Terzo ciclo
Anno liturgico C (2009-2010)
Tempo Ordinario
4a Domenica
(31 gennaio 2010)
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Ger
1,4-5.17-19; Sal 70; 1Cor 12,31-13,13; Lc 4,21-30
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La scena è la medesima della domenica
precedente: Gesù predica nella sinagoga di Nazaret. Interessa però sottolineare
l’esito di quell’evento: un fiasco! Ma Luca, che ne ha fatto l’immagine
emblematica della predicazione di Gesù, annota molti particolari che introducono
alla comprensione della figura di quel profeta singolare. Se viene fatto
conoscere il rifiuto di Gesù da parte dei suoi concittadini, la sottolineatura
si deve al valore ‘profetico’ di quel rifiuto, che l’evangelista Giovanni
descriverà come “Venne fra la sua gente,
ma i suoi non lo hanno accolto” (Gv 1,11). Oltre ad alludere alla passione
di Gesù, allorquando il rifiuto comporterà la sua messa a morte, allude anche
all’universalità di quella morte che toglierà il muro di separazione tra
Israele e Gentili, aprendo Israele ai Gentili, pena l’esclusione del dono di
grazia. In quella prospettiva Gesù si applica il proverbio riferito al medico,
che suonava ironico sulle labbra dei suoi concittadini, ma che lui realizzerà
in verità: “Non sono i sani che hanno
bisogno del medico, ma i malati” (Lc 5,31).
La richiesta dei miracoli da parte dei
suoi concittadini era forse una supplica? Evidentemente no, come non sarebbe
suonata supplica la richiesta “È il re d'
Israele, scenda ora dalla croce e gli crederemo” (Mt 27,42). Si supplica se
si apre il proprio cuore perché oppresso, malato, afflitto. Diversamente, si
provoca. Può compiersi un miracolo dietro provocazione? Lo scopo del miracolo è
proprio quello di aprire il cuore al Signore che mi è venuto incontro e mi può
guarire. Ma se il cuore non è disposto ad aprirsi, quale miracolo si può
vedere? Non per nulla, il brano in Matteo termina con “E lì, a causa della loro incredulità, non fece molti prodigi” (Mt
13,58) e in Marco con “E lì non poteva
compiere nessun prodigio, ma solo impose le mani a pochi malati e li guarì. E
si meravigliava della loro incredulità” (Mc 6,5-6). È la meraviglia del
profeta che non si capacita della insensibilità dei cuori degli uomini che
davanti all’apertura del cuore di Dio tengono chiusi i loro.
Gesù non si era limitato a constatare
la diffidenza dei suoi concittadini. Ne trae uno spunto profetico e allarga
l’evento di cronaca alla storia di Israele perché i cuori si rendano conto di
cosa sia in gioco. Il passaggio è segnalato da un parlare solenne con le
formule ‘Amen, in verità vi dico’. Vi invito a guardare più nel profondo, a
rendervi conto di cosa vi giocate. E anche quando riferisce il proverbio del
profeta che non è ben visto in casa propria, usa un termine che si riferisce al
brano del profeta Isaia che aveva appena letto all’assemblea: il Servo di Dio
avrebbe proclamato l’anno di grazia del Signore. Quello che traduciamo con ‘di
grazia’ in greco corrisponde a ‘gradito, bene accetto’, termine che Gesù si
applica come profeta. Ora, è accogliendo un profeta che si può accogliere il
messaggio di grazia che porta, la grazia che porta. La liturgia rinforza questa
comprensione con l’annuncio della prima lettura dove viene presentata la
vocazione del profeta Geremia. Quel testo descrive il contenuto di quell’essere
pieno dello Spirito, come Gesù si era presentato a Nazaret. Il profeta è
scelto/conosciuto da Dio, gode cioè di una intimità grande con Dio; è inviato
alle nazioni, cioè ha il compito di togliere il muro di separazione nell’umanità;
è come un muro di bronzo davanti a coloro che lo contrastano, cioè è pronto
alla passione, perché lo splendore dell’amore di Dio conquisti i cuori. Così la
‘buona novella’ che Gesù annuncia come profeta non consiste semplicemente in
buone parole o in determinati miracoli, ma rimanda a quella
passione/morte/risurrezione in cui risplende in tutto il suo splendore l’amore
di Dio all’uomo, rendendo l’uomo capace di muoversi verso i suoi simili da
dentro quello stesso amore.
Nella preghiera dopo la comunione
diciamo: “O Dio, che ci hai nutriti alla tua mensa, fa’ che per la forza di
questo sacramento, sorgente inesauribile di salvezza, la vera fede si estenda
sino ai confini della terra”. Preghiamo per diventare partecipi della potenza
di quell’amore che ci è fatto conoscere in Gesù e di cui tesse l’elogio s.
Paolo nel suo inno alla carità. Non c’è conoscenza che tenga, non c’è fede che
conti, non c’è generosità che salva: solo la carità esprime lo splendore che
deriva dalla fede in Gesù. Quando Paolo dichiara che senza la carità non sono
nulla, non dice semplicemente che io non conto nulla davanti a Dio senza la
carità, ma che tutte le cose eccelse, senza la carità, non hanno alcun valore
presso Dio. E se non l’hanno presso Dio, vuol dire che non possono costituire
strumenti di comunione tra gli uomini. La sapienza evangelica è radicale, ma
consona al cuore dell’uomo, se si accoglie la buona novella del profeta di
Nazaret.