Terzo ciclo
Anno liturgico B (2008-2009)
Tempo Ordinario
29a Domenica
(18 ottobre 2009)
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Is 53,2-11; Sal 32;
Eb 4,14-16;
Mc 10,35-45
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Il brano di vangelo di oggi fa seguito
al terzo annuncio della passione, il più circostanziato. La richiesta dei figli
di Zebedeo, Giacomo e Giovanni, acquista tutto il suo
significato dentro quella circostanza. E tutta la liturgia di oggi si premura
di incastonare la figura del Figlio dell’uomo che “non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita
in riscatto per molti”. La prima lettura di Isaia consacra la sofferenza
del Figlio dell’uomo nel progetto di Dio per gli uomini che non vuole lasciare
lontani da sé. Il salmo responsoriale, il salmo 32, legge la profezia di Isaia
in questo modo: se su di noi è l’amore del Signore, non ci saranno più contese
e divisioni tra noi, perché i cuori saranno conquistati alla sua gloria, cioè
allo splendore del suo amore, che si rivela nel Cristo che patisce e muore per
noi. E se questo è il progetto di Dio, non c’è ‘pensiero ostile’ o forza
contraria che potrà prevalere. È lo stesso salmo che viene proclamato nella
festa del S. Cuore.
La lettura più appropriata del brano
evangelico la formula Luca 22,27 quando, dopo l’annuncio del tradimento del
Maestro nell’ultima cena, viene riportata la discussione degli apostoli su chi
fosse tra loro da considerare più grande. La risposta di Gesù ricalca la risposta
ai figli di Zebedeo. Il contesto della cena pasquale,
nell’imminenza ormai prossima della passione, è dunque il contesto più
appropriato per la comprensione delle parole di Gesù, unitamente al passo di Mt
26,28 con il riferimento al sangue dell’alleanza versato per il perdono dei
peccati.
Riprendiamo ora il passo di Marco. La
richiesta dei due discepoli è seria, non proviene da cuori vanesi o boriosi. È in
gioco il senso stesso della loro vita, il senso della loro sequela, il senso di
quell’evangelo che li ha toccati profondamente e che nella persona del Maestro
ha concentrato le tensioni dei loro cuori. I due discepoli, insieme a Pietro,
sono i prescelti per ogni circostanza speciale, dal Tabor
al Getsemani. E Gesù riconosce la loro lealtà. Sa che
sono disposti a seguirlo fin nella sua passione [di fatto Giacomo morì martire
verso l’anno 44 a Gerusalemme, secondo At 12,2, mentre la tradizione che
fondandosi su questo passo fa martire Giovanni è chiaramente posteriore. Anche
in questo risalta la ‘misteriosità’ della parola di Dio: in che senso Giovanni
ha bevuto il calice della passione, se non è morto martire?]. Eppure, la loro
richiesta è inaccoglibile e non certo per evitare la
gelosia degli altri. A cosa mirano dunque le parole di Gesù?
Gesù rifiuta ogni collegamento tra il
desiderio di gloria e la sua sequela. Quel nesso è custodito da Dio solo. Non
che non esista, ma guai a volerlo perseguire, perché ne scaturirebbe un
fraintendimento colossale per i nostri cuori. La ragione profonda credo risieda
nel fatto che ad attirare a Gesù è il Padre: “Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato”
(Gv 6,44). Essere mossi dal Padre significa
condividere l’amore di benevolenza che in quel Figlio ci raggiunge e ci fa
riposare. Non si può desiderare altro. Volere altro significa uscire da quella
dinamica e fallire il compimento dei desideri del cuore. A questa ‘assolutezza’
Gesù richiama e rimanda.
Del resto si concatena bene a questa
anche l’altra risposta di Gesù all’irritazione dei discepoli contro i due figli
di Zebedeo: “…chi vuole diventare
grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà
schiavo di tutti. Anche il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi
servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti”.
Perché voler essere grandi comporta dover servire? Di nuovo si è rimandati al
mistero del Padre che attira al Figlio. Servire significa compiere quella
‘volontà di benevolenza’ del Padre nei confronti degli uomini che in Gesù si
realizza perfettamente. Compiere la volontà di benevolenza significa far
risplendere, comunque, in qualsiasi condizione, quell’amore di Dio per gli
uomini in cui si radica la loro dignità e la loro libertà. Si tratta di
realizzare una grandezza che sa liberare la dignità degli uomini rivelando loro
di essere non soltanto oggetto di amore, ma soggetti di amore. Il servire
procura questo riscatto: libera la dignità degli uomini e fa risplendere la
presenza del Signore.
E se non porta lì, allora vuol dire che
il servire messo in atto è ancora un servire troppo umano, sentimentale
generosità o semplice incapacità di affermazione. Quando Gesù chiede ai figli
di Zebedeo: ‘potete
bere il calice che io bevo?’ è come se chiedesse: potete stare solidali con
il desiderio di Dio verso gli uomini e contemporaneamente stare solidali con
l’umanità di modo che il suo amore risplenda liberatore per voi stessi come per
loro? Questa è la posta in gioco del servire. E questa è la posta in gioco
della grandezza secondo Dio, che compie, per noi e per tutti, insieme, le
attese dei cuori.
Non so se è corretto far rimarcare un
certo dettaglio nel brano di Marco. Rispetto alla grandezza vale il servizio
‘vicendevole’ (nel testo: sarà vostro
servitore), rispetto al primato vale l’essere ultimi nel senso di essere
schiavi di tutti (nel testo: sarà schiavo
di tutti). Nell’ultima cena, Gesù si muove non solo come servitore, ma come schiavo e in questo rivela il segreto di Dio per l’uomo. Se l’uomo
potesse condividere quel segreto, si troverebbe a muoversi come Gesù e vivrebbe
la sua vita nella dinamica di liberare la dignità degli uomini in modo che sia
esaltato l’amore di Dio per loro.