________________________
At
14,21-27; Sal
144; Ap
21,1-5; Gv
13,31-35
_________________________________________________
Il salmo
responsoriale proclama: “Benedirò il tuo
nome per sempre, Signore”, a scandire il salmo 144 che commenta ed esprime
la vicenda pasquale di Gesù in favore degli uomini. La benedizione è quella del
riconoscimento, da parte della prima comunità cristiana formata da ebrei,
dell’insondabile mistero di Dio nel suo amore agli uomini che ha voluto aprire
anche ai pagani la porta della fede (cfr. At 14). Si realizza così quella
‘gloria’ di cui aveva parlato Gesù a proposito del suo sacrificio pasquale: “Io, quando sarò elevato da terra, attirerò
tutti a me” (Gv 12,32) e che il vangelo di oggi
richiama con l’espressione: “Ora il
Figlio dell’uomo è stato glorificato, e anche Dio è stato glorificato in lui.
Se Dio è stato glorificato in lui, anche Dio lo glorificherà da parte sua e lo
glorificherà subito”. Nella nuova Gerusalemme, secondo la visione
dell’Apocalisse, non ci sarà più alcuna distinzione tra gli uomini ma tutti
saranno il suo popolo: “Udii allora una
voce potente che usciva dal trono: ‘Ecco la dimora di Dio con gli uomini! Egli
dimorerà tra di loro ed essi saranno suo popolo ed egli sarà il Dio-con-loro’”. L’unica differenza tra quaggiù e lassù
è costituita dal fatto che quaggiù le lacrime abbondano mentre lassù ogni
lacrima verrà asciugata.
Un particolare è
assolutamente rivelatore di quello che Gesù intende parlando della sua pasqua.
Lo possiamo notare con una domanda: perché Gesù abbina il comandamento
dell’amore alla menzione della sua gloria? Il capitolo 13 di Giovanni è il
capitolo della lavanda dei piedi nell’ultima cena. Gesù ha lavato i piedi anche
a Giuda e tutti hanno sentito la spiegazione di Gesù: “Vi ho dato infatti l’esempio, perché come ho fatto io, facciate anche
voi” (Gv 13,15). Gesù ha chiara la percezione
dell’imminente tradimento e sa quel che fa, a differenza dei discepoli che non
comprendono, ma che comprenderanno in seguito. Solo quando Giuda se ne è andato
e Gesù vede tutto quello che gli accadrà può aggiungere: “Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io
vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri”. Come a dire:
l’amore di cui vi faccio comando comprende la disponibilità a lavarvi i piedi
gli uni gli altri, senza distinzioni di sorta tra buoni o cattivi, perché in
gioco è la rivelazione del segreto di Dio che mi è stato affidato e di cui vi
rendo partecipi: la ‘gloria’ del suo amore deve risplendere in tutta la sua
bellezza. Tra l’altro, è singolare che Gesù non faccia mai comando ai discepoli
di amare lui, mentre il comando di amare Dio e amare il prossimo è diretto.
Quando allude all’amore per lui, lo suggerisce attraverso le espressioni: ‘se
mi amate, osserverete i miei comandamenti’; ‘rimanete nel mio amore’. Verso di
lui invece il comando diretto è: ‘credete in me’. Perché? Credo che qui si
comprenda il nocciolo dell’amore di cui Gesù ci fa comando. L’amore vicendevole
non rivela la generosità dei cuori, ma l’esperienza dell’incontro con Gesù;
l’amore vicendevole parla di Dio che ha toccato il cuore dell’uomo e non
dell’uomo che è diventato buono e perciò è in rapporto diretto all’esperienza
della fede, quella fede di cui Gesù ci fa comando nei suoi confronti. Le
tribolazioni che la lettura degli Atti ci ricorda essere necessarie nel nostro
cammino riguardano la fede e non l’amore o, meglio, l’amore nel suo radicamento
nella fede: “è necessario attraversare
molte tribolazioni per entrare nel regno di Dio”. Così l’azione dell’uomo deve
parlare di Dio e non di se stesso; solo allora la sua ‘gloria’ risplende e il
cuore dell’uomo sarà saziato da quella gloria che allora esprimerà tutta
l’intimità di amore che lega l’uomo al suo Dio.
Possiamo allora
anche comprendere in cosa consista la novità del comandamento dell’amore
annunciata da Gesù in funzione di tre cose. Anzitutto in funzione della radice che lo origina. L’amore di Gesù
deriva dalla intimità della vita, del volere e dei sentimenti con il Padre.
Quell’amore di cui ci fa comando deriva dalla partecipazione a quella stessa
intimità. Il suo sigillo sta nel fatto di lavare i piedi ai discepoli per
renderli partecipi del suo segreto con il Padre, segreto che a nessuno è dato
di cogliere se non a coloro che credono nel Figlio. Circondarsi la vita con
l’asciugatoio è l’immagine dell’umiltà come vestito della divinità, mistero di
quell’accondiscendenza di Dio che raggiunge l’uomo nel suo cuore più segreto,
là dove l’uomo può imparare la lingua stessa di Dio. In secondo luogo è in
funzione della potenza che lo
sottende, la potenza cioè dello Spirito Santo che da Gesù ci verrà effuso sulla
croce. Quell’amore non è che l’accoglimento dell’azione dello Spirito Santo nei
nostri cuori, esito di tutto l’impegno ad agire bene che ad altro non conduce
se non a poter essere degni dei misteri di Dio. Perché l’opera specifica dello
Spirito Santo è la costruzione della fraternità, come stupendamente dice la
terza preghiera del canone eucaristico: “e a noi, che ci nutriamo del corpo e
sangue del tuo Figlio, dona la pienezza dello Spirito Santo perché diventiamo
in Cristo un solo corpo e un solo spirito”. Ed infine è in funzione della dinamica che lo anima e che lo muove
verso un unico punto di convergenza, contemporaneamente termine e scopo della
storia stessa: che il regno di Dio si sveli in tutta la sua bellezza e in tutto
il suo splendore, per tutti i cuori, per tutto il mondo, per tutti i tempi,
regno che altro non è se non la condivisione dell’amore di Dio, in Cristo, fino
a che sia partecipato a tutti.
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Terzo
ciclo
Anno
liturgico C (2009-2010)
Tempo
di Pasqua
6a
Domenica
(9 maggio
2010)
_________________________________________________
At
15,1-2.22-29; Sal
66; Ap
21,10-23; Gv
14,23-29
_________________________________________________
La liturgia di
oggi predispone due piste per accedere alla rivelazione che comporta la parola
di Dio.
Se partiamo
dalla colletta, comprendiamo che la liberazione pasquale, che celebriamo
nell’eucaristia per testimoniarla nella vita, è caratterizzata dalla letizia.
Ma la letizia è per la comunione. Una letizia che non si traduca in ansia di
comunione non risponde alla liberazione pasquale. La prima lettura mostra
quella letizia in ansia di comunione alle prese con gli imprevisti della
storia. I credenti provenienti dalla tradizione mosaica, pur accogliendo la
fede in Gesù, temono di mancare alla santità di Dio non obbligando anche i
fratelli provenienti dal paganesimo alle stesse leggi. La decisione apostolica
ribadisce la fede di tutti: oramai c’è un unico popolo di salvati, circoncisi e
incirconcisi e l’invito ai pagani sembra soltanto quello di non essere fonte di
disagio per i fratelli circoncisi trovandosi alla stessa mensa. La liberazione
è per la gioia e la gioia è per la comunione: questa è la dinamica pasquale.
Se partiamo dal
canto al vangelo (‘Se uno mi ama,
osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui’), ci appare
un altro scenario. Le parole di Gesù sono incentrate attorno alla questione
della ‘rivelazione’ del Messia. Rispondono alla domanda di Giuda, non
l’Iscariota: “Come è accaduto che devi
manifestarti a noi e non al mondo?” (Gv 14,22).
La domanda di Giuda, a sua volta, segue la promessa di Gesù ai suoi discepoli:
tra poco lui subirà la passione, morirà e verrà sepolto, ma apparirà, risorto,
ai suoi discepoli. Saranno loro a testimoniare al mondo la sua presenza, la
presenza di colui che ha vinto la morte, perché loro lo conosceranno: “Chi accoglie i miei comandamenti e li
osserva, questi è colui che mi ama. Chi ama me sarà amato dal Padre mio e
anch’io lo amerò e mi manifesterò a lui” (Gv
14,21). Perché la manifestazione del Risorto non sarà ‘evidente’ a tutti?
Perché l’opera di Dio non sconvolgerà nessuno nel senso di strabiliarlo e farlo
restare attonito e come obbligato a credere? Perché la sua parola è una parola
di amore e chi non accoglie quell’amore non può capire la sua parola. La sua
parola cela la potenza di amore del Padre per gli uomini e soltanto quando gli
uomini si decideranno ad ascoltarla (come un bambino ascolta sua mamma facendo
quel che lei gli dice) la parola rilascerà la potenza che essa racchiude,
potenza che costituisce la radice della comunione con tutti perché a tutti
quella parola è diretta.
La
sottolineatura nelle parole di Gesù, però, è data dal fatto che accogliendo la
sua parola si partecipa ad una intimità di vita; meglio, si condivide
l’intimità di vita che corre tra il Padre e il Figlio nello Spirito, che
proprio da Gesù ci è stato effuso e che proprio di Gesù ci fa vedere la verità
di testimone dell’amore del Padre per gli uomini. Così la crescita spirituale
sottende sempre un radicamento nell’intimità di un rapporto che permette ai
cuori di schiudersi, di percepirsi nell’amore, di vedere le cose in verità. In
effetti, quando Gesù dice ‘mi manifesterò’, in realtà vuol dire, non solo che
lo riconosceremo, ma che tutto parlerà di lui, tutto splenderà per lui e quindi
che la vita svelerà il suo segreto.
La condizione di
possibilità perché ciò avvenga è svelata alla fine del brano, che nella
versione CEI suona: “Non parlerò più a
lungo con voi, perché viene il principe del mondo; contro di me non può nulla,
ma bisogna che il mondo sappia che io amo il Padre, e come il Padre mi ha
comandato, così io agisco” (Gv 14,30-31).
L’espressione ‘contro di me non può nulla’, tradotta più letteralmente sarebbe:
‘in me non ha nulla’. Siccome in Gesù
c’è solo l’amore del Padre, il demonio non ha alcun diritto su di lui nel senso
che può rovesciargli addosso tutto il male che vuole, ma senza poterlo deviare
dal suo scopo, senza potergli sottrarre quell’amore; al contrario, suo
malgrado, farà risplendere davanti a tutti quell’amore, affascinando i cuori.
Questa espressione è costruita allo stesso modo dell’altra che la richiama: ‘chi ha
i miei comandamenti’ (v. 21), che noi traduciamo: ‘chi accoglie i miei
comandamenti’. Quando un cuore è conquistato all’amore di Gesù, non facendo
valere altro che i suoi ‘comandamenti’, dato che in essi ha scoperto le radici
del vivere beato, ne conoscerà la potenza di vita e il demonio nulla potrà
contro quell’amore.
Quando al
battesimo e alla trasfigurazione la voce dal cielo aveva proclamato su Gesù: “Questi è il Figlio mio, l’amato”, il
significato non è semplicemente da riferire a Gesù ma anche a tutti noi in lui,
vale a dire: tutti noi, credendo a quel Figlio, l’Inviato del Padre e
accogliendo la sua parola per metterla in pratica, entreremo nella benedizione
di quell’amore di predilezione nel quale il Padre vuole inglobare tutti. La
rivelazione di Dio è sempre per noi perché non c’è rivelazione che non parli
dell’amore di Dio per l’uomo. E se nel Padre nostro chiediamo: ‘sia fatta la
tua volontà come in cielo così in terra’, non
chiediamo prima di tutto di poter stare fedeli alla sua volontà, ma più
direttamente di poter sperimentare la sua volontà di amore per noi nella nostra
vita, tanto da godere della comunione con lui al di sopra di tutto. Questo ci
otterrà l’azione dello Spirito Santo, che ci farà memoria viva del Signore Gesù
in questo mondo.
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Terzo
ciclo
Anno
liturgico C (2009-2010)
Tempo
di Pasqua
Ascensione
(16 maggio
2010)
_________________________________________________
At
1,1-11; Sal
46; Eb
9,24-28; 10,19-23; Lc
24,46-53
_________________________________________________
Con l’ascensione
di Gesù possiamo contemplare in tutto il suo arco la portata del mistero
pasquale, come riferisce Luca all’inizio del racconto degli Atti: “Nel primo racconto, o Teòfilo,
ho trattato di tutto quello che Gesù fece e insegnò dagli inizi fino al giorno
in cui fu assunto in cielo, dopo aver dato disposizioni agli apostoli che si
era scelti per mezzo dello Spirito Santo” (At 1,1). E insieme cogliere la
tensione che caratterizza la vita dei credenti, come recita la colletta: “ ...
nel tuo Figlio asceso al cielo la nostra umanità è innalzata accanto a te, e
noi, membra del suo corpo, viviamo nella speranza di raggiungere Cristo nostro
Capo nella gloria”.
Gesù non
ascende a un luogo. Gli angeli non sarebbero venuti a ricordare: “Uomini di Galilea, perché state a guardare
il cielo?”. Se si fosse trattato semplicemente della sparizione dalla loro
vista, non sarebbe stato ragionevole annotare: “poi tornarono a Gerusalemme con grande gioia”. Spiega Agostino:
“Disparve agli occhi mortali perché noi ritornassimo al cuore e trovassimo il
Cristo”. In effetti i discepoli hanno visto il fenomeno fisico dell’ascendere
al cielo di Gesù, ma ne hanno anche intravisto la portata mistica. Il che
significa che lo sparire di Gesù dalla vista dei loro occhi permetteva di
coglierlo presente nei loro cuori, come lui stesso aveva promesso: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino
alla fine del mondo”, versetto con il quale si chiude il vangelo di Matteo.
L’aspetto
singolare di quell’avvenimento è costituito proprio dall’esperienza di una
gioia speciale, abbinata alla promessa dello Spirito Santo che di lì a poco gli
apostoli avrebbero ricevuto. Con l’ascensione si inaugura lo spazio di
testimonianza della chiesa nel mondo, testimonianza che può essere vissuta
nella ‘forza dall’alto’ (= battezzati in Spirito Santo). Leggendo insieme i
passi del vangelo di Luca e degli Atti, due particolari saltano agli occhi.
Primo
particolare. La forza dello Spirito agisce nel nostro cuore rispetto a tre
contesti ben precisi e interdipendenti: il riconoscimento della realtà e
dell’identità del Risorto, lo stesso che ha patito per noi; l’intelligenza
delle Scritture di cui il Risorto mostra il compimento; la missione nel mondo.
Quando i discepoli di Emmaus si comunicano la
sensazione interiore che li aveva accompagnati nel colloquio con il pellegrino
dicono: “Non ardeva forse in noi il
nostro cuore mentre egli conversava con noi lungo la via, quando ci spiegava
[in greco, letteralmente: ci apriva] le Scritture?”. Identica ‘apertura’
che realizza il Risorto con i discepoli per illustrare il mistero della sua
persona: “Allora aprì loro la mente
all’intelligenza delle Scritture e disse …”. Aprire le Scritture al cuore e
aprire il cuore alle Scritture è far entrare nel regno di Dio, argomento tipico
del sostare del Risorto con i suoi discepoli prima di ascendere al cielo. Una
volta riconosciuto il Risorto e compreso le Scritture, si apre lo spazio della
missione e della testimonianza, perché quell’esperienza è offerta a tutti.
Questo significa: “nel suo nome saranno
predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati”.
Così
l’evento dell’ascensione al cielo di Gesù acquista tutto il suo senso. Il cielo
non è il cielo fisico, ma il luogo dove lui abita nella sua santità. E dove può
essere percepita la santità se non nel vivere fraterno? Così, la predicazione
alle genti non riguarda semplicemente l’annuncio di ciò che Dio ha operato per
gli uomini, ma comprende anche il mostrare da parte dei discepoli che tale
annuncio si è tradotto per loro in splendore di vita.
Sarà proprio
la potenza dello Spirito che permetterà ai discepoli di custodire la gioia di
un amore condiviso, capace di attraversare odi e afflizioni senza cedere. La
tensione apostolica della testimonianza e della missione, che vive sotto il
segno della benedizione che Gesù costituisce per l’umanità, respira di quella
gioia e di quell’amore. Il vangelo di Luca termina con l’immagine di Gesù
benedicente. Se gli occhi non vedranno più la mano benedicente, sentiranno però
nel cuore la potenza di quella benedizione perenne che lui costituisce, sigillo
ultimativo della volontà di bene di Dio per l’uomo. Volontà, nella quale si
radica tutta la dignità dell’uomo e il suo impegno di responsabilità di fronte
al mondo.
Secondo
particolare. Gli apostoli hanno come la sensazione che forse è arrivato
finalmente il momento della ricostituzione del regno di Israele, il momento
cioè dell’immissione nella storia della potenza di Dio che tutto trasforma nel
suo regno e non lascia più posto a null’altro: “Signore, è questo il tempo nel quale ricostituirai il regno per
Israele?”. Sono cose che non vi riguardano – risponde però Gesù. A voi
basta sapere che ‘avrete forza dallo
Spirito Santo … e mi sarete testimoni…’. Quello che vi riguarda è che siate agiti dalla
potenza dello Spirito Santo per essermi testimoni. Ora è il tempo della
testimonianza, il tempo cioè della conoscenza del Figlio dell’uomo, il tempo
della fraternità ricostituita nella potenza dall’alto, nella potenza dello
Spirito Santo.
Essere
allora testimoni del Signore Gesù nel mondo vuol dire partecipare alla
testimonianza dello stesso Signore che ha fatto risplendere nel mondo il volto
di Dio nel suo amore per gli uomini; vuol dire godere di quella gioia, pace e
libertà che il mondo desidera, ma non conosce e di cui invece il Risorto fa
dono ai suoi senza che nessuno possa rapirle dai loro cuori. Per questo, anche
se gli apostoli non vedono più con i loro occhi il loro amato Signore, non
possono che essere pieni di gioia, perché in lui e con lui continuano la
rivelazione dell’alleanza di Dio con gli uomini.
§*§*§*§*§*§*§*§*§*§
Terzo
ciclo
Anno
liturgico C (2009-2010)
Tempo
di Pasqua
Pentecoste
(23 maggio
2010)
_________________________________________________
At
2,1-11; Sal
103; Rm
8,8-17; Gv 14,15-26
_________________________________________________
Come mai la
manifestazione del dono dello Spirito Santo comporta quasi un’esplosione del
linguaggio? A cosa alludono le lingue come di fuoco che segnalano il dono dello
Spirito? “Apparvero loro lingue come di
fuoco, che si dividevano, e si posarono su ciascuno di loro, e tutti furono
colmati di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, nel modo in
cui lo Spirito dava loro il potere di esprimersi”.
Nella
settimana che precede la festa, la chiesa aveva fatto pregare: “Venga su di
noi, o Padre la potenza dello Spirito Santo perché aderiamo pienamente alla tua
volontà per testimoniarla con amore di figli” (colletta lunedì) e “Venga, o
Padre, il tuo Spirito e ci trasformi interiormente con i suoi doni; crei in noi
un cuore nuovo perché possiamo piacere a te e cooperare alla tua volontà”
(colletta giovedì). Dunque, l’invocazione allo Spirito Santo è finalizzata
all’adesione alla volontà di Dio. E se ci domandiamo quale sia la volontà di
Dio, non possiamo che rispondere: la comunione di tutti gli uomini con lui.
Come dirà san Paolo: “Vi supplichiamo in
nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio” (2Cor 5,20). Questa è
appunto l’opera dello Spirito che la preghiera eucaristica condensa nelle parole:
‘dona la pienezza dello Spirito Santo perché diventiamo in Cristo un solo corpo
e un solo spirito’ (III canone).
L’antifona
d’ingresso della festa proclama: “Lo Spirito del Signore ha riempito
l’universo, egli che tutto unisce, conosce ogni linguaggio”, riprendendo il
passo di Sap. 1,7. La lingua dello Spirito è una
lingua di comunione e l’invio dello Spirito è per la comunione. È evidente che
gli uomini sono tra loro diversi, sono dispersi in ogni angolo e parlano lingue
differenti. È un bene o un male? La Scrittura dà del fatto due spiegazioni.
Una, positiva: dopo il diluvio Dio ha voluto che gli uomini abitassero la terra
secondo la loro diversità (Gen 10); una, negativa:
Dio ha condannato gli uomini alla diversità per evitare che si coalizzassero
contro di Lui (Gen 11, racconto della torre di
Babele). Ci sono due modi per far fronte alla diversità, percepita come una
minaccia: o quello di esercitare un dominio da rendere irrilevante la
diversità, e questo corrisponde alla volontà dell’uomo, che genera però
schiavitù (l’esperimento di Babele comportava la costituzione di un dominio del
più forte contro tutti gli altri per assoggettarli e Dio sarebbe stato negato
come Padre); o quello di aprire la diversità alla comunione, lasciando alla
diversità la sua consistenza e invitando ogni diversità a dare il proprio
apporto a un mondo comune (e questo corrisponde alla volontà di Dio, che di
tutti è Padre).
Quando, a
Pentecoste, compaiono sul capo degli apostoli le lingue, la proclamazione
evidente è: l’opera di Dio unisce tutti gli uomini. E l’opera di Dio è la
verità del suo amore per gli uomini che in Gesù si è fatto visibile e
accessibile. Il miracolo che a Pentecoste acquista una rilevanza fisica, tanto
che ognuno sente proclamare l’opera di Dio nella sua lingua nativa (= ogni
lingua, ogni uomo, nella sua diversità, è chiamato a proclamare la stessa ed
unica cosa), è lo stesso miracolo che è operato nei cuori dallo Spirito quando
li convince a muoversi nella carità, aprendo la diversità alla comunione e facendo
esperienza che così viene proclamato l’amore di Dio che riempie i cuori.
Riconoscere, assecondare, favorire tale dinamica, significa aver ricevuto e
agire nella potenza dello Spirito Santo.
L’aspetto
singolare per i credenti è dato dal fatto che l’impegno della testimonianza, di
cui è fatto loro comando, consiste proprio in questa lingua di comunione. Tanto
che, propriamente parlando, la testimonianza non si risolve in un impegno, ma
in una sovrabbondanza. Proprio come per Gesù. La ‘verità tutta intera’ che lo
Spirito farà conoscere è prima di tutto la verità dello splendore dell’amore di
Dio per gli uomini che in Gesù rifulge, ragione per la quale l’unione dei
discepoli con il Cristo precede e fonda la carità che sono chiamati a usarsi
vicendevolmente. Anzi, quella carità sarà segnale per il mondo perché
testimonia la potenza della presenza del Signore nel mondo.
