Terzo
ciclo
Anno
liturgico C (2009-2010)
Tempo
Ordinario
27a Domenica
(3 ottobre
2010)
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Ab
1,2-3; 2,2-4; Sal 94; 2Tm 1,6-14;
Lc 17,5-10
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Il brano di
vangelo ci presenta una serie di insegnamenti di Gesù che a prima vista
sembrano assortiti, ma a ben guardare tutti ruotano sulla fede: “Gli apostoli dissero al Signore:«Accresci in
noi la fede!»”.
Il canto al
vangelo lo sottolinea con l’affermazione di 1Pt 1,25, ripresa da Is. 40,8: “La
parola del Signore rimane in eterno”. Quale parola? La Parola fatta carne,
nata-morta-risorta per riconciliare il mondo con Dio. È da dentro tale
riconciliazione che trovano senso e potere per il cuore tutte le parole del
Signore, parole che portano vita, proprio come dice il profeta Abacuc nella
prima lettura: “Soccombe colui che non ha
l’animo retto, mentre il giusto vivrà per la sua fede”. La situazione del
popolo di Israele, sotto la pressione dell’impero caldeo che, distrutta la
potenza assira, si abbatte sul Medio Oriente, si era fatta drammatica. L’azione
di Dio nella storia diventa incomprensibile tanto era messa alla prova la fede
nella sua capacità di salvezza. Ma proprio allora le illusioni umane vengono
meno e la fede in lui diventa più radicale e potente.
Quella fede
Gesù richiama paragonandola a un minuscolo seme di senape, che ha però la
potenza di diventare un albero (cfr. Lc 13,18-19). Ma la richiesta degli
apostoli non è una richiesta in generale. La circostanza precisa, a partire
dalla quale scaturisce la loro supplica, è data dai versetti precedenti: “Se il tuo fratello commetterà una colpa,
rimproveralo; ma se si pentirà, perdonagli. E se commetterà una colpa sette
volte al giorno contro di te e sette volte ritornerà a te dicendo: “Sono
pentito”, tu gli perdonerai”.
Così tanto,
in modo così nuovo Gesù aveva insistito nella sua predicazione su questo
comando divino: “tu gli perdonerai”!
Il cuore dell'uomo sa e sente che non può riacquistare l'innocenza perduta se
non nel perdono ricevuto e offerto, costantemente. Qui si radica l'esperienza
di Dio: ognuno sente che non riuscirà credibile nell'offerta del suo amore se
l'Amore del Signore non l’avrà raggiunto, se non gli riverserà in grembo quella
tenerezza che non guarda a meriti o a diritti. Nel perdonare si gioca la
sincerità dell'aver incontrato Dio e dell'esserci percepiti solidali con i
nostri fratelli. La difficoltà risiede proprio nel fatto che non è così
semplice ritenerci peccatori, assillati come siamo dalla paura di venire
respinti e che non è così facile non aver più paura di Dio.
La domanda
di fede degli apostoli va in questa direzione. E la risposta di Gesù non
riguarda la quantità della fede, come se importasse poterne avere poca o tanta.
Si basa sulla sua natura, sul fatto di averla vitale, viva, proprio
come un seme che nasconde l'energia di trasformazione per arrivare ad essere
albero. “Se aveste fede quanto un
granello di senape” non vuol dire: 'basta che ne abbiate un pochino, grande
come un granello di senape', ma piuttosto: 'basta che sia viva come un seme,
che pur piccolissimo, poi diventa una grande pianta'. Come sottolinea il salmo
responsoriale, il salmo 94, il primo dei salmi che nella tradizione ebraica si
canta al ricevimento del sabato, al versetto 7: “Se ascoltaste oggi la sua voce!”. Allora potremmo godere del vero
riposo del sabato e vivere la nostra storia, la nostra storia tormentata, nella
confidenza della compagnia del nostro Dio. Ciò che ci è richiesto, non è il
poco o il tanto, ma la schiettezza, la verità del cuore nella confidenza col
suo Dio.
A tale
schiettezza si attiene il servo. Quanto è facile cadere nella rivendicazione
dei nostri diritti, di quel che è giusto, di quel che ci viene! Atteggiamento
più sbagliato non potremmo assumere. Essere servi, nell'esperienza evangelica,
significa non aver più bisogno di dimostrare nulla, di esibire nulla, di
imporci in nulla perché abbiamo trovato quello che il nostro cuore cerca, cioè
l'intimità con Chi ci ha amato e ci muove da dentro ad amare a nostra volta. Il
vero servo è proprio Gesù, che nella
confidenza più totale con il Padre, serve tutti per conquistare tutti a quella
stessa confidenza.
Essere servi
inutili significa essere semplicemente servi e nulla di più. Ma
il nostro titolo di gloria e di onore sta proprio qui: non voler essere e avere
altro che quello che l'amore del Signore ha voluto per noi. La rettitudine del
servizio sta esattamente in questo accogliersi nei confronti del Padrone senza
perdersi nei confronti con gli altri servi. È l’altra faccia dell’espressione:
“il giusto vivrà per la sua fede” e
vuol dire: chi non avanza pretese, confida davvero in Dio e non inciamperà
nella vita perché non sarà in contesa con gli uomini.