Terzo ciclo
Anno liturgico C (2009-2010)
Tempo Ordinario
26a Domenica
(26 settembre 2010)
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Am
6,1-7; Sal 145; 1Tm 6,11-16;
Lc 16,19-31
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Se ascoltiamo la proclamazione del vangelo di oggi insieme
ai versetti 14-18 che lo precedono con l’illustrazione del rapporto
Legge/Regno, la parabola si rivela potente sotto un duplice aspetto. A dispetto
del contenuto ovvio sull’uso delle ricchezze, la parabola risponde a una
duplice domanda di fondo:
1) possiamo conoscere il pensiero di Dio? E qual è?
2) in rapporto a che cosa va giocata la vita?
Rispetto all’amministratore disonesto lodato dal padrone
perché accorto, il ricco della parabola risulta evanescente: non s’avvede di
nulla, non decide nulla, non agisce. Il giudizio di Dio che presenta le sorti
rovesciate (di qui il ricco gaudente e il povero tribolato, di là il ricco
tormentato e il povero consolato) intende proprio far conoscere il pensiero di
Dio all’uomo perché questi si muova in conseguenza. La forza del racconto non
sta nel deterrente di paura (si usano toni pacati e familiari) ma nello
svelamento del segreto della vita di cui Dio è il custode e il dispensatore. La
tensione della narrazione mira a svelare l’illusione provocata dalle ricchezze.
Come a dire: se il ricco è ricco di beni materiali, dovrà però arricchirsi
presso Dio con il condividerli con i poveri, se vuole avere la vita, perché
presso Dio la sua ricchezza sarà costituita dai poveri che intercederanno per
lui. Il che equivale a dire che la vita si gioca nell’amore e l’amore risulterà
dalla dignità di tutti, custodita e favorita con ogni mezzo.
Ma la punta più decisiva della parabola sta nel sottolineare
che in gioco è la fede nel Salvatore che convince alla fraternità nella
comunione col proprio Dio. In effetti la parabola non si conclude con
un’ammonizione a proposito delle ricchezze, ma con l’invito a riconoscere il
Figlio dell’uomo, il Salvatore: “Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno
persuasi neanche se uno risorgesse dai morti”. È l’allusione misteriosa
dell’intera parabola. Gesù risusciterà, ma di per sé nemmeno questo sarà
convincente per coloro che non sanno vedere l’opera di Dio, l’azione di Dio.
Così dar credito alla parola di Dio, alla promessa di Dio celata nella sua
parola e compiuta nel Crocifisso-Risorto significa aprirsi al segreto della
vita, che si gioca nella fraternità condivisa.
Ci sono due cose da sottolineare a tale proposito.
a) Dio non si può vedere direttamente. A Lui ci si può
aprire accogliendo la sua parola e avendo cura del povero. Non basta però
condividere i propri beni; occorre anche aver premura del povero, perché è
quella premura che rende preziosa e amabile la condivisione, che risulta così
essere segno della fede in Dio, che vuole felici i suoi figli.
b) Tutte le parole della Scrittura vanno custodite e
accolte, secondo l’invito di Paolo: “ti ordino di conservare senza macchia e
in modo irreprensibile il comandamento, fino alla manifestazione del Signore
nostro Gesù Cristo”, perché, praticandole, possano svelare al nostro cuore
il volto del Signore che si è fatto nostro prossimo, vicino a noi e
raggiungibile nel nostro vicino.
Nella parabola ci sono come dei punti nevralgici che ci
aprono gli occhi. È sintomatico che il ricco non porti nessun nome, mentre il
povero è chiamato Lazzaro, che significa Dio aiuta. Voler avere la vita
dalla ricchezza comporta dimenticare Dio e misconoscere il fratello. Il ricco
non è presentato come cattivo, ma più semplicemente e più drammaticamente come
uno che nemmeno s'accorge del povero tanto vive nella sua illusione. A tale
riguardo, la prima lettura del profeta Amos celebra l'intervento di Dio nella
storia come il sopraggiungere del disincanto, come la cessazione dell'illusione.
Quella classe nobile che sperperava allegramente i beni del popolo senza
curarsi del suo bene verrà spazzata via: la potenza assira conquisterà Israele
e tutti saranno ridotti in schiavitù.
Lazzaro, nel paradiso, è descritto con l’immagine del
banchetto messianico, nel posto d’onore, a fianco di Abramo. La scena
corrisponde al banchetto dell’ultima Cena con Gesù e Giovanni al suo fianco che
può reclinarsi sul suo petto. È la traduzione in immagine dell’affermazione:
gli ultimi sono i primi.
Ma il particolare che, secondo me, è assolutamente
rivelativo è la descrizione del ricco negli inferi che ‘alzò gli occhi e
vide’. Non aveva mai alzato gli occhi durante la sua vita e perciò
non aveva mai visto nulla in verità. L’alzare gli occhi comporta l’accoglienza
della salvezza da Dio e se l’uomo fa questo non può non accorgersi del suo
fratello. Questo particolare esprime il movimento del cuore che prelude al
riconoscimento della verità della vita. Ciò che viene indicato avvenire là
negli inferi, nel giudizio della parabola, è proprio quello che siamo invitati
ad assumere adesso nella nostra vita.