È
caratteristico che la settima beatitudine suoni: ‘beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio’
(Mt 5,9), da comprendere insieme all’altra espressione: ‘tutti quelli che sono guidati
dallo Spirito di Dio, questi sono figli di Dio’ (Rm
8,14). Lo Spirito agisce nei discepoli di Gesù nel senso di renderli come lui,
il Figlio di Dio, la cui testimonianza si risolve nel mostrare quanto è grande
l’amore di Dio per gli uomini. E come per il Figlio la fonte della sua
testimonianza sta nella comunione di vita con il Padre, così nei discepoli la
potenza della loro azione deriva dalla intimità di comunione con il Figlio che
non si stanca di trascinarli a cercare gli uomini perché godano anch’essi
dell’amore del Padre. In questo i discepoli imparano a parlare la lingua della
comunione, la lingua dello Spirito.
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Terzo
ciclo
Anno
liturgico C (2009-2010)
Solennità
e feste
Ss. Trinità
(30 maggio
2010)
_________________________________________________
Pro
8,22-31; Sal
8; Rm
5,1-5; Gv
16,12-15
_________________________________________________
L’antifona
di ingresso definisce bene la prospettiva nella quale accostare il mistero
della Trinità: “Sia benedetto Dio Padre, e l’unigenito Figlio di Dio, e lo
Spirito Santo: perché grande è il suo amore per noi”. Se possiamo accedere al
mistero di Dio è perché Dio si è rivelato come ‘amore per noi’. È però il Padre
che è indicato come amore, di cui il Figlio è rivelatore e testimone e della
cui vita d’amore lo Spirito è donatore. Gesù, che pur rappresenta per noi
l’espressione stessa dell’amore (“li amò
sino alla fine”, Gv 13,1), non si definisce mai
come amore, termine che invece è riservato al Padre, come la preghiera stessa
della Chiesa sottolinea: “Ti glorifichi, o Dio, la tua Chiesa, contemplando il
mistero della tua sapienza con la quale hai creato e ordinato il mondo; tu che
nel Figlio ci hai riconciliati e nello Spirito ci hai santificati, fa’ che
nella pazienza e nella speranza possiamo giungere alla piena conoscenza di te
che sei amore, verità e vita”, dove ‘amore’ fa riferimento al Padre, ‘verità’
al Figlio, ‘vita’ allo Spirito Santo.
Tutto ciò
che si può dire del Padre e dello Spirito deriva dal Figlio. Quello che il
Figlio, la Sapienza incarnata, la Parola fatta carne, ha rivelato di Dio, è la
verità su Dio. Tutte le letture poggiano su questo fondamento. La lettura dei
Proverbi illustra il Figlio come Sapienza che ha presieduto alla creazione, che
ha dato senso alla storia degli uomini. Non si parla tanto di Dio Creatore, ma
della sua Sapienza, con la quale ha creato, nella quale Dio si deliziava e che
l’ha indotto a trovare le sue delizie nei figli degli uomini perché quella
Sapienza era il Figlio che avrebbe preso carne, si sarebbe fatto uomo. “Io ero con lui” prima di ogni cosa,
quando ogni cosa è stata fatta; il che significa che per cogliere il senso di
quelle cose che sono state fatte, a Lui occorre rifarsi, perché di Lui parlano.
Nulla è al di fuori di quella Sapienza, di quel Figlio. Quando si parla di
‘sapienza’ non si allude soltanto al fatto che il mondo è creato secondo una
razionalità, ma più direttamente al fatto del mistero di Dio che trasuda dalle
cose. In un certo senso, la storia può essere concepita come l’esercitazione di
Dio a stare in compagnia degli uomini perché questa è la sua delizia, come per
gli uomini la storia prende senso se vissuta come l’esercitazione a stare in
compagnia di Dio. E se l’essenza del mondo è rivelazione dell’umanità,
l’essenza dell’umanità è rivelazione di Dio. È ciò che ci ha insegnato la
Sapienza incarnata, quel Figlio dell’uomo che è il più bello dei figli degli
uomini. Difatti, a Lui dobbiamo la rivelazione suprema di Dio: Dio è Amore. E
la rivelazione dell’amore di Dio è lo scopo dell’opera del Figlio nella sua passione-morte-risurrezione.
La seconda
lettura, tratta dalla lettera ai Romani, presenta la Sapienza, che è il Cristo,
come nostra pace, trasparenza diretta tra creato e Creatore, tra i figli e il
Padre, nella ‘speranza della gloria di Dio’, vale a dire nella speranza che lo
splendore dell’amore di Dio, rivelatosi nel Figlio e partecipato nel suo
Spirito, conquisti tutti, per sempre. Ed è una speranza che non può andare
delusa, nonostante le afflizioni e le vicende della storia, perché è tenuta
desta dalla verità di quell’amore che ha sanato le radici dell’anima e di cui
non esiste bene più prezioso e desiderabile.
Nel brano di
vangelo a parlare è sempre la Sapienza, Gesù, che annuncia l’effusione dello
Spirito. È da questa effusione che si può conoscere l’amore del Padre, perché
ci fa riconoscere il Figlio come l’Inviato di Dio, il Rivelatore del Volto di
Dio, che è Amore. Ma sempre a partire dalla stessa ‘Sapienza’. Quello che il
Padre possiede Le appartiene; quello che dirà lo Spirito non sarà che la
rivelazione di quella Sapienza. Tanto che si può definire così il criterio
veritativo dello Spirito: se appartiene allo Spirito di Cristo, è Spirito di
Dio. Se invece ci muove uno ‘spirito’ che non è riconducibile o che si oppone
allo Spirito di Cristo, è segno sicuro che non proviene da Dio.
Quando la
preghiera iniziale definisce Dio come ‘amore, verità e vita’, allude certamente
al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo, di cui preghiamo di avere piena
conoscenza, nella pazienza e nella speranza. Ma tutto procede dalla ‘verità’
del Figlio che, dandoci il Suo Spirito, che è vita (cioè ci comunica
quell’amore che non è più rapibile da niente e da nessuno), ci fa conoscere
l’amore del Padre. Da parte nostra tutto procede dall’accoglienza del Figlio,
perché il Padre che desideriamo conoscere è il Suo Padre, e lo possiamo
conoscere nel Suo Spirito. La ‘verità tutta intera’ di cui parla Gesù
riferendosi allo Spirito non riguarda tanto la verità nei suoi vari enunciati,
ma la verità come comunione con Cristo. Di quanta ‘pazienza’ e di quale
‘speranza’ necessita allora l’uomo per realizzare radicalmente e totalmente
nella sua vita quella comunione con Cristo! Ma è a partire da quella comunione
che la rivelazione del Padre, del Figlio e dello Spirito costituirà la delizia
del nostro cuore.
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Terzo
ciclo
Anno
liturgico C (2009-2010)
Solennità
e feste
Ss. Corpo e Sangue di Cristo
(6 giugno
2010)
_________________________________________________
Gn
14,18-20; Sal
109; 1Cor 11,23-26; Lc 9,11-17
_________________________________________________
L’origine di
questa festa, propria dell’Occidente latino, va messa in rapporto con il
possente risveglio della devozione eucaristica che dal secolo XII in poi si
sviluppò, accentuando particolarmente la presenza reale di Cristo nel
sacramento e quindi la sua adorazione. Furono le visioni di Giuliana di Cornillon, monaca agostiniana di Liegi, ad avere un
influsso decisivo nell’introduzione della festività, che per la prima volta si
celebrò nella diocesi di Liegi nel 1247. Urbano IV, già arcidiacono di Liegi e
confessore di Giuliana, la prescrisse per tutta la Chiesa nel 1264.
Non credo
sia possibile cogliere il senso del mistero dell’Eucarestia senza percepire
distintamente e profondamente nel cuore l’eco delle parole di Gesù: “Quanto ho
desiderato mangiare questa Pasqua con voi, prima di patire! Alleluia” (antif. ora terza). È il desiderio di Dio che va percepito.
Come sempre, in un legame d’amore, ciò che più conta è il desiderio dell’altro
per me. Il desiderio di Dio copre tutto lo spazio del mistero, l’attraversa e
ne segna la dinamica di cui entrare a far parte.
Nell’inno ai
vespri di questa festa si canta: “Frumento di Cristo noi siamo .... In pane
trasformaci, o Padre, per il sacramento di pace: un Pane, uno Spirito, un
Corpo, la Chiesa una-santa, o Signore”. E Francesco
d’Assisi, nel suo commento al Padre Nostro, annuncia: "Il nostro pane quotidiano, il tuo Figlio
diletto, il Signore nostro Gesù Cristo, dà
a noi oggi: in memoria, comprensione e reverenza dell'amore che egli ebbe
per noi e di tutto quello che per noi disse, fece e patì".
La colletta
della festa di oggi esprime assai bene il timbro eucaristico di tutta l’esperienza
cristiana: “Dio, Padre buono, che ci raduni in festosa assemblea per celebrare
il sacramento pasquale del Corpo e Sangue del tuo Figlio, donaci il tuo
Spirito, perché nella partecipazione al sommo bene di tutta la Chiesa, la
nostra vita diventi un continuo rendimento di grazie, espressione perfetta
della lode che sale a te da tutto il creato”. Il mistero dell’eucaristia, dal
punto di vista della chiesa che la celebra, si colloca al centro della sua
azione e della sua tensione, della sua origine come del suo destino. Più la
nostra vita diventa un continuo rendimento di grazie, perché trova il suo senso
nella comunione con Dio e con tutti, del cui splendore l’eucaristia è la
celebrazione stessa, più il desiderio di vita che ci abita e ci muove trova il
suo fondamento e la sua realizzazione nella tensione al convito eterno, di cui
l’eucaristia è l’anticipazione. Lo dice la preghiera dopo la comunione, quando
chiede che l’intimità di vita con il Signore e l’unità con i fratelli siano
godute finalmente in pienezza, senza ombre: “Donaci, o Signore, di godere
pienamente della tua vita divina nel convito eterno, che ci hai fatto
pregustare in questo sacramento del tuo Corpo e del tuo Sangue”.
Le letture
di oggi colgono, del mistero eucaristico, la dimensione sacerdotale (Cristo
sacerdote per sempre, nella figura profetica di Melchisedek),
la dimensione sacrificale (“Questo è il
mio corpo, che è per voi ... Questo calice è la Nuova Alleanza nel mio sangue ...”),
la realtà mistica, prefigurata dal miracolo della moltiplicazione dei pani e
dei pesci. Il mistero del Dono di sé da parte di Dio all’uomo costituisce
l'oggetto proprio della tradizione della chiesa, come dice san Paolo: "Io ho ricevuto dal Signore quello che a mia
volta vi ho trasmesso" (1Cor 11,23). Ha ricevuto e trasmesso il
battesimo, nel quale viene confessato il dono di sé fatto da Dio all'uomo in
Gesù Cristo e l’Eucaristia, il memoriale della passione e della risurrezione,
insieme alla partecipazione attuale, esistenziale, personale, ecclesiale del
credente alla Pasqua del Signore.
Accostiamoci
ora al racconto della moltiplicazione dei pani e dei pesci. Anzitutto, il brano
è incastonato tra l’invio degli apostoli a evangelizzare e a curare e la
confessione dell’identità di Gesù da parte di Pietro. Il brano ha un’evidente
connotazione messianica, anticipata dall’invio degli apostoli e seguita dal
riconoscimento di Pietro. Siamo nel deserto, luogo di incontro con Dio; è
imbandita la mensa del Signore, dove il cibo offerto da Dio è mangiato in sazietà
(si veda l’episodio della manna nel deserto in Es
16,12; Sal 78,29; Gv 6); la
sovrabbondanza è tale da avanzarne dodici ceste, perché a tutte le nazioni è
destinato quel pane (si veda il miracolo di Eliseo in 2Re 4,43-44); la
disposizione della gente richiama la disposizione ideale del popolo nel deserto
(cfr. Es 18,21.25; 1Mac 3,55). Il racconto comporta
pure un’evidente allusione liturgica eucaristica.
Gesù
moltiplica i pani e i pesci, ma si lascia provocare dagli apostoli e affida a
loro il compito di distribuirli alla gente. La Tradizione ha visto in questa
distribuzione ad opera dei discepoli il ruolo dei ministri nella chiesa
invitati a spiegare le Scritture come pane spezzato per nutrire l’intelligenza
dei fedeli. Ma l’aspetto più misterioso risiede nel fatto che ci può essere
intelligenza della Parola di vita solo in questo vicendevole servirsi comandato
dal Signore Gesù. È la dimensione della fraternità che diventa il luogo
dell’intelligenza della fede. E ciò che si partecipa nella condivisione, come
ciò che si impara del mistero, è sempre la stessa cosa: entrare nella comunione
con il Figlio di Dio dato per noi, renderci con il Cristo espressione di lode
di tutto il creato senza più divisioni. È nel ‘dono di sé’ da parte di Gesù che
gli uomini possono riconoscersi uniti e ritrovare l’energia santificante della
comunione. In realtà è proprio questo l’aspetto più significativo del mistero
dell’Eucaristia: l’Eucaristia fa l’unità, rende corpo unico, rende un cuor solo
e un’anima sola. Quando il fedele risponde Amen
all’invito del sacerdote: “Corpo di
Cristo!” al momento della comunione, il significato è esattamente questo:
sì, credo di far parte di quel Corpo e mi impegno a vivere in modo che quel
Corpo non sia mai diviso, in modo da non separarmi mai da quel Corpo, in modo
da non impedire a nessuno di vedere la bellezza di quel Corpo, in modo da
favorire in ogni modo la fraternità in Cristo, perché a Dio sia riconosciuta la
sua gloria.
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Terzo
ciclo
Anno
liturgico C (2009-2010)
Solennità
e feste
Ss. Cuore di Gesù
(11 giugno
2010)
_________________________________________________
Ez
34,11-16; Sal
22; Rm
5,5-11; Lc
15,3-7
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I testi
della liturgia di oggi parlano della ‘immensa carità’ del Cuore di Gesù,
alludendo evidentemente al ‘cuore trafitto’ che il prefazio (‘dalla ferita del
fianco effuse sangue e acqua’) e l’antifona alla comunione (‘un soldato
trafisse il costato con la lancia e subito ne uscì sangue e acqua’) esaltano. I
brani delle letture invece illustrano l’amore divino secondo l’immagine del
pastore, un pastore che raccoglie le sue pecore, che le conduce in ottime
pasture, che le fa riposare, che cura quella malata, che non trascura quella
forte, e soprattutto che riconduce in spalla la pecora smarrita. Un bellissimo
commento di s. Ambrogio spiega: “Rallegriamoci, dunque, perché quella pecora,
che in Adamo era andata perduta, in Cristo è sollevata in alto. Le spalle di
Cristo sono le braccia della Croce. Là ho deposto i miei peccati, sul capo di
quel nobile patibolo ho trovato riposo… Egli è dunque
un pastore ben provvisto, perché tutti noi siamo la centesima parte della sua
proprietà. Ma Egli possiede le greggi innumerevoli degli Angeli, possiede
quelle degli Arcangeli, delle Dominazioni, delle Potestà, dei Troni e di tutti
gli altri che ha lasciato al sicuro sui monti. E poiché sono creature
spirituali, non a torto gioiscono per la redenzione degli uomini”.
Il mistero
della parabola riguarda non semplicemente l'amore di Dio, ma l'esperienza che
fa il nostro cuore dell'amore di Dio. Con le sue parabole Gesù vuol rispondere
alle mormorazioni del cuore dell'uomo che non è più capace di onorare i suoi
fratelli perché non sa più riconoscere il mistero di Dio, non riesce più a percepire
il cuore di Dio. Per noi, in effetti, si tratta solo di 'riconoscere' e
'credere' a questo amore di Dio che viene a cercarci, ad usarci premura, a fare
dono di Sé a noi, a perdonarci, noi, la sua gioia! Ma il nostro cuore, irretito
nelle illusioni del peccato, è più aspro di quello di Dio; crede di salvare una
specie di nobiltà teorica condannandosi, rinchiudendosi in una condanna
sfiduciata. Non è che manchino nella vita motivi di sfiducia, ma la vita
dell’uomo si gioca proprio nella fiducia a Qualcuno che è riconosciuto come
Colui che ‘si perde’ per noi e ci ridà dignità. È
vero che Dio può far nascere altri figli perfino dalle pietre, ma è ancora più
vero che, per quanto indegni e ribelli, i figli che Dio preferisce sono quelli
in carne ed ossa, quelli che siamo, che rimprovera ma di cui continua ad avere
premura. Gesù, morto e risorto per noi, è il sigillo ultimativo di quella
Volontà e il suo ‘Cuore trafitto’ è l’emblema più suggestivo di quella Volontà
di Bene per noi.
L’antifona
d’ingresso cantava: “Di generazione in generazione durano i pensieri del suo
Cuore, per salvare dalla morte i suoi figli e nutrirli in tempo di fame”, eco
del salmo 32 là dove proclama: “Il
Signore annulla i disegni delle nazioni, rende vani i progetti dei popoli. Ma
il piano del Signore sussiste per sempre, i pensieri del suo cuore per tutte le
generazioni”. Il piano del Signore è la determinazione all’amore per l’uomo
senza lasciarsi vincere dalla sua diffidenza e dalla sua cattiveria. Il Cuore
di Gesù svela questo ‘piano’ e lo rende noto a tutti i cuori, perché è da
sempre, ancor prima della fondazione del mondo, anzi, motivo della stessa
fondazione del mondo, perché è perenne, definitivo, sempre nuovo, perché
risponde al desiderio e alla gioia di Dio e perché risponde al desiderio e al
riposo dell’uomo.
La cosa
straordinaria è che Dio fonda la sua giustizia nel condividere la sua gioia. “Io vi dico: così vi sarà gioia nel cielo per
un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non
hanno bisogno di conversione” (Lc 15,7). Ora,
tutti i nostri pensieri di autocondanna, di paura, di disprezzo di noi e degli
altri, feriscono l'amore di Dio perché gli rendono impossibile la gioia. Ogni
autocondanna è una incomprensione di Dio. Ogni condanna, di sé e degli altri, è
un'incomprensione profonda del cuore di Dio: come non sapere quello che gli
procura gioia? Il buon ladrone che non pretende la misericordia, ma riconosce
in pace la sua pena di fronte al Giusto crocifisso e chiede, per grazia, un
posto nel regno, è un esempio eloquente della misteriosa convergenza in Dio di
giustizia e di misericordia, gioia Sua e gioia della creatura.
Del resto,
chi sono i giusti? Nell'interpretazione spirituale dei Padri i novantanove
giusti lasciati sui monti sono gli angeli. Ma sono anche coloro che, come gli
angeli, adorano e lodano e gioiscono con Dio. Sono cioè coloro che gioiscono
con Dio quando un peccatore ritorna, quando un uomo si pente. Di qui il
criterio di discernimento della bontà, che ci rende 'sim-patici' di Dio, vale a
dire degli stessi sentimenti di Dio: un cuore è buono quando gioisce del bene
del fratello. Gioire della virtù di un fratello più che per la propria è segno
di un cuore puro, ormai conquistato dalla bontà di Dio. Gioire per un altro
rende intimi di Dio. E se l'uomo è invitato a riconoscere come agisce Dio, come
'sente' Dio, è perché è chiamato ad imitarlo. E l'imitazione consiste
nell'impegnare la propria carità fino alla gioia, senza pretenderla comunque
per sé. Non che la cosa risulti ovvia, ma se il nostro cuore si è sentito
trafitto guardando al Cuore trafitto dalla lancia del soldato, allora qualcosa
dei segreti di Dio si comunica a noi e proprio questo rende capaci di vivere
nello splendore di quella rivelazione.
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Terzo
ciclo
Anno
liturgico C (2009-2010)
Tempo
Ordinario
11a
Domenica
(13 giugno
2010)
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2Sam
12,7-13; Sal
31; Gal 2,16-21; Lc 7,36-8,3
_________________________________________________
Due sono gli
episodi narrati nei vangeli a proposito di una unzione di Gesù da parte di una donna. Uno, riportato da Luca,
nella casa di un fariseo, per mano di una donna peccatrice che piange sui piedi
di Gesù e li asciuga con i suoi capelli e li cosparge di olio profumato insieme
ai suoi baci. L’altro, a Betania, poco prima della
passione: Matteo e Marco riferendo di una donna che versa sul capo di Gesù un
olio profumato in casa di Simone il lebbroso; Giovanni, invece, riferendo di
Maria, sorella di Lazzaro, che unge con nardo genuino i piedi di Gesù,
suscitando la reazione dei discepoli, che gridano allo spreco.
Fermiamoci
sull’episodio narrato da Luca; le sue accentuazioni sono assolutamente
particolari. La donna non proferisce parola alcuna; non ne ha bisogno. Il suo
cuore grida, come canta l’antifona di ingresso citando il salmo 26: “Ascolta Signore la mia voce: a te io grido.
Sei tu il mio aiuto, non respingermi, non abbandonarmi, Dio della mia salvezza”.
Lei gode della beatitudine descritta dal salmo responsoriale: “Beato l’uomo a cui è tolta la colpa e
coperto il peccato. Beato l’uomo a cui Dio non imputa il delitto e nel cui
spirito non è inganno”. I suoi sentimenti profondi riecheggiano nelle
parole, sempre del salmo 26, dell’antifona alla comunione: “Una cosa ho chiesto al Signore, questa sola
io cerco: abitare nella casa del Signore tutti i giorni della mia vita”.
Ciò che è
avvenuto nel cuore di quella donna è ben descritto dalle parole di Paolo: “E questa vita, che io vivo nel corpo, la
vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso
per me” (Gal 2,20). La peccatrice perdonata non avrebbe potuto ancora
esprimersi così, ma l’esperienza del cuore là la conduce. A tal punto l’amore
ha toccato il cuore da non consentirle più di vivere se non dentro quell’amore,
come Gesù le testimonia: “La tua fede ti
ha salvata; va’ in pace!”.
Il centro
della scena tuttavia non è dato dalle espressioni di amore della donna, pur
così tenerissime ed espresse come se il mondo attorno non esistesse nemmeno,
tanto era rapito il suo cuore, ma dal comportamento di Gesù che accoglie quelle
manifestazioni, le sa leggere svelandone il dinamismo segreto. Il centro è dato
dalla grazia dell’amore ricevuto, dall’amore di Gesù che ha toccato e sanato il
cuore della donna peccatrice, secondo la verità proclamata dalle parole del
canto al vangelo: “Dio ha amato noi e ha
mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati” (1Gv
4,10). È la scoperta di una vita! Lei ne ha fatto esperienza viva e tutti i
suoi gesti, semplici e splendidi, rivelano proprio quell’esperienza.
Gregorio
Magno annota che quella donna non poteva avere alcuna vergogna esteriore tanto
era assorta nella sua vergogna interiore. Il fariseo non interviene per
allontanarla perché non infastidisca l’ospite, in quanto si è reso conto
dell’accondiscendenza silenziosa e mite di Gesù verso di lei. Lei non vede
nessun altro se non Gesù; anzi, vede solo i suoi piedi, si è rannicchiata ai
suoi piedi, piange e asciuga e bacia e unge di profumo i suoi piedi. In quei
gesti passa tutta la sua anima; non ha bisogno di alcuna parola, di alcun
sguardo: sente il cuore di Gesù come lui sente il suo. La scena è così potente
che s. Ambrogio può interpretarla come immagine della Chiesa che risponde
all’amore del Cristo. Nell’offerta del suo amore la Chiesa è peccatrice non
perché ‘semper reformanda’,
ma perché, come Cristo assume l’aspetto del peccatore, così la Chiesa prende la
figura della peccatrice: è la Chiesa che ama in quella donna; è la Chiesa che
ama in Paolo, che ama in Pietro, che ama nei suoi santi.
