Terzo ciclo
Anno liturgico C (2009-2010)
Tempo di Quaresima
4a Domenica
(14 marzo 2010)
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Gs
5,9-12; Sal 33; 2Cor 5,17-21;
Lc 15,1-3.11-32
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Il mistero che s. Paolo proclama essere
il contenuto stesso della rivelazione (“Tutto
questo però viene da Dio, che ci ha riconciliati con sé mediante Cristo e ha
affidato a noi il ministero della riconciliazione”) la parabola del vangelo
lo narra splendidamente.
Gesù risponde alle lamentele, che
diventano perfino accuse, dei farisei di fronte al suo agire: “I farisei e gli scribi mormoravano: Costui
riceve i peccatori e mangia con loro” (Lc 15,2). Non si davano pena dei
sentimenti di Dio come rivela il profeta Isaia: “Sion ha detto: "Il Signore mi ha abbandonato, il Signore mi ha
dimenticato". Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non
commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se costoro si
dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai” (Is 49, 14-15) Non si
ricordavano più il rimprovero che Dio aveva rivolto al profeta Giona per la sua
irritazione a causa della pianta di ricino seccata (cfr Gio 4,10-11).
Più che denominare la parabola ‘del
figlio prodigo’, dovremmo parlare di parabola ‘del padre misericordioso’ o ‘del
figlio ritrovato’. L’accento non è posto sul o sui figli, ma sul padre. La
parabola è costruita su tre personaggi: i due figli, il minore e il maggiore ed
il padre. I personaggi si caratterizzano tanto per i silenzi che per le parole
proferite. Possiamo notare subito che non esiste dialogo diretto tra i due
figli, ma solo tra i figli e il padre. Questa parabola, come le due precedenti
della pecora e della moneta ritrovate, finiscono sull’invito a condividere la
gioia del ritrovamento.
Le parabole, prima che di noi, parlano
di Dio, di Dio in rapporto a noi. Siamo a metà del cammino quaresimale e la
chiesa si interroga: come Dio agisce con i peccatori? Possono i peccatori
trovare salvezza? O, più direttamente: ha diritto alla gioia l’uomo peccatore?
In cosa consiste il segreto della gioia? Oppure ancora: come si riconosce la
vera devozione?
La risposta a questi interrogativi si
potrebbe riassumere così: nel partecipare ai sentimenti di Dio; nel prendere
parte alla gioia di Dio che vuole i suoi figli con lui. Ogni altro motivo del
proprio agire risulterebbe alla fine discriminatorio tra fratelli e quindi non
gradito a Dio. Non per nulla i due figli non si parlano mai direttamente, in
quanto il loro rapporto o deriva dalla condivisione dei sentimenti del padre e
sarà vicendevolmente benevolo oppure è corroso dalla gelosia tra loro e
rivelerà l’incomprensione dei sentimenti del padre.
La parabola è viva e rimane aperta. Possiamo
farci allora due domande.
La prima: se la comunione con il padre
resta il segreto della felicità dei due figli, come si collocano rispetto ad
essa? Il figlio minore l’ha disprezzata e l’ha rotta; il figlio maggiore, che
sembra averla mantenuta, non l’ha però mai goduta e quindi in fondo anche lui la
disprezza. Tutti e due falliscono la loro felicità. Il padre tuttavia accoglie
entrambi, segue premuroso entrambi: come corre incontro al figlio minore che
torna pentito, così esce per convincere il figlio maggiore a partecipare alla
sua festa.
La seconda: cosa sarebbe successo se il
figlio minore, ritornato pentito, si fosse stizzito per l’atteggiamento del
fratello maggiore che non poteva accettare quel trattamento di riguardo del
padre a suo favore? Se avesse preteso comprensione anche dal fratello maggiore,
non sarebbe stato sincero nel suo pentimento verso il padre. E se il figlio
maggiore si fosse sentito solidale con il padre nella sua gioia, avrebbe potuto
rivendicare qualcosa per sé? Evidentemente non si è mai trovato, insieme al
padre, durante tutto il tempo dell’assenza del fratello, a dire: ‘speriamo non
gli capiti qualcosa di irreparabile …’. Il punto è esattamente questo allora:
stare solidali con il padre, con la sua premura e la sua angoscia per poter
godere della sua gioia.
In questa prospettiva, tutte le
annotazioni a proposito dei sentimenti del padre sono particolarmente preziose
perché rivelano la natura dell’amore di Dio per i suoi figli. Voglio rimarcare
solo due particolari. Del padre si dice che, vedendo da lontano il figlio che
tornava, ‘ebbe compassione’, vale a dire: si lasciò commuovere fin nelle
viscere. Quel movimento del cuore è così intenso che non lascia respiro al
figlio, nel senso che tutto quello che il figlio aveva da dire nella sua
vergogna non ha più bisogno di essere ascoltato perché il suo cuore l’ha già
accolto e ristabilito nella sua dignità, di nuovo erede di tutti i beni. Dietro
tutte le parole della Scrittura sta quello stesso movimento di compassione di
Dio per l’uomo; dietro le parole e l’agire di Gesù sta quello stesso movimento,
come spesso si annota nei vangeli (cfr Mt 14,14; 18,27; Mc 1,41; 6,34; 8,2; Lc
7,13; 15,20). La stranezza sta nel fatto che l’uomo può cogliere gli effetti di
quel movimento di compassione per lui proprio quando gli brucia la vergogna di
essersi perso. La conversione inizia con la coscienza di aver disprezzato la
sua dignità di figlio e di non meritarsi più nulla, senza però chiudersi in se
stesso. L’amore che si riceve non è dovuto, ma ‘sorprendente’.
Del padre si dice ancora che vuole fare
festa, che chiama alla festa ed esce per invitare anche il figlio maggiore alla
festa. Quella festa è però misteriosa. È la festa della grande cena per gli
invitati che non vogliono venire (Lc 14,15-24), la festa del banchetto di nozze
che il re vuole per il figlio (Mt 22,1-14). Ma soprattutto è la festa in cui si
uccide il vitello grasso. Come non pensare al ‘sacrificio’ del figlio amato,
inviato dal padre a riscuotere i frutti della vigna (Lc 20,9-19)? Così, il far
festa non richiama semplicemente alla gioia, ma alla gioia dell’amore di Dio
che vuole radunare i suoi figli e non teme di vedere il figlio ‘sacrificato’
perché l’amore deve rivelarsi in tutta la sua immensità. La gioia ha a che
vedere con l’esperienza di quell’amore sconfinato che solo permette di
attraversare il male senza restarne vittime e che in Gesù ha il suo testimone
per eccellenza.