Terzo ciclo
Anno liturgico C (2009-2010)
Tempo Ordinario
5a Domenica
(7 febbraio 2010)
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Is
6,1-8; Sal 137; 1Cor 15,1-11;
Lc 5,1-11
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Luca descrive i primi passi della
predicazione di Gesù e si premura subito di indicare come Gesù si sia associato
alcuni discepoli, quelli che lo seguiranno ovunque, nonostante le loro
manchevolezze e che verranno a loro volta inviati (=apostoli) come testimoni
del loro Signore. Il brano di oggi evidentemente verte sulla ‘vocazione’ di
Pietro, Giacomo e Giovanni: “Tirate le
barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono”. La pesca miracolosa è
funzionale al racconto della vocazione dei discepoli. Solo Luca, a differenza
di Marco e Matteo, riferisce della pesca miracolosa. Ritroviamo quel racconto
anche nel vangelo di Giovanni, al cap. 21, quando Gesù, risorto, si manifesta
agli apostoli. Si tratta di due episodi diversi o della diversa interpretazione
di uno stesso episodio? Nella prospettiva degli evangelisti la domanda è del
tutto secondaria. La domanda principale è la seguente: cosa ha comportato per i
discepoli la manifestazione di Gesù? O, ancora più precisamente: cosa ha
comportato per i discepoli la decisione di Gesù di manifestarsi a loro? Perché
di questo essenzialmente si tratta: Gesù si manifesta e ‘succede’ qualcosa. Sia
agli inizi della vita pubblica di Gesù sia dopo la risurrezione l’evento è
della stessa natura.
C’è un particolare assolutamente
eloquente che si richiama nei due racconti di Luca e di Giovanni. Davanti
all’evento prodigioso della pesca abbondante Pietro è colto da profonda
emozione: “Al vedere questo, Simon Pietro
si gettò alle ginocchia di Gesù, dicendo: ‘Signore, allontanati da me, perché
sono un peccatore’”. L’apparizione della ‘gloria’ di Dio suscita sempre
timore. Ma il contenuto di quel ‘sono peccatore’, nel cuore di Pietro, si
cristallizza attorno al suo rinnegamento, che Gesù, dopo la sua risurrezione,
evoca dolcemente al suo apostolo quando gli chiede per la terza volta se lo
ama. Al gesto di gettarsi alle ginocchia di Gesù e di stringerle mentre dice di
non essere degno di stare alla sua presenza, corrisponde il sussurro di Pietro,
addolorato: “Signore, tu conosci tutto;
tu sai che ti voglio bene” (Gv 21,17).
Se è vero, allora, che il racconto di
Luca tende a presentare la vocazione degli apostoli, il contesto che giustifica
tale vocazione è però la ‘manifestazione’ di Gesù ai discepoli con l’episodio
della pesca miracolosa. La liturgia correla i due aspetti facendoci leggere,
come prima lettura, il brano della vocazione del profeta Isaia. Il profeta si
trova nel tempio, ha una visione ‘esaltante’ e ‘terribile’: partecipa alla
liturgia celeste davanti al trono di Dio (le parole udite da Isaia sono quelle
che ripetiamo ancora oggi nella liturgia eucaristica: “Santo, santo, santo il
Signore degli eserciti! Tutta la terra è piena della sua gloria”) e si sente
perduto perché peccatore, ma viene purificato (la tradizione ha visto,
nell’immagine del carbone ardente che purifica, la realtà della comunione
eucaristica) e successivamente inviato: “Ohimè!
Io sono perduto, perché un uomo dalle labbra impure io sono e in mezzo a un
popolo dalle labbra impure io abito; eppure i miei occhi hanno visto il re, il
Signore degli eserciti”.
La domanda di fondo che sorge può
essere questa: perché la manifestazione della gloria di Dio ha sempre a che
fare con una missione? ‘Vedere’ Dio non può non comportare la partecipazione ai
suoi segreti, i quali non sono che i segreti dell’amore suo per gli uomini.
‘Vedere’ Dio non può non comportare allora l’invio agli uomini perché la sua
promessa di Bene e di Vita sia condivisa da tutti e la Sua gioia sia piena. I
passaggi sarebbero perciò questi: Dio manifesta la sua gloria - l’uomo confessa
il suo peccato e viene purificato – si è inviati ai fratelli.
La tensione interiore della missione,
allora, è direttamente proporzionale all’intensità della ‘visione’ di Dio. E la
‘visione’ di Dio è direttamente proporzionale alla confessione del proprio
peccato. Questo, perché l’azione dell’uomo risulti pulita e non si appropri la
gloria di Dio. È per questo che il segnale della fedeltà all’opera di Dio, tra
gli uomini, non sarà costituito dal fatto che i cuori si convertono, ma dal
fatto che un uomo non si allontana dalla carità anche quando viene oltraggiato
e messo a morte. La missione comporta la condivisione di un ‘compito’ di
intimità col proprio Signore finché la sua gloria risplenda e si manifesti.
Quando la liturgia ci fa pregare: “Dio
di infinita grandezza, che affidi alle nostre labbra impure e alle nostre
fragili mani il compito di portare agli uomini l’annunzio del Vangelo” ci
invita non tanto ad essere pieni di zelo da andare in tutto il mondo, ma a
ripetere l’esperienza di Isaia e di Pietro che ‘vedono’ la gloria del Signore e
non possono non disporsi all’opera di Dio, in modo tale che un’esperienza del
genere risulti così radicale e fondante per la vitalità del nostro cuore da
diventare unica sorgente del nostro agire. Di questa ‘esperienza’ la missione
vive e gli uomini ne attendono gli effetti ristoratori.