Quando Gesù
racconta la sua parabola per illustrare al fariseo l’agire di Dio, è come se
ricordasse che l’uomo non può dare in cambio a Dio qualcosa per saldare il suo
debito. Non può dare nulla, ma il suo amore sì. E l’amore è più grande tanto
più grande è la coscienza del proprio debito, perché Dio condona proprio tutto
il debito. Tra l’altro, l’episodio sembra rispondere all’accusa verso Gesù che
è ‘un beone e un mangione, amico dei pubblicani e dei peccatori’. Sì, si tratta
di quel ‘beone e mangione’ ma che conosce i segreti di Dio, che attende i cuori
al varco e che svela a tutti la misericordia perdonante di Dio, perché questa è
la sua gloria: vedere l’uomo riconciliato con Lui, convinto dal suo amore. L’esperienza
appare sicuramente desiderabile, ma non è affatto scontata, tanto è vero che i
pensieri del cuore degli uomini sembrano muoversi in altre direzioni. Tutto il
racconto del vangelo mostra la difficoltà per gli uomini di accogliere la via
di Dio. Ma non esiste un’altra via di Dio; la via è proprio Gesù, perché svela
in verità il volto di Dio, dandoci la Sua vita, che è tutta la nostra vita.
Vale la pena
di raccogliere ancora un’altra suggestione di s. Ambrogio. Solo l’episodio
raccontato da Luca riporta il particolare delle lacrime: “Proprio per questo,
forse, Cristo, non ha lavato i propri piedi, affinché noi glieli laviamo con le
lacrime. Lacrime benedette, che non soltanto possono lavare la nostra colpa, ma
anche bagnare i piedi del Verbo celeste, affinché i suoi passi abbondino dentro
di noi”. Le lacrime non parlano soltanto della vergogna del nostro peccato, ma
del desiderio di Dio che ha toccato il nostro cuore; parlano della bellezza del
nostro cuore che è fatto per Dio e per rispondere al suo amore. Quando il mondo
scompare, quando anche l’io non è più ingombrante, allora il cuore sta solo con
il suo Signore e sa che può star lì perché il Signore si è fatto solidale con
la nostra umanità peccatrice. Ed è per questo che quando ritorna alla vita quotidiana,
un cuore siffatto non custodisce semplicemente in sé la grazia dell’incontro,
ma si fa memoria vivente di quell’amore misericordioso per il mondo.
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Terzo
ciclo
Anno
liturgico C (2009-2010)
Tempo
Ordinario
12a
Domenica
(20 giugno
2010)
_________________________________________________
Zc
12,10-11; Sal
62; Gal 3,6-29; Lc 9,18-24
_________________________________________________
Il mistero
della persona di Gesù non viene mai meno. Gesù ne è consapevole. Nonostante
tutte le spiegazioni, quel mistero permane nel suo fascino e nella sua insondabilità.
“Le folle, chi dicono che io sia?”; “Ma voi, chi dite che io sia?”. Se
consideriamo il passo parallelo di Mc 8,31-38, ci accorgiamo che Gesù è in
viaggio verso Gerusalemme e sembra giunto il tempo di traghettare i discepoli
ad una comprensione più profonda e veritiera della sua persona. Le domande
sottendono la stessa problematica di Giovanni Battista: è lui o dobbiamo
aspettare un altro? La gente pensa che lui sia stato mandato a preparare la via
al Messia (Erode pensava che Gesù fosse il Battista redivivo, i discepoli
pensavano che fosse l’Elia che doveva venire o uno dei profeti, come Geremia,
il modello profetico più consono alla figura di Gesù), mentre Pietro confessa
invece che proprio lui è il Messia che si aspettavano. Gesù prende così sul
serio la risposta di Pietro da svelare apertamente il suo futuro di passione,
che la liturgia preannuncia con il brano di Zaccaria: “Riverserò sopra la casa di Davide e sopra gli abitanti di Gerusalemme
uno spirito di grazia e di consolazione: guarderanno a me, colui che hanno
trafitto”.
Subito dopo
Pietro, che rifiuta questa rivelazione, è rimproverato da Gesù: “Va’ dietro a me, Satana! Perché tu non pensi
secondo Dio, ma secondo gli uomini”. Pietro ha voluto mettersi davanti a
Gesù, ma Dio, secondo la testimonianza di Es
33,20-23, si può vedere solo di spalle. Il che significa: solo accettando di
camminare per dove Dio indica lo si potrà vedere in verità. E ancora: solo
disponendoci a praticare la sua parola si può scoprire la verità della promessa
di vita che la sua parola comporta. Solo stando dietro il Maestro si potrà
scoprire il Volto di Dio in verità nel suo amore per gli uomini.
Quando Gesù,
subito dopo, invita i discepoli a rinnegare se stessi, prendere la croce e
seguirlo, non fa che estendere a tutti il rimprovero rivolto a Pietro. Potremmo
intendere le cose così. Pietro, nel rimproverare Gesù, aveva probabilmente
temuto per sé. Se Gesù, il Messia, avesse dovuto subire tutti quei tormenti,
certamente sarebbe svanito il prestigio dell’essere ‘compagno’ del Messia. E
allora che ne sarebbe stato di lui? Il ‘rinnegare se stessi’ vale in rapporto
al mistero di Dio che in Gesù si fa prossimo agli uomini per la potenza del suo
amore tanto da far scaturire la vita proprio là dove gli uomini mai la
cercherebbero. Se gli uomini pensano in prospettiva mondana come potranno
vedere i segreti di Dio? La rinuncia a ogni prospettiva mondana è la condizione
per accogliere il mistero di Gesù che sulla croce rivela lo splendore
dell’amore, motivo di ogni rinuncia a qualsiasi cosa che non sia collegabile o
derivante da quell’amore. D’altronde qui risiede tutta la dignità della vita.
Il portare la croce non si riferisce primariamente alla fatica del vivere, ma
alla condizione perché la fatica del vivere risulti fruttuosa: la rinuncia ad
ogni prospettiva mondana ci apre alla rivelazione dell’amore di Dio nella
nostra vita, amore che possiamo cogliere in tutto il suo splendore proprio
nella croce di Gesù. Seguire Gesù significa essere partecipi di questa
rivelazione fino a viverla nel concreto della propria vita per dare spazio alla
stessa dinamica di amore.
Il testo di
Luca, invece, sottolinea la circostanza in cui Gesù pone la domanda ai
discepoli: “Un giorno Gesù si trovava in
un luogo solitario a pregare. I discepoli erano con lui …”. Come a
sottolineare: è da dentro la preghiera che scaturiscono domanda e risposta,
perché le domande e le risposte vere non sono curiosità intellettuali ma
riguardano la verità di cui ha bisogno il cuore per vivere e solo nella
preghiera il cuore può lambire quella verità. Per Gesù, le domande nascono
dalla volontà di fedeltà al Padre e nascono nella preghiera perché qui si
esprime tutto il contenuto di intimità che quella volontà di fedeltà comporta.
Così è per i discepoli, con la differenza che per loro, che non conoscono
ancora quella intimità con il Padre, c’è bisogno prima di vedere come prega
Gesù, di restare affascinati dalla intensità della sua preghiera, per
desiderare a loro volta la stessa cosa. Gesù sa fin troppo bene che dietro allo
slancio del cuore non c’è ancora tutta la loro mente, non ci sono ancora tutte
le loro energie interiori perché i misteri di Dio hanno bisogno di tempo per
conquistare l’uomo, che non si rassegna mai a perdere le sue ‘idee’ di Dio.
Un esempio
dell’immensità di orizzonte e quindi della sfida che comporta per l’uomo la
verità che viene da Dio ci è riportato dal brano della lettera ai Galati: “Non c’è
Giudeo né Greco; non c’è schiavo né libero; non c’è maschio e femmina, perché
tutti voi siete uno in Cristo Gesù”. Quale sfida per l’uomo! Eppure quella
verità fa parte dei segreti di Dio svelati all’uomo da Gesù. Nell’accogliere
quei segreti sperimentiamo l’intensità e la profondità di quell’amicizia con
l’uomo che Gesù ci ha offerto da parte di Dio. Tra il desiderio del cuore e
l’accoglimento del mistero di Gesù si pone con tutto il suo peso la sfida di
Dio che spesso si presenta debole, disprezzato, capace di mettersi nelle mani
degli uomini per essere vilipeso e condannato. I comandamenti del Signore,
rispetto alla sapienza del mondo che pervade la nostra carne, non hanno spesso
quella stessa risonanza, quella per la quale non ci sentiamo attirati, ma come
impauriti, respinti?
I discepoli
accettano con gioia Gesù, anche se ancora con dubbi, ma faticheranno molto ad
accettare la sua passione e morte. Accettare la realtà di Dio non è così
agevole per l’uomo, perché l’uomo non ha mai abbandonato la ‘pretesa di bene’
dimenticando che il bene è tale solo se rivela Dio. Così il mistero di Gesù si
riflette nel mistero della vita del discepolo di Gesù. Ma se il discepolo,
oltre allo slancio del cuore, avrà la pazienza di misurare le sue ‘idee’ fino
ad accantonarle pur di accogliere la verità che viene da Gesù, a dispetto di
ogni altra aspettativa, allora incomincerà a godere di quella ‘amicizia’ che lo
mette a parte dei segreti di Dio. E una volta che si sente custodito in quella
offerta di amicizia, non basterà il mondo intero a dissuaderlo, pur sapendo che
sarà proprio la ‘debolezza’ di Dio a custodirlo e non la sua forza.
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Terzo
ciclo
Anno
liturgico C (2009-2010)
Tempo
Ordinario
13a
Domenica
(27 giugno
2010)
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1Re
19,16-21; Sal
15; Gal 5,13-18; Lc 9,51-62
_________________________________________________
La necessità
di rendere in un buon italiano il testo del vangelo a volte fa perdere le
sfumature di riferimento per comprenderne a fondo il senso. È il caso del brano
di oggi. Inizia la lunga sezione della salita di Gesù a Gerusalemme dove si
compirà la sua passione (9,51-19,28). Le espressioni che usa l’evangelista sono
formulazioni solenni, a sottolineare l’importanza del momento e delle decisioni
di Gesù. Noi leggiamo: “Mentre stavano
compiendosi i giorni in cui sarebbe stato elevato in alto, egli prese la ferma
decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme e mandò messaggeri davanti a
sé. ... non vollero riceverlo, perché era chiaramente in cammino verso
Gerusalemme”. Letteralmente il testo suonerebbe: “Mentre si compivano i giorni della sua assunzione (stessa
espressione usata sia per la morte sia per l’ascensione di Gesù), indurì il suo volto per incamminarsi verso
Gerusalemme e mandò davanti al suo volto degli angeli … non vollero riceverlo,
perché il suo volto stava seguendo il cammino verso Gerusalemme”.
Per Gesù è
arrivato il momento di dare compimento alla sua missione. Aveva già
preannunciato ai discepoli la sua passione; li aveva come consolati con
l’evento della trasfigurazione, sapendo che non avrebbero retto allo scandalo
della sua condanna; aveva cercato di istruirli sui misteri di Dio che con lui
si compivano. Ora è venuto il momento di portare a compimento il disegno di
Dio, come non sopportasse più alcuna dilazione. Il racconto di Luca fa
risuonare le parole del profeta Isaia: “Il
Signore Dio mi assiste, per questo non resto svergognato, per questo rendo la
mia faccia dura come pietra, sapendo di non restare confuso” (Is 50,7) e quelle del profeta Malachia:
“Ecco, io manderò un mio messaggero a
preparare la via davanti a me e subito entrerà nel suo tempio il Signore che
voi cercate; e l’angelo dell’alleanza, che voi sospirate, eccolo venire, dice
il Signore degli eserciti” (Ml 3,1).
La decisione
di Gesù corrisponde al ‘rendere la faccia dura come pietra’, sottolineando sia
la realizzazione della parola del profeta che la fedeltà di Gesù al volere del
Padre, che così, con quel che avverrà a Gerusalemme, ha voluto mostrare tutto
il suo amore agli uomini.
Da dentro
quella fedeltà vanno compresi sia il rimprovero a Giacomo e Giovanni sia le
condizioni esigite da Gesù per seguirlo. La fedeltà
di Gesù è la fedeltà a un amore che non si lascia mai distogliere dal suo
obiettivo perché è il segreto di Dio che deve essere rivelato agli uomini: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il
Figlio unigenito” (Gv 3,16). Gesù compie la
fedeltà dei profeti, che non potevano ancora conoscere in tutta la sua
consistenza quel segreto e rimprovera i discepoli che volevano imitare il
profeta Elia (cfr. 2Re 1,10-12). E quando esige dai discepoli certe condizioni
per seguirlo, non fa che trasmettere loro il principio della sua stessa
fedeltà, che si fa urgenza di annunciare il regno di Dio ormai giunto, cioè
urgenza di svelare il suo segreto, il segreto stesso di Dio (perché in questo
consiste la missione degli apostoli!). Di fronte alla scoperta di tale segreto,
non c’è bene o valore umano che possa prevalere.
La
condizione prima è accettare il modello di Gesù che si definisce come Figlio
dell’uomo che non ha dove posare il capo. E s. Chiara di Assisi commenta:
“Cristo non ha dove posare il capo e quando lo reclinò sul suo petto, fu per
rendere l’ultimo respiro” (FF 2864). Come a dire: chi cerca il suo riposo
altrove, non segue Cristo; chi cerca il suo riposo prima di dare la sua anima,
non segue Cristo; chi cerca il suo riposo nel vivere di quell’annuncio del
segreto di Dio è beato, perché partecipa alla stessa fedeltà di Gesù.
Lo ripete il
salmo 15 là dove dice: “Il mio Signore
sei tu, solo in te è il mio bene”. L’antica versione latina cantava: ‘bonum mihi non est sine te’.
Nessun presunto bene è bene per me senza di te! Nessun bene è tale se non
contribuisce a manifestare quel segreto di Dio, il suo amore agli uomini. È il
senso profondo della vita come amore, amore che costituisce il valore di
riferimento e di criterio per tutti i beni della vita, il segreto condiviso tra
Dio e l’uomo. Se l’amore è esigente, lo è in proporzione della potenza e della
qualità di vita che dischiude, nella fedeltà di un agire che non si lascia più
distogliere dal perseguirlo sempre e comunque perché tutti ne godano e
finalmente ci si possa riposare.
In tale
contesto l’esortazione di Paolo ai Galati acquista
nuova luce: “Cristo ci ha liberati per la
libertà! State dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della
schiavitù. ... Voi infatti, fratelli, siete stati chiamati a libertà. Che
questa libertà non divenga però un pretesto per la carne; mediante l’amore
siate invece a servizio gli uni degli altri”. È la libertà frutto
dell’amore, che non teme di sottomettersi ai fratelli pur di non essere
distolti dalla partecipazione al segreto di Dio. Per questo la colletta ci fa
pregare: “O Dio, che ci chiami a celebrare i tuoi santi misteri, sostieni la
nostra libertà con la forza e la dolcezza del tuo amore, perché non venga meno
la nostra fedeltà a Cristo nel generoso servizio dei fratelli”, dove ‘servizio’
non sta semplicemente per azioni buone ma per atteggiamento del cuore, del
cuore di un uomo che ‘ha indurito il suo volto’ per
non mancare lo scopo della sua vita.
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Terzo
ciclo
Anno
liturgico C (2009-2010)
Tempo
Ordinario
14a
Domenica
(4 luglio
2010)
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Is
66,10-14; Sal
65; Gal 6,14-18; Lc 10,1-20
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Il profeta
Isaia aveva annunciato la prosperità di Gerusalemme, descrivendo l’invasione di
consolazione che l’avrebbe sommersa. Ma di quale consolazione parlava? Quella
che annuncia il canto al vangelo: “La
pace di Cristo regni nei vostri cuori; la parola di Cristo abiti tra voi nella
sua ricchezza” (Col 3,15.16) e che la missione dei 72 discepoli
preannunciava essere l’eredità di tutte le genti. Il numero di 70 o 72 si
riferisce appunto al numero delle nazioni secondo la tradizione ebraica di Gn 10 (70 per il testo ebraico, 72 per il testo greco).
Tre sono i
passaggi significativi del brano: prima Gesù istruisce i discepoli, poi
accoglie la loro gioia a missione compiuta e alla fine (purtroppo questo terzo
passaggio manca nella proclamazione liturgica) svela la ragione profonda e
della missione e della gioia con la sua preghiera di lode al Padre. Possiamo
riprendere i tre passaggi con brevi annotazioni.
Il brano
inizia con l’annotazione: ‘dopo questi
fatti’, con l’allusione alle condizioni della sequela di Gesù presentate
prima. Chi sono quei settantadue discepoli che il Signore invia davanti a sé
nel suo cammino verso Gerusalemme? Sono coloro che, avendo incontrato Gesù, al
pari di lui, non fanno riposare il loro capo se non nel volere di Dio che cerca
la salvezza degli uomini; sono coloro il cui riposo consiste nella pace che
portano nel nome del Signore.
Gesù li
invia due a due. Come possono annunciare la pace del Regno se non la fanno
vedere come compiuta nella loro relazione fraterna? Come possono invitare a
condividere insieme a loro la pace del Signore che si fa nostro prossimo se
quella pace non è diventata radice di benevolenza tra loro, segno dello
splendore di Dio in mezzo a loro?
Gesù li invita
a pregare perché Dio non si stanchi di far grazia di sé attraverso coloro che
hanno trovato nella pace del vangelo il riposo del loro cuore. Il fatto di far
pregare allude ad una rivelazione. Vuol dire che nell’annuncio del vangelo è
Dio stesso che si approssima all’uomo e questo è il mistero che, se ha
conquistato il cuore degli annunciatori, conquisterà anche quello degli
ascoltatori. La tensione dell’annuncio in effetti è proprio quello di vivere in
una situazione dove non ci sia bisogno di annuncio perché ormai tutti conoscono
il Signore, direttamente, personalmente. Sarà la grazia degli ultimi tempi. Per
ora, invece, la tensione si esprime nel rendere capace di annuncio chi a sua
volta lo riceve perché a tutti giunga la pace del Signore.
Li invia come
agnelli in mezzo ai lupi. Come dicesse: non cercate di imitare i lupi, perché
avverrà come per il Figlio dell’Uomo, l’Agnello di Dio, che ha rivelato lo
splendore dell’amore di Dio per gli uomini. Stare agnelli comporta la
rivelazione di quel mistero d’amore. Ma non temete: la debolezza di Dio è più
forte della forza degli uomini.
A missione
compiuta, i discepoli tornano pieni di gioia. La letizia è il segnale della
partecipazione all’opera di Dio di cui Gesù ci fa corresponsabili. Una prima
ragione di gioia sta nella caduta di satana dal cielo. Il che significa: il
demonio non ha più un potere superiore all’uomo. Cessa la sudditanza, anche se
inizia la lotta, che si può vincere nel nome di colui che l’ha ormai
detronizzato con l’annuncio evangelico: “è
vicino a voi il regno di Dio”. La forza del nemico sta nell’intimorire, ma
a chi non gli presta orecchio non fa alcun danno. Gesù però conferma la loro
gioia sulla base del fatto che “i vostri
nomi sono scritti nei cieli”. Come a dire: non rallegratevi di aver potuto
fare cose straordinarie, impensate e impensabili fino ad ora, ma rallegratevi
di godere del segreto di Dio, di stare solidali con il suo sentire, di
partecipare alla comunione di conoscenza e amore col Padre. L’annuncio si gioca
infatti sulla potenza del contagio della letizia di cui fanno esperienza i
discepoli e di cui Gesù svela la vera ragione: i vostri nomi sono scritti nei
cieli, avete parte al ‘far grazia di sé all’uomo da parte di Dio’, partecipate
al suo amore per gli uomini.
I discepoli
impareranno l’estensione e la natura di quella letizia nel seguire il loro
Maestro che sta andando a Gerusalemme dove subirà la passione. Lo ricorda s.
Paolo nella seconda lettura di oggi quando proclama: “Fratelli, quanto a me non ci sia altro vanto che nella croce del
Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo della quale il mondo per me è stato
crocifisso, come io per il mondo” (Gal 6,14). Come a dire: rispetto a
quell’amore, rivelato dall’alto e colto nel seguire il Signore Gesù, di cui ho
avuto la visione nel guardarlo trafitto in croce, non c’è nulla nel mondo che
meriti la preferenza e non c’è nulla in me che può trovare adeguato compimento
a partire dal mondo. La letizia evangelica è una letizia esigente.
Ma la vera
radice di quella letizia è rivelata da Gesù quando firma la gioia dei discepoli
con la sua esultanza: “Ti rendo lode, o
Padre ... perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai
rivelate ai piccoli. Sì, Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza”
(Lc 10,21). È all’intimità di quella rivelazione che
il discepolo attinge per fondare le ragioni di un vivere che si strutturano
come radici di umanità nuova. E la sua forza sta tutta nella fiducia delle
parole di Gesù: “Non temere, piccolo
gregge, perché al Padre vostro è piaciuto dare a voi il Regno” (Lc 12,32)! Non è conquista nostra, non attiva meccanismi di
rivendicazioni o esibizioni, non comporta grandezze umane che dividono; solo
una gratitudine immensa, uno stare solidali con i sentimenti di benevolenza di Dio per tutta l’umanità.
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Terzo
ciclo
Anno
liturgico C (2009-2010)
Tempo
Ordinario
15a
Domenica
(11 luglio
2010)
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Dt
30,10-14; Sal
18; Col 1,15-20; Lc 10,25-37
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Il brano di
vangelo conferma l’affermazione del Deuteronomio: “Questo comando che oggi ti ordino non è troppo alto per te, né troppo
lontano da te. ... Anzi, questa parola è molto vicina a te, è nella tua bocca e
nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica”. Cosa significa che la parola
del Signore, il suo comandamento, è vicino
a noi? Almeno due cose: 1) non è qualcosa di complicato o assurdo o
inarrivabile, ma accessibile a noi; 2) è adatto a noi, corrisponde al nostro
cuore, nel senso che fa vivere il cuore, ne compie gli aneliti profondi. Ma
allora perché facciamo così resistenza al suo comandamento nella nostra vita?
Già il testo
del Deuteronomio lo sottolinea: la parola del Signore ti è vicina perché tu la metta in pratica. Vale a
dire: il comandamento non rivela il suo segreto se non praticandolo. Non lo
puoi praticare se non lo accogli da dentro un’alleanza col tuo Dio, ma non lo
puoi comprendere se non praticandolo e così cogliere il gusto di quell’alleanza
con Dio che si era prima appena percepita. L’amore di Israele per il suo Dio è
un tema tipico del libro del Deuteronomio, assente negli altri libri del
Pentateuco. Il brano di oggi chiude praticamente il libro del Deuteronomio e
tutto il Pentateuco. Se il vangelo lo riprende è come se riprendesse in sintesi
tutta la Legge mostrandone il compimento, come giustamente dimostra di
conoscere il dottore della legge che interroga Gesù.
