Terzo ciclo
Anno liturgico B (2008-2009)
Tempo di Pasqua
2a Domenica
(19 aprile 2009)
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At
4,32-35; Sal 117; 1Gv 5,1-6;
Gv 20,19-31
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La liturgia del tempo pasquale
ripercorre i racconti delle apparizioni del Risorto per confermarci nella
grazia della rivelazione dell’immenso amore del Signore per noi. Proclamare che
il Signore è davvero risorto non significa solo esprimere una verità che
riguarda la persona di Gesù, ma contemporaneamente accogliere la possibilità di
‘vita divina’ concessa all’uomo che, guardando a ‘Colui che è stato trafitto’,
lo riconosce suo Signore e suo Dio, come Tommaso, in totale confidenza.
Fermiamoci solo su di un particolare,
il saluto di Gesù: “Pace a voi”. Si
tratta della pace messianica, quella che racchiude tutti i doni di Dio
rendendoceli disponibili. Gesù la proclama e la offre definendola in rapporto a
tre cose:
1) in rapporto alle sue piaghe. Mentre
dà la sua pace mostra le mani e il costato. Quella pace ci deriva dalle sue
piaghe e le sue piaghe ci confermano che il Signore risorto è il Gesù che ha
patito, tanto la sua passione e morte ha fatto risplendere l’amore di Dio per
gli uomini. Sarà così anche per i suoi discepoli: è la condizione della
condivisione della rivelazione del vangelo. La gioia della presenza del Signore
risalterà proprio là dove il discepolo è chiamato al martirio in qualunque prova della vita.
2) In rapporto alla missione: “Come il Padre ha mandato me, anche io mando
voi”. Non si tratta semplicemente del fatto che i discepoli sono inviati ad
annunciare al mondo la buona notizia, ma del fatto che l’annunceranno nella
stessa modalità nella quale Gesù l’ha annunciato e cioè che come Gesù non dice
e non fa se non quello che sente e vede fare dal Padre (cf. Gv 5,19), così i
discepoli nei confronti del loro Maestro.
3) In rapporto allo Spirito Santo, di
cui Gesù ci ha ottenuto l’effusione sulla croce. L’opera dello Spirito è la
riconciliazione con Dio ed energia di comunione. Se Luca, nella prima lettura,
descrive la prima comunità cristiana con un cuor solo e un’anima sola, non
tratteggia un idillio, ma ne rivela la tensione dinamica, la tensione di una
vita nella fede del Risorto, che diventa radice di umanità nuova, la cui cifra
è appunto la comunione. Nel canone eucaristico, quando si invoca la discesa
dello Spirito Santo sulla comunità dei credenti, è per essere abilitati a
vivere ‘un cuor solo e un’anima sola’, in tutta fraternità.
Come si può partecipare allora al dono
della pace da parte del Risorto? L’episodio di Tommaso risponde a tale domanda.
Quando Tommaso protesta la sua incredulità non è per mancanza di fede, ma
perché si è trovato così coinvolto nella vicenda di Gesù, al quale aveva
aderito con tutto il cuore (Tommaso non è un pavido, un insicuro; le altre due
volte che il vangelo di Giovanni parla di Tommaso ce lo presenta come un uomo
generoso, pronto ad andare a morire con Gesù), che non vuole illudersi. Il suo
dubbio procede da un cuore che ha preso molto sul serio la vicenda di Gesù.
Quando Gesù, ricomparendo, gli dice di mettere la mano nel costato e nelle
cicatrici, non ha bisogno di ricredersi, di scusarsi: è tutto teso a quel
Signore che ha sempre voluto seguire e che ora riconosce per davvero “mio Signore e mio Dio”, la più solenne
professione di fede dei vangeli, compimento della promessa di Dio al suo
popolo: “Io sarò il loro Dio ed essi il
mio popolo” (Ger 31,33; 24,7; 32,38; Ez 11,20; 14,11; 37,23; Zac 8,8). In
quel mio c’è tutto l’anelito del suo cuore, la sua esperienza di lui; in quel Signore e Dio c’è tutta la rivelazione
di Gesù al suo cuore. Con quella professione di fede gli scende in cuore la pace che Gesù aveva offerto comparendo
davanti ai suoi discepoli.
Nella vicenda terrena di Gesù, la pace
sigilla l’inizio e la fine, rivelazione e dono del Dio misericordioso verso gli
uomini. Al presepio di Betlemme gli angeli annunciano la pace; nel discorso all’ultima
cena, Gesù promette la sua pace; dopo la risurrezione Gesù dona la sua pace e
con la nostra professione di fede quella pace scende nel cuore e ne occupa le
sorgenti. Quella pace è a prova di ogni tipo di male perché si colloca così
profondamente alle radici dei cuori che non può essere rapita da niente e da
nessuno. Quella pace ci è riofferta nella celebrazione eucaristica quando,
prima della comunione, il sacerdote ricorda: “Signore Gesù Cristo, che hai
detto ai tuoi apostoli: ‘Vi lascio la mia pace, vi do la mia pace’, non
guardare ai nostri peccati, ma alla fede della tua Chiesa, e donale unità e
pace secondo la tua volontà”.
Gesù poi aggiunge: “Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati
quelli che non hanno visto e hanno creduto”. Forse l’allusione è allo
stesso autore del vangelo di cui si dice che vide e credette quando
visitò la tomba vuota pur senza aver visto il Signore (cf. Gv 20,8). Noi tutti
che veniamo dopo gli apostoli e che crediamo alla loro testimonianza, non
vediamo il Signore eppure crediamo e lo amiamo (cf. 1Pt 1,8). È la beatitudine
della fede che si risolve in visione e non della visione che porta alla fede.
Non penso che Gesù voglia dire che si deve credere e basta, senza vedere, quasi
che fosse riservato un premio speciale alla fede. È tipico invece della fede
aprire gli occhi alla visione. Solo che la visione non precede, non può servire
di giustificazione alla fede. Sarà la fede a introdurre alla visione. Questo
promette la beatitudine di Gesù.