Terzo ciclo
Anno liturgico C (2009-2010)
Tempo Ordinario
6a Domenica
(14 febbraio 2010)
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Ger
17,5-8, Sal 1; 1Cor 15,12-20; Lc 6,17-26
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In cosa consiste la felicità che Gesù promette ai suoi
discepoli? Quale beatitudine nella povertà, nella fame, nel pianto e nella
vessazione, se tutta la fatica degli uomini, nella loro ricerca di giustizia e
di dirittura morale, consiste proprio nel combattere quelle situazioni che
prostrano la dignità delle persone? C’è qualcosa di assolutamente affascinante,
ma paradossale, nelle parole di Gesù, come del resto gli stessi discepoli
noteranno sempre rispetto alla vita e al comportamento del loro Maestro.
Tutta
la folla cercava di toccarlo, perché da lui usciva una forza che guariva tutti. Con questa annotazione Luca introduce la proclamazione
delle beatitudini e la conclude con l’esemplificazione concreta del ‘dove’ si
esercita quella forza che da lui usciva e che guariva: “Ma a voi che ascoltate, io dico: amate i vostri nemici, fate del bene a
quelli che vi odiano, benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che
vi trattano male”. Il punto di raccordo è dato dalla promessa e
dall’esperienza della ‘beatitudine’. Per noi, seguaci di Gesù, la domanda
allora suona: ha forza per il nostro cuore la gioia che viene dall’incontro con
Gesù? Ciò che in realtà Gesù proclama per i discepoli non è che la condivisione
di quello che lui vive. Così, l’essere beati comporta l’essere in lui, l’essere
a lui solidali, l’essere come il Figlio dell’uomo che è venuto per testimoniare
quanto è grande l’amore di Dio per gli uomini.
La chiave di lettura la possiamo
dedurre dall’apostrofe del profeta Geremia ai suoi concittadini: “Maledetto l’uomo che confida nell’uomo …
Benedetto l’uomo che confida nel Signore e il Signore è la sua fiducia”.
Nel linguaggio di Gesù l’apostrofe diventa la proclamazione della felicità
accessibile all’uomo. È come se Gesù dicesse: so che il vostro cuore anela alla
felicità, ma per quanto vi angosciate per trovarla o per imporvela è assai
facile rimanere nell’amarezza invincibile dell’illusione. Quando Gesù parla
della ricompensa grande nei cieli allude alla natura della felicità che
partecipa dell’eterno e che si esprime nella nostra storia con uno splendore
che ha a che fare con l’eterno.
Gesù sta parlando ai discepoli, come a
dire: ciò che vi sto annunciando vale in ragione del fatto che avete accolto in
me l’Inviato di Dio, colui che dalla parte di Dio non solo vi richiama al
mistero del Regno ma vi concede di gustarlo e di condividerlo. Nei termini
delle beatitudini, la parola di Gesù si può intendere: chi cerca la sua
felicità senza che la Mia gioia lambisca il suo cuore resterà nella fame e nel
pianto; chi vuole a tutti i costi la sua felicità, solo calcolando come una
eventuale aggiunta il dono della Mia gioia, finirà per trovarla traditrice e si
troverà ingannato dai suoi fratelli e perderà la sua integrità. Perché la
felicità di cui parla Gesù, quella alla quale anela profondamente, sebbene con
mille contraddizioni, il nostro cuore, ha a che fare con la scoperta della
prossimità di Dio che in Gesù rivela tutto il suo mistero di amore e
accondiscendenza per noi e che sana i nostri cuori.
In effetti, le beatitudini sono
costruite in un contrasto tra prospettiva mondana e prospettiva spirituale. Se
gli uomini pensano in prospettiva mondana come potranno vedere i segreti di Dio
che Gesù rivela e a cui i nostri cuori anelano nella sete di felicità che li
tormenta? Il contrasto è tra una logica mondana e una logica divina, secondo
l’espressione di Paolo ai Galati: “Quanto
a me invece non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù
Cristo, per mezzo della quale il mondo per me è stato crocifisso, come io per
il mondo” (Gal 6,14). Rispetto all’amore, rivelato dall’alto e colto nel
seguire il Signore Gesù, non c’è nulla nel mondo che meriti la preferenza e non
c’è nulla in me che può trovare adeguato compimento a partire dal mondo.
S. Gregorio di Nissa commentando la
prima beatitudine scrive: “Siccome tutti gli uomini sono abitati dalla
superbia, il Signore comincia le beatitudini, eliminando il male iniziale
dell’orgoglio e invitando a imitare il vero Povero volontario che è beato in
verità, in modo da rassomigliargli, secondo quanto sta nelle nostre
possibilità, attraverso una povertà volontaria per aver parte alla sua
beatitudine”. E dopo aver descritto l’ascesa di tutte le beatitudini,
commentando l’ottava, dice: “Qual è lo scopo che perseguiamo? Quale la
ricompensa? Quale la corona? Mi sembra che ogni oggetto della nostra speranza
non è nient’altro che il Signore stesso … è lui l’eredità ed è lui che ti dona
la tua parte; è lui che arricchisce ed è lui la ricchezza; è lui che ti mostra
il tesoro e che è il tuo tesoro …”. La beatitudine allora è vivere quella
comunione con colui che è l’Amato del tuo cuore. E tale amore risalterà in
tutto il suo splendore proprio quando tutto e tutti cercheranno di rapirtelo e
tu non cederai a niente e a nessuno. La cosa strana sarà che ti accorgerai che
non te lo farai rapire quando lo custodirai per tutti, senza separarti da
nessuno proprio a causa di quell’Amore. È quanto di più paradossale possa
succedere a un uomo, ma è proprio questa la verità di Dio per il cuore
dell’uomo.
La prima beatitudine comporta il verbo
al presente, le altre al futuro: “perché
vostro è il regno di Dio”, “perché
sarete saziati”. Il presente sottolinea che il dono è reale, ci appartiene;
il futuro sottolinea che siamo chiamati a viverne la dinamica in tutta la sua
estensione, a realizzarne i frutti, con la pazienza di chi sa di non essere
lasciato solo e confuso, ma felicemente accompagnato. Così voler essere felici
per poi vivere bene è un’assurdità, come voler prima vedere il Signore per poi
seguirlo. L’unica possibilità è quella della promessa: accetto di vivere per
essere felice perché la felicità è la promessa della vita. E questa suona
veritiera nella parola di Gesù perché è venuto a dare la vita e a darla in abbondanza.
È l’abbondanza di un amore non più soggetto a oppressioni, invincibile davanti
ad ogni tormento o afflizione o ingiustizia perché il nome del Signore sia
rivelato ad ogni cuore, al mondo intero. È lo spazio di tensione della promessa
che riempie la nostra vita di discepoli di Cristo.