Terzo ciclo
Anno liturgico B (2008-2009)
Tempo di Pasqua
3a Domenica
(26 aprile 2009)
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At
3,13-19; Sal 4; 1Gv 2,1-5;
Lc 24,35-48
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I racconti della risurrezione non
mirano soltanto a mostrare la verità della risurrezione di Gesù, verità che non
apparteneva all’orizzonte mentale dei discepoli, ma anche ad aprire
l’intelligenza delle Scritture, che con la risurrezione di Gesù acquista tutt’altra
densità e definitività.
Il canto al vangelo di questa domenica
esprime bene la condizione interiore che prelude al riconoscimento del Risorto
sia per gli apostoli che per noi: “Signore Gesù, facci comprendere le
Scritture; arde il nostro cuore mentre ci parli” (cf. Lc 24, 32). È la
confessione dei due discepoli di Emmaus che, dopo aver riconosciuto il Risorto
nello spezzare il pane, si confidano i sentimenti profondi del cuore. Quando,
nella preghiera dopo la comunione, la chiesa fa pregare: “Guarda con bontà, o
Signore, il tuo popolo, che hai rinnovato con i sacramenti pasquali, e guidalo
alla gloria incorruttibile della risurrezione”, non intende fare professione di
fede nella risurrezione della carne, come la proclamiamo nel Credo, ma più specificamente
allude alla possibilità di vivere in compagnia di Gesù Risorto (“Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino
alla fine del mondo”, Mt 28,20).
Luca sottolinea la ‘corporeità’ del
Cristo risorto ma subito dopo mostra come quella stessa corporeità verrà
sottratta allo sguardo dei discepoli con l’ascensione al cielo. In effetti
Gesù, per mostrare la veridicità del suo corpo glorioso, mangia perfino una
porzione di pesce arrostito davanti ai discepoli esterrefatti. L’annotazione
sembra avere una valenza eucaristica. Il corpo glorioso ingloba nella sua
dimensione ciò che di per sé appartiene a un’altra. Pur fatte le debite
distinzioni, è appunto il mistero dell’eucaristia. Quando l’uomo mangia il pane
eucaristico, non è lui a inglobare il corpo di Cristo, ma è il Corpo di Cristo
che assimila l’uomo che lo mangia. È il Vivente che assume in lui noi vivi, ma
ancora soggetti alla corruzione, fino a portarci alla sua dimensione, fino a
farci vivere dello splendore dell’amore che viene da Dio.
È assolutamente significativo che solo
di Gesù Risorto si dica che “allora aprì
loro la mente per comprendere le Scritture” (Lc 24,45), quando tutto ciò
che lo riguardava fu portato a compimento. Gesù apre le Scritture (corrisponde
all’esperienza dei due discepoli di Emmaus che ascoltavano il pellegrino
spiegare le Scritture) e contemporaneamente apre la mente a comprenderle. Il
doppio movimento di apertura è ascritto al Risorto perché con la risurrezione
si compie il suo mistero, di cui tutte le Scritture parlano, mistero che noi
possiamo cogliere tramite lo Spirito suo che ci ha effuso e che ci rende
testimoni suoi. Tre sono gli aspetti che si concatenano nella testimonianza dei
discepoli: 1) anzitutto il riferimento alle Scritture, senza le quali non è
possibile riconoscere il mistero della morte e risurrezione del Cristo, nel
quale prende senso la stessa creazione e trova il suo punto di incandescenza
quel movimento di rivelazione di Dio al suo popolo per la sua liberazione; 2)
il Gesù che ha patito è lo stesso che è risorto; le sue cicatrici non esprimono
semplicemente la cronaca della sua storia umana, ma rivelano tutto il mistero
dell’amore eterno di Dio per l’uomo, tanto che per noi, in fondo, si tratterà
di arrivare a cogliere come le sofferenze subite, le cicatrici nel corpo del
Cristo, non esprimono soltanto il prezzo, ma la gloria dell’amore. E come è
stato per il Signore Gesù, lo sarà anche per i suoi discepoli; 3) l’annuncio
della risurrezione è teso alla conversione e al perdono dei peccati.
E qui si innesta la questione
dell’intelligenza delle Scritture. Ce lo richiama l’apostolo Pietro nel suo
discorso alla folla dopo la guarigione miracolosa del paralitico alla porta
Bella del tempio, come riportato nella prima lettura. Il punto essenziale del
suo discorso non è costituito dal fatto di ricordare che il miracolo è avvenuto
nel nome di Gesù risorto, di cui lui e gli altri apostoli sono testimoni, ma
nel fatto di legare il pentimento e la conversione al riconoscimento dell’agire
di Dio in quell’Uomo che è stato rinnegato, condannato, messo a morte e ora
glorificato. Nel riconoscere che Gesù è stato condannato e messo a morte c’è
tutta l’ammissione di colpevolezza nei confronti di Dio di cui si è disprezzato
l’amore e perciò il cuore si addolora profondamente (risuona allora con
tutt’altro significato il versetto: “Volgeranno
lo sguardo a colui che hanno trafitto”, Gv 19,37), ma per aprirsi al
riconoscimento che l’amore di Dio è davvero grande e poter dire, davanti al
‘crocifisso’: questi è davvero il re della gloria, il testimone dello splendore
dell’amore di Dio che salva e nella cui energia anche noi possiamo ora vivere.
Guardando con dolore e tenerezza a Colui che è stato trafitto possiamo
specchiarci e ritrovare la nostra verità: di uomini peccatori, che non hanno
voluto tener in conto l’alleanza di Dio, che hanno disprezzato il suo amore e
contemporaneamente di uomini redenti, che finalmente vedono l’amore di Dio
riversarsi su di loro e fornire loro nuove coordinate di esistenza.
Le preghiere della liturgia di oggi
(colletta, offerte, dopo comunione) sottolineano la tensione all’eternità,
tipica della risurrezione. È l’eterno che aspira il temporale, è l’apertura
all’eterno che lascia intravedere il senso della nostra storia, letta
nell’ottica della rivelazione delle Scritture, con lo sguardo fisso al Cristo,
nell’annuncio per il mondo che in lui la pace è ormai godibile.