Terzo
ciclo
Anno
liturgico C (2009-2010)
Tempo
Ordinario
23a Domenica
(5 settembre
2010)
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Sap
9,13-18; Sal 89; Fm 9-17;
Lc 14,25-33
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Gesù
affascina ma non inganna. Le parole del brano di oggi sono inequivocabili: “Se uno viene a me e non mi ama più di quanto
ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino
la propria vita, non può essere mio discepolo. Colui che non porta la propria
croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo”. La liturgia,
con la prima lettura e la proclamazione del salmo 89, ci fa chiedere la
sapienza del cuore proprio perché non è così agevole coglierla e accoglierla: “Chi avrebbe conosciuto il tuo volere, se tu
non gli avessi dato la sapienza e dall’alto non gli avessi inviato il tuo santo
spirito?”.
Emerge
allora la domanda: può l’uomo accogliere le parole di Gesù senza che la
sapienza dall’alto abbia raggiunto il suo cuore? Perché la sapienza che viene
dall’alto comporta proprio l’apertura del cuore al mistero di quel Figlio di
Dio che rivela lo splendore dell’amore del Padre per gli uomini. Se il cuore
non intravede quello splendore, tutto risulta sbarrato. Da notare che la
sapienza, avendo presieduto alla stessa creazione, conosce i misteri delle
creature perché conosce i pensieri di Dio. Così, quando Gesù annuncia la grazia
del suo vangelo, non scavalca la natura, ma ne rivela il compimento. Gesù è la
verità da parte di Dio (= rivela il vero volto di Dio) e da parte dell’uomo (=
conosce il desiderio dell’uomo e ne assicura il compimento). Perché allora il
suo parlare, come nel brano di oggi, suona tanto ostico alla nostra natura?
Qui si cela
il dramma e la gloria dell’uomo: l’uomo desidera il bene, ma sembra non poter
ritrovare in sé il criterio di discernimento del bene. Nessuno, che sia sano di
mente, sosterrà che non siano buoni gli affetti familiari (tra l’altro, oggetto
di comandamenti precisi!); ma chi può sostenere che gli affetti familiari siano
sempre e comunque buoni? “Perché mi
interroghi su ciò che è buono? Buono è uno solo” (Mt 19,17) ebbe a dire
Gesù. Gli affetti naturali vanno giudicati in rapporto a quella vocazione
all’umanità che è il destino della vita, ma la vocazione all’umanità è definita
sullo splendore dell’amore di Dio per gli uomini, manifestato in Gesù. Così,
quando Gesù parla di preferire l’essere suo discepolo agli affetti naturali,
intende rivelare che la radice della vita è nell’amore di Dio che fa da
criterio di discernimento a ogni altra cosa. La cosa non è scontata però per il
cuore dell’uomo; comporta una specie di ‘morte a se stessi’ per vivere se
stessi in modo pieno imparando a servire gli altri, non a servirsi degli altri.
Portare la croce significa morire alla logica del mondo che ci fa ricercare noi
stessi contro o sugli altri per accedere davvero alla dimensione della fede,
diventata radice di vita in Gesù, che si traduce in comunione di sentimenti con
Dio nel suo amore per gli uomini. La sapienza che viene dall’alto ci è
necessaria continuamente per operare questo passaggio, perché conoscere i
pensieri di Dio comporta sempre scoprire le radici della vita. E questo è il
motivo per cui la scoperta della sapienza, del tesoro nascosto nel campo,
comporta sempre un’intima letizia, letizia che ti abilita a vendere, a lasciare
tutto il resto. Chi vive un amore profondo lo sa.
In effetti,
il brano di oggi termina con l’affermazione: “Così chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere
mio discepolo”. Delle tre caratteristiche che contraddistinguono il
discepolo di Cristo, questa è la prima; le altre due sono: il discepolo perdona
condividendo la gratuità dell’amore misericordioso di Dio e resta fedele nelle
prove vivendo nella pazienza la pace sperimentata. Gli averi, beni e affetti,
sono tutto ciò che sostenta la vita, però non più vissuti a partire da se
stessi, ma nella più totale confidenza con Colui che ne è il Dispensatore.
Sottrarre confidenza ai beni significa godere della confidenza nella vita. Non
è immediata la costatazione, ma risulta vera: facendo confidenza sui beni, si
perde confidenza con la vita; guadagnando confidenza con la vita, si godono i
beni. La vita però è quella che Gesù rivela e promette al suo discepolo; è
quella che lui stesso vive e comunica al suo discepolo; è quella che proviene
dal vivere il compimento della vocazione all’umanità che in lui acquista tutto
il suo splendore perché a Dio rimanda e da Dio prende vigore. La sapienza che
domandiamo conduce là.
E se è vero
che la sapienza fa capolino nel cuore quando ci accorgiamo che non siamo eterni
e che passiamo presto, come dice il salmo, può però entrare nel cuore quando
risuonano vere per noi le parole: “si
manifesti ai tuoi servi la tua opera e il tuo splendore ai loro figli” (Sal
89,16), frase che acquista tutto il suo significato davanti a Gesù,
riconosciuto come lo splendore dell’amore del Padre per gli uomini, la vera
opera di Dio per noi. Tanto che lasceremo tutto per seguire Gesù nel senso di
non voler rivendicare nessun bene che si collochi al di fuori o contro la
comunione con lui. Sarebbe il senso delle due parabole dell’uomo che costruisce
una torre e del re che non vuole essere sconfitto.