Terzo ciclo
Anno liturgico B (2008-2009)
Tempo di Quaresima
5a Domenica
(29 marzo 2009)
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Ger
31,31-34; Sal 50; Eb 5,7-9;
Gv 12,20-33
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Con il capitolo 12 di Giovanni inizia
il racconto dell’ultima settimana di vita di Gesù. Se ai suoi primi trent’anni
sono dedicati pochi accenni e agli ultimi due, quelli della vita pubblica di
Gesù, è riservata la prima parte del vangelo, ora, per l’ultima settimana, il racconto
si fa molto denso e ricco di dettagli. Gesù era stato accolto a Betania con la
tenerissima e misteriosa unzione di Maria; era appena entrato trionfante in
Gerusalemme; la notizia della risurrezione di Lazzaro correva sulla bocca di
tutti e tutti accorrevano per vedere l’uno e l’altro. Era prossima la festa di
pasqua. Un gruppo di Greci, cioè pagani simpatizzanti, vicini alla religione
ebraica, chiede a Filippo: “vogliamo
vedere Gesù”. Con tale richiesta il vangelo introduce l’ora del Figlio dell’uomo
perché vedere Gesù vuol dire vedere il Salvatore, vedere il Dio che salva.
È caratteristica la posizione di
Filippo, originario della Galilea, ‘terra delle genti’. Poco più avanti, nel
racconto, sarà lui a chiedere a Gesù: “Signore,
mostraci il Padre e ci basta” (Gv 14,8). La sua presenza sembra aver a che
fare con la rivelazione del Padre. Perché la morte di Gesù in croce è vista, da
Giovanni, nel segno della rivelazione del Padre, del suo amore all’uomo. Il
“vogliamo vedere Gesù”, introducendo l’ora del Figlio dell’uomo, manifesta la
rivelazione del Padre che nel suo Figlio Unigenito fa vedere il suo volto
d’amore.
Gesù, commentando la richiesta dei
pagani di vederlo e parlando della sua morte, svela la gloria del Padre che con lui condivide. Siamo di fronte al segreto
di Dio che si apre allo sguardo dei suoi figli. “Adesso l’anima mia è turbata; che cosa dirò? Padre, salvami da
quest’ora? Ma proprio per questo sono giunto a quest’ora! Padre, glorifica il
tuo nome”. Il vangelo di Giovanni non parla dell’angoscia del Getsemani.
Qui la lascia intravedere, eco delle parole dei salmi 6,3 e 41,6-7: “trema tutta l’anima mia”, “in me si rattrista l’anima mia”. L’intensità dell’angoscia di Gesù, condivisa
dal Padre, raccoglie in un punto supremo la sua umanità che si abbandona al
Padre nel suo amore per gli uomini. È questo amore condiviso con il Padre e con
gli uomini che permetterà a Gesù di attirare tutti alla salvezza e scacciare il
principe di questo mondo, vale a dire dare la vita nella morte, ricevere la vita
nella morte. Quando Gesù, al culmine della sua angoscia, prega: “Padre, glorifica il tuo nome” manifesta
tutta la sua intimità con il Padre, tanto che chiede al Padre di far splendere
l’amore suo in lui in tutta la sua potenza, perché il nome del Padre è proprio
Gesù, il volto visibile del Padre.
E ancora: non ci sarà destino diverso
per i discepoli. Anche questo aspetto costituisce la grandezza della
rivelazione, espressa dal canto al vangelo: “Se uno mi vuole servire, mi segua, dice il Signore, e dove sono io, là
sarà anche il mio servitore”. Ma non vuol dire semplicemente: io soffro,
anche voi soffrirete; io sono ripudiato dal mondo, anche voi lo sarete; io
muoio sulla croce, anche voi avrete la vostra croce. Dice piuttosto: io sono
nell’amore del Padre, anche voi lo sarete; io sono il testimone del suo amore
in questo mondo, anche voi lo sarete; io risplendo della gloria dell’amore del
Padre, anche voi risplenderete dello stesso amore; e tanto più quanto più
sopporto l’ingiustizia e la violenza senza venir meno alla potenza dell’amore,
come anche voi.
La domanda della liturgia è: come
accedere a questa visione di Gesù Salvatore? Ce lo rivela il profeta Geremia: “Porrò la mia legge dentro di loro, la
scriverò sul loro cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio
popolo. Non dovranno più istruirsi l’un l’altro dicendo: ‘Conoscete il
Signore’, perché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande – oracolo
del Signore -, poiché io perdonerò la loro iniquità e non ricorderò più il loro
peccato”. “Tutti mi conosceranno”; “perché io perdonerò la loro iniquità”:
ecco i due passaggi nevralgici. Quel perché
dice la condizione e il tempo del conoscere. Possiamo conoscere Dio solo
sperimentando il suo perdono. E possiamo venire perdonati solo riconoscendo di
essere peccatori. Più forte è la coscienza del nostro essere peccatori, più
profonda sarà l’esperienza del perdono e più rigenerante l’incontro con il
Signore, finalmente conosciuto nel
suo amore per noi. E per non cadere nell’illusione sentimentale di sentirsi
peccatori, senza averne la coscienza in verità, basta riferirsi alle nostre
reazioni di fronte all’ingiustizia e alla violenza che ci arrivano addosso dai
fratelli. Se davvero abbiamo coscienza di essere peccatori, non rivendicheremo
nulla, non ci offenderemo, non resteremo oppressi, perché non vogliamo perdere
l’esperienza di quell’amore che costituisce il vero tesoro di vita del nostro
cuore. Allora l’alleanza conclusa da Dio con noi è scritta davvero sul nostro
cuore. Allora resteremo innalzati con
il nostro Signore, crocifisso, e la salvezza, mentre tiene saldi noi, attirerà
anche i nostri fratelli.
A tale esperienza allude il cuore puro
che domandiamo a Dio con il salmo responsoriale, confermata dall’espressione
della lettera ai Romani: “Pur essendo
Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì”. È lo splendore
dell’obbedienza dell’amore nel quale troviamo vita noi e confermiamo la vita di tutti, se stiamo uniti al Signore
Gesù.