Terzo ciclo
Anno liturgico C (2009-2010)
Tempo di Quaresima
2a Domenica
(28 febbraio 2010)
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Gen
15,5-18; Sal 26; Fil 3,17-4,1;
Lc 9,28-36
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L’antica colletta ci fa supplicare:
“purifica gli occhi del nostro spirito perché possiamo godere la visione della
tua gloria”, mentre il canto al vangelo proclama: “Questi è il mio Figlio, l’amato: ascoltatelo!”. Viene delineato
l’intero arco del percorso del discepolo di Gesù: ascoltarlo, conoscerne il
mistero e vederne la gloria. Tutto il cammino quaresimale è teso a questo
obiettivo.
A quale condizione possiamo essere
ammessi alla visione? Solo chi dal fondo del cuore, nonostante le sue
resistenze e confusioni, dice con il salmista: “Di te ha detto il mio cuore: "Cercate il suo volto"; il tuo
volto, Signore, io cerco” potrà intuire l’esperienza dei tre discepoli sul
monte della trasfigurazione. Qualcosa della bellezza di quel Volto ha ferito
allora i cuori dei discepoli, come del resto ogni nostro cuore aspetta di
esserne ferito. Intervengono gli occhi, ma sono guidati dagli orecchi: la
contemplazione del Signore avviene nello spazio creato nel cuore dalla voce
misteriosa di cui gli occhi ne vedono i contorni di bellezza. Già al battesimo
era stata udita la voce dal cielo, che proclamava Gesù come il Figlio
prediletto, ma ora, per i discepoli, viene aggiunto: “ascoltatelo!”. I
discepoli ancora non possono sapere fin dove li porterà l'ascoltare il loro Maestro
e ancora non possono conoscere tutta la profondità di quell'espressione: “il
mio Figlio, l’Amato”, come poi si rivelerà alle loro coscienze e ai loro occhi
con la passione-morte-risurrezione di Gesù e con la testimonianza della loro
vita, resa capace di portare quello stesso amore di Dio, visto in Gesù e da lui
partecipato, in se stessi e per tutti gli uomini. Anzi, tutta la scena della
trasfigurazione sembra abbia lo scopo, nella narrazione evangelica, di segnare
i cuori dei discepoli in vista della prova della croce. Così non può che
seguire la consegna del silenzio, perché l'evento divino, ancora misterioso al
loro cuore, non si trasformi in un motivo di vanto o di confusione.
Il racconto della trasfigurazione segue
la confessione di Pietro a Cesarea e il primo annuncio della passione da parte
di Gesù ai discepoli increduli. Soltanto Luca però annota che Gesù aveva preso
i discepoli con sé per passare la notte in preghiera sul monte, descrivendoli
in preda all’oppressione del sonno e soltanto lui svela il contenuto del
colloquio tra Gesù e i due uomini apparsi nella gloria con lui, Mosè ed Elia.
Il tutto, evidentemente, allude alla scena futura del giardino degli ulivi
nella notte del tradimento di Gesù. I discepoli sembrano accorgersi dell’evento
della trasfigurazione all’ultimo momento, allorquando, svegliandosi, vedono
Gesù, Mosè ed Elia in colloquio mentre si stanno congedando. Quasi nello stesso
tempo li sorprende la nube e sentono la voce: “Questi è il mio Figlio, l’amato: ascoltatelo!”, voce che costituisce
il punto di fuga della visione.
La proclamazione della voce misteriosa,
già sentita al battesimo di Gesù nel Giordano, è costruita sul salmo 2,7: “Egli mi ha detto: Tu sei mio figlio” e
su Isaia 42,1: “Ecco il mio servo che io
sostengo, il mio eletto di cui mi compiaccio. Ho posto il mio spirito su di lui”.
Lo conferma il redattore della seconda lettera di Pietro: “Infatti, vi abbiamo fatto conoscere la potenza e la venuta del Signore
nostro Gesù Cristo, non perché siamo andati dietro a favole artificiosamente
inventate, ma perché siamo stati testimoni oculari della sua grandezza. Egli
infatti ricevette onore e gloria da Dio Padre, quando giunse a lui questa voce
dalla maestosa gloria:«Questi è il Figlio mio, l’amato, nel quale ho posto il
mio compiacimento».Questa voce noi l’abbiamo udita discendere dal cielo mentre
eravamo con lui sul santo monte” (2Pt 1,16-18).
L’annotazione della preghiera sul monte
allude alla rivelazione che sta per compiersi. Di per sé, però, la rivelazione
non riguarda la visione della gloria, ma il senso misterioso di quella gloria.
In un attimo folgorante, i discepoli vedono, sì, la gloria di Gesù, ma senza
rendersi ben conto. La rivelazione della gloria ha a che fare invece con il
segreto di Dio per l’uomo, che costituisce il colloquio tra Gesù e i due
personaggi: “e parlavano del suo esodo,
che stava per compiersi a Gerusalemme”, ma che Pietro e i suoi compagni non
sanno ancora reggere. Pietro, che non aveva potuto accettare una settimana
prima l’umiliazione e la sofferenza del suo Maestro, ora davanti al Signore
trasfigurato, non sa quel che dice. Se l’evento della Pasqua del Signore sta al
centro del mondo, del senso del mondo, come possono i discepoli comprendere che
fin dalla creazione del mondo il colloquio tra il Padre, il Figlio e lo Spirito
Santo verte sull’immolazione dell’agnello, figura dell’amore che Dio riversa
sul mondo e di cui la gloria della trasfigurazione è l’allusione misteriosa?
Sanno solo che quel Figlio, l’Eletto, è degno di Dio, custodisce il segreto di
Dio per l’uomo e attendono di conoscerlo per davvero imparando ad ascoltarlo,
ad ascoltarlo per seguirlo e a seguirlo per ascoltarlo finché si manifesti
finalmente al cuore. Il senso della paura che prende i discepoli è appunto il
segno del desiderio e del rischio insieme che caratterizza l’avventura
dell’uomo toccato dalla presenza di Dio.
Eppure, nel riconoscere Mosè ed Elia in
colloquio con Gesù, intuiscono che tutte le Scritture, di cui Mosè ed Elia
costituiscono l’espressione riconosciuta, tendono a quella rivelazione, che
tutte le Scritture si compiranno in quell’evento. Non solo, ma presentare il
colloquio che avviene ‘nella gloria’ significa collocare quell’evento nella
dimensione divina, nella quale si radica la storia degli uomini.
L’esperienza misteriosa dei discepoli è
la stessa che vive Abramo, con una fede così radicale nella promessa di Dio che
si compie, nonostante l’evidenza umana contraria, da permettere anche a noi di
fidarci dell’alleanza di Dio che in Gesù si rivela in tutta la sua profondità
ed estensione. Così, se domandiamo, come nella colletta, di vedere la sua
gloria, in realtà non facciamo che domandare a Dio di credere alla sua
promessa, di fare esperienza del suo amore a tal punto da esserne tutti
riverberati perché la gloria di Dio è l’amore che risplende dal trono della
croce e la gloria dell’uomo è vivere di quello splendore.