Terzo
ciclo
Anno
liturgico C (2009-2010)
Tempo
Ordinario
25a Domenica
(19 settembre
2010)
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Am
8,4-7; Sal 112; 1Tm 2,1-8; Lc 16,1-13
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Il brano di
vangelo odierno, quello dell'amministratore disonesto, lodato dal padrone,
sembra a prima vista comportare un messaggio ambiguo. Gesù inviterebbe alla
disonestà? Evidentemente, la parabola, raccontata ai discepoli, più volte
paragonati nel vangelo ad amministratori, punta ad altro. Ma a che cosa?
Fermiamoci sulla lode del padrone: “Il
padrone lodò quell' amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza”.
La lode verte sul fatto che è stato scaltro, accorto. Sicuramente non si trattava
di un amministratore imbecille, se era stato capace di quel comportamento;
piuttosto, era stato avido e l’avidità gli aveva fatto perdere il posto. Se
paragoniamo questa parabola a quella del possidente straricco (Lc 12,16-21) ci
accorgiamo subito della differenza tra i due: il primo è accorto, il secondo
stolto; il primo riesce a organizzarsi secondo i suoi interessi, il secondo
vaneggia. Per ambedue la domanda decisiva è la medesima: cosa fare? Mentre lo
stolto fantastica, l’accorto dispone. La loro azione si gioca in rapporto al
futuro: mentre il primo si immagina cosa fare e resta chiuso in se stesso, il
secondo sa cosa deve fare e si apre agli altri. Il punto allora è esattamente
questo: ‘sapere cosa fare’ in rapporto al futuro.
La parola di
Gesù illustra proprio quel ‘saper cosa fare’ in rapporto alla propria vita. In
gioco è l’uso dei beni di questo mondo per ottenere vita piena. Il padrone
della parabola è Dio che affida i suoi beni a noi come amministratori, ai quali
a suo tempo chiederà conto. Se nessuno di noi è proprietario a titolo assoluto
dei beni che usa temporaneamente, la prima conseguenza sarà quella di
possederli senza che essi possiedano noi. L’avido, che consacra la sua vita ai
beni, scava un fossato incolmabile tra lui e la felicità. Volendo però la
felicità, l’accortezza consisterà allora nell’invertire la dinamica perversa
che si era instaurata: invece di consacrare la vita ai beni, consacrerà i beni
alla vita e ciò avverrà nella condivisione con tutti. In particolare, la
scaltrezza si giocherà nel fatto che, non potendo rabbonire direttamente il
padrone perché il nostro ammanco sarà risultato insolubile, si cercherà di
carpire la sua lode con il condonare i debiti ai fratelli. La parabola può
essere letta come un’illustrazione della richiesta del Padre Nostro: ‘rimetti a
noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori’.
In
particolare, l'apostolo è colui che froda il padrone nel suo diritto di
giustizia invitando tutti ad entrare nel Regno. L'abilità dell'amministrare sta
proprio nel favorire in ogni modo l'entrata nel Regno da parte del maggior
numero. La misericordia è il calcolo più intelligente che possiamo fare per noi
e per gli altri. Se tu servirai il tuo Signore onorando il tuo fratello,
qualora tu dovessi mancare in qualcosa rispetto al tuo Signore, l'onore dato al
tuo fratello richiamerà il favore del tuo Signore. Non solo, ma se il tuo
fratello mancherà in qualcosa rispetto al suo Signore, l'onore che tu gli avrai
portato funzionerà da intercessore per lui perché quell'onore è computato a
merito. I meriti davanti a Dio sono energie di intercessione, pungoli all'amore
di Dio a riversarsi su di noi.
A questo
punto si aprono nuovi livelli di comprensione della parabola, ulteriormente
spiegata dalle parole di Gesù sulla distinzione tra ‘vostra’ e ‘altrui’, tra
‘cose importanti’ e ‘cose di poco conto’. Si tratta di ottenere ciò che è
nostro con ciò che non è nostro; di ottenere le cose importanti con le cose di
poco conto. Tutto ciò che usiamo in questo mondo non è nostro, non ci
appartiene; non solo, ma non ha nemmeno importanza seria rispetto a quello che
davvero cerchiamo e dunque è calcolato come cosa di poco conto. Eppure, non
abbiamo altra possibilità di arrivare a ciò che è nostro se non attraverso le
cose non nostre, a patto che le usiamo senza esserne usati, che le condividiamo
con tutti e che le godiamo insieme. E che cosa è nostro? Cirillo di Alessandria
definisce nostro ‘la santa e mirabile bellezza che Dio forma nelle anime delle
persone, rendendole simili a se stesso, in accordo con ciò che eravamo in
origine’. Questa è la cosa importante, quella che ci definisce, quella che ci
struttura. È nostro l’essere figli dell’Altissimo, è nostra quella somiglianza con il Signore Gesù che è
venuto a ristabilire.
Non per
nulla il canto al vangelo introduce questa parabola con la citazione di 2Cor
8,9: “Gesù Cristo da ricco che era, si è
fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà”,
da raccordare all’altro passo di Fil 2,5-8: “Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù: egli, pur essendo
nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò
se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini.
Dall’aspetto riconosciuto come uomo, umiliò se stesso facendosi obbediente fino
alla morte e a una morte di croce”. Condividere i beni con i poveri, stare
solidali con l’umanità di tutti significa portare a compimento quella vocazione
all’umanità che ci appartiene in proprio come figli dell’Altissimo, resi tali
da quel Signore Gesù che ha scelto di stare solidale con gli uomini perché gli
uomini potessero tornare a godere della comunione con Dio, il loro vero Bene. Ed è caratteristico che
l’espressione di Paolo, riportata dal canto al vangelo, segua l’invito
dell’apostolo ai Corinzi a partecipare alla colletta organizzata per la Chiesa
di Gerusalemme, non solo perché si stabilisca una certa uguaglianza tra ricchi
e poveri, ma soprattutto perché si renda visibile nei frutti della carità la riconciliazione,
operata dal Signore Gesù, dell’umanità con Dio, simboleggiata dall’unità
nell’unica famiglia di Dio di ebrei e pagani.
Un’ultima
osservazione sull’espressione dell’amministratore disonesto lodato. Il suo
dire: ‘so che cosa fare’ equivale all’affermazione di Giovanni: “E noi abbiamo conosciuto e creduto l’amore
che Dio ha in noi. Dio è amore; chi rimane nell’amore rimane in Dio e Dio
rimane in lui” (1Gv 4,16). E si contrappone all’espressione che Gesù
indirizza al Padre sulla croce a proposito dei suoi crocifissori: ‘non sanno quello che fanno’ (Lc 23,34).