Luca e
Matteo pongono la domanda del dottore della legge sotto un’angolatura negativa,
mentre Marco sottolinea la sua buona fede. La prima domanda: “Maestro, che cosa devo fare per ereditare la
vita eterna?”, che sia posta con malizia o in buona fede, è comunque una
domanda ben posta. Non si può chiedere: che cos’è la vita eterna? La
comprensione segue sempre la pratica e la pratica fa riferimento a un’alleanza
goduta. La seconda domanda: “E chi è mio
prossimo?”, è comunque una domanda posta male. Se tradisce la sua cattiva
intenzione, allora significa: non posso mica mettere sullo stesso piano tutti
gli uomini, giusti e peccatori, Israele e i pagani! Ma così pensando, l’uomo
crede di difendere le sue distinzioni in nome di Dio e si impedisce di
conoscere in verità il volto del suo Dio. Se procede dalla sua buona fede,
allora significa: perché non gusto ancora quella vita eterna che cerco? Cosa mi
manca? E pone la domanda per conoscere in verità il pensiero di Dio. E Gesù
narra la parabola del buon samaritano. La conclusione della parabola
restituisce al dottore della legge l’ottica giusta, quella di Dio: non si
tratta di sapere chi sia o non sia il prossimo meritevole del mio amore, ma di
agire da prossimo con chiunque, anche con i nemici o gli avversari. “Va’, e anche tu fa’ così”, come il buon
samaritano che si è mosso a compassione vedendo un uomo ferito sulla strada.
Il mistero
della parabola però non finisce qui, perché le parabole parlano di Dio e non
semplicemente dell’uomo. Il buon samaritano è Gesù, che ha lasciato le 99
pecore (gli angeli) al sicuro ed è venuto a cercare la pecora (l’uomo) perduta.
Così, l’agire in compassione fa ereditare la vita eterna perché assimila a Dio,
rende simili al Cristo e ne svela al nostro cuore la bellezza. È il mistero di
ogni parola di Dio. Non viene pronunciata perché la si capisca, ma perché la si
metta in pratica con lo scopo di godere di quella vita che da Dio deriva e
tutti ingloba riempiendo il cuore. Davanti alla parola dovremmo domandarci:
qual è il mistero che nasconde, di cui diventare partecipi, mettendola in
pratica?
Lo rivela il
salmo 18 con il proclamare: “La legge del
Signore è perfetta, rinfranca l’anima; la testimonianza del Signore è stabile,
rende saggio il semplice. I precetti del Signore sono retti, fanno gioire il
cuore; il comando del Signore è limpido, illumina gli occhi”. La parola del
Signore ristora l’anima, dà gusto all’intelligenza, gioia al cuore e luminosità
agli occhi. Come a dire: è la parola del Signore, cioè la vita che deriva da
lui, a costituire la fonte del ristoro (pace), del gusto (sapienza, senso),
della gioia e della luminosità per i nostri cuori. E tutto questo si sperimenta
accettando di condividere l’agire di Dio per gli uomini: farsi prossimo a
tutti.
È curioso
osservare come la lettera ai Colossesi presenti il
Cristo nella sua preminenza quanto alla creazione e quanto alla redenzione: “Tutte le cose sono state create per mezzo di
lui e in vista di lui. ... è piaciuto
infatti a Dio che abiti in lui tutta la pienezza e che per mezzo di lui e in
vista di lui siano riconciliate tutte le cose ...”. Il che significa
conferire alla parola evangelica non tanto la natura di ideale ma quella di
radice. In altri termini: se vogliamo conoscere cosa davvero vuole il nostro
cuore in profondità non abbiamo che da riferirci alla parola di Gesù; se
vogliamo realizzare i desideri profondi che portiamo, la dinamica da seguire
per ottenere soddisfazione è quella mostrata dalla parola evangelica. Non
sembra affatto scontato riconoscere la cosa, ma beato colui al quale è concesso
vedere il mondo sotto questa angolatura.
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Terzo ciclo
Anno
liturgico C (2009-2010)
Tempo
Ordinario
16a
Domenica
(18 luglio
2010)
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Gen
18,1-10; Sal
14; Col 1,24-28; Lc 10,38-42
_________________________________________________
La lettura
della Genesi ed il brano di Luca sono accomunati da un atteggiamento di fondo
caratteristico: la sollecitudine. Abramo 'corre' per onorare i suoi ospiti;
Marta, presa dalla stessa sollecitudine, è tutta indaffarata nei molti servizi
per un'ospitalità degna dell'illustre Ospite, mentre Maria, con lo stesso
atteggiamento di sollecitudine anche se in modalità differente dalla sorella, è
tutta presa dall'Ospite dal quale non stacca occhi e orecchi. Da dove
scaturisce quella sollecitudine? Senza cogliere la radice di quella sollecitudine,
difficilmente possiamo avvertire il mistero che questi testi illustrano.
Gesù intesse
l’elogio di Maria per rimproverare Marta? Dopo l’intervento della sorella e la
risposta di Gesù, Maria avrà continuato a stare ai piedi di Gesù? La finale del
brano riporta: “Maria ha scelto la parte
migliore, che non le sarà tolta”. Cosa significa: ‘non le sarà tolta’?
Semplicemente, che Gesù l’avrebbe lasciata stare ai suoi piedi e non l’avrebbe
comunque importunata invitandola ad aiutare la sorella nel servizio? Il vangelo
non riporta semplici annotazioni di cronaca quotidiana.
In effetti,
il fulcro dell’episodio sta appunto in quel ‘non le sarà tolta’, in quanto
rivela la ragione del fatto che la scelta di Maria è migliore (nel testo:
‘Maria ha scelto la parte buona’). L’allusione è al desiderio profondo del
cuore dell’uomo che è fatto per Dio e di cui brama vedere il Volto. Ciò che
sazia il cuore dell’uomo è la ‘conoscenza’ del suo Dio. L’elogio di Gesù si
riferisce ad un tempo in cui sarà Lui stesso a servire i suoi discepoli (cfr. Lc 12,37). Ciò che non verrà mai meno e di cui si potrà
godere in assoluto, quello è la parte buona, l’unica cosa necessaria, quello di
cui c’è bisogno. In primo piano c’è Dio che viene incontro all’uomo, Dio che
compie i desideri dell’uomo, Dio che ristora l’uomo. La figura di Maria ai
piedi di Gesù apre a quella visione. Ma quella visione è percepibile se il
cuore avverte la natura del suo ‘ascoltare’, tutto teso a godere la verità
dell’amore del suo Dio che la nutre e la ristora. Così, la sua figura è figura
di ogni discepolo, la figura di ogni lettore/ascoltatore della Parola di Dio.
Quando Gesù
fa l’elogio di Maria, rivela la natura vera del servizio di Marta. In effetti,
due sono gli aspetti dell'ospitalità: la sollecitudine nel servizio e la
intimità con l'ospite. Dei due, la parte migliore è l'intimità, nel senso che è
l'intimità la forza e la finalità della sollecitudine, la quale serve a dare
concretezza all'intimità. Tutto converge verso l'intimità. Ma la domanda vera per
noi può essere: posso godere l'intimità senza aver mostrato la sollecitudine?
Volere l'intimità senza essere capace di sollecitudine non suonerebbe forse
come una pretesa, come una ricerca interessata, come un privilegio esibito?
Nel rapporto
tra le due sorelle, che simboleggiano tutta la chiesa considerata unitariamente
nelle sue molteplici manifestazioni di doni e carismi, Maria deve ringraziare
Marta: può stare con il Signore senza che il Signore sia privato del dovuto
onore; e Marta può ringraziare Maria: può onorare il suo Signore senza che il
Signore sia lasciato solo.
In realtà la
suddivisione dei ministeri non comporta lo spezzettamento dell'unica cosa
necessaria, che resta sempre la medesima per tutti, in tutte le circostanze.
Quando gli apostoli hanno scelto di dedicarsi al ministero della parola e di
affidare ad altri il servizio delle mense, nel racconto degli Atti degli
apostoli, non hanno scelto di fare Maria piuttosto di Marta. L'esempio
testimoniale dell'unica cosa necessaria è dato da Stefano, incaricato del
servizio delle mense, che aveva il cuore rapito nella visione del suo Signore.
L’unica cosa necessaria non è l'opera migliore fra altre; è di altra natura: il
possesso di quell'unica cosa necessaria rende 'fruttuosa' ogni opera di servizio.
Fruttuosa, vale a dire capace di far sbocciare l'opera eseguita in frutto di
intimità. Come a dire, ancora, che il frutto dell'agire bene non è
semplicemente la virtù, ma la visione: aprire gli occhi del cuore alla
conoscenza del Signore, all'unione con il Signore che davvero ristora il nostro
cuore. E se il cuore è ristorato, allora, nel suo servizio ai fratelli, lascerà
intravedere 'quanto è buono il Signore', quanto è desiderabile il suo possesso.
In realtà, il senso stesso della sollecitudine del servizio consiste nel
permettere agli altri di desiderare l’intimità col Signore, che di quel
servizio è motivo e scopo.
Quando di
Abramo si descrive la sua sollecitudine per gli ospiti, in primo piano non sta
la sua virtù, ma la promessa di Dio che viene incontro all’uomo e lo rende
degno della sua accondiscendenza. Quello che il testo vuol far vedere è
l’accondiscendenza di Dio per il suo servo, capace di tener fede alle sue
promesse e di garantire al suo servo la verità della sua conoscenza, per lui e
per i suoi discendenti. Le antiche leggende ebraiche non fanno che sottolineare
questo aspetto nella fantasia dei particolari del racconto. Abramo è visitato
da Dio il terzo giorno dopo la sua circoncisione, segno dell’obbedienza al suo
Dio, quando è ancora sofferente. Il caldo era insopportabile perché nessun
viandante passasse a disturbare Abramo. Ma la cosa aveva reso Abramo molto
triste perché se non capitava nessuno non avrebbe potuto esercitare alcuna
ospitalità. Dio stesso decide allora di fargli visita e non vuole che nemmeno
si alzi per venirgli incontro perché era sofferente, dicendogli, anzi, che i
suoi discendenti, già all’età di quattro o cinque anni, staranno seduti nelle
scuole e nelle sinagoghe dove Lui dimorerà. Ma quando arrivano gli angeli in veste
di uomini, Abramo supplica il Signore di permettergli di andare loro incontro
per offrire ospitalità, preferendola alla compagnia stessa della Sua Presenza.
Tutti particolari che rivelano l’estrema accondiscendenza di Dio, percepita
come la benedizione perenne sul popolo che da Abramo prende discendenza.
La colletta
della liturgia di oggi coglie bene la natura della sollecitudine che fa da
radice sia all’agire che all’ascoltare: “Padre sapiente e misericordioso,
donaci un cuore umile e mite, per ascoltare la parola del tuo Figlio che
risuona ancora nella Chiesa, radunata nel suo nome, e per accoglierlo e
servirlo come ospite nella persona dei nostri fratelli”. Poter avere un cuore
umile e mite significa poter partecipare all’umanità di quel Figlio che di sé
dice: ‘Venite a me voi tutti … che sono mite e umile di cuore’ (cfr. Mt 11,29).
E partecipare alla sua umanità significa poter godere dell’intimità del Figlio
con il Padre e poter esprimere nel proprio agire tutta l’accondiscendenza di
Dio per l’uomo, radice della nostra sollecitudine per i fratelli.
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Terzo
ciclo
Anno
liturgico C (2009-2010)
Tempo
Ordinario
17a
Domenica
(25 luglio
2010)
_________________________________________________
Gen
18,20-32; Sal
137; Col 2,12-14; Lc 11,1-13
_________________________________________________
La liturgia
ci introduce oggi al mistero della preghiera. Il brano di vangelo inizia con
l’annotazione che i discepoli vedono Gesù pregare. Cosa li ha dunque colpiti,
cosa ha affascinato i loro cuori nel vedere il loro maestro assorto in
preghiera da far nascere in loro una profonda nostalgia:“Signore, insegnaci a pregare”? La risposta di Gesù, con
l’insegnamento della preghiera del Padre
nostro, è estremamente rivelativa. Se Gesù insegna il Padre nostro, vuol dire che ciò che rendeva singolare la sua
preghiera era l’intensità di intimità con quel Padre di cui custodiva i comandamenti, di cui annunciava la
prossimità, di cui svelava il volto, di cui mostrava la verità nell’amore
all’uomo e di cui suscitava la nostalgia in questo mondo.
La
profondità di tale rivelazione è svelata dalla preghiera di intercessione di
Abramo. Il brano è introdotto dal pensiero del Signore: “Devo io tenere nascosto ad Abramo quello che sto per fare, mentre
Abramo dovrà diventare una nazione grande e potente e in lui si diranno
benedette tutte le nazioni della terra?”, secondo la proclamazione del
salmo: “Il Signore si confida con chi lo
teme: gli fa conoscere la sua alleanza” (Sal
25,14), che nel testo ebraico suona: “Il
segreto (o l’intimità) del Signore è per quanti lo temono”. Abramo, che si
sente polvere e cenere, può parlare al suo Signore da dentro l’alleanza che gli
è stata offerta e alla quale ha aperto il suo cuore in tutta fiducia.
Quando
intercede per Sodoma è come osasse richiamare il
Signore alla sua dignità di giustizia
e di misericordia, come a lui si era rivelato. Abramo sapeva che non erano
bastati otto giusti per salvare l’umanità dal diluvio (nell’arca si salvano
Noè e quelli della sua famiglia, otto in tutto). Nella sua intercessione
si ferma dunque a dieci: se ci fossero dieci giusti nella città, come potrà il
Signore distruggerla, proprio per riguardo a quei dieci? Ma l’umanità non ha
dieci giusti, ne ha uno solo: quel Figlio di Dio fatto uomo, l’unico Giusto.
Sarà per riguardo a lui che Dio abbandona la sua giustizia per mostrare la sua misericordia.
Ogni preghiera si fa forte presso Dio per la forza di quel Giusto che costringe
Dio alla misericordia. Sarà quel Giusto a mostrare il volto di misericordia del
Padre.
La
tradizione ebraica è unanime nel riconoscere ad Abramo la condivisione dei
sentimenti di Dio tanto che sembra che il servo custodisca il senso
dell’alleanza in favore di tutti i popoli in modo più sollecito dell’Altissimo.
E in questo piace all’Altissimo. E in questo è il padre della fede. Negli
antichi racconti su Abramo si fa notare che quando un uomo prega con devozione
può star sicuro che la sua preghiera sarà esaudita, perché è detto: “Il desiderio degli umili tu sempre ascolti,
Signore, disponi il loro cuore, fai attento il tuo orecchio” (Sal 10,17). Nessuno ha pregato con tale fervore come
Abramo: “Lontano da te agire in questo
modo, il far morire il giusto con l’empio, così che il giusto sia trattato come
l’empio; lontano da te!”. Quando l’Altissimo vide come intercedeva perché
non distruggesse il mondo, lo lodò: “Tu
sei il più bello tra i figli dell’uomo, sulle tue labbra è stata versata la
grazia” (Sal 45,3).
Quando Gesù
insegna la preghiera del Padre nostro,
l’allusione concerne la confidenza di Abramo con il suo Dio, concerne il volto
di misericordia del Padre per i suoi figli che quel Figlio dell’uomo incarna e
rivela. La forza della preghiera dipende dal contesto di confidenza con Dio che
fa leva sulla sua misericordia per i suoi figli. Potremmo commentare brevemente
le invocazioni del Padre nostro con le indicazioni dei nostri padri: possa il
tuo nome essere mantenuto santo in noi, nelle nostre menti e nelle nostre
volontà; venga per noi ora quel regno che hai promesso di dare ai tuoi santi: ‘venite, benedetti del Padre mio, ricevete in
eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo’ (Mt 25,34); quando chiediamo il
nostro pane quotidiano stiamo chiedendo la vita eterna in Cristo e l’essere una
cosa sola con il suo corpo. E per sottolineare la confidenza in Dio che ci può
liberare dalla tentazione, Gesù racconta la parabola dell’amico importuno.
Nella
tradizione cristiana si sottolinea costantemente che ogni nostra richiesta a
Dio, se non può essere ricondotta ad una domanda del Padre Nostro, non sarà esaudita. E tutte le richieste confluiscono
in una sola, come la conclusione della spiegazione di Gesù mostra chiaramente:
“ ... quanto più il Padre vostro del
cielo darà lo Spirito Santo a quelli che glielo chiedono!”. Raramente
abbiamo coscienza nella nostra preghiera che questa sia la domanda essenziale.
Probabilmente, perché non abbiamo né coscienza dell’urgenza che ci agita dentro
né della confidenza di cui ci è dato l’accesso.
L’invadenza
dell’amico importuno fa pensare alla mancanza di ritegno della donna cananea
(cfr. Mt 15, 28), all’insistenza della vedova presso il giudice disonesto (cfr.
Lc 18,1-8). E dire che Dio esaudisce prontamente le suppliche dei suoi
eletti, quando la verità della storia è lì a provare il contrario, come tutti
ne facciamo amaramente esperienza, significa riconoscere che solo la richiesta
di Spirito Santo sarà esaudita. Vale a dire, sarà esaudito l'anelito del cuore
che non si accontenta delle cose che provengono da Dio, ma che cerca proprio
Dio, la confidenza con lui. Allora, per le cose di cui abbiamo bisogno, prima
che di richiesta, si tratta di affidamento. Affidamento, che risalta in tutta
la sua potenza nel riferirci a Dio come al Padre, come Gesù ci ha insegnato e
rivelato.
La drammaticità
della logica della preghiera (ottieni se chiedi, non necessariamente ciò che
chiedi) è la drammaticità di una relazione d’amore, espressa proprio dalla
preghiera di quel Giusto di cui viene detto: “Nei giorni della sua vita terrena egli offrì preghiere e suppliche, con
forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo da morte e, per il suo pieno
abbandono a lui, venne esaudito. Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò
che patì” (Eb 5,7-8).
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Terzo
ciclo
Anno
liturgico C (2009-2010)
Tempo
Ordinario
18a
Domenica
(1 agosto
2010)
_________________________________________________
Qo
1,2; 2,21-23; Sal
94; Col 3,1-5.9-11; Lc 12,13-21
_________________________________________________
La risposta
di Gesù all’uomo che gli chiedeva di usare la sua autorità per ottenere
giustizia in una questione di eredità svela l’intenzione nascosta di tante
nostre domande: cercare giustizia non è forse un diritto? Ma tale domanda è
evangelica? In altri termini: il cuore può trovare davvero soddisfazione? È fin
troppo evidente che non si può vivere bene senza giustizia, ma quale giustizia
assicura il vivere bene? La riflessione sapienziale della prima lettura, tratta
dal libro del Qoelet, lo evidenzia molto bene: tutto
è vanità. Vale a dire: è fatica vana cercare nei beni di questo mondo la
felicità.
Come sempre,
le risposte di Gesù fanno riformulare le domande in modo più pertinente. Che
tipo di giudizio Gesù formula? Il suo giudizio non riguarda questo mondo, ma il
mondo futuro, che però si gioca in questo mondo, come illustra anche la seconda
lettura. L’uomo cerca i beni di questo mondo per vivere bene, ma – ricorda Gesù
– il vivere bene non dipende dai beni di questo mondo. La parabola dell’uomo
ricco che aveva accumulato molti beni, nel suo significato più immediato, è
chiara. Corrisponde al senso di molti altri passi evangelici: che giova
all’uomo guadagnare il mondo se poi rovina se stesso o muore? (cfr Lc 9,25). Non si tratta però di scegliere tra la povertà
evangelica e la ricchezza, ma tra la cupidigia e la solidarietà: “Così è di chi accumula tesori per sé e non
si arricchisce presso Dio”. Ecco la domanda meglio posta: come arricchire
davanti a Dio? In altre parole: quali beni permangono? Di quali beni va in
cerca il nostro cuore?
Sembra che l’uomo
non possa evitare questa contraddizione: i beni affascinano, ma non soddisfano;
il regno di Dio soddisfa, ma non affascina, almeno come noi ci immaginiamo o
vorremmo! La profondità della portata delle parole di Gesù risalta più avanti,
nel v. 32: “Non temere, piccolo gregge,
perché al Padre vostro è piaciuto dare a voi il Regno”. Contrapposto ai
beni sta il Regno. Ma noi siamo ancora nella condizione di percepire la natura
dell’offerta di Gesù con il suo parlare della benevolenza del Padre che in lui ci
fa gustare il suo Regno? Riusciamo ancora a sognare cosa possa comportare
l’invito: “Venite, benedetti del Padre
mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del
mondo” (Mt 25, 34)? In effetti, si tratta di una rivelazione singolare, che
risalterà ancora di più quando leggeremo domenica prossima il seguito del
nostro brano.
La
rivelazione di Gesù procede per due passaggi: prima risponde alla folla, poi ai
discepoli. Rispondendo alla folla indica come la discriminante per la giustizia
in questo mondo risulti dal fatto di stare solidali con l’umanità. Alla
domanda: come ci si arricchisce davanti a Dio, la Scrittura dà una risposta
univoca: dando al povero (Pr 3,27; Is 58,7). La
solidarietà con chi è nel bisogno rende la vita degna di essere vissuta. Allora
chi è il ricco? È colui che assomiglia a Gesù: “egli, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio
l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo...”
(Fil 2,6-7). Dietro l’ammonizione di Gesù, si nasconde anche questa
rivelazione.
Gesù
continua poi a spiegarsi con i discepoli e risponde alla domanda: qual è la
radice della confidenza nella vita? Sta forse nei beni di questo mondo? No! Sta
nell’alleanza con Dio, la cui fruizione permette quel vivere bene che il nostro cuore cerca, a volte troppo
affannosamente, solo nei beni di questo mondo. Se prima si sottolineava che i
beni vanno condivisi, adesso si sottolinea che il bene vero è l’accoglienza del
desiderio di prossimità all’uomo da parte di Dio, che in Gesù si fa manifesta:
al Padre è piaciuto dare a voi il regno. Tutte le parole di Gesù sono l’eco di
questa rivelazione. Qui si radica quella confidenza
capace di aprire la vita, capace di aprirci alla vita, attraversando l’usura
del tempo e l’inconsistenza dei beni. Qui si radica l’opposto di quella
cupidigia che scardina il cuore dell’uomo e che rende la vita una battaglia
persa per la felicità. Cercare prima di tutto il Regno è volere prima di tutto la compagnia di Dio, voler godere la benevolenza
di Dio nella nostra vita. Godere la benevolenza porta ad offrirla, a
condividerla, a vivere i beni nell’ottica di una benevolenza condivisa. Il
segreto? La possibilità di imparare a percepire, nelle parole della voce che
dice: “Non temere, piccolo gregge, perché
al Padre vostro è piaciuto dare a voi il Regno”, la tenerezza con cui
quella voce risuona. Come a dire: il cuore dell’uomo cerca una pienezza che
nessuna delle ragioni del mondo soddisfa. Le ragioni del mondo non riescono a
dare ragione delle ragioni del cuore. Solo in quella voce quelle ragioni
trovano quiete.
