Terzo ciclo
Anno liturgico C (2009-2010)
Tempo di Natale
Santa Famiglia
(27 dicembre 2009)
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1Sam
1,20-28; Sal 83; 1Gv 3,1-2.21-24; Lc 2,41-52
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Celebrare la festa della santa famiglia
di Gesù, Maria e Giuseppe, è un altro modo di sottolineare la verità e la
veridicità dell’incarnazione del Figlio di Dio. Per porre la sua tenda tra di
noi, Dio ha assunto la storia di una determinata genealogia (Gesù è ascritto
alla discendenza davidica), carica delle promesse divine ma intessuta anche di
peccato e di miserie umane e ha assunto pure la struttura che ha consentito a
quella storia di svolgersi, cioè la famiglia. L’uomo che viene al mondo senza
ritrovarsi in una famiglia che l’accoglie porta i segni dello strappo subito
perché non garantito nel suo diritto a vivere e a crescere. Anche per Gesù, che
è nato da una Vergine, è stato essenziale il contesto famigliare per crescere e
scoprire il senso della sua vita. E tutto questo ha attinenza non solo con il
bisogno dell’uomo, ma con il mistero di Dio. Voglio dire che il fatto che Gesù
abbia avuto una famiglia non significa solo che Dio abbia voluto assumere la
realtà umana della famiglia, ma ancor più che la famiglia nella sua realtà
umana parla di Dio. Con tutti i misteri che comporta.
Nel racconto del ritrovamento al tempio
di Gesù da parte dei suoi genitori ne abbiamo un indizio rivelatore. Al padre e
alla madre che lo cercavano angosciati Gesù non teme di rispondere: “Perché mi cercavate? Non sapevate che io
devo occuparmi delle cose del Padre mio?”. Altre volte nel vangelo Gesù
risponderà con questo tono a sua madre. Quando gli dicono che lo cercano sua
madre e i suoi fratelli, egli dichiara: “Mia
madre e miei fratelli sono questi: coloro che ascoltano la parola di Dio e la
mettono in pratica” (Lc 8,21). Oppure, a Cana, durante il banchetto di
nozze, a sua madre che lo sollecitava ad intervenire risponde: “Donna, che vuoi da me? Non è ancora giunta
la mia ora” (Gv 2,4). Gesù rimanda continuamente, da dentro gli affetti
familiari, ad una dimensione ancor più profonda che costituisce la radice
stessa di quegli affetti e la garanzia più sicura. Rimanda cioè a quel ‘Padre’,
di cui ogni affetto parla, al quale ogni affetto rimanda e nel quale ogni
affetto trova la sua radice più appropriata ed il termine verso il quale ogni
affetto anela.
Gli orizzonti sono mantenuti larghi, è
un continuo andare oltre la cronaca e la materialità degli eventi, dentro la
necessità e la difficoltà di un superamento continuo di quello che si pensava
ovvio. Tutti i genitori conoscono questa ambivalenza nella crescita dei figli:
fanno tutto per i figli e la loro gioia sta in questo, ma sanno che i figli
sono chiamati a realizzare un loro progetto, spesso senza poterlo condividere,
almeno all’inizio. Ma corrisponde al progetto di Dio sia la premura dei
genitori che la libertà dei figli e se entrambi, genitori e figli, sono
consapevoli di questa unità di progetto in Dio, tutti e due trovano la loro
gioia, misteriosamente. Diventa così essenziale, per i genitori e per i figli,
la consapevolezza della verità di questo rimando. La comprensione non è
immediata, ma è assicurata. Della Vergine si annota nei vangeli: “Maria, da parte sua, custodiva tutte queste
cose, meditandole nel suo cuore”. Non comprendere subito il piano di Dio
non significa non accoglierlo. Trattenere perciò eventi e parole, misteriose,
che vengono da Dio, significa accogliere in cuore il suo piano in attesa di
comprenderne il senso. E questo vale soprattutto negli affetti, negli affetti
familiari in particolare, quando la forza del legame farebbe valere il legame
tra madre e figlio, a volte in senso perfino ricattatorio e non invece con Colui che di quel legame è la
Sorgente ed il Criterio di verità. Se un legame non sta aperto ad un progetto
superiore rischia di soffocare.
Forse non è inutile sottolineare che la
prima e l’ultima parola di Gesù nel vangelo di Luca è una evocazione del Padre.
Nel tempio, quando è ritrovato dai suoi genitori: “Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?”;
sulla croce, prima di morire: “Padre,
nelle tue mani consegno il mio spirito” (Lc 23,46); oppure, prima
dell’ascensione: “Ed ecco, io mando su di
voi colui che il Padre mio ha promesso” (Lc 24,49). Gesù fa vedere come in
tutto ciò che vive, in tutto ciò che possiamo vivere noi, quello che è
essenziale è scoprire e far valere la radice di vita, di senso, di sentimenti,
che è il Padre dei cieli, Colui dal quale ogni bene riceviamo e verso il quale
porta ogni bene vissuto. Senza questo ‘sconfinamento’, da dentro i legami degli
affetti, l’uomo si insacca su se stesso e non trova più slancio e passione per
un progetto grande di vita. In altre parole, non ritrova più lo Spirito donato
da Gesù. Lo dice assai bene la seconda lettura tratta dalla prima lettera di s.
Giovanni: “Chi osserva i suoi
comandamenti rimane in Dio e Dio in lui. In questo conosciamo che egli rimane
in noi: dallo Spirito che ci ha dato”. In altri termini, osservare i
comandamenti risulta possibile in forza dello Spirito che ci fa una cosa sola
con Gesù, nel quale abita la pienezza della divinità. E lo Spirito è Colui che
continuamente tiene aperti gli orizzonti verso il Padre, tanto in Gesù quanto
in noi perché il desiderio di comunione di Dio con gli uomini si compia
finalmente. Così è stato per la santa famiglia di Nazareth, così è stato per
Gesù e così è per noi tutti. E solo così gli uomini possono vivere i loro
affetti senza sottrarre loro quel vigore e quello slancio che li apre ad
aneliti sempre più profondi e veritieri, dentro un’umanità così larga di
orizzonti da sentire tutti della stessa famiglia.