Terzo
ciclo
Anno
liturgico C (2009-2010)
Tempo
Ordinario
28a Domenica
(10 ottobre
2010)
_________________________________________________
2Re
5,14-17; Sal 97; 2Tm 2,8-13;
Lc 17,11-19
_________________________________________________
Se in
precedenza Luca aveva narrato di altre guarigioni di lebbrosi (cfr. Lc 5,12-14,
parallelo a Mc 1,40-45 e a Mt 8,1-4), il brano di oggi sembra come sorvolare
sull’evento del miracolo di guarigione per insistere su altro. Lo rivela il
colloquio di Gesù con il samaritano lebbroso guarito che è tornato a
ringraziarlo e il contesto in cui il brano è collocato. Gesù è in viaggio verso
Gerusalemme e ciò che avviene deve essere compreso nell’ottica di quel viaggio,
per lo scopo segreto di rivelazione del mistero di Dio che si compirà. Non
solo, ma subito dopo il racconto dei dieci lebbrosi segue la domanda dei
farisei sul regno di Dio. In gioco è appunto la questione del Regno di Dio che
viene. Come non vederlo? Eppure, non sembra così facile vederlo.
In ottemperanza
alla legge di Lev 13,46, i dieci lebbrosi si fermano a distanza e gridano al
Signore il loro tormento, chiedendo di essere guariti. Il loro dramma non
deriva solo dalla malattia che lacera le loro carni, ma anche dal fatto che
venivano esclusi dalla comunità, non potevano accedere al tempio per il culto.
La lebbra evoca direttamente il destino orribile del peccato che insidia la
fraternità, irrigidisce i rapporti, contamina a tal punto il cuore da renderlo
inaccessibile al cuore degli altri, separa e opprime, impedisce al volto di Dio
di risplendere. La guarigione di un lebbroso da parte di Gesù allude sempre
alla purificazione del cuore che torna così a far risplendere i rapporti di
comunione e ridà accesso al mistero di Dio. Guarire dalla lebbra vuol dire
ricevere la rivelazione che è giunto a noi il regno di Dio, vuol dire che
possiamo tornare a non aver paura di Dio e del prossimo. Là appunta lo sguardo
il racconto della guarigione dei dieci lebbrosi. Ma come lo fa vedere?
Dieci
lebbrosi chiedono di essere guariti. Tutti e dieci sono sinceri e tutti e dieci
hanno fiducia in Gesù perché credono alla sua parola e si muovono per andare a
presentarsi ai sacerdoti. Lungo il cammino si ritrovano guariti. La loro
fiducia è stata premiata. Nove proseguono, uno solo torna indietro per
ringraziare Gesù. È qui che il racconto rivela la sua vera portata. Non si
tratta del racconto di un miracolo, ma della rivelazione che consegue. I nove
che proseguono non si accorgono di quel che è avvenuto in verità. Non hanno
sentito in loro la parola del profeta: “Ecco,
io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?” (Is
43,19) o, per dirla con il v. 2 del salmo 97, non hanno compreso che “Il Signore ha fatto conoscere la sua
salvezza”.
Potremmo spiegare
le cose così. Tutti i doni di Dio comportano un'intenzione segreta, un appello
al nostro cuore da parte di Dio. Il rimprovero che Gesù fa ai nove lebbrosi
rivela la sordità di fronte a questo appello. L'uomo si confonde con il dono
che ottiene e si richiude su di sé. È rimasto sordo, non ha visto di cosa si
trattava realmente. Quando invece prorompe la gratitudine, il cuore ha
percepito l’appello, ha sentito l’intenzione segreta di Dio. L’incontro che
segue, quando il samaritano torna da Gesù, fa accedere a una nuova visione (Alzati: ha scoperto che Colui che l’ha
guarito nel corpo, l’ha toccato nel cuore e lo rende capace di sentire le cose
in modo diverso) e a una nuova condotta (e
va’: l’uomo diventa discepolo, tanto che la fede nel Salvatore gli sarà
ormai cammino sicuro di umanità, di un’umanità aperta, solidale, trasfigurata).
Gesù,
accogliendo il samaritano che torna a ringraziarlo, dice: “Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio,
all’infuori di questo straniero?”. ‘Rendere gloria’ è un’espressione semita
per ‘dire la verità’. Spesso l’uomo dice cose vere, ma senza dire la verità.
Oppure, in altri termini, diciamo di essere sinceri, ma spesso non siamo veri.
Il fatto è che la sincerità ha a che fare con il dire quello che sentiamo,
mentre la verità ha a che fare con quello che siamo. Ringraziare di un dono
ricevuto non significa solo esprimere la propria riconoscenza ma prendere atto
della benevolenza dell’altro che ci fa sussistere. Dire la verità implica
sempre la responsabilità del nostro essere di fronte a Qualcuno. Questo è
mancato ai nove che si sono dileguati, mentre è risultato così determinante per
la conversione del samaritano.
È allora che
Gesù può aggiungere: “La tua fede ti ha
salvato”: è il tutto della vita vissuto a partire da un punto, il punto
dell’incontro con il Salvatore che irradierà tutta la vita perché sono state
toccate le radici del cuore. Se nel racconto del miracolo della guarigione dei
lebbrosi venivano usati i verbi purificare,
guarire, ora viene usato il verbo salvare, ora si fa riferimento alla fede: l’intenzione segreta di Dio è
accolta, la sua azione di salvezza si traduce in percezione di alleanza che
riempie il cuore.
La porta
d’accesso? Il saper rendere grazie, come lo enuncia il canto al vangelo: “In ogni cosa rendete grazie: questa infatti
è volontà di Dio in Cristo Gesù verso di voi” (1Ts 5,18). A dire il vero,
al rendere grazie Paolo unisce l’essere sempre lieti e il pregare
ininterrottamente. Le tre cose insieme segnalano che il cuore ha presagito la
presenza del suo Salvatore, che l’ha riconosciuto e al quale volgerà tutto il
suo desiderio. A sottolineare la fecondità dell’atteggiamento del saper rendere
grazie, i padri del deserto ripetevano che il rendere grazie in tutto solleva
da ogni altro obbligo. Potessimo rimanere sempre in quell’atteggiamento,
eviteremmo ogni intrusione del male nel nostro cuore.