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Terzo
ciclo
Anno
liturgico C (2009-2010)
Tempo
Ordinario
19a
Domenica
(8 agosto
2010)
_________________________________________________
Sap
18,3-9; Sal
32; Eb
11,1-19; Lc
12,32-48
_________________________________________________
Il brano
evangelico di oggi illustra il mistero della grandezza divina del servizio,
rivelazione tipicamente evangelica: “Beati
quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità io vi
dico, si stringerà le vesti ai fianchi, li farà mettere a tavola e passerà a
servirli”. Proprio come annunciava il profeta Isaia: “Io, il Signore, sono il primo e io stesso sono con gli ultimi” (Is 41,4); come riporta anche Mc 10,45: “Anche il Figlio dell’uomo infatti non è
venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per
molti”; e ancora Lc 22,27: “Infatti chi è più grande, chi sta a tavola o chi serve? Non è forse
colui che sta a tavola? Eppure io sto in mezzo a voi come colui che serve”.
Ecco l’immagine di fondo che l’uomo non avrebbe potuto inventarsi e che
riassume invece il senso della persona e dell’agire di Gesù: Dio si mette a
servizio e in servizio degli uomini! Si tratta per noi di accogliere la
rivelazione dei segreti di Dio, gustarne la potenza e lasciarsene riverberare
nell’intimo. L’invito alla vigilanza tende a questo.
In effetti,
l’esortazione alla vigilanza, con le parabole che la illustrano, dice assai più
di quello che saremmo portati a credere. I beni sono precari, e anche la vita è
precaria. Stare vigili significa
allora non perdere la coscienza di quella precarietà? Oppure, ancora, significa
aspettare con timore l’arrivo del padrone, che comunque verrà e che dovrà
ricompensare o castigare i suoi servi a seconda di come si sono comportati? Non
c’è nulla di evangelico in questo tipo di vigilanza.
La vigilanza
evangelica è in rapporto ad altro. Si tratta di un’esperienza di fede che
equivale a un vivere nell’orizzonte di una promessa che ha toccato il cuore. In
primo luogo non sta la fatica del vegliare, ma la percezione della fedeltà di
Dio alla sua alleanza. Non per nulla la liturgia comincia con l’antifona: “Sii fedele, Signore alla tua alleanza, non
dimenticare mai la vita dei tuoi poveri. Sorgi, Signore, difendi la tua causa,
non dimenticare le suppliche di coloro che t’invocano”. Si tratta di un
vegliare in funzione della percezione del regno di Dio arrivato a noi, in
funzione della sua promessa di prossimità all’uomo che si è compiuta e che
continuamente si va compiendo. La forza dell’esortazione del vegliare sta tutta
nel riportare il cuore a sentire l’alleanza di Dio, a vederla realizzata nel
Signore Gesù che diventa il tesoro del cuore perché in lui si concentrano le
promesse di Dio e i nostri aneliti. E prima ancora che tradursi in fatica di
veglia perché il nostro cuore non si allontani dalla verità percepita, diventa
ardore di veglia perché il Signore non dimentichi, perché non abbia timore
delle nostre miserie, perché non ci abbandoni, perché si costringa alla fedeltà
a quell’amore che ha così fortemente voluto per noi.
Il senso
della parabola dell’attesa del padrone quando torna dalle nozze va cercato in
quel tipo di vigilanza evangelica. L’immagine non ha nulla di usuale perché non
esiste sulla terra padrone che si metta a servire coloro che sono al suo
servizio. Non è possibile non pensare al gesto di Gesù di lavare i piedi ai
discepoli nell’ultima cena, come non è possibile non riferirsi al versetto di
Giovanni “Se uno mi ama, osserverà la mia
parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso
di lui” (Gv 14,23). Quel gesto, quella volontà
del Signore nei nostri confronti, è ben sottolineata dal versetto iniziale del
brano di oggi: “Non temere, piccolo
gregge, perché al Padre vostro è piaciuto di dare a voi il Regno”. E
corrisponde, nella ricostruzione della vicenda del popolo di Israele che esce
dall’Egitto, secondo il libro della Sapienza, all’annotazione: “Quella notte fu preannunciata ai nostri
padri, perché avessero coraggio, sapendo bene a quali giuramenti avevano
prestato fedeltà”.*
La fede, che
diventa ‘una colonna di fuoco, come guida di un viaggio sconosciuto’, nel
viaggio cioè della nostra vita, sta tutta nella percezione di quel “al Padre vostro è piaciuto”. In quella
volontà assoluta di benevolenza per l’uomo, volontà manifestata in Gesù, sta il
segreto della vigilanza evangelica, come anche della fatica apostolica. Come
potremo liberarci dagli affanni e dalle preoccupazioni per i beni di cui
abbiamo bisogno per vivere, come potremo vivere in sicurezza una vita
assolutamente precaria, come non doverci servire dei fratelli per colmare il
vuoto della precarietà che ci attanaglia, se non abbiamo mai percepito quella
volontà di benevolenza nei nostri confronti? L’insistenza delle Scritture e
della Tradizione quanto al non
dimenticare, state attenti, vegliate, trova qui la sua ragion d’essere.
In questa
ottica anche un altro particolare del brano evangelico di oggi assume tutta la
sua rilevanza. Sembra che le parabole sulla vigilanza si riferiscano a un tempo
finale, allorquando il padrone arriverà e non ci saranno più scuse che tengano.
In realtà non si tratta di un tempo (il tempo eterno dopo il tempo storico) ma
di una dimensione (il tempo eterno che attraversa il tempo storico). Come a
dire: il padrone che arriva è l’immagine della rivelazione che si compie quando
la vita quotidiana si apre al mistero del regno dei cieli. Non si tratta di un
vivere oggi in un certo modo quaggiù per meritarsi di andare domani lassù. Si
tratta piuttosto di un’imminenza del Regno che si può rivelare in ogni punto
della nostra vita. A questo tende il servizio
del padrone riguardo ai suoi servi: lui si rivela al cuore nella sua volontà
assoluta di benevolenza per noi, visione che cambia radicalmente l’orizzonte
della nostra vita.
A ricordarci
che non si tratta, però, di una beatitudine beata,
ma angosciosa, lavorata, paziente, sta
l’esempio di Abramo riportato nella seconda lettura. È vero che, se Abramo ha
potuto vedere solo di lontano i beni promessi, noi possiamo dire di averli
conseguiti, avendoli visti realizzati in Gesù. Ma per noi, come per lui, se la
promessa è certa, l’attuazione è precaria. Professare che in Gesù le promesse
si compiono non significa ancora che si compiono in verità in noi. Non per
nulla le parabole sulla vigilanza parlano della responsabilità dell’agire dei
discepoli, con l’insidia dell’illusione sempre alle porte, con l’insidia della
durezza di cuore rispetto all’attesa del padrone e al trattamento dei fratelli.
L’accento però, nell’esperienza evangelica, non è più posto sulla funzionalità
dell’agire (faccio bene per avere una ricompensa) ma sulla qualità della
vigilanza (sono così desideroso del mio padrone che mi preoccupo di tutti i suoi
servi). È l’attesa di Qualcuno, di Qualcuno che si sveli al mio cuore che
informa ormai la qualità dell’agire.
________________________________________________________
* Secondo la traduzione in lingua
corrente: “I nostri antenati già prima
furono preavvisati di questa notte memorabile. Sapevano dunque a quali promesse
avevano creduto e in piena sicurezza potevano rallegrarsi”.
Secondo la versione CEI 1974: “Quella notte fu preannunziata ai nostri
padri perché, sapendo a quali promesse avevano creduto, stessero di buon animo”.
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Terzo
ciclo
Anno
liturgico C (2009-2010)
Solennità
Assunzione
della Beata Vergine Maria
(15 agosto
2010)
_________________________________________________
Ap
12,1-10; Sal
44; 1Cor 15,20-26; Lc 1,39-56
_________________________________________________
Nella festa
di oggi riguardo alla Madre di Dio proclamiamo che è stata assunta alla gloria
celeste nella sua persona, corpo e anima, e dal Signore esaltata come Regina
dell’universo, partecipando in modo singolare alla risurrezione del suo Figlio
e anticipando quella che sarà la risurrezione di noi tutti. Il nome antico
della festa è ‘Dormizione della Vergine’ con
l’evidente allusione al mistero del suo transito. Un bellissimo tropario della liturgia bizantina canta: “Nella tua
maternità hai conservato la verginità, nella tua dormizione
non hai abbandonato il mondo, o Madre di Dio; hai raggiunto la sorgente della
Vita, tu che hai concepito il Dio vivente e che con le tue preghiere liberi le
nostre anime dalla morte”. E un altro tropario canta:
“Tomba e morte non hanno trattenuto la Madre di Dio, sempre desta con la sua
intercessione e immutabile speranza con la sua protezione: quale Madre della
vita, alla vita l’ha trasferita colui che nel suo grembo semprevergine
aveva preso dimora”.
Se cerchiamo
di cogliere il mistero della festa di oggi a partire dai brani proclamati,
possiamo intravedere in cosa consista la ‘beatitudine’ della Madre di Dio,
sempre vergine Maria, fonte di speranza per noi, come dice Dante: “Qui se' a noi meridiana face di caritate,
e giuso, intra' mortali, se' di speranza fontana vivace” (Paradiso, canto XXXIII).
Il vangelo
della vigilia mette in scena la lode a Gesù di una mamma: «Beato il grembo che ti ha portato e il seno che ti ha allattato!»,
alla quale Gesù risponde:«Beati piuttosto
coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano!» (Lc
11,27-28). Anche quando, in un’altra circostanza, si avvicinano i suoi parenti
e gli annunciano la presenza di sua madre, Gesù esclama: «Mia madre e miei fratelli sono questi: coloro che ascoltano la parola
di Dio e la mettono in pratica» (Lc 8, 21).
Come a dire:
i nomi di cui rallegrarsi sono quelli scritti in cielo, quelli che rivelano il
segreto di Dio nel suo amore agli uomini. E quale persona, meglio della Vergine
Maria, ha potuto permettere al segreto di Dio di svelarsi in questo mondo dal
momento che lei ha accolto la sua parola di amore agli uomini in modo così
radicale da farne sostanza della sua vita, espressione della sua carne, così
che il mondo sapesse quanto fosse grande l’amore del suo Signore?
Comprendiamo
meglio la cosa se colleghiamo la lode di Gesù con quella di Elisabetta che
riceve la visita di sua cugina. Elisabetta proclama beata Maria perché ha creduto nell’adempimento di ciò
che il Signore le ha detto. Ascoltare e osservare la Parola non è
semplicemente un mettere in pratica quello che Dio dice. È assai di più.
Significa permettere alla promessa di Dio racchiusa nella sua parola di
compiersi, di rivelarsi finalmente al cuore e al mondo. Significa acconsentire
al desiderio di Dio di compiersi, significa fare in modo che il desiderio che
Dio ha di incontrare l'uomo finalmente trovi compimento. Ora, da dove deriva la
vita all'uomo se non da un incontro d'amore? Sia in senso fisico, un figlio,
sia nel senso di procurare vitalità, gioia di vivere, visione di speranza,
forza ed energia. Più questo consenso da parte dell'uomo è totale, più la vita
che deriva da Dio è fluente e incontenibile. Vince la morte. Per sempre. La
Vergine Maria ne è l’esempio luminoso.
Ma ancora un
aspetto va sottolineato. Se la lode alla Vergine deriva dalla sua radicalità
nell’obbedienza alla Parola, allora anche la sua ‘beatitudine’ ne sarà
connotata. Così valgono soprattutto per lei le parole di Gesù: “Beati gli occhi che vedono ciò che voi
vedete” (Lc 10,23), “a voi è dato conoscere i misteri del regno dei cieli” (Mt 13,11). E
vale in special modo per lei la beatitudine delle
‘beatitudini’ perché lei è come l’Unigenito, che è beato perché ha tradotto il
desiderio di comunione di Dio con gli uomini in tutta la sua vita,
completamente, sotto ogni aspetto. La preghiera del Magnificat della Vergine
ricalca, nei movimenti del cuore, la preghiera di Gesù davanti ai discepoli che
tornano contenti dopo la loro missione di annuncio: «Ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai
nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o
Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza» (Lc
10, 21). La Vergine è colei che di quella benevolenza è il testimone per
eccellenza, in tutto simile al Figlio sul quale sovrana e piena riposa, come
viene proclamato al battesimo nel Giordano e sul monte della trasfigurazione.
Per queste
ragioni, sicuri della sua potenza di intercessione, con confidenza possiamo
pregarla, con le parole di una delle più antiche preghiere mariane: “Sotto la
tua protezione troviamo rifugio, santa Madre di Dio: non disprezzare le
suppliche di noi che siamo nella prova, e liberaci da ogni pericolo, o Vergine
gloriosa e benedetta”.
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Terzo
ciclo
Anno
liturgico C (2009-2010)
Tempo
Ordinario
21a
Domenica
(22 agosto
2010)
_________________________________________________
Is
66,18-21; Sal
116; Eb
12,5-13; Lc
13,22-30
_________________________________________________
Sembra che
il Signore disattenda molte domande degli uomini. Abbiamo ascoltato nel
vangelo: “Un tale gli chiese: «Signore,
sono pochi quelli che si salvano?»” (cfr. anche At 1,6; Lc
10,29; Gv 21,21). Il fatto è che facciamo spesso domande
inutili, devianti, illusorie. E se Gesù non risponde a domande mal poste,
nemmeno noi dobbiamo cercare di comprendere le sue risposte a partire dalle
nostre domande mal poste.
Luca aveva
appena illustrato la potenza del Regno con le parabole del granello di senape e
del lievito. Ora ne mostra l’accessibilità, aperta a tutti ma non scontata,
tanto che restiamo stupiti delle immagini ‘dure’ che Gesù usa. Fatichiamo a
capire il suo linguaggio. Usa l’immagine della porta stretta, dei pochi che
possono oltrepassarla, della severità del padrone (cfr. anche Lc 19,22.27) che si rifiuta di far entrare i ritardatari
nella sala del regno, del sovvertimento dei giudizi usuali: “Ed ecco, vi sono ultimi che saranno primi, e
vi sono primi che saranno ultimi”.
Possiamo lasciarci
condurre da due riferimenti che troviamo nella liturgia di oggi. Anzitutto dal
canto al vangelo: “Io sono la via, la
verità e la vita, dice il Signore; nessuno viene al Padre se non per mezzo di
me”. Poi dal brano di Isaia, conclusione dell’intero libro, che allude alla
riunione dei popoli con l’Israele di Dio. Il profeta parla nel periodo della
ricostruzione del tempio (535-520 a.C.) dopo il ritorno da Babilonia
sottolineando espressamente che tutti i popoli sono ‘adatti’ alla santità di
Dio dal momento che i sacerdoti saranno scelti anche al di fuori della
discendenza di Aronne e della discendenza israelitica. In ragione di cosa? Ciò
che è gradito a Dio è la docilità e questa vale per tutti, anche per i pagani,
come il profeta aveva proclamato: “Su chi
volgerò lo sguardo? Sull’umile e su chi ha lo spirito contrito e su chi trema
alla mia parola” (Is 66, 2).
L’espressione
di Gesù: “Ed ecco, vi sono ultimi che
saranno primi, e vi sono primi che saranno ultimi” non vuol suggerire che
ci sono differenze tra gli eletti né tanto meno ai pochi o ai tanti che si
salvano né pretende far sapere chi siano i preferiti. Si riferisce invece al
fatto che davanti all’offerta di salvezza da parte di Dio non c’è distinzione
di persone; tutti siamo ugualmente destinatari di quell’offerta e guai a chi
ritiene di avere un titolo speciale da avanzare perché non verrà riconosciuto.
In primo piano, all’inizio della nostra storia come alla fine, davanti a me
come davanti a tutti, ora e sempre, è lo sconfinato amore di benevolenza di Dio
che vuole che ciascuno e tutti siano salvi. Chi si concepisce in riferimento ad
altro si condanna.
L’espressione
è anche da mettere in riferimento alla prima risposta di Gesù: “Sforzatevi di entrare per la porta stretta”.
Se è inutile indagare sul numero degli eletti, se non può valere alcun titolo
di pretesa o di rivendicazione, l’unica cosa da sapere è per dove passare e
ottenere la salvezza.
Lo sforzatevi allude a quello che poi s.
Paolo chiamerà il combattimento della fede, a quello che i nostri padri
chiameranno la lotta spirituale, la battaglia dello spirito. Senza questa
‘tensione’ interiore non si arriva a nulla, non si porta nulla a compimento. Ma
di quale compimento in realtà si tratta? Della nostra ‘nascita dall’alto’, per
il dono dello Spirito, fino a poter dire con Paolo: “Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo
vive in me. E questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio
di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me” (Gal 2,20). È la
nascita al Regno, descritto da Gesù come un banchetto, per sottolineare il
mistero della pienezza e dell’intimità dell’amore che hanno conquistato il
cuore. L’immagine ha una valenza escatologica, non tanto però per indicare
quello che avverrà alla fine dei tempi, ma per mostrare che quella ‘fine’ dei
tempi è venuta a visitare il cuore e a far assaporare la densità dei misteri di
Dio.
La tensione
interiore si rivela in tutta la sua potenza proprio nel punto di passaggio che
permette l’accesso al regno. E il punto di passaggio non può essere che lo
stesso Signore Gesù. Lui è la porta stretta attraverso la quale dobbiamo
passare. È detta stretta perché ha la preferenza di Dio e non nostra, perché
esprime la sapienza che viene dall’alto che è contraria alla sapienza del mondo
di cui siamo impastati, rivela il sentire di Dio che si oppone al sentire della
nostra carne. Ma è una strettezza che prelude al passaggio della vita, proprio
come per un bambino il quale, per nascere, deve passare per la porta stretta. E
non per nulla in Gesù si parla di nuova nascita perché soltanto a partire di lì
scopriamo il nostro essere secondo quell’abbondanza di vita alla quale aneliamo
sconfinatamente.
Il luogo di
passaggio è indicato anche dal profeta Isaia, sebbene velatamente, là dove
dice: “con le loro opere e i loro
propositi. Io verrò a radunare tutte le genti e tutte le lingue”, reso
invece, secondo un’altra traduzione: “Io sarò i loro atti e i loro pensieri …”,
“Sono io che motiverò i loro atti e i loro pensieri …”, intendendo: quando Dio
diventa la fonte di ogni nostro atto e di ogni nostro pensiero, saremo passati
attraverso quella porta stretta che conduce al regno della vita. E la
strettezza, almeno per il nostro uomo esteriore, è descritta sempre dal profeta
come sopra riportavo: “Su chi volgerò lo
sguardo? Sull’umile e su chi ha lo spirito contrito e su chi trema alla mia
parola” (Is 66,2). Ma scegliere l’umiltà e il
cuore contrito significa scegliere il Signore Gesù, che di sé dice: “Venite a me, voi tutti che siete stanchi e
oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate
da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita.
Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero” (Mt 11,28-29).
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Terzo
ciclo
Anno
liturgico C (2009-2010)
Tempo
Ordinario
22a
Domenica
(29 agosto
2010)
_________________________________________________
Sir
3,19-21.30-31; Sal
67; Eb
12,18-24; Lc
14,1.7-14
_________________________________________________
Un invito a
pranzo permette a Gesù di aprire orizzonti insospettati per i suoi ospiti. La
liturgia fa presagire il clima particolare di quel banchetto introducendo il
brano con il canto al vangelo: “Prendete
il mio giogo sopra di voi .. e imparate da me, che sono mite e umile di cuore”.
L’uditorio in realtà è particolare: sono tutte persone ragguardevoli, persone
che - annota l’evangelista – lo stavano ad osservare. E a giudicare
dall’intervento di uno di loro, lo stavano ad osservare a cuore aperto. Ciò che
Gesù diceva ai suoi ospiti, aveva indotto un commensale a sognare il banchetto
messianico: “Beato chi prenderà cibo nel
regno di Dio!”, provocando la parabola del banchetto disertato dagli
invitati e offerto ai poveri, con la quale Gesù svela il mistero dell’agire di
Dio. Purtroppo nella liturgia di oggi manca questo ultimo riferimento, che
resta però essenziale per comprendere le parole dette prima: “Quando sei invitato a nozze da qualcuno, non
metterti al primo posto ... Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i
tuoi amici ...” sulla base del principio: “chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato”.
La questione
potrebbe essere così posta: dove sta il valore dell’umiltà? Perché l’umiltà
ottiene quello che la grandezza sogna?
Rispetto
all’agire dell’uomo, potremmo domandarci: chi cerca i primi posti, lo fa
riguardo all’ospite che l’ha invitato o riguardo agli altri commensali?
Evidentemente riguardo ai commensali. Ma così facendo non cerca più l’intimità
col padrone di casa che l’ha invitato, motivo vero dell’onore di fronte ai
commensali. Così, chi dà un pranzo ai suoi pari, si muove nell’ordine di una
qualche grandezza condivisa.
Agendo in
tal modo il di più della vita va perso, perché non si coglie quello che è in
gioco. Solo l’umiltà fa intravedere la posta in gioco della vita. E l’umiltà
non consiste nel farsi piccolo per essere riconosciuto poi (sarebbe una
furbizia raffinata!), ma piuttosto nel vedere così grande l’invito alla vita da
non sentirsene degno. Non mi faccio piccolo ora per essere esaltato dopo, ma
sono piccolo perché troppo grande è il dono ricevuto. Più mi sento piccolo, più
vuol dire che colgo la grandezza di colui che mi invita. Quando la vita non è
più giocata nel confronto, di nessun tipo, con gli altri o sugli altri, vuol
dire che il cuore sta saldo nell’intimità con Colui che gliel’ha data, ne
percepisce il mistero e si sente piccolo. A questa piccolezza è aperto il Regno. Di quella piccolezza sono beati
coloro che siedono alla mensa di Dio.
Anche il
brano del Siracide va letto nello stesso senso: “Quanto più sei grande, tanto più fatti
umile, e troverai grazia davanti al Signore. Molti sono gli uomini orgogliosi e
superbi, ma ai miti Dio rivela i suoi segreti”. È il segreto di quella compiacenza di Dio per i poveri ed i
peccatori che siamo, svelata da Gesù e presagita da quel commensale, perché
davanti a Lui non vale distinzione di persona: vale solo il suo amore per noi,
la sua misericordia. Se l’uomo si attarda ancora a considerare la distinzione
delle persone, rivendicando per sé o esibendo davanti agli altri titoli
particolari di dignità, non ha ancora conosciuto l’intimità dell’amore di Dio e
può perfino rifiutare l’offerta di Dio. Chi non conosce l’intimità dell’amore
di Dio non può ancora dirsi umile.
La ragione
profonda di tale verità risiede nello stesso agire di Dio. La grandezza di Dio
si gioca nell’accondiscendenza verso tutti, nell’offrire a tutti la sua mensa
senza che alcuno abbia titolo a qualcosa. Se Gesù esorta il suo ospite a
invitare poveri, zoppi, storpi e ciechi, è perché Dio fa lo stesso. Davanti a
Dio nessuno gode di qualche titolo particolare di rivendicazione, ma tutto
dipende dal dono supremo suo, offerto a tutti.
