Terzo ciclo
Anno liturgico C (2009-2010)
Tempo di Pasqua
5a Domenica
(2 maggio 2010)
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At
14,21-27; Sal 144; Ap 21,1-5;
Gv 13,31-35
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Il salmo responsoriale proclama: “Benedirò il tuo nome per sempre, Signore”,
a scandire il salmo 144 che commenta ed esprime la vicenda pasquale di Gesù in
favore degli uomini. La benedizione è quella del riconoscimento, da parte della
prima comunità cristiana formata da ebrei, dell’insondabile mistero di Dio nel
suo amore agli uomini che ha voluto aprire anche ai pagani la porta della fede
(cfr. At 14). Si realizza così quella ‘gloria’ di cui aveva parlato Gesù a
proposito del suo sacrificio pasquale: “Io,
quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me” (Gv 12,32) e che il
vangelo di oggi richiama con l’espressione: “Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato, e anche Dio è stato
glorificato in lui. Se Dio è stato glorificato in lui, anche Dio lo glorificherà
da parte sua e lo glorificherà subito”. Nella nuova Gerusalemme, secondo la
visione dell’Apocalisse, non ci sarà più alcuna distinzione tra gli uomini ma
tutti saranno il suo popolo: “Udii allora
una voce potente che usciva dal trono: ‘Ecco la dimora di Dio con gli uomini!
Egli dimorerà tra di loro ed essi saranno suo popolo ed egli sarà il Dio-con-loro’”.
L’unica differenza tra quaggiù e lassù è costituita dal fatto che quaggiù le
lacrime abbondano mentre lassù ogni lacrima verrà asciugata.
Un particolare è assolutamente
rivelatore di quello che Gesù intende parlando della sua pasqua. Lo possiamo
notare con una domanda: perché Gesù abbina il comandamento dell’amore alla
menzione della sua gloria? Il capitolo 13 di Giovanni è il capitolo della lavanda
dei piedi nell’ultima cena. Gesù ha lavato i piedi anche a Giuda e tutti hanno
sentito la spiegazione di Gesù: “Vi ho
dato infatti l’esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi” (Gv
13,15). Gesù ha chiara la percezione dell’imminente tradimento e sa quel che
fa, a differenza dei discepoli che non comprendono, ma che comprenderanno in
seguito. Solo quando Giuda se ne è andato e Gesù vede tutto quello che gli
accadrà può aggiungere: “Vi do un
comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così
amatevi anche voi gli uni gli altri”. Come a dire: l’amore di cui vi faccio
comando comprende la disponibilità a lavarvi i piedi gli uni gli altri, senza
distinzioni di sorta tra buoni o cattivi, perché in gioco è la rivelazione del
segreto di Dio che mi è stato affidato e di cui vi rendo partecipi: la ‘gloria’
del suo amore deve risplendere in tutta la sua bellezza. Tra l’altro, è
singolare che Gesù non faccia mai comando ai discepoli di amare lui, mentre il
comando di amare Dio e amare il prossimo è diretto. Quando allude all’amore per
lui, lo suggerisce attraverso le espressioni: ‘se mi amate, osserverete i miei
comandamenti’; ‘rimanete nel mio amore’. Verso di lui invece il comando diretto
è: ‘credete in me’. Perché? Credo che qui si comprenda il nocciolo dell’amore
di cui Gesù ci fa comando. L’amore vicendevole non rivela la generosità dei
cuori, ma l’esperienza dell’incontro con Gesù; l’amore vicendevole parla di Dio
che ha toccato il cuore dell’uomo e non dell’uomo che è diventato buono e
perciò è in rapporto diretto all’esperienza della fede, quella fede di cui Gesù
ci fa comando nei suoi confronti. Le tribolazioni che la lettura degli Atti ci
ricorda essere necessarie nel nostro cammino riguardano la fede e non l’amore o,
meglio, l’amore nel suo radicamento nella fede: “è necessario attraversare molte tribolazioni per entrare nel regno di
Dio”. Così l’azione dell’uomo deve parlare di Dio e non di se stesso; solo
allora la sua ‘gloria’ risplende e il cuore dell’uomo sarà saziato da quella
gloria che allora esprimerà tutta l’intimità di amore che lega l’uomo al suo
Dio.
Possiamo allora anche comprendere in
cosa consista la novità del comandamento dell’amore annunciata da Gesù in
funzione di tre cose. Anzitutto in funzione della radice che lo origina. L’amore di Gesù deriva dalla intimità della
vita, del volere e dei sentimenti con il Padre. Quell’amore di cui ci fa
comando deriva dalla partecipazione a quella stessa intimità. Il suo sigillo
sta nel fatto di lavare i piedi ai discepoli per renderli partecipi del suo
segreto con il Padre, segreto che a nessuno è dato di cogliere se non a coloro
che credono nel Figlio. Circondarsi la vita con l’asciugatoio è l’immagine
dell’umiltà come vestito della divinità, mistero di quell’accondiscendenza di
Dio che raggiunge l’uomo nel suo cuore più segreto, là dove l’uomo può imparare
la lingua stessa di Dio. In secondo luogo è in funzione della potenza che lo sottende, la potenza
cioè dello Spirito Santo che da Gesù ci verrà effuso sulla croce. Quell’amore
non è che l’accoglimento dell’azione dello Spirito Santo nei nostri cuori,
esito di tutto l’impegno ad agire bene che ad altro non conduce se non a poter
essere degni dei misteri di Dio. Perché l’opera specifica dello Spirito Santo è
la costruzione della fraternità, come stupendamente dice la terza preghiera del
canone eucaristico: “e a noi, che ci nutriamo del corpo e sangue del tuo
Figlio, dona la pienezza dello Spirito Santo perché diventiamo in Cristo un
solo corpo e un solo spirito”. Ed infine è in funzione della dinamica che lo anima e che lo muove
verso un unico punto di convergenza, contemporaneamente termine e scopo della
storia stessa: che il regno di Dio si sveli in tutta la sua bellezza e in tutto
il suo splendore, per tutti i cuori, per tutto il mondo, per tutti i tempi,
regno che altro non è se non la condivisione dell’amore di Dio, in Cristo, fino
a che sia partecipato a tutti.