Terzo
ciclo
Anno
liturgico C (2009-2010)
Tempo
Ordinario
15a Domenica
(11 luglio
2010)
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Dt
30,10-14; Sal 18; Col 1,15-20;
Lc 10,25-37
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Il brano di
vangelo conferma l’affermazione del Deuteronomio: “Questo comando che oggi ti ordino non è troppo alto per te, né troppo
lontano da te. ... Anzi, questa parola è molto vicina a te, è nella tua bocca e
nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica”. Cosa significa che la parola
del Signore, il suo comandamento, è vicino
a noi? Almeno due cose: 1) non è qualcosa di complicato o assurdo o
inarrivabile, ma accessibile a noi; 2) è adatto a noi, corrisponde al nostro
cuore, nel senso che fa vivere il cuore, ne compie gli aneliti profondi. Ma
allora perché facciamo così resistenza al suo comandamento nella nostra vita?
Già il testo
del Deuteronomio lo sottolinea: la parola del Signore ti è vicina perché tu la metta in pratica. Vale a
dire: il comandamento non rivela il suo segreto se non praticandolo. Non lo
puoi praticare se non lo accogli da dentro un’alleanza col tuo Dio, ma non lo
puoi comprendere se non praticandolo e così cogliere il gusto di quell’alleanza
con Dio che si era prima appena percepita. L’amore di Israele per il suo Dio è
un tema tipico del libro del Deuteronomio, assente negli altri libri del
Pentateuco. Il brano di oggi chiude praticamente il libro del Deuteronomio e
tutto il Pentateuco. Se il vangelo lo riprende è come se riprendesse in sintesi
tutta la Legge mostrandone il compimento, come giustamente dimostra di
conoscere il dottore della legge che interroga Gesù.
Luca e
Matteo pongono la domanda del dottore della legge sotto un’angolatura negativa,
mentre Marco sottolinea la sua buona fede. La prima domanda: “Maestro, che cosa devo fare per ereditare la
vita eterna?”, che sia posta con malizia o in buona fede, è comunque una
domanda ben posta. Non si può chiedere: che cos’è la vita eterna? La
comprensione segue sempre la pratica e la pratica fa riferimento a un’alleanza
goduta. La seconda domanda: “E chi è mio
prossimo?”, è comunque una domanda posta male. Se tradisce la sua cattiva
intenzione, allora significa: non posso mica mettere sullo stesso piano tutti
gli uomini, giusti e peccatori, Israele e i pagani! Ma così pensando, l’uomo
crede di difendere le sue distinzioni in nome di Dio e si impedisce di
conoscere in verità il volto del suo Dio. Se procede dalla sua buona fede,
allora significa: perché non gusto ancora quella vita eterna che cerco? Cosa mi
manca? E pone la domanda per conoscere in verità il pensiero di Dio. E Gesù
narra la parabola del buon samaritano. La conclusione della parabola
restituisce al dottore della legge l’ottica giusta, quella di Dio: non si
tratta di sapere chi sia o non sia il prossimo meritevole del mio amore, ma di
agire da prossimo con chiunque, anche con i nemici o gli avversari. “Va’, e anche tu fa’ così”, come il buon
samaritano che si è mosso a compassione vedendo un uomo ferito sulla strada.
Il mistero
della parabola però non finisce qui, perché le parabole parlano di Dio e non
semplicemente dell’uomo. Il buon samaritano è Gesù, che ha lasciato le 99
pecore (gli angeli) al sicuro ed è venuto a cercare la pecora (l’uomo) perduta.
Così, l’agire in compassione fa ereditare la vita eterna perché assimila a Dio,
rende simili al Cristo e ne svela al nostro cuore la bellezza. È il mistero di
ogni parola di Dio. Non viene pronunciata perché la si capisca, ma perché la si
metta in pratica con lo scopo di godere di quella vita che da Dio deriva e
tutti ingloba riempiendo il cuore. Davanti alla parola dovremmo domandarci:
qual è il mistero che nasconde, di cui diventare partecipi, mettendola in
pratica?
Lo rivela il
salmo 18 con il proclamare: “La legge del
Signore è perfetta, rinfranca l’anima; la testimonianza del Signore è stabile,
rende saggio il semplice. I precetti del Signore sono retti, fanno gioire il
cuore; il comando del Signore è limpido, illumina gli occhi”. La parola del
Signore ristora l’anima, dà gusto all’intelligenza, gioia al cuore e luminosità
agli occhi. Come a dire: è la parola del Signore, cioè la vita che deriva da
lui, a costituire la fonte del ristoro (pace), del gusto (sapienza, senso),
della gioia e della luminosità per i nostri cuori. E tutto questo si sperimenta
accettando di condividere l’agire di Dio per gli uomini: farsi prossimo a
tutti.
È curioso
osservare come la lettera ai Colossesi presenti il Cristo nella sua preminenza
quanto alla creazione e quanto alla redenzione: “Tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui. ...
è piaciuto infatti a Dio che abiti in
lui tutta la pienezza e che per mezzo di lui e in vista di lui siano
riconciliate tutte le cose ...”. Il che significa conferire alla parola
evangelica non tanto la natura di ideale ma quella di radice. In altri termini:
se vogliamo conoscere cosa davvero vuole il nostro cuore in profondità non
abbiamo che da riferirci alla parola di Gesù; se vogliamo realizzare i desideri
profondi che portiamo, la dinamica da seguire per ottenere soddisfazione è
quella mostrata dalla parola evangelica. Non sembra affatto scontato
riconoscere la cosa, ma beato colui al quale è concesso vedere il mondo sotto
questa angolatura.