Così la
preghiera pressante che scaturisce dalla liturgia di oggi non è quella di
apprendere la virtù dell’umiltà, ma di imparare a percepire così intensamente
la grandezza del mistero di Dio, che in Gesù si accompagna a noi, da
disprezzare ogni altra nostra grandezza. La conseguenza strana, ma salutarmente
evangelica, di tale atteggiamento è che meno ci si preoccupa della propria
grandezza, più ci sta a cuore la grandezza di tutti. Perché questi è il giusto:
colui che sta contento dei doni di Dio a tutti, colui che si rallegra della
gioia di Dio per i poveri e i peccatori, ai quali appunto è stato inviato il
Salvatore.
§*§*§*§*§*§*§*§*§*§
Terzo
ciclo
Anno
liturgico C (2009-2010)
Tempo
Ordinario
23a
Domenica
(5
settembre 2010)
_________________________________________________
Sap
9,13-18; Sal
89; Fm
9-17; Lc
14,25-33
_________________________________________________
Gesù
affascina ma non inganna. Le parole del brano di oggi sono inequivocabili: “Se uno viene a me e non mi ama più di quanto
ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino
la propria vita, non può essere mio discepolo. Colui che non porta la propria
croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo”. La liturgia,
con la prima lettura e la proclamazione del salmo 89, ci fa chiedere la
sapienza del cuore proprio perché non è così agevole coglierla e accoglierla: “Chi avrebbe conosciuto il tuo volere, se tu
non gli avessi dato la sapienza e dall’alto non gli avessi inviato il tuo santo
spirito?”.
Emerge
allora la domanda: può l’uomo accogliere le parole di Gesù senza che la
sapienza dall’alto abbia raggiunto il suo cuore? Perché la sapienza che viene
dall’alto comporta proprio l’apertura del cuore al mistero di quel Figlio di
Dio che rivela lo splendore dell’amore del Padre per gli uomini. Se il cuore
non intravede quello splendore, tutto risulta sbarrato. Da notare che la
sapienza, avendo presieduto alla stessa creazione, conosce i misteri delle
creature perché conosce i pensieri di Dio. Così, quando Gesù annuncia la grazia
del suo vangelo, non scavalca la natura, ma ne rivela il compimento. Gesù è la
verità da parte di Dio (= rivela il vero volto di Dio) e da parte dell’uomo (=
conosce il desiderio dell’uomo e ne assicura il compimento). Perché allora il
suo parlare, come nel brano di oggi, suona tanto ostico alla nostra natura?
Qui si cela
il dramma e la gloria dell’uomo: l’uomo desidera il bene, ma sembra non poter
ritrovare in sé il criterio di discernimento del bene. Nessuno, che sia sano di
mente, sosterrà che non siano buoni gli affetti familiari (tra l’altro, oggetto
di comandamenti precisi!); ma chi può sostenere che gli affetti familiari siano
sempre e comunque buoni? “Perché mi
interroghi su ciò che è buono? Buono è uno solo” (Mt 19,17) ebbe a dire
Gesù. Gli affetti naturali vanno giudicati in rapporto a quella vocazione
all’umanità che è il destino della vita, ma la vocazione all’umanità è definita
sullo splendore dell’amore di Dio per gli uomini, manifestato in Gesù. Così,
quando Gesù parla di preferire l’essere suo discepolo agli affetti naturali,
intende rivelare che la radice della vita è nell’amore di Dio che fa da
criterio di discernimento a ogni altra cosa. La cosa non è scontata però per il
cuore dell’uomo; comporta una specie di ‘morte a se stessi’ per vivere se
stessi in modo pieno imparando a servire gli altri, non a servirsi degli altri.
Portare la croce significa morire alla logica del mondo che ci fa ricercare noi
stessi contro o sugli altri per accedere davvero alla dimensione della fede,
diventata radice di vita in Gesù, che si traduce in comunione di sentimenti con
Dio nel suo amore per gli uomini. La sapienza che viene dall’alto ci è
necessaria continuamente per operare questo passaggio, perché conoscere i
pensieri di Dio comporta sempre scoprire le radici della vita. E questo è il
motivo per cui la scoperta della sapienza, del tesoro nascosto nel campo,
comporta sempre un’intima letizia, letizia che ti abilita a vendere, a lasciare
tutto il resto. Chi vive un amore profondo lo sa.
In effetti,
il brano di oggi termina con l’affermazione: “Così chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere
mio discepolo”. Delle tre caratteristiche che contraddistinguono il
discepolo di Cristo, questa è la prima; le altre due sono: il discepolo perdona
condividendo la gratuità dell’amore misericordioso di Dio e resta fedele nelle
prove vivendo nella pazienza la pace sperimentata. Gli averi, beni e affetti,
sono tutto ciò che sostenta la vita, però non più vissuti a partire da se
stessi, ma nella più totale confidenza con Colui che ne è il Dispensatore.
Sottrarre confidenza ai beni significa godere della confidenza nella vita. Non
è immediata la costatazione, ma risulta vera: facendo confidenza sui beni, si
perde confidenza con la vita; guadagnando confidenza con la vita, si godono i
beni. La vita però è quella che Gesù rivela e promette al suo discepolo; è
quella che lui stesso vive e comunica al suo discepolo; è quella che proviene
dal vivere il compimento della vocazione all’umanità che in lui acquista tutto
il suo splendore perché a Dio rimanda e da Dio prende vigore. La sapienza che
domandiamo conduce là.
E se è vero
che la sapienza fa capolino nel cuore quando ci accorgiamo che non siamo eterni
e che passiamo presto, come dice il salmo, può però entrare nel cuore quando
risuonano vere per noi le parole: “si
manifesti ai tuoi servi la tua opera e il tuo splendore ai loro figli” (Sal 89,16), frase che acquista tutto il suo significato
davanti a Gesù, riconosciuto come lo splendore dell’amore del Padre per gli
uomini, la vera opera di Dio per noi. Tanto che lasceremo tutto per seguire
Gesù nel senso di non voler rivendicare nessun bene che si collochi al di fuori
o contro la comunione con lui. Sarebbe il senso delle due parabole dell’uomo
che costruisce una torre e del re che non vuole essere sconfitto.
§*§*§*§*§*§*§*§*§*§
Terzo
ciclo
Anno
liturgico C (2009-2010)
Tempo
Ordinario
24a
Domenica
(12
settembre 2010)
_________________________________________________
Es
32,7-14; Sal
50; 1Tm 1,12-17; Lc 15,1-32
_________________________________________________
Oggi viene
proclamato il capitolo 15 di Luca, il vangelo della misericordia in parabole.
Le parabole della pecorella smarrita e del padre misericordioso che si rallegra
del ritorno del figlio prodigo sono forse tra quelle che più hanno segnato
l’immaginario interiore cristiano. In esse la coscienza cristiana ha colto
qualcosa di potente dell’assoluta verità di Dio.
Le parabole
esemplificano la dinamica tipica dell’amore di Dio che si dà pena per i suoi
figli, emersa con la lettura dell’Esodo. È vero, come dirà Gesù, che Dio può
far nascere figli perfino dalle pietre (cfr. Lc 3,8).
Ma è ancora più vero che, per quanto indegni e ribelli, i figli che Dio
preferisce sono quelli in carne ed ossa, quelli che siamo, che rimprovera ma di
cui continua ad avere premura. Mosè ha interceduto e Dio si è lasciato
commuovere. Sembra paradossale che sia Mosè a ricordare a Dio i segreti del Suo
cuore! Ebbene, Gesù, morto e risorto per noi, è il sigillo ultimativo di quella
Volontà di bene di Dio.
Ciò che le
parabole sottolineano, come la ragione convincente per il nostro cuore della
fiducia che merita l’amore di Dio, è una cosa sola: la gioia di Dio nel suo
essere misericordioso. Gesù non si cura degli angeli (le 99 pecore al sicuro,
secondo l’interpretazione dei Padri) ma va in cerca dell’uomo peccatore e la
sua gioia sta proprio nella compagnia dell’uomo che ha ritrovato tanto da
condividerla con gli angeli. Il padre della parabola esprime la sua gioia nel
veder il figlio prodigo ritornare al quale fa festa e nel desiderio di
condividerla con il figlio maggiore. Il mistero a cui alludono queste parabole
è l’eterno, solidale, amore di Dio per l’uomo, amore che non può non essere
amore di misericordia perché l’uomo si è perso. Su quell’amore è costruito
l’universo, in quell’amore consiste la gioia di Dio e non in altro.
Come ripete
la seconda lettura: “Cristo Gesù è venuto
nel mondo per salvare i peccatori, il primo dei quali sono io” e proclama
il canto al vangelo: “Dio ha riconciliato
a sé il mondo in Cristo” (2Cor 5,19). La luminosità e il calore che si
sprigionano per il cuore dell’uomo quando si rende conto di questa realtà, che
in Gesù si fa evidente, derivano appunto dal percepire la gioia di Dio nel suo
accogliere e andare incontro all’uomo peccatore. Gesù, che vuole rispondere
alle critiche dei farisei sulla sua condotta, con le sue parabole intende
svelare il mistero di Dio, il mistero del suo cuore. Ricordo che la parabola
della pecora perduta e ritrovata è l’annuncio evangelico della festa del SS.
Cuore di Gesù.
Il nostro
cuore, invece, irretito nelle illusioni del peccato, è più aspro di quello di
Dio; crede di salvare una specie di nobiltà teorica condannandosi,
rinchiudendosi in una condanna sfiduciata. Allora è il momento di ricordargli
che Dio è più grande e se il cuore lo riconosce esce dalla sua solitudine, si
umilia e ritrova speranza, perché può consegnarsi fiducioso a quell'amore di
misericordia di cui le tre parabole di oggi illustrano il mistero e la tipica
realtà di cui siamo invitati a fare esperienza. Quando allora il nostro cuore
cede alle condanne e ai disprezzi, vale la supplica della preghiera dopo la
comunione: “La potenza di questo sacramento, o Padre, ci pervada corpo e anima,
perché non prevalga in noi il nostro sentimento, ma l’azione del tuo santo
Spirito”.
Possiamo
aggiungere due costatazioni. La prima. Dio preferisce la sua gioia alla sua
giustizia. “Io vi dico: così vi sarà
gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove
giusti i quali non hanno bisogno di conversione” (Lc
15,7). Ora, tutti i nostri pensieri di autocondanna, di paura, di disprezzo di
noi e degli altri, feriscono l'amore di Dio perché gli rendono impossibile la
gioia. Ogni autocondanna è una incomprensione di Dio. Ogni condanna, di sé e
degli altri, è un'incomprensione profonda del cuore di Dio: come non sapere
quello che gli procura gioia?
Seconda
costatazione. Chi sono i giusti? Nell'interpretazione spirituale dei Padri i
novantanove giusti lasciati sui monti sono gli angeli. Ma sono anche coloro
che, come gli angeli, adorano e lodano e gioiscono con Dio. Sono cioè coloro
che gioiscono con Dio quando un peccatore ritorna, quando un uomo si pente. Di
qui il criterio di discernimento della bontà, che ci rende 'sim-patici' di Dio,
vale a dire degli stessi sentimenti di Dio: un cuore è buono quando gioisce del
bene del fratello. Gioire della virtù di un fratello più che per la propria è
segno di un cuore puro, ormai conquistato dalla bontà di Dio. Gioire per un
altro rende intimi di Dio.
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Terzo
ciclo
Anno
liturgico C (2009-2010)
Tempo
Ordinario
25a
Domenica
(19
settembre 2010)
_________________________________________________
Am
8,4-7; Sal
112; 1Tm 2,1-8; Lc 16,1-13
_________________________________________________
Il brano di
vangelo odierno, quello dell'amministratore disonesto, lodato dal padrone,
sembra a prima vista comportare un messaggio ambiguo. Gesù inviterebbe alla
disonestà? Evidentemente, la parabola, raccontata ai discepoli, più volte
paragonati nel vangelo ad amministratori, punta ad altro. Ma a che cosa?
Fermiamoci sulla lode del padrone: “Il
padrone lodò quell' amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza”.
La lode verte sul fatto che è stato scaltro, accorto. Sicuramente non si
trattava di un amministratore imbecille, se era stato capace di quel
comportamento; piuttosto, era stato avido e l’avidità gli aveva fatto perdere
il posto. Se paragoniamo questa parabola a quella del possidente straricco (Lc 12,16-21) ci accorgiamo subito della differenza tra i
due: il primo è accorto, il secondo stolto; il primo riesce a organizzarsi
secondo i suoi interessi, il secondo vaneggia. Per ambedue la domanda decisiva
è la medesima: cosa fare? Mentre lo stolto fantastica, l’accorto dispone. La
loro azione si gioca in rapporto al futuro: mentre il primo si immagina cosa
fare e resta chiuso in se stesso, il secondo sa cosa deve fare e si apre agli
altri. Il punto allora è esattamente questo: ‘sapere cosa fare’ in rapporto al
futuro.
La parola di
Gesù illustra proprio quel ‘saper cosa fare’ in rapporto alla propria vita. In
gioco è l’uso dei beni di questo mondo per ottenere vita piena. Il padrone
della parabola è Dio che affida i suoi beni a noi come amministratori, ai quali
a suo tempo chiederà conto. Se nessuno di noi è proprietario a titolo assoluto
dei beni che usa temporaneamente, la prima conseguenza sarà quella di
possederli senza che essi possiedano noi. L’avido, che consacra la sua vita ai
beni, scava un fossato incolmabile tra lui e la felicità. Volendo però la
felicità, l’accortezza consisterà allora nell’invertire la dinamica perversa
che si era instaurata: invece di consacrare la vita ai beni, consacrerà i beni
alla vita e ciò avverrà nella condivisione con tutti. In particolare, la
scaltrezza si giocherà nel fatto che, non potendo rabbonire direttamente il
padrone perché il nostro ammanco sarà risultato insolubile, si cercherà di
carpire la sua lode con il condonare i debiti ai fratelli. La parabola può
essere letta come un’illustrazione della richiesta del Padre Nostro: ‘rimetti a
noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori’.
In
particolare, l'apostolo è colui che froda il padrone nel suo diritto di
giustizia invitando tutti ad entrare nel Regno. L'abilità dell'amministrare sta
proprio nel favorire in ogni modo l'entrata nel Regno da parte del maggior
numero. La misericordia è il calcolo più intelligente che possiamo fare per noi
e per gli altri. Se tu servirai il tuo Signore onorando il tuo fratello,
qualora tu dovessi mancare in qualcosa rispetto al tuo Signore, l'onore dato al
tuo fratello richiamerà il favore del tuo Signore. Non solo, ma se il tuo
fratello mancherà in qualcosa rispetto al suo Signore, l'onore che tu gli avrai
portato funzionerà da intercessore per lui perché quell'onore è computato a
merito. I meriti davanti a Dio sono energie di intercessione, pungoli all'amore
di Dio a riversarsi su di noi.
A questo
punto si aprono nuovi livelli di comprensione della parabola, ulteriormente
spiegata dalle parole di Gesù sulla distinzione tra ‘vostra’ e ‘altrui’, tra
‘cose importanti’ e ‘cose di poco conto’. Si tratta
di ottenere ciò che è nostro con ciò che non è nostro; di ottenere le cose
importanti con le cose di poco conto. Tutto ciò che usiamo in questo mondo non
è nostro, non ci appartiene; non solo, ma non ha nemmeno importanza seria
rispetto a quello che davvero cerchiamo e dunque è calcolato come cosa di poco
conto. Eppure, non abbiamo altra possibilità di arrivare a ciò che è nostro se
non attraverso le cose non nostre, a patto che le usiamo senza esserne usati,
che le condividiamo con tutti e che le godiamo insieme. E che cosa è nostro?
Cirillo di Alessandria definisce nostro ‘la santa e mirabile bellezza che Dio
forma nelle anime delle persone, rendendole simili a se stesso, in accordo con
ciò che eravamo in origine’. Questa è la cosa importante, quella che ci
definisce, quella che ci struttura. È nostro l’essere figli dell’Altissimo, è
nostra quella somiglianza con il
Signore Gesù che è venuto a ristabilire.
Non per
nulla il canto al vangelo introduce questa parabola con la citazione di 2Cor
8,9: “Gesù Cristo da ricco che era, si è
fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà”,
da raccordare all’altro passo di Fil 2,5-8: “Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù: egli, pur essendo
nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò
se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini.
Dall’aspetto riconosciuto come uomo, umiliò se stesso facendosi obbediente fino
alla morte e a una morte di croce”. Condividere i beni con i poveri, stare
solidali con l’umanità di tutti significa portare a compimento quella vocazione
all’umanità che ci appartiene in proprio come figli dell’Altissimo, resi tali
da quel Signore Gesù che ha scelto di stare solidale con gli uomini perché gli
uomini potessero tornare a godere della comunione con Dio, il loro vero Bene. Ed è caratteristico che
l’espressione di Paolo, riportata dal canto al vangelo, segua l’invito
dell’apostolo ai Corinzi a partecipare alla colletta organizzata per la Chiesa
di Gerusalemme, non solo perché si stabilisca una certa uguaglianza tra ricchi
e poveri, ma soprattutto perché si renda visibile nei frutti della carità la
riconciliazione, operata dal Signore Gesù, dell’umanità con Dio, simboleggiata
dall’unità nell’unica famiglia di Dio di ebrei e pagani.
Un’ultima
osservazione sull’espressione dell’amministratore disonesto lodato. Il suo
dire: ‘so che cosa fare’ equivale all’affermazione di Giovanni: “E noi abbiamo conosciuto e creduto l’amore
che Dio ha in noi. Dio è amore; chi rimane nell’amore rimane in Dio e Dio
rimane in lui” (1Gv 4,16). E si contrappone all’espressione che Gesù
indirizza al Padre sulla croce a proposito dei suoi crocifissori: ‘non sanno quello che fanno’ (Lc 23,34).
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Terzo
ciclo
Anno
liturgico C (2009-2010)
Tempo
Ordinario
26a
Domenica
(26
settembre 2010)
_________________________________________________
Am
6,1-7; Sal
145; 1Tm 6,11-16; Lc 16,19-31
_________________________________________________
Se ascoltiamo la proclamazione del
vangelo di oggi insieme ai versetti 14-18 che lo precedono con l’illustrazione
del rapporto Legge/Regno, la parabola si rivela potente sotto un duplice
aspetto. A dispetto del contenuto ovvio sull’uso delle ricchezze, la parabola
risponde a una duplice domanda di fondo:
1) possiamo conoscere il pensiero di
Dio? E qual è?
2) in rapporto a che cosa va giocata
la vita?
Rispetto all’amministratore
disonesto lodato dal padrone perché accorto, il ricco della parabola risulta
evanescente: non s’avvede di nulla, non decide nulla, non agisce. Il giudizio
di Dio che presenta le sorti rovesciate (di qui il ricco gaudente e il povero
tribolato, di là il ricco tormentato e il povero consolato) intende proprio far
conoscere il pensiero di Dio all’uomo perché questi si muova in conseguenza. La
forza del racconto non sta nel deterrente di paura (si usano toni pacati e
familiari) ma nello svelamento del segreto della vita di cui Dio è il custode e
il dispensatore. La tensione della narrazione mira a svelare l’illusione
provocata dalle ricchezze. Come a dire: se il ricco è ricco di beni materiali,
dovrà però arricchirsi presso Dio con il condividerli con i poveri, se vuole
avere la vita, perché presso Dio la sua ricchezza sarà costituita dai poveri
che intercederanno per lui. Il che equivale a dire che la vita si gioca
nell’amore e l’amore risulterà dalla dignità di tutti, custodita e favorita con
ogni mezzo.
Ma la punta più decisiva della
parabola sta nel sottolineare che in gioco è la fede nel Salvatore che convince
alla fraternità nella comunione col proprio Dio. In effetti la parabola non si
conclude con un’ammonizione a proposito delle ricchezze, ma con l’invito a
riconoscere il Figlio dell’uomo, il Salvatore: “Se non ascoltano Mosè e i
Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti”. È
l’allusione misteriosa dell’intera parabola. Gesù risusciterà, ma di per sé
nemmeno questo sarà convincente per coloro che non sanno vedere l’opera di Dio,
l’azione di Dio. Così dar credito alla parola di Dio, alla promessa di Dio
celata nella sua parola e compiuta nel Crocifisso-Risorto significa aprirsi al
segreto della vita, che si gioca nella fraternità condivisa.
Ci sono due cose da sottolineare a
tale proposito.
a) Dio non si può vedere
direttamente. A Lui ci si può aprire accogliendo la sua parola e avendo cura
del povero. Non basta però condividere i propri beni; occorre anche aver
premura del povero, perché è quella premura che rende preziosa e amabile la
condivisione, che risulta così essere segno della fede in Dio, che vuole felici
i suoi figli.
b) Tutte le parole della Scrittura
vanno custodite e accolte, secondo l’invito di Paolo: “ti ordino di
conservare senza macchia e in modo irreprensibile il comandamento, fino alla
manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo”, perché, praticandole,
possano svelare al nostro cuore il volto del Signore che si è fatto nostro
prossimo, vicino a noi e raggiungibile nel nostro vicino.
Nella parabola ci sono come dei
punti nevralgici che ci aprono gli occhi. È sintomatico che il ricco non porti
nessun nome, mentre il povero è chiamato Lazzaro, che significa Dio aiuta.
Voler avere la vita dalla ricchezza comporta dimenticare Dio e misconoscere il
fratello. Il ricco non è presentato come cattivo, ma più semplicemente e più
drammaticamente come uno che nemmeno s'accorge del povero tanto vive nella sua
illusione. A tale riguardo, la prima lettura del profeta Amos celebra
l'intervento di Dio nella storia come il sopraggiungere del disincanto, come la
cessazione dell'illusione. Quella classe nobile che sperperava allegramente i
beni del popolo senza curarsi del suo bene verrà spazzata via: la potenza
assira conquisterà Israele e tutti saranno ridotti in schiavitù.
Lazzaro, nel paradiso, è descritto
con l’immagine del banchetto messianico, nel posto d’onore, a fianco di Abramo.
La scena corrisponde al banchetto dell’ultima Cena con Gesù e Giovanni al suo
fianco che può reclinarsi sul suo petto. È la traduzione in immagine
dell’affermazione: gli ultimi sono i primi.
Ma il particolare che, secondo me, è
assolutamente rivelativo è la descrizione del ricco negli inferi che ‘alzò
gli occhi e vide’. Non aveva mai alzato gli occhi durante la sua
vita e perciò non aveva mai visto nulla in verità. L’alzare gli occhi
comporta l’accoglienza della salvezza da Dio e se l’uomo fa questo non può non
accorgersi del suo fratello. Questo particolare esprime il movimento del cuore
che prelude al riconoscimento della verità della vita. Ciò che viene indicato
avvenire là negli inferi, nel giudizio della parabola, è proprio quello che
siamo invitati ad assumere adesso nella nostra vita.
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Terzo
ciclo
Anno
liturgico C (2009-2010)
Tempo
Ordinario
27a Domenica
(3 ottobre
2010)
_________________________________________________
Ab
1,2-3; 2,2-4; Sal
94; 2Tm 1,6-14; Lc 17,5-10
_________________________________________________
Il brano di
vangelo ci presenta una serie di insegnamenti di Gesù che a prima vista
sembrano assortiti, ma a ben guardare tutti ruotano sulla fede: “Gli apostoli dissero al Signore:«Accresci in
noi la fede!»”.
