Terzo ciclo
Anno liturgico B (2008-2009)
Tempo Ordinario
6a Domenica
(15 febbraio 2009)
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Lv
13,1-2.45-46; Sal 31; 1Cor 10,31-11,1; Mc 1,40-45
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Il potere di Gesù si esprime nel
cacciare i demoni. E i demoni sono dichiarati essenzialmente immondi, cioè capaci di rendere immondi,
impuri. Ma impuri rispetto a che cosa? Questa è la domanda di fondo, che
incomincia a delinearsi nel racconto evangelico con la guarigione del lebbroso
e che viene ulteriormente specificata dalla successiva guarigione del
paralitico, che costituirà la lettura evangelica di domenica prossima.
Il lebbroso aveva un terribile statuto
particolare. Dice la Legge: “Il lebbroso
colpito da piaghe porterà vesti strappate e il capo scoperto; velato fino al
labbro superiore, andrà gridando: ‘Impuro! Impuro!’ Sarà impuro finché durerà
in lui il male; è impuro, se ne starà solo, abiterà fuori dell’accampamento”
(Lv 13,45-46). Oltre il peso sociale dell’esclusione, la lebbra comportava
l’esclusione dal culto, dall’accesso alla santità di Dio che la Legge definiva
in termini di partecipazione alla vita del popolo santo e al culto del vero
Dio.
Si tratta di intuire la natura
dell’impurità dei demoni. La colletta ci fa pregare: “Risanaci, o Padre, dal
peccato che ci divide e dalle discriminazioni che ci avviliscono”. Dividere e
avvilire sono le due caratteristiche della malattia della lebbra. Chi ne era
affetto era allontanato dal consorzio degli uomini perché impuro, capace cioè di contagiare col suo male. I peccati nostri
hanno lo stesso destino: insidiano la fraternità, irrigidiscono i rapporti,
contaminano il cuore tanto da renderlo inaccessibile al cuore degli altri,
separano ed opprimono, impediscono al Volto di Dio di risplendere. Per questo
il peccato è orribile: rende la vita
paurosa e temibile. La purità, invece, con Gesù, viene definita come spazio
luminoso, spazio che torna a risplendere per rapporti fraterni, pacifici, dove
il Padre è visto nel suo amore per noi. Ad occupare l’atmosfera del cuore non
c’è più l’immondezza dei demoni, ma lo splendore del Figlio di Dio che permette
all’umanità di compiersi finalmente e glorificare così il Padre.
I particolari del brano evangelico di
oggi, specialmente i verbi, sono di una densità insospettata. Intanto, non si
parla di guarigione, ma di purificazione. Gesù non guarisce semplicemente un
malato, ma modifica radicalmente la sua condizione interiore restituendolo ad
una vita santa. La vita santa, quella in rapporto alla santità di Dio goduto
nel suo desiderio di comunione con noi, non è più definita secondo i termini
della legge. La discriminante tra santo e non santo si sposta e i confini sono
radicalmente cambiati perché Dio si è fatto prossimo a noi nella sua
compassione, come proclama il canto al vangelo: “Un grande profeta è sorto tra
noi, e Dio ha visitato il suo popolo” (Lc 7,16). Il nesso
guarigione/purificazione, da leggere in rapporto alla beatitudine: “beati i puri di cuore perché vedranno Dio”,
acquista la luminosità della tenerezza di Dio che libera e ci rende capaci a
nostra volta di tenerezza luminosa per l’uomo.
L’annotazione ‘ne ebbe compassione’ non esprime semplicemente un moto dell’animo
di Gesù, ma più profondamente quello che è il sentire di Dio per l’uomo, perché
la forma verbale usata, nel Nuovo Testamento, si usa solo nei confronti di Gesù
e del Padre. Esprime la qualità divina del sentire: il Figlio si comporta come
Dio stesso.
Se il lebbroso supplica: “Se vuoi, puoi purificarmi”, Gesù
risponde perentorio: “Lo voglio, sii
purificato!”. Nella sua decisione non va letta soltanto la compassione per
un uomo malato e avvilito, ma l’ansia di riportare il regno di Dio nel cuore
dell’uomo, la fretta e l’ardore di mostrare come l’amore di Dio che raggiunge i
cuori fa risplendere in modo nuovo l’umanità che li sostanzia. Nel suo volere
va letto il desiderio di compiere il disegno del Padre, di riscattare gli
uomini non semplicemente dalle malattie, ma dal peccato, di cui la malattia della
lebbra era il segno per eccellenza. Tanto che quando il Signore Gesù si
presenta, nella sua Passione, come uomo dei dolori, è come se si addossasse i
nostri mali da portarne tutto l’orrore, al pari di un lebbroso: “non ha apparenza né bellezza per attirare i
nostri sguardi, non splendore per potercene compiacere. Disprezzato e reietto
dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al
quale ci si copre la faccia ...” (Is 53,2-3).
Quando il lebbroso, nonostante il tono
severo dell’ingiunzione di Gesù, non riesce a frenare il bisogno di annunciare
a tutti e insistentemente la sua guarigione, il testo annota: “si mise a proclamare e a divulgare il fatto”.
In realtà però il testo dice semplicemente: “divulgare la parola”. È la parola di Gesù diventata per lui fatto.
Non si annunciano semplicemente parole, ma fatti che rivelano la potenza della
parola. Quello che parla ai cuori sarà sempre la Parola, capace di operare in
chi ascolta le stesse cose meravigliose di cui porta testimonianza chi annuncia
e che ha scoperto nel movimento di compassione di Dio che è arrivato fino a
lui.