Terzo ciclo

Anno liturgico C (2009-2010)

Solennità e feste

 

Ss. Trinità

(30 maggio 2010)

 

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Pro 8,22-31;  Sal 8;  Rm 5,1-5;  Gv 16,12-15

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L’antifona di ingresso definisce bene la prospettiva nella quale accostare il mistero della Trinità: “Sia benedetto Dio Padre, e l’unigenito Figlio di Dio, e lo Spirito Santo: perché grande è il suo amore per noi”. Se possiamo accedere al mistero di Dio è perché Dio si è rivelato come ‘amore per noi’. È però il Padre che è indicato come amore, di cui il Figlio è rivelatore e testimone e della cui vita d’amore lo Spirito è donatore. Gesù, che pur rappresenta per noi l’espressione stessa dell’amore (“li amò sino alla fine”, Gv 13,1), non si definisce mai come amore, termine che invece è riservato al Padre, come la preghiera stessa della Chiesa sottolinea: “Ti glorifichi, o Dio, la tua Chiesa, contemplando il mistero della tua sapienza con la quale hai creato e ordinato il mondo; tu che nel Figlio ci hai riconciliati e nello Spirito ci hai santificati, fa’ che nella pazienza e nella speranza possiamo giungere alla piena conoscenza di te che sei amore, verità e vita”, dove ‘amore’ fa riferimento al Padre, ‘verità’ al Figlio, ‘vita’ allo Spirito Santo.

Tutto ciò che si può dire del Padre e dello Spirito deriva dal Figlio. Quello che il Figlio, la Sapienza incarnata, la Parola fatta carne, ha rivelato di Dio, è la verità su Dio. Tutte le letture poggiano su questo fondamento. La lettura dei Proverbi illustra il Figlio come Sapienza che ha presieduto alla creazione, che ha dato senso alla storia degli uomini. Non si parla tanto di Dio Creatore, ma della sua Sapienza, con la quale ha creato, nella quale Dio si deliziava e che l’ha indotto a trovare le sue delizie nei figli degli uomini perché quella Sapienza era il Figlio che avrebbe preso carne, si sarebbe fatto uomo. “Io ero con lui” prima di ogni cosa, quando ogni cosa è stata fatta; il che significa che per cogliere il senso di quelle cose che sono state fatte, a Lui occorre rifarsi, perché di Lui parlano. Nulla è al di fuori di quella Sapienza, di quel Figlio. Quando si parla di ‘sapienza’ non si allude soltanto al fatto che il mondo è creato secondo una razionalità, ma più direttamente al fatto del mistero di Dio che trasuda dalle cose. In un certo senso, la storia può essere concepita come l’esercitazione di Dio a stare in compagnia degli uomini perché questa è la sua delizia, come per gli uomini la storia prende senso se vissuta come l’esercitazione a stare in compagnia di Dio. E se l’essenza del mondo è rivelazione dell’umanità, l’essenza dell’umanità è rivelazione di Dio. È ciò che ci ha insegnato la Sapienza incarnata, quel Figlio dell’uomo che è il più bello dei figli degli uomini. Difatti, a Lui dobbiamo la rivelazione suprema di Dio: Dio è Amore. E la rivelazione dell’amore di Dio è lo scopo dell’opera del Figlio nella sua passione-morte-risurrezione.

La seconda lettura, tratta dalla lettera ai Romani, presenta la Sapienza, che è il Cristo, come nostra pace, trasparenza diretta tra creato e Creatore, tra i figli e il Padre, nella ‘speranza della gloria di Dio’, vale a dire nella speranza che lo splendore dell’amore di Dio, rivelatosi nel Figlio e partecipato nel suo Spirito, conquisti tutti, per sempre. Ed è una speranza che non può andare delusa, nonostante le afflizioni e le vicende della storia, perché è tenuta desta dalla verità di quell’amore che ha sanato le radici dell’anima e di cui non esiste bene più prezioso e desiderabile.

Nel brano di vangelo a parlare è sempre la Sapienza, Gesù, che annuncia l’effusione dello Spirito. È da questa effusione che si può conoscere l’amore del Padre, perché ci fa riconoscere il Figlio come l’Inviato di Dio, il Rivelatore del Volto di Dio, che è Amore. Ma sempre a partire dalla stessa ‘Sapienza’. Quello che il Padre possiede Le appartiene; quello che dirà lo Spirito non sarà che la rivelazione di quella Sapienza. Tanto che si può definire così il criterio veritativo dello Spirito: se appartiene allo Spirito di Cristo, è Spirito di Dio. Se invece ci muove uno ‘spirito’ che non è riconducibile o che si oppone allo Spirito di Cristo, è segno sicuro che non proviene da Dio.

Quando la preghiera iniziale definisce Dio come ‘amore, verità e vita’, allude certamente al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo, di cui preghiamo di avere piena conoscenza, nella pazienza e nella speranza. Ma tutto procede dalla ‘verità’ del Figlio che, dandoci il Suo Spirito, che è vita (cioè ci comunica quell’amore che non è più rapibile da niente e da nessuno), ci fa conoscere l’amore del Padre. Da parte nostra tutto procede dall’accoglienza del Figlio, perché il Padre che desideriamo conoscere è il Suo Padre, e lo possiamo conoscere nel Suo Spirito. La ‘verità tutta intera’ di cui parla Gesù riferendosi allo Spirito non riguarda tanto la verità nei suoi vari enunciati, ma la verità come comunione con Cristo. Di quanta ‘pazienza’ e di quale ‘speranza’ necessita allora l’uomo per realizzare radicalmente e totalmente nella sua vita quella comunione con Cristo! Ma è a partire da quella comunione che la rivelazione del Padre, del Figlio e dello Spirito costituirà la delizia del nostro cuore.