Il canto al
vangelo lo sottolinea con l’affermazione di 1Pt 1,25, ripresa da Is. 40,8: “La
parola del Signore rimane in eterno”. Quale parola? La Parola fatta carne, nata-morta-risorta per riconciliare il mondo con Dio. È da
dentro tale riconciliazione che trovano senso e potere per il cuore tutte le
parole del Signore, parole che portano vita, proprio come dice il profeta Abacuc nella prima lettura: “Soccombe colui che non ha l’animo retto, mentre il giusto vivrà per la
sua fede”. La situazione del popolo di Israele, sotto la pressione
dell’impero caldeo che, distrutta la potenza assira, si abbatte sul Medio
Oriente, si era fatta drammatica. L’azione di Dio nella storia diventa
incomprensibile tanto era messa alla prova la fede nella sua capacità di
salvezza. Ma proprio allora le illusioni umane vengono meno e la fede in lui
diventa più radicale e potente.
Quella fede
Gesù richiama paragonandola a un minuscolo seme di senape, che ha però la
potenza di diventare un albero (cfr. Lc 13,18-19). Ma
la richiesta degli apostoli non è una richiesta in generale. La circostanza
precisa, a partire dalla quale scaturisce la loro supplica, è data dai versetti
precedenti: “Se il tuo fratello
commetterà una colpa, rimproveralo; ma se si pentirà, perdonagli. E se
commetterà una colpa sette volte al giorno contro di te e sette volte ritornerà
a te dicendo: “Sono pentito”, tu gli perdonerai”.
Così tanto,
in modo così nuovo Gesù aveva insistito nella sua predicazione su questo
comando divino: “tu gli perdonerai”!
Il cuore dell'uomo sa e sente che non può riacquistare l'innocenza perduta se
non nel perdono ricevuto e offerto, costantemente. Qui si radica l'esperienza
di Dio: ognuno sente che non riuscirà credibile nell'offerta del suo amore se
l'Amore del Signore non l’avrà raggiunto, se non gli riverserà in grembo quella
tenerezza che non guarda a meriti o a diritti. Nel perdonare si gioca la sincerità
dell'aver incontrato Dio e dell'esserci percepiti solidali con i nostri
fratelli. La difficoltà risiede proprio nel fatto che non è così semplice
ritenerci peccatori, assillati come siamo dalla paura di venire respinti e che
non è così facile non aver più paura di Dio.
La domanda
di fede degli apostoli va in questa direzione. E la risposta di Gesù non
riguarda la quantità della fede, come se importasse poterne avere poca o tanta.
Si basa sulla sua natura, sul fatto di averla vitale, viva, proprio
come un seme che nasconde l'energia di trasformazione per arrivare ad essere
albero. “Se aveste fede quanto un
granello di senape” non vuol dire: 'basta che ne abbiate un pochino, grande
come un granello di senape', ma piuttosto: 'basta che sia viva come un seme,
che pur piccolissimo, poi diventa una grande pianta'. Come sottolinea il salmo
responsoriale, il salmo 94, il primo dei salmi che nella tradizione ebraica si
canta al ricevimento del sabato, al versetto 7: “Se ascoltaste oggi la sua voce!”. Allora potremmo godere del vero
riposo del sabato e vivere la nostra storia, la nostra storia tormentata, nella
confidenza della compagnia del nostro Dio. Ciò che ci è richiesto, non è il
poco o il tanto, ma la schiettezza, la verità del cuore nella confidenza col
suo Dio.
A tale
schiettezza si attiene il servo. Quanto è facile cadere nella rivendicazione
dei nostri diritti, di quel che è giusto, di quel che ci viene! Atteggiamento
più sbagliato non potremmo assumere. Essere servi, nell'esperienza evangelica,
significa non aver più bisogno di dimostrare nulla, di esibire nulla, di
imporci in nulla perché abbiamo trovato quello che il nostro cuore cerca, cioè
l'intimità con Chi ci ha amato e ci muove da dentro ad amare a nostra volta. Il
vero servo è proprio Gesù, che nella
confidenza più totale con il Padre, serve tutti per conquistare tutti a quella
stessa confidenza.
Essere servi
inutili significa essere semplicemente servi e nulla di più. Ma
il nostro titolo di gloria e di onore sta proprio qui: non voler essere e avere
altro che quello che l'amore del Signore ha voluto per noi. La rettitudine del
servizio sta esattamente in questo accogliersi nei confronti del Padrone senza
perdersi nei confronti con gli altri servi. È l’altra faccia dell’espressione:
“il giusto vivrà per la sua fede” e
vuol dire: chi non avanza pretese, confida davvero in Dio e non inciamperà
nella vita perché non sarà in contesa con gli uomini.
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Terzo
ciclo
Anno
liturgico C (2009-2010)
Tempo
Ordinario
28a
Domenica
(10
ottobre 2010)
_________________________________________________
2Re
5,14-17; Sal
97; 2Tm 2,8-13; Lc 17,11-19
_________________________________________________
Se in
precedenza Luca aveva narrato di altre guarigioni di lebbrosi (cfr. Lc 5,12-14, parallelo a Mc 1,40-45 e a Mt 8,1-4), il brano
di oggi sembra come sorvolare sull’evento del miracolo di guarigione per
insistere su altro. Lo rivela il colloquio di Gesù con il samaritano lebbroso
guarito che è tornato a ringraziarlo e il contesto in cui il brano è collocato.
Gesù è in viaggio verso Gerusalemme e ciò che avviene deve essere compreso
nell’ottica di quel viaggio, per lo scopo segreto di rivelazione del mistero di
Dio che si compirà. Non solo, ma subito dopo il racconto dei dieci lebbrosi
segue la domanda dei farisei sul regno di Dio. In gioco è appunto la questione
del Regno di Dio che viene. Come non vederlo? Eppure, non sembra così facile
vederlo.
In
ottemperanza alla legge di Lev 13,46, i dieci
lebbrosi si fermano a distanza e gridano al Signore il loro tormento, chiedendo
di essere guariti. Il loro dramma non deriva solo dalla malattia che lacera le
loro carni, ma anche dal fatto che venivano esclusi dalla comunità, non
potevano accedere al tempio per il culto. La lebbra evoca direttamente il
destino orribile del peccato che insidia la fraternità, irrigidisce i rapporti,
contamina a tal punto il cuore da renderlo inaccessibile al cuore degli altri,
separa e opprime, impedisce al volto di Dio di risplendere. La guarigione di un
lebbroso da parte di Gesù allude sempre alla purificazione del cuore che torna
così a far risplendere i rapporti di comunione e ridà accesso al mistero di
Dio. Guarire dalla lebbra vuol dire ricevere la rivelazione che è giunto a noi
il regno di Dio, vuol dire che possiamo tornare a non aver paura di Dio e del
prossimo. Là appunta lo sguardo il racconto della guarigione dei dieci
lebbrosi. Ma come lo fa vedere?
Dieci
lebbrosi chiedono di essere guariti. Tutti e dieci sono sinceri e tutti e dieci
hanno fiducia in Gesù perché credono alla sua parola e si muovono per andare a
presentarsi ai sacerdoti. Lungo il cammino si ritrovano guariti. La loro
fiducia è stata premiata. Nove proseguono, uno solo torna indietro per
ringraziare Gesù. È qui che il racconto rivela la sua vera portata. Non si tratta
del racconto di un miracolo, ma della rivelazione che consegue. I nove che
proseguono non si accorgono di quel che è avvenuto in verità. Non hanno sentito
in loro la parola del profeta: “Ecco, io
faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?” (Is 43,19) o, per dirla con il v. 2 del salmo 97, non hanno
compreso che “Il Signore ha fatto
conoscere la sua salvezza”.
Potremmo
spiegare le cose così. Tutti i doni di Dio comportano un'intenzione segreta, un
appello al nostro cuore da parte di Dio. Il rimprovero che Gesù fa ai nove
lebbrosi rivela la sordità di fronte a questo appello. L'uomo si confonde con
il dono che ottiene e si richiude su di sé. È rimasto sordo, non ha visto di
cosa si trattava realmente. Quando invece prorompe la gratitudine, il cuore ha
percepito l’appello, ha sentito l’intenzione segreta di Dio. L’incontro che
segue, quando il samaritano torna da Gesù, fa accedere a una nuova visione (Alzati: ha scoperto che Colui che l’ha
guarito nel corpo, l’ha toccato nel cuore e lo rende capace di sentire le cose
in modo diverso) e a una nuova condotta (e
va’: l’uomo diventa discepolo, tanto che la fede nel Salvatore gli sarà
ormai cammino sicuro di umanità, di un’umanità aperta, solidale, trasfigurata).
Gesù,
accogliendo il samaritano che torna a ringraziarlo, dice: “Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio,
all’infuori di questo straniero?”. ‘Rendere gloria’ è un’espressione semita
per ‘dire la verità’. Spesso l’uomo dice cose vere, ma senza dire la verità.
Oppure, in altri termini, diciamo di essere sinceri, ma spesso non siamo veri.
Il fatto è che la sincerità ha a che fare con il dire quello che sentiamo,
mentre la verità ha a che fare con quello che siamo. Ringraziare di un dono
ricevuto non significa solo esprimere la propria riconoscenza ma prendere atto
della benevolenza dell’altro che ci fa sussistere. Dire la verità implica
sempre la responsabilità del nostro essere di fronte a Qualcuno. Questo è
mancato ai nove che si sono dileguati, mentre è risultato così determinante per
la conversione del samaritano.
È allora che
Gesù può aggiungere: “La tua fede ti ha
salvato”: è il tutto della vita vissuto a partire da un punto, il punto
dell’incontro con il Salvatore che irradierà tutta la vita perché sono state
toccate le radici del cuore. Se nel racconto del miracolo della guarigione dei
lebbrosi venivano usati i verbi purificare,
guarire, ora viene usato il verbo salvare, ora si fa riferimento alla fede: l’intenzione segreta di Dio è
accolta, la sua azione di salvezza si traduce in percezione di alleanza che
riempie il cuore.
La porta
d’accesso? Il saper rendere grazie, come lo enuncia il canto al vangelo: “In ogni cosa rendete grazie: questa infatti
è volontà di Dio in Cristo Gesù verso di voi” (1Ts 5,18). A dire il vero,
al rendere grazie Paolo unisce l’essere sempre lieti e il pregare
ininterrottamente. Le tre cose insieme segnalano che il cuore ha presagito la
presenza del suo Salvatore, che l’ha riconosciuto e al quale volgerà tutto il
suo desiderio. A sottolineare la fecondità dell’atteggiamento del saper rendere
grazie, i padri del deserto ripetevano che il rendere grazie in tutto solleva
da ogni altro obbligo. Potessimo rimanere sempre in quell’atteggiamento,
eviteremmo ogni intrusione del male nel nostro cuore.
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Terzo
ciclo
Anno
liturgico C (2009-2010)
Tempo
Ordinario
29a
Domenica
(17
ottobre 2010)
_________________________________________________
Es
17,8-13; Sal
120; 2Tm 3,14-4,2; Lc 18,1-8
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La liturgia
di oggi risponde a una delle contraddizioni più lancinanti della vita: se Dio è
Dio, perché non interviene quando il male devasta il mondo? Il popolo di
Israele, provato dalla sete nel deserto, aveva espresso la sua angoscia negli
unici termini possibili per dei credenti: “Il Signore è in mezzo a noi sì o
no?” ed era seguito il miracolo dell’acqua scaturita dalla roccia che Mosè
aveva percossa con il bastone di Dio. Ma subito dopo il popolo corre un altro
tremendo pericolo: l’attacco degli Amaleciti. È il nemico che viene a cercarli;
non semplicemente che trovano un nemico sulla loro strada. L’angoscia del
popolo, questa volta, sembra sparire dietro alla figura di Mosè, ritto sul
monte a pregare per la salvezza del popolo e a quella di Giosuè che è mandato a
combattere. Il fatto però che Mosè salga sul monte significa che è visibile a
tutti, ai combattenti e al popolo che attende angosciato l’esito della
battaglia. Tutto il popolo prega con Mosè; tutto il popolo rinnova la sua fede
nel Dio di Israele perché un’altra volta il loro Dio li salvi.
I testi salmici di questa liturgia alludono a una situazione
drammatica. La vita dell’uomo non è drammatica semplicemente perché
continuamente provata da afflizioni e ingiustizie, ma perché nelle afflizioni e
nelle ingiustizie subite ci può essere preclusa la visione di Dio. Come a dire:
l’aspetto più angoscioso per il cuore dell’uomo è la delusione nei confronti
del suo Dio, la perdita di speranza e il tormento di un amore mancato. Il canto
di ingresso (Sal 16,6.8) descrive la fiducia in Dio
ma nella costatazione che gli empi opprimono il giusto; il salmo responsoriale,
il salmo 120, allude alla fiducia in Dio ma nel pericolo di un’invasione
(‘alzare gli occhi verso i monti’ allude al possibile alleato assiro contro
l’attacco egiziano, aiuto che però si tramuterà in schiavitù e allora il
salmista invita a fidarsi di Dio).
Ecco allora
il punto: come riconoscere il suo amore? Come fidarsi del suo amore in modo da
attraversare le prove senza venir meno nella fede? Non per nulla Gesù parla
della pronta risposta di Dio che fa giustizia ai suoi eletti mentre sta salendo
a Gerusalemme incontro alla sua ingiusta condanna. La parabola che racconta
nasce da due domande precedentemente poste:
1) il regno
di Dio si può vedere?
2) il Figlio
dell’uomo sarà riconosciuto?
Se il regno
di Dio non viene in modo da attirare l'attenzione, vuol dire che si dovrà
imparare a percepirlo, a sentirlo. Se il Figlio dell’uomo “è necessario che soffra molto e venga ripudiato”, vale a dire: non
si vedrà come ci si aspetta di vederlo, occorrerà imparare a riconoscerlo, a
sentirne la presenza, a percepirne bellezza e potenza. Ma come? Con la
perseveranza nella preghiera. Lo dice espressamente Luca nell’introdurre la sua
parabola del giudice iniquo e della vedova che lo importuna fino ad ottenere
giustizia: “Disse loro una parabola sulla
necessità di pregare sempre, senza stancarsi”. Il linguaggio è quello di
Paolo e si possono citare numerosi passi paralleli: 2Ts 1,11.3,13; Fil 1,4; Col
1,3; Gal 6,9; Ef 3,13.
I discepoli
che subiscono persecuzioni per fedeltà a Cristo si chiedono: perché Dio tarda?
Certo Dio farà giustizia, ma quando? Dio mi aiuterà contro il peccato, ma
perché si deve fare così tanta fatica? Sarà possibile resistere fino alla fine?
Ecco, la parabola risponde a queste domande angosciose.
La parabola
della vedova che importuna il giudice disonesto richiama quella dell’amico
importuno raccontata sempre da Lc 11,5-8. Da notare
che quest’ultima è introdotta dall’insegnamento della preghiera del Padre
nostro, allorquando i discepoli erano rimasti affascinati dal modo in cui Gesù
pregava e gli avevano chiesto di insegnar anche a loro a pregare così. Se poi
colleghiamo alla parabola della vedova che assilla il giudice il commento di
Gesù a questa sua parabola dell’amico importuno: “Se voi dunque, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri
figli, quanto più il Padre vostro del cielo darà lo Spirito Santo a quelli che
glielo chiedono!” (Lc 11,13), il senso che ne
scaturisce è più profondo. Cosa significa per noi dire che Dio “farà loro giustizia prontamente”, quando
registriamo con sofferenza come un dato di fatto che il Signore tarda, che non
viene quando vorremmo noi (cfr. 2Pt 3,9-11)?
Dio
esaudisce prontamente, senza fare
aspettare, ogni richiesta di Spirito Santo, vale a dire l’anelito del cuore che
non si accontenta delle cose che provengono da Dio, ma che cerca proprio Dio,
l’incontro, l’intimità con lui. Quando un discepolo è afflitto dalla fatica di
perseguire il bene, quando non riesce a sopportare un’ingiustizia, quando è
tormentato da persecuzioni interiori ed esteriori, anche se Dio tarda a
rendergli soddisfazione così come se lo immaginerebbe, subito Dio gli concede
lo Spirito del suo Figlio perché il suo cuore non si allontani da lui comunque,
perché non venga meno l’anelito alla sua compagnia, perché si rafforzi la sua
fede, cioè la sua visione di lui. Come dice Gesù alla fine della parabola: “Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà,
troverà la fede sulla terra?”. Senza quella costante perseveranza nella
preghiera la fede non potrà durare.
Perché
dobbiamo pregare sempre? Perché il regno di Dio non lo vediamo e perché il
Figlio non si manifesta secondo le nostre attese. La perseveranza costante
nella preghiera è l’unica porta che ci fa accedere alla visione del Figlio ed
al sentore del Regno. Senza dimenticare che un’antica tradizione ebraica rileva
nelle braccia alzate di Mosè in preghiera sul monte la solenne benedizione
sacerdotale di Nm 6,24-27, benedizione che
misticamente fa sussistere il mondo.
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Terzo
ciclo
Anno
liturgico C (2009-2010)
Tempo
Ordinario
30a
Domenica
(24 ottobre
2010)
_________________________________________________
Sir
35,15-17.20-22; Sal
33; 2Tm 4,6-8.16-18; Lc 18,9-14
_________________________________________________
Con la
parabola del fariseo e del pubblicano Gesù illustra un altro aspetto del
mistero della preghiera. Nel tempo della storia, stando davanti a Dio, gli
uomini non si possono suddividere tra giusti e peccatori, ma necessariamente
soltanto tra quanti presumono di ritenersi giusti e quanti si ritengono
peccatori. Il giudizio dei cuori spetta a Dio e la parabola illustra proprio la
verità di quel giudizio, che rivela la verità essenziale dei cuori.
Non si
tratta evidentemente di disprezzare le pratiche buone, tanto più quelle
inerenti al culto, che del resto procedono dai comandamenti di Dio, ma di
svelare la condizione che rende quelle pratiche gradite a Dio e portatrici di
frutto per il cuore dell’uomo.
Il brano del
Siracide ci offre indicazioni preziose. Il passo
tratta delle offerte al tempio e mette in guardia il credente dal presentare al
Signore vittime ingiuste,
sottolineando che “il Signore è giudice e
per lui non c’è preferenza di persone (letteralmente: la gloria della
persona non è nulla davanti a lui)”. Uno può offrire vittime ingiuste in tre
modi: a) praticare il rito dell’offerta materialmente senza impegnare la
propria vita convertendosi; b) portare una vittima sottratta al povero, frutto
quindi di ingiustizia e oppressione; c) presentare una vittima difettosa. Il
Signore, che è giudice, vede i cuori e non si lascia ingannare da nessuna
gloria esteriore.
Quando il
fariseo proclama la sua giustizia,
non dice cose false, ma non è retto il suo cuore, perché interpreta la sua
giustizia come una gloria da esibire e Dio, per il quale la gloria delle
persone non conta nulla, non può accogliere la sua offerta. Il fariseo offre
una vittima difettosa.
Ma la
ragione più profonda della non accoglienza della sua preghiera è un’altra.
Basta mettere a confronto la preghiera del fariseo con quella che Gesù innalza
al Padre al ritorno dei discepoli da una missione di predicazione: “Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e
della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai
rivelate ai piccoli” (Mt 11,25). Almeno tre sono le differenze vistose: la
preghiera di Gesù prorompe da un’intimità goduta, esprime solidarietà con Dio e
con gli uomini, celebra Dio e non l’uomo. Quella del fariseo è appiattita sull’esteriorità
esibita, fa rimarcare la separazione, celebra l’uomo e non Dio. Se nella
preghiera di Gesù Dio è benedetto come Padre, in quella del fariseo, la
caratteristica che manca, è proprio la proclamazione della sua paternità.
Nella
preghiera del Padre Nostro, tutte le richieste sono dirette a Dio, eccetto una
: “... come noi li rimettiamo ai nostri debitori”. A questa richiesta che ci fa
Dio rimanda la conclusione della parabola di Gesù: “chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato”
(Lc 18,14). Chi è profondamente consapevole del suo
peccato e chiede a Dio il perdono, come dice il pubblicano: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”, non
ha bisogno di smarcarsi dagli altri, non avverte nemmeno che qualcuno sia in
difetto verso di lui. Ed è solo a partire da questa consapevolezza che,
risalendo all’indietro nella preghiera del Padre Nostro, chiediamo di nutrirci
del Pane di vita, di accogliere, come desiderio e criterio supremo di condotta
del cuore, il mistero di benevolenza di Dio per gli uomini, di farci guidare
dallo Spirito e di cercarne il regno, di vivere in maniera che il Nome di Dio
sia costantemente glorificato ed allora, come Gesù, potremo chiamare Dio Padre. Questo, il fariseo, non lo può
fare. Ma se non fa questo, come può essere gradita la sua preghiera? In realtà
la preghiera non tende ad altro se non a far sì che sia rivelata al nostro
cuore la verità di Dio, cioè che è Padre.
La
difficoltà per noi, provati dalla vita, affaticati e oppressi, sta nel fatto
che non è così semplice presentarci davanti a Dio in tutta sincerità da
peccatori, come fa il pubblicano della parabola. Vorremmo comunque poter
esibire qualcosa di buono o rivendicare qualcosa che ci sarebbe dovuto; eppure,
così facendo, non conosceremo mai la vera confidenza in Dio. Sembra questa la
ragione per la quale Gesù ci invita a fare credito al prossimo per ottenerlo
davanti a Dio.
Il movimento
della preghiera non è quello di esibire qualcosa per convincere Dio a venire da
noi, bensì quello di confidare nella sua offerta di salvezza, nella sua
prossimità. Un passo del profeta Isaia lo esprime chiaramente: “Su chi volgerò lo sguardo? Sull’umile e su
chi ha lo spirito contrito e su chi trema alla mia parola” (passo, che la
versione greca rende con: “Su chi volgerò lo sguardo? Sull’umile e sul mite…” (Is 66,2). E non è Gesù
colui che di sé dice: “Venite a me … e
imparate da me, che sono mite e umile di cuore” (Mt 11,28-29)? Così, se
Gesù è l’offerta di salvezza da parte di Dio, non c’è alcun bisogno di esibire
alcunché davanti a Dio; di conseguenza, non c’è più alcun bisogno di separarci
dai nostri fratelli, perché possiamo godere insieme la salvezza di Dio. Più un
uomo si loda e più piccola è l’immagine di Dio che coltiva; più un uomo si distingue
e si separa dagli altri, meno conosce la dolcezza che viene dalla salvezza di
Dio.
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Terzo
ciclo
Anno
liturgico C (2009-2010)
Solennità
e feste
Tutti i
Santi
(1
novembre 2010)
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Ap
7,2-4.9-14; Sal
23; 1Gv 3,1-3; Mt 5,1-12
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L’immagine
di fondo che caratterizza la liturgia di oggi è quella della comunità umana
unita come famiglia di Dio, nella lode e nell’adorazione dell’unico Dio e
Salvatore, in una gioia perfettamente condivisa tra gli uomini, gli angeli e
Dio stesso. Lo sguardo della Chiesa non è però attirato come da un punto di
fuga situato oltre la storia, come si trattasse di riempirsi gli occhi con una
visione consolatoria. La sua visione parla di un’esperienza quotidiana, quella
tipica della celebrazione eucaristica in cui, nel Corpo di Cristo presente
sull’altare, i fedeli si riconoscono membri della comunione dei santi
comprendente tutti coloro che, in ogni epoca, hanno creduto e vissuto in
Cristo. Parla di realtà ultima, ma vicina, più ‘reale’ delle cose di tutti i
giorni: un mondo che interpella e invita con soave insistenza. Parla al cuore
degli aneliti che lo assillano, delle radici che lo costituiscono, delle
tensioni che lo lavorano, dei desideri che l’abitano.
