Terzo ciclo
Anno liturgico B (2008-2009)
Tempo Ordinario
7a Domenica
(22 febbraio 2009)
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Is
43,18-25; Sal 40; 2Cor 1,18-22;
Mc 2,1-12
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Non è usuale nei vangeli che coloro i
quali si appressano a Gesù per ottenere qualcosa tacciano. Del paralitico e dei
suoi barellieri non si riporta alcuna parola né prima né dopo la guarigione. Ma
la liturgia è come se mettesse in bocca a quell’uomo, simbolo di noi tutti, le
parole del salmo 12 che servono da antifona di ingresso: “Confido, Signore, nella tua misericordia. Gioisca il mio cuore nella
tua salvezza, canti al Signore che mi ha beneficato”. Tanto più se teniamo
conto che il salmo comincia: “Fino a
quando, Signore, continuerai a dimenticarmi? Fino a quando mi nasconderai il
tuo volto?...”. La situazione dell’uomo è ben descritta, come del resto
l’intervento di Dio.
Fa cogliere bene il senso del brano la
colletta: “Dio della libertà e della pace, che nel perdono dei peccati ci doni
il segno della creazione nuova, fa’ che tutta la nostra vita riconciliata nel
tuo amore diventi lode e annunzio della tua misericordia”.
Effettivamente la novità di Gesù
consiste proprio nel collegare il suo potere di guarigione con il perdono dei
peccati. È chiaro che il paralitico è stato portato per ottenere il miracolo
della guarigione e tutta la scena è costruita sulla decisione dei suoi amici di
arrivare allo scopo, fino a scoperchiare perfino il tetto, ma Gesù non risponde
subito a quell’urgenza. Ne rivela invece un’altra, inaspettatamente, e di
questa parla la fede che lui aveva notato.
Siamo così distanti dal senso della
santità di Dio che una tale sovrabbondanza di grazia non ci scompone più di
tanto. Ma questo è il segno dell’appiattimento interiore che viviamo, il segno
del ripiegamento su noi stessi e del restringimento dello spazio vitale per il
cuore. Non desideriamo ancora guarire dalla nostra malattia. Forse ci sembra
impossibile, forse lo desideriamo così tanto da restarne schiacciati. Invece,
ciò che conta, è la determinazione di ottenere, determinazione che non si
arresta davanti alla folla che circonda Gesù tanto da salire sul tetto e
praticare addirittura un foro. È la determinazione a oltrepassare la folla di
azioni, pensieri e sentimenti che assiepano il nostro cuore, a non recedere
davanti a nessun ostacolo pur di prostrarsi davanti a colui che, dentro, ci
aspetta, pronto ad accoglierci e a darci il suo perdono guaritore e
ristoratore.
D’altronde è caratteristico che siano
altri a portare il malato davanti a Gesù; altri, evidentemente, che tenevano al
malato e che, una volta visto esaudito il loro desiderio, si sottraggono. Come
non vedere in questi portatori la funzione provvidenziale dei fratelli nel
nostro cammino di fede, nella nostra scoperta di Gesù? Sono lì a richiamarci la
dimensione ecclesiale del nostro vivere la fede e nella fede; sono lì a
sottolineare la provvidenza divina nella nostra vita. Di qui la responsabilità
di comportarci da fratelli, per non far venir meno la rivelazione del Volto di
Dio a nessuno.
Due allusioni risultano poi
estremamente significative. La prima: Gesù si denomina come ‘Figlio dell’uomo’.
Il compito del Figlio dell’uomo, secondo la profezia di Daniele alla quale quel
titolo si riferisce, sarà proprio quello di creare il popolo santo dell’Altissimo.
E il popolo dell’Altissimo, come dice la beatitudine di Gesù “beati gli operatori di pace, perché saranno
chiamati figli di Dio” (Mt 5,9), è il popolo che fa consistere ogni potere
e grandezza nel vivere della pace che il Signore porta, che sacrifica ogni
altro potere e grandezza pur di non perdere quel tesoro di pace che il Signore
ha fatto gustare, che non sopporta di dividersi dal proprio fratello proprio quando
lui vuole dividersi da noi, per amore di quel Signore che è morto per riunire i
figli di Dio dispersi. La remissione dei peccati comporta aver gustato il
tesoro di quella pace a tal punto da non barattarla con nient’altro, mai.
La seconda: Gesù, nel brano del
paralitico guarito, agisce nell’ottica del ‘Dio che plasma il suo popolo’,
secondo il brano di Isaia della prima lettura. Tenendo presenti le parole del
profeta possiamo accostarci meglio al segreto della scena. Isaia descrive il
Signore nel suo amore per Israele: “… Il
popolo che io ho plasmato per me … Io, io cancello i tuoi misfatti per amore di
me stesso, e non ricordo più i tuoi peccati”. Tutto il capitolo è
attraversato dalle manifestazioni di un affetto intenso e intramontabile di Dio
per il suo popolo. Non però nel senso che il suo amore è tanto grande da
dimenticare i peccati, ma nel senso che il non ricordare i peccati è segno che
quell’amore ci raggiunge, ci rapisce nella sua dinamica di vita. In effetti,
quando il testo parla di popolo che ha plasmato intende ‘popolo che ha
riconciliato’, popolo che continuamente conquista al suo amore. L’antica
versione greca della LXX traduce il passo sopra citato enfatizzando quel
significato: “Io sono, Io sono, proprio
colui che cancella le tue trasgressioni …”. Dio in se stesso, almeno per
quello che l’uomo può cogliere, è semplicemente e totalmente il Dio che è dalla
parte dell’uomo, il Dio che è a favore dell’uomo, il Dio che ama l’uomo al
punto da non stancarsi mai di volerlo far vivere proprio in e a partire dal suo
amore.
E qui prende luce il versetto del salmo
che abbiamo cantato: “Beato l’uomo che ha
cura del debole, nel giorno della sventura il Signore lo libera”, che
l’antica versione greca rende con: “Beato
colui che ha intelligenza del povero e del misero …”. Il debole non è solo il fratello malato,
bisognoso, che dovrà essere portato sul lettuccio da noi fino a Gesù, ma è
proprio il Figlio dell’uomo, che ha
sacrificato la sua vita per invitare tutti e ciascuno alla comunione con lui,
che non abbandona pur quando è abbandonato, che non si rifiuta pur quando è
rifiutato. E se di quell’Uomo noi abbiamo premura, allora la sua presenza ci fa
attraversare ogni sventura nel senso che non c’è sventura che possa separarci
da lui e dai nostri fratelli.