Terzo ciclo

Anno liturgico B (2008-2009)

Tempo Ordinario

 

3a Domenica

(25 gennaio 2009)

 

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Gio 3,1-10;  Sal 24;  1Cor 7,29-31;  Mc 1,14-20

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Le letture di oggi sembra ruotino attorno alla percezione spirituale del tempo.

C’è il tempo del pentimento, sul quale sovrasta l’imminenza del giudizio di Dio: Giona predica ai Niniviti perché si convertano fissandone l’opportunità in quaranta giorni, il tempo che ci rimane da vivere, in qualsiasi situazione l’invito ci sorprenda; lo stesso Giovanni Battista può predicare solo un battesimo di conversione in attesa della manifestazione di colui che svelerà la verità e la grazia dell’amore salvatore di Dio.

C’è il tempo della pienezza, quello di Gesù: “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al vangelo”. Marco inizia così il suo racconto evangelico: “Inizio del vangelo di Gesù, Cristo, Figlio di Dio” (Mc 1,1) e quando nel seguito del racconto deve specificare il termine dice “vangelo di Dio”. Si tratta del vangelo che esprime la potenza di Dio per la salvezza (cf. Rm 1,16), che proclama l’azione di Dio in Gesù, per cui il convertirsi oramai comporta essenzialmente il fidarsi del dono di Dio che è Gesù per noi. Gesù inizia la sua predicazione con le stesse parole del Battista (cf. Mt 3,2). Ma Gesù non prosegue semplicemente l’opera del Battista: il Battista esorta, mentre Gesù mostra, ecco la differenza. Il Battista presagiva la presenza del Regno e predispone a riceverlo; Gesù ne fa vedere la presenza, ne svela la potenza da parte di Dio che viene in soccorso degli uomini. Con Gesù la conversione comporta il lasciarsi invadere dalla fiducia nella promessa di Dio che si compie per noi, in lui. Il credere al vangelo comporta il ritenere Dio sufficientemente potente per compiere, in Gesù, la sua promessa per noi, capace quindi di soddisfare gli aneliti del nostro cuore. Tutto questo dobbiamo imparare a percepire nell’annuncio di Gesù.

Infine c’è il tempo breve come lo chiama Paolo: “Il tempo si è fatto breve”. È il tempo che segue il tempo compiuto, che è dentro il tempo compiuto. Il che significa: è tale la gioia dell’amore salvatore di Dio, sperimentato in Gesù, che tutto il resto passa in secondo piano. Tutto in questo nostro mondo e in questa nostra storia ha valore, ma tutto va vissuto nell’ottica di quella verità, percepita come la grazia lungamente attesa e finalmente goduta. La nostra cronaca, quello che facciamo e ci succede, prende senso dalla storia che si è svelata al nostro cuore e che ne alimenta le radici di vita. Se questo tempo breve è dentro il tempo compiuto, allora vuol dire che non esiste nessun tempo della nostra vita che non sia raggiunto dalla promessa di Dio, dalla rivelazione dell’amore di Dio.

Non per nulla di questo tempo breve la dinamica significativa è espressa dalla conversione, che però oramai comporta la sequela di Gesù. Ciò che appunto Marco sottolinea con la chiamata dei discepoli, figura di ogni vocazione al seguito di Gesù. Seguire il Signore fidandosi della sua promessa e lasciandosi alle spalle tutto il resto è una grande avventura che una vita intera non basta ad esaurire. Lo è stato per Pietro ed Andrea, per Giacomo e Giovanni, per gli apostoli, per i discepoli come lo è per tutti i credenti in Cristo, di tutti i tempi.

Del resto è assai caratteristico che nel vangelo la conversione sia espressa dall’immagine del seguire Gesù. A dire il vero, spesso il testo evangelico non parla di seguire, ma più direttamente di andare dietro, di stare dietro, di mettersi dietro a Gesù. In questo, si può ancora ascoltare l’eco delle parole di Dio a Mosè: mi si può vedere solo di spalle. Quando Pietro, spaventato della predizione della passione da parte di Gesù, cercherà di distoglierlo da quella strada, si sentirà dire: stai dietro, poniti dietro, non volere stare davanti! (cf. Mc 8,37). Alla fine del vangelo di Giovanni, dopo che Gesù gli ha predetto che avrebbe sofferto il martirio per lui, Pietro si sente ancora dire: vienimi dietro. In quel venire dietro a, in quel camminare dietro a sta il godimento della promessa di Dio che ha raggiunto l’uomo. Non sta tanto lo sforzo di seguire il Signore, ma la percezione di una rivelazione che si dispiega al cuore dell’uomo. A quella percezione tende la conversione, se vogliamo che si traduca in speranza di vita.

Se il compito degli apostoli sarà quello di annunciare al mondo il vangelo di Dio, dire di Gesù che annuncia il vangelo di Dio significa voler collocare i discepoli nella continuità con Gesù. Così, cantare con il salmo responsoriale: “Fammi conoscere, Signore, le tue vie”, significa prima di tutto domandare che anche al nostro cuore si sveli la possibilità di conoscere l’amore salvatore di Dio in Gesù; significa domandare di cogliere la rivelazione di Gesù e indurci a seguirlo come gli apostoli in modo da godere della potenza di salvezza del suo vangelo, potenza che non concerne soltanto noi, ma tutto il mondo. Gli apostoli non sono stati chiamati semplicemente alla sequela di Gesù, ma alla sequela di Gesù che è inviato a portare a tutti la salvezza e la consolazione; è il senso di quel: vi farò pescatori di uomini. Per gli apostoli come per noi, seguire Gesù dice soprattutto tutta l’intimità di vita con lui che ci ha conquistati, intimità così incontenibile che non può ripiegarsi su se stessa ma continuamente si traduce in condivisione della misericordia di Dio per l’umanità.