Penso
all’esperienza esaltante degli abitanti di Siena quando l’enorme pala (tre
metri per cinque) della Maestà di
Duccio da Buoninsegna fu scortata dalla bottega
dell’artista alla cattedrale in trionfo, tra gli applausi della cittadinanza e
posta sull’altare. La visione di tutti quei santi schierati a destra e a
sinistra del trono dove, in Maria, la natura umana viene rivelata come degna
dimora dello Spirito, portatrice del Figlio dell’Altissimo, doveva suscitare
l’impressione di trovarsi già partecipi della loro compagnia e del loro
tripudio. Oggi, forse, non avvertiamo più l’attrazione del cielo allo stesso
modo, ma la speranza, di cui era portatrice quell’attrazione, è ancora
necessaria per vivere e cogliere il senso della nostra vita.
Per noi,
oggi, la comunità dei santi attorno all’Altissimo, riuniti nella stessa lode e
nella stessa gioia, fornisce come le coordinate di senso alla responsabilità
della vita terrena. Non abbiamo altro modo di sconfinare nell’eterno se non
quello di giocare la nostra vita terrena, secondo tutto lo spessore di dignità
che comporta. L’immagine chiave di tale dignità è la realtà degli uomini come
‘figli di Dio’: “Carissimi, noi fin d’ora
siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo
però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo
vedremo così come egli è”. Quello che siamo, siamo chiamati a diventarlo: è
tutto il senso della vocazione umana. Così, mentre vediamo delinearsi, anche
solo per tratti sfumati, la gloria della santità compiuta nel Regno, che la
liturgia celebra solennemente, ci accorgiamo che quegli stessi tratti
caratterizzano la via per lambire la santità anche qui, nella nostra storia,
con il percorso che segue il nostro cuore per arrivare all’evidenza dell’amore
di Dio, motivo di purità per il nostro cuore, realtà di pacificazione e di
riconciliazione con tutti i nostri fratelli, figli di Dio allo stesso titolo
nostro, decisi a non perdere l’amore quando l’afflizione ci opprime. È la
santità del Regno che poco a poco conquista il cuore, come l’insieme delle
beatitudini mostra:
beati i poveri: beati coloro che non fanno consistere la loro
ricchezza che nell’essere figli di Dio, che non hanno nulla di più caro al mondo
se non quel Figlio che ha loro manifestato l’amore grande di Dio per l’umanità;
beati gli afflitti: beati coloro che non hanno lacrime più amare di
quelle versate quando dovessero allontanarsi dall’agire come figli di Dio e,
pentiti, ritornano al loro Signore, ritrovando la consolazione della
solidarietà con Dio e con gli uomini;
beati i miti: beati coloro che con pazienza sopporteranno ogni
prova per non venir meno al loro essere ed agire come figli di Dio, fin tanto
che la terra del loro cuore sarà tutta diventata cielo;
beati quelli che hanno fame e sete della giustizia: beati coloro il cui unico tormento
è quello di perseverare nella fedeltà all’essere figli di Dio, fin tanto che il
volto di Dio si manifesti al loro cuore e li consoli;
beati i misericordiosi: beati coloro che, avendo
sperimentato quanto è grande l’amore di Dio che li ha resi figli suoi, per sua
sola misericordia, saranno capaci di estendere a tutti la possibilità di tale
esperienza aprendo il loro cuore al perdono;
beati i puri di cuore: beati coloro che avranno
sperimentato la luce dell’amore di Dio in modo da collocare i loro cuori nella
luce e poter vedere tutto in questa luce;
beati gli operatori di pace: beati coloro che, come figli di
Dio, vivono nella dinamica dell’amore di Dio per gli uomini che vuole tutti
riconciliati; beati coloro che non hanno altro scopo nel loro vivere se non di
perseguire questa pace ottenutaci dal Figlio di Dio;
beati i perseguitati per causa della giustizia: è l’ottava beatitudine, quella che
ingloba le altre nel senso che di tutte rappresenta la condizione suprema:
qualsiasi cosa abbiate a soffrire, non vi turbi e non vi distolga dalla volontà
di vivere da figli di Dio, fiduciosi nella promessa del Signore, nella sua
parola che è potente, cioè capace di far vivere quello che indica.
Ci
ritroveremo così nel Cristo, nostro ‘ristoro’, come canta il versetto al
vangelo. Ma quel ‘ristoro’ allude alla creazione del riposo da parte di Dio nei
giorni della creazione e che Dio riverserà in pienezza alla fine dei tempi.
Dopo aver creato tutte le cose, il libro della Genesi dice: “Dio, nel settimo giorno, portò a compimento
il lavoro che aveva fatto” (Gen 2,2). Ma non era
più logico attendersi che avesse terminato la sua opera nel sesto giorno? Gli
antichi rabbini hanno concluso evidentemente che vi fu un atto di creazione
anche il settimo giorno: “Che cosa è stato creato il settimo giorno? La ‘menuchà’, la
tranquillità, la serenità, la pace e il riposo” (cfr. Gen
Rabbà, 10,9). È lo stato in cui non vi è contesa né
lotta, né paura, né diffidenza; è felicità, pace e armonia, vita eterna. Il
vangelo lo chiama ‘ristoro’, quello che il Signore Gesù farà gustare: “Venite a me, voi tutti che siete affaticati
e oppressi, e io vi darò ristoro” (Mt 11,28).
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Terzo
ciclo
Anno
liturgico C (2009-2010)
Tempo
Ordinario
32a
Domenica
(7 novembre
2010)
_________________________________________________
2Mac
7, 1-2.9-14; Sal
16; 2Ts 2,16-3,5; Lc 20, 27-38
_________________________________________________
“E non osavano più rivolgergli alcuna domanda”
(Lc 20,40): così finisce il brano di vangelo odierno.
Gesù è ormai entrato a Gerusalemme; il rapporto con i capi del popolo si è
definitivamente rotto. Con la discussione sulla risurrezione futura, che i
sadducei, a differenza dei farisei, non ammettevano, si chiude il confronto dei
capi con Gesù.
Dio è Dio
dei vivi. Il senso di questa verità è illustrato da Origene
nel suo commento a Giosuè là dove dice:
“Magari venisse concessa anche a
me l’eredità di Abramo, Isacco, Giacobbe e divenisse mio il mio Dio allo stesso
modo che è diventato Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe, in Cristo
Gesù, Signore nostro” (Omelia XVIII,3). È l’invito a prendere possesso di
una eredità, a diventare coeredi di Cristo (Rm 8,17),
Lui il Risorto sul quale la morte non ha più potere; a diventare quelli che
siamo: figli della risurrezione.
Nella
risposta ai Sadducei, nei passi paralleli di Matteo e Marco, Gesù li apostrofa
come coloro che non conoscono le Scritture né conoscono la potenza di Dio. Cita
il passo di Es 3,6, dove Dio proclama che conosce le
sofferenze del suo popolo e vuole scendere a liberarlo. La nota fondamentale di
questa citazione riguarda il nome di Dio che non rinvia mai semplicemente
all’essere di Dio, ma al suo essere per noi. Tanto che Dio è sempre ‘Dio di’:
Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe. Ma ora, con la venuta di Gesù e
con l’imminente mistero della sua morte e risurrezione, Dio oramai sarà il ‘Dio
di Gesù’, il Dio che in Gesù ha sigillato il suo amore per noi nel modo più
radicale e definitivo. Non solo ha fatto risorgere Gesù, diventato nella
confessione di fede il Vivente, ma ha
reso accessibile, in Gesù, il dono della sua vita eterna, quella vita sulla
quale la morte non ha potere alcuno di mortificazione. Così, confessare la fede
nella risurrezione significa contemporaneamente confessare la risurrezione di
Gesù e il dono della vita che da lui scaturisce.
La risposta
di Gesù ai Sadducei non riguarda semplicemente una verità degli ultimi tempi: i
morti risorgeranno. Riguarda la potenza del dono di Dio che rende gli uomini
che lo accolgono figli della risurrezione. D’altra parte, chi non accetterà il
patire del Figlio dell’uomo, nemmeno accetterà la realtà della risurrezione. In
gioco è la potenza della fede che non tollera la prospettiva mondana nel
mistero di Dio. Il caso prospettato dai sadducei dei vari mariti e dell’unica
moglie nel regno di Dio nasconde l’incapacità di comprensione del dono di Dio.
Ogni proiezione mondana impedisce l’accoglienza del dono di Dio. Vale per la
risurrezione come per ogni altra verità del mistero di Dio che in Gesù si
rivela.
Per
declinare in modo a noi accessibile la realtà della definizione di Gesù dei
beati come figli della risurrezione, potremmo collegarla alla beatitudine: “beati gli operatori di pace, perché saranno
chiamati figli di Dio” (Mt 5,9). Gesù dice che i figli della risurrezione
sono i figli di Dio. Allora i figli della risurrezione sono gli operatori di
pace: chi vive nella pace e nella concordia, quella che Gesù ci ha ottenuto con
il dono del suo Spirito e che Paolo illustra in Ef
4,32 dicendo: ‘Dio ha perdonato a voi in Cristo’, espressione che secondo il
verbo greco dovrebbe essere resa con ‘Dio ha fatto grazia di sé a voi in
Cristo’. Un’esperienza profonda del suo perdono, di questo suo far grazia di sé
a me, che rende capace me, a mia volta, di fare grazia di me a tutti nel suo
amore, in fraternità. Questa è proprio l'opera del suo Spirito, quello che
sulla croce Gesù ha reso al Padre perché venisse effuso su di noi. Lo stesso
Spirito che invochiamo nella preghiera eucaristica perché ci renda un unico
corpo e uno spirito solo, finché alla fine Dio sia tutto in tutti. Figli di Dio
sono allora coloro che lo Spirito governa, coloro che si muovono sotto l'azione
dello Spirito e l'unica perfezione desiderabile per l'uomo è appunto quella di
lasciarsi penetrare fin nelle midolla da questo far grazia di sé da parte di
Dio agli uomini, in Cristo, per la potenza del suo Spirito. Come dice
stupendamente s. Francesco, sintesi dell’intera Tradizione: “ciò che devono desiderare sopra ogni cosa è
di avere lo Spirito del Signore e la sua santa operazione”.
Vuol dire
allora che la vita vissuta nel segno del far grazia di sé a noi in Cristo e del
far grazia di noi a tutti in Cristo, è la vita non toccata dalla morte, non più
toccata dal veleno della divisione e della separazione. E se il peccato porta
la morte, vuol dire che il peccato non è che la resistenza, l'ostacolo, a
vivere in radicalità la fraternità operata dallo Spirito, ostacolo che ci vela
il volto di Dio e ci impedisce di conoscerlo come Padre. La morte è la rinuncia
a questa proprietà di relazione con Dio, realtà misteriosa di cui anche gli
affetti che si vivono in questo mondo sono allusivi. Una volta che la verità
risplenderà in tutta la sua bellezza non ci sarà più bisogno di far valere le
modalità allusive.
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Terzo
ciclo
Anno
liturgico C (2009-2010)
Tempo
Ordinario
33a
Domenica
(14 novembre
2010)
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Ml
3,19-20; Sal
97; 2Ts 3,7-12; Lc 21,5-19
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L’anno
liturgico volge al termine e la Chiesa si confronta con gli eventi della fine.
La passione di Gesù è imminente e le sue parole alludono al giudizio di Dio sulla storia, giudizio
che viene dalla croce: l’amore di Dio si è manifestato, venga meno ogni boria
umana. In una visione volutamente complessa, secondo lo stile apocalittico
della tradizione ebraica, si intersecano annunci di eventi storici drammatici
come la distruzione del tempio e della città di Gerusalemme (probabilmente Luca
ha conosciuto la tragedia del 70 d.C.) insieme ad allusioni catastrofiche
riguardo alla fine della storia e del mondo, inserite però in un contesto di
senso preciso: il dramma della storia fino alla sua fine si gioca per la
testimonianza (“Avrete allora occasione
di dare testimonianza”). Comprendere di che testimonianza si tratta
significa trovare il senso della nostra vita.
L’aspetto
curioso di questo brano lucano è il contrasto tra i terrori annunciati e la
fiducia inculcata, aspetto che la liturgia si premura di sottolineare.
L’antifona d’ingresso canta con il profeta Geremia: “Io ho progetti di pace e non di sventura” (Ger
29,11); l’antica colletta: “Il tuo aiuto, Signore, ci renda sempre lieti nel
tuo servizio, perché solo nella dedizione a te, fonte di ogni bene, possiamo
avere felicità piena e duratura”; l’antifona alla comunione: “Il mio bene è
stare vicino a Dio, nel Signore Dio riporre la mia speranza”.
Lungo tutto
il cap. 21, Gesù mette in guardia contro il pericolo di seduzione sempre in
agguato: “Badate di non lasciarvi
ingannare”, “State attenti a voi
stessi”, “Vegliate in ogni momento”.
La fedeltà al segreto di Dio svelato nel giudizio della croce non è un viaggio
in carrozza per nessuno, per cui è necessaria una estrema vigilanza. Ciò che
Luca ricordava a proposito della preghiera (‘necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai’, Lc 18,1), ora lo ricorda a proposito della responsabilità
dei servi che attendono l’arrivo del padrone (‘Vegliate in ogni momento, pregando’, Lc
21,36). Nella vita è in atto qualcosa di grande che ci riguarda e che può
costituire anche per noi, come per la Vergine, gli apostoli, Paolo, il segreto
della vita. Là Gesù indirizza la nostra attenzione. Non si tratta però di
attendere l’eterno dopo il tempo, ma di accogliere l’eterno nel tempo.
Il senso del
brano evangelico non è che un’introduzione al mistero della fedeltà dei
credenti, fedeltà che nasce da una sapienza goduta e che si gioca in una
vigilanza capace di attraversare le prove e i tormenti della storia. La storia
è piena di tormenti, i tormenti però non sono per la morte, ma perché si
svelino i segreti di Dio. Assai istruttiva a tal riguardo è la prima lettura
tratta dal profeta Malachia. Il testo di Malachia, secondo la suddivisione dei libri nella Bibbia
accolta nella tradizione cristiana, è l’ultimo libro dell’Antico Testamento,
quello che fa da cerniera con i vangeli. Il profeta parla del giorno rovente
del Signore, ma nell’ottica della salvezza di coloro che hanno fatto memoria
della parola del Signore. Sarà proprio la conversione a Gesù a introdurre negli
eventi della fine, intendendo: se in lui è sigillata l’alleanza di Dio godibile
per l’uomo, allora il segreto da condividere non è che quell’immenso amore
svelato nel Cristo che nulla e nessuno potrà rapire. Lo scenario delineato,
l’unico possibile rispetto alla potenza dell’amore che dal Cristo deriva e che
diventa la nostra ragione di vita finché tutto e tutti possano goderlo, non
resta che quello del martirio, cioè della testimonianza. Fatto, che anche le
cronache quotidiane di questi ultimi anni ci rammentano con evidenza a
proposito dei nostri fratelli di fede in certe parti del mondo. D’altra parte,
il dire ‘finché tutto e tutti possano goderlo’
significa accettare ogni forma di avversità e tormento nell’ottica di vivere la
potenza di quell’amore comunque. Significa vivere quell’amore fino alla fine,
vale a dire fino a che il segreto che comporta si sveli in tutta la sua
potenza, per me come per tutti.
È chiaro
allora che la perseveranza a cui Gesù ci invita (“Con la vostra perseveranza salverete la vostra vita”) non allude a
uno sforzo di tenacia ma a una verità di esperienza: “Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt
28,20), le parole conclusive del vangelo. Perseveranza va coniugata con
presenza del Risorto. In effetti, nell’ascolto del nostro brano odierno, non
saremo tanto colpiti dalle predizioni dei tormenti, ma dalla fiducia che ci deriva
dall’attraversarli in compagnia di Colui che abbiamo conosciuto essere
l’Inviato di Dio, il Figlio di Dio, nato-morto-risorto
per noi, come sottolinea all’evidenza l’espressione paradossale: “Ma nemmeno un capello del vostro capo andrà
perduto”.
In gioco,
nella storia, è appunto la fedeltà a Colui che il nostro cuore ha scoperto
essere il sigillo della misericordia di Dio per noi, a Colui che per noi è
diventato radice di vita e di sentimenti a tal punto da farci conoscere
contemporaneamente il riposo e l’angoscia dell’amore, non potendo tollerare che
nessuno ne resti privo per causa nostra. Tanto che il modo più sicuro di vivere
del riposo dell’amore è quello di non rifiutarlo a nessuno. Con questa tensione
dell’amore ha a che fare la perseveranza, che non è semplicemente la durata nel
tempo, ma la tenuta di qualità dell’amore nel tempo e nelle prove.
‘Perseverare
fino alla fine’ (cfr. Mt 10,22) non riguarda semplicemente la fine della vita,
ma finché il fine della vita non si sveli pienamente al cuore, vale a dire
finché non compare al cuore il volto misericordioso del Signore. Così,
perseveranza o pazienza ha sempre a che vedere con la presenza del Signore,
generatore di letizia, accanto a noi, pur nelle prove. È tale presenza che
salva le nostre vite, che ci impedisce di intristire e di fallire nella
realizzazione della nostra vocazione all’umanità. Se nemmeno un capello del
nostro capo andrà perduto, non è per invitarci alla speranza, vanesia, che i
tormenti non ci toccheranno, ma, al contrario, che nemmeno i tormenti ci
ruberanno la confidenza ottenuta e non ci muoveranno ad agire contro il suo
amore, come del resto è stato per lui, che non ha agito contro di noi, nella
sua passione e morte.
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Terzo
ciclo
Anno
liturgico C (2009-2010)
Tempo
Ordinario
34a
Domenica
N.S. Gesù
Cristo Re dell’universo
(21
novembre 2010)
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2Sam
5,1-3; Sal
121; Col 1,12-20; Lc 23, 35-43
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“Sopra di lui c’era anche una scritta: costui
è il re dei Giudei”: è l’annotazione di Luca dopo il racconto degli scherni
sotto la croce da parte dei capi e dei soldati. Scritta, che le generazioni
cristiane hanno interpretato come ‘Costui
è il re della gloria’.
Il vangelo
presenta la crocifissione di Gesù secondo i possibili modi di contemplarlo
incarnati dai vari personaggi. Al centro, ci sono i due malfattori, l’empio e
il pio, che riassumono le due possibili visioni: l’empio si accoda, per motivi
suoi, alla visione di scherno dei capi e dei soldati; il pio invece sa scorgere
il mistero e si abbandona fiducioso.
Cosa ha
visto quel malfattore pio, che
l’iconografia cristiana rappresenta come colui che in paradiso aspetta
l’ingresso di tutti i santi, da indurlo a pregare quel condannato: “Gesù, ricordati di me quando entrerai nel
tuo regno”? Forse lo splendore di un’innocenza che si irradiava da Gesù e
che lui, così vicino, poteva vedere bene. Il fatto è che, di fronte a
quell’uomo ingiustamente condannato eppur così mite, vede la propria storia
rovinosa e senza perdersi in rivendicazioni ormai inutili, crudeli perfino,
accoglie in pace la sua sorte perché può aprirla su qualcosa di più grande. Con
la sua richiesta e la risposta di Gesù veniamo a sapere che il regno di Dio è
splendore di amore che si riversa sull’uomo, che Dio non rinuncia al suo amore
perché l’uomo è cattivo, che Dio si manifesta con il volto mite dell’amore,
proprio quando è rifiutato e calpestato, in attesa che l’uomo lo riconosca e ne
faccia la radice della sua vita e del suo tormento.
L’immagine
del buon ladrone è una di quelle immagini che svelano il paradosso del mistero
di Dio aperto sull’uomo. Il giudizio della croce non parla dell’ingiustizia
degli uomini, ma della giustizia di Dio. E la giustizia di Dio è esattamente
quella che rende noi, indegni, degni dello splendore del suo amore a tal punto
da farci partecipi di quella dinamica di amore da riversarla con lui sul mondo.
Nel giudizio universale rappresentato da Giotto nella Cappella degli Scrovegni
a Padova, ai piedi della grande croce (e quasi a darle gambe perché muova
incontro all’uomo) sta una piccola figura umana. Partecipa all’esaltazione
della croce: due grandi angeli la reggono e lui – se ne vedono i piedi, uno
scorcio del capo e le braccia – si stringe al cuore il dulce lignum. Un piccolo fragile uomo (buon
ladrone, cireneo, ciascuno di noi) che si è imbattuto in quell’Uomo, l’ha
riconosciuto Dio, gli si è affezionato: porta quindi il ‘giogo soave, il carico
leggero’, nella prospettiva alta della felicità, la
cui caparra è, qui e ora, la letizia dell’amore.
Secondo le
letture della liturgia della festa odierna, il regno che il Signore ci acquista
e che costituisce la nostra eredità (si veda la parabola del giudizio finale di
Mt 25, dove il re proclamerà: “Venite,
benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin
dalla creazione del mondo...”) è presentato in tre immagini:
a) come
un’alleanza, che il popolo riconosce nella decisione di Dio di pascere il suo
popolo (2Sam 5,2) e che si realizzerà nella carità svelata dal Figlio morto e
risorto;
b) come
splendore di riconciliazione ( “È
piaciuto infatti a Dio che abiti in lui tutta la pienezza e che per mezzo di
lui e in vista di lui siano riconciliate tutte le cose ...”, Col 1,19-20)
che Gesù ci ottiene sulla croce, quando ci mette nella condizione di
partecipare alla santità di Dio che è amore per gli uomini. È la carità di Dio,
per noi, che si traduce in riconciliazione vicendevole, a livello della storia
e che parla della pacificazione tra il cielo e la terra, del fatto cioè che la
terra del nostro cuore diventa cielo dove Dio è adorato, goduto, condiviso in
fraternità;
c) come
comunione con lui, oltre ogni rivendicazione, sopraffatti dalla sua
misericordia: “In verità ti dico: oggi
con me sarai nel paradiso”. Nella nostra umanità, tribolata e pacificata,
il Signore ci permette di godere della comunione con lui.
Ogni
proclamazione di regalità che non partisse dalla croce non potrebbe convincere
i cuori perché non renderebbe ragione dell’immensità dell’amore di Dio per
l’uomo. Non per nulla il tono con il quale i capi, i soldati e il malfattore
empio, si rivolgono a Gesù sa di scherno, è crudele: non possono concepire
altra regalità se non nel registro della potenza. Il tono invece del malfattore
pio è mite, esprime tenerezza e sa riconoscere il mistero di quella regalità
così mal compresa. Ma è appunto un re del genere che la Chiesa contempla, è un
re del genere che la chiesa annuncia e che serve.