Terzo
ciclo
Anno
liturgico C (2009-2010)
Tempo
Ordinario
19a Domenica
(8 agosto
2010)
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Sap
18,3-9; Sal 32; Eb 11,1-19;
Lc 12,32-48
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Il brano
evangelico di oggi illustra il mistero della grandezza divina del servizio,
rivelazione tipicamente evangelica: “Beati
quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità io vi
dico, si stringerà le vesti ai fianchi, li farà mettere a tavola e passerà a
servirli”. Proprio come annunciava il profeta Isaia: “Io, il Signore, sono il primo e io stesso sono con gli ultimi” (Is
41,4); come riporta anche Mc 10,45: “Anche
il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e
dare la propria vita in riscatto per molti”; e ancora Lc 22,27: “Infatti chi è più grande, chi sta a tavola o
chi serve? Non è forse colui che sta a tavola? Eppure io sto in mezzo a voi
come colui che serve”. Ecco l’immagine di fondo che l’uomo non avrebbe
potuto inventarsi e che riassume invece il senso della persona e dell’agire di
Gesù: Dio si mette a servizio e in servizio degli uomini! Si tratta per noi di
accogliere la rivelazione dei segreti di Dio, gustarne la potenza e lasciarsene
riverberare nell’intimo. L’invito alla vigilanza tende a questo.
In effetti,
l’esortazione alla vigilanza, con le parabole che la illustrano, dice assai più
di quello che saremmo portati a credere. I beni sono precari, e anche la vita è
precaria. Stare vigili significa
allora non perdere la coscienza di quella precarietà? Oppure, ancora, significa
aspettare con timore l’arrivo del padrone, che comunque verrà e che dovrà
ricompensare o castigare i suoi servi a seconda di come si sono comportati? Non
c’è nulla di evangelico in questo tipo di vigilanza.
La vigilanza
evangelica è in rapporto ad altro. Si tratta di un’esperienza di fede che
equivale a un vivere nell’orizzonte di una promessa che ha toccato il cuore. In
primo luogo non sta la fatica del vegliare, ma la percezione della fedeltà di
Dio alla sua alleanza. Non per nulla la liturgia comincia con l’antifona: “Sii fedele, Signore alla tua alleanza, non
dimenticare mai la vita dei tuoi poveri. Sorgi, Signore, difendi la tua causa,
non dimenticare le suppliche di coloro che t’invocano”. Si tratta di un
vegliare in funzione della percezione del regno di Dio arrivato a noi, in
funzione della sua promessa di prossimità all’uomo che si è compiuta e che
continuamente si va compiendo. La forza dell’esortazione del vegliare sta tutta
nel riportare il cuore a sentire l’alleanza di Dio, a vederla realizzata nel
Signore Gesù che diventa il tesoro del cuore perché in lui si concentrano le
promesse di Dio e i nostri aneliti. E prima ancora che tradursi in fatica di
veglia perché il nostro cuore non si allontani dalla verità percepita, diventa
ardore di veglia perché il Signore non dimentichi, perché non abbia timore
delle nostre miserie, perché non ci abbandoni, perché si costringa alla fedeltà
a quell’amore che ha così fortemente voluto per noi.
Il senso
della parabola dell’attesa del padrone quando torna dalle nozze va cercato in
quel tipo di vigilanza evangelica. L’immagine non ha nulla di usuale perché non
esiste sulla terra padrone che si metta a servire coloro che sono al suo
servizio. Non è possibile non pensare al gesto di Gesù di lavare i piedi ai
discepoli nell’ultima cena, come non è possibile non riferirsi al versetto di
Giovanni “Se uno mi ama, osserverà la mia
parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso
di lui” (Gv 14,23). Quel gesto, quella volontà del Signore nei nostri
confronti, è ben sottolineata dal versetto iniziale del brano di oggi: “Non temere, piccolo gregge, perché al Padre
vostro è piaciuto di dare a voi il Regno”. E corrisponde, nella
ricostruzione della vicenda del popolo di Israele che esce dall’Egitto, secondo
il libro della Sapienza, all’annotazione: “Quella
notte fu preannunciata ai nostri padri, perché avessero coraggio, sapendo bene
a quali giuramenti avevano prestato fedeltà”.*
La fede, che
diventa ‘una colonna di fuoco, come guida di un viaggio sconosciuto’, nel
viaggio cioè della nostra vita, sta tutta nella percezione di quel “al Padre vostro è piaciuto”. In quella
volontà assoluta di benevolenza per l’uomo, volontà manifestata in Gesù, sta il
segreto della vigilanza evangelica, come anche della fatica apostolica. Come
potremo liberarci dagli affanni e dalle preoccupazioni per i beni di cui
abbiamo bisogno per vivere, come potremo vivere in sicurezza una vita
assolutamente precaria, come non doverci servire dei fratelli per colmare il
vuoto della precarietà che ci attanaglia, se non abbiamo mai percepito quella
volontà di benevolenza nei nostri confronti? L’insistenza delle Scritture e
della Tradizione quanto al non
dimenticare, state attenti, vegliate, trova qui la sua ragion d’essere.
In questa
ottica anche un altro particolare del brano evangelico di oggi assume tutta la
sua rilevanza. Sembra che le parabole sulla vigilanza si riferiscano a un tempo
finale, allorquando il padrone arriverà e non ci saranno più scuse che tengano.
In realtà non si tratta di un tempo (il tempo eterno dopo il tempo storico) ma
di una dimensione (il tempo eterno che attraversa il tempo storico). Come a
dire: il padrone che arriva è l’immagine della rivelazione che si compie quando
la vita quotidiana si apre al mistero del regno dei cieli. Non si tratta di un
vivere oggi in un certo modo quaggiù per meritarsi di andare domani lassù. Si
tratta piuttosto di un’imminenza del Regno che si può rivelare in ogni punto
della nostra vita. A questo tende il servizio
del padrone riguardo ai suoi servi: lui si rivela al cuore nella sua volontà
assoluta di benevolenza per noi, visione che cambia radicalmente l’orizzonte
della nostra vita.
A ricordarci
che non si tratta, però, di una beatitudine beata,
ma angosciosa, lavorata, paziente, sta
l’esempio di Abramo riportato nella seconda lettura. È vero che, se Abramo ha
potuto vedere solo di lontano i beni promessi, noi possiamo dire di averli conseguiti,
avendoli visti realizzati in Gesù. Ma per noi, come per lui, se la promessa è
certa, l’attuazione è precaria. Professare che in Gesù le promesse si compiono
non significa ancora che si compiono in verità in noi. Non per nulla le
parabole sulla vigilanza parlano della responsabilità dell’agire dei discepoli,
con l’insidia dell’illusione sempre alle porte, con l’insidia della durezza di
cuore rispetto all’attesa del padrone e al trattamento dei fratelli. L’accento
però, nell’esperienza evangelica, non è più posto sulla funzionalità dell’agire
(faccio bene per avere una ricompensa) ma sulla qualità della vigilanza (sono
così desideroso del mio padrone che mi preoccupo di tutti i suoi servi). È
l’attesa di Qualcuno, di Qualcuno che si sveli al mio cuore che informa ormai
la qualità dell’agire.
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* Secondo la traduzione in lingua
corrente: “I nostri antenati già prima
furono preavvisati di questa notte memorabile. Sapevano dunque a quali promesse
avevano creduto e in piena sicurezza potevano rallegrarsi”.
Secondo la versione CEI 1974: “Quella notte fu preannunziata ai nostri
padri perché, sapendo a quali promesse avevano creduto, stessero di buon animo”.