Terzo ciclo
Anno liturgico B (2008-2009)
Tempo Ordinario
22a Domenica
(30 agosto 2009)
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Deut 4,1-8; Sal 14;
Gc 1,17-27;
Mc 7,1-23
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Si riprende la narrazione del vangelo
di Marco là dove era stata interrotta per far posto al lungo cap. 6 di Giovanni
delle domeniche precedenti. Se, con la moltiplicazione dei pani, il soggetto
interessato era la folla, ora torna in scena il gruppo dei farisei. L’oggetto
del contendere riguarda la tradizione
degli antichi, cioè quel complesso di norme che garantivano la ‘santità’
della vita che ad ogni pio ebreo stava a cuore. Se confrontiamo il passo di
Marco con il corrispondente passo di Matteo 15,1-20, notiamo che la risposta di
Gesù non riguarda né l’approvazione o meno di quelle norme né la loro
abolizione, ma la radice di senso che comportano e che spesso gli uomini
stravolgono.
Nel libro del Deuteronomio Mosè
avverte: “Ora, Israele, ascolta le leggi
e le norme che io vi insegno, affinché le mettiate in pratica, perché viviate
ed entriate in possesso della terra che il Signore, Dio dei vostri padri, sta
per darvi. Non aggiungerete nulla a ciò che io vi comando e non ne toglierete
nulla; ma osserverete i comandi del Signore, vostro Dio, che io vi prescrivo”.
Come Gesù fa ben risaltare nel brano evangelico di oggi, il guaio proviene dal
fatto che la nostra pratica proviene spesso, non dal comandamento di Dio, ma da
tradizioni, atteggiamenti, pensieri, imposizioni, obblighi, impegni,
esclusivamente ‘umani’, che comunque non hanno a che vedere con il vero e
proprio comandamento di Dio. Così, la promessa di trovare la vita ed entrare in
possesso della terra del cuore, cioè gustare il mistero del regno dei cieli
svelato dal Signore Gesù Cristo, non si compie mai. Quella promessa è abbinata
solo alla pratica del comandamento di Dio, non ad altro. Ben a proposito,
rispetto al comandamento di Dio, la Scrittura dice: non aggiungere, né togliere.
Siamo accusati di non mettere in pratica il comandamento non solo quando ci
rifiutiamo di eseguirlo, ma anche quando preferiamo un nostro ‘comandamento’ a
quello di Dio. Se è abbastanza facile capire quando ci rifiutiamo di compiere
un comandamento, non lo è quando in qualche modo ci imponiamo un
‘comandamento’, quando cioè crediamo di fare qualcosa di bene, ma non secondo
Dio. La tradizione midrashica ebraica incastona in
questo contesto l’occasione del peccato di Adamo ed Eva. Se si leggono attentamente
i primi capitoli della Genesi si noterà l’aggiunta di Eva al comandamento di
Dio. Dio dice: “…dell’albero della conoscenza del bene e del male
non devi mangiare, perché, nel
giorno in cui tu ne mangerai, certamente dovrai morire”. Ma Eva al serpente
risponde: “…del frutto dell’albero che sta in mezzo al
giardino Dio ha detto: Non dovete mangiarne e non lo dovete toccare, altrimenti morirete”. Eva aveva
provato a toccare il frutto proibito, ma non era successo niente. Quindi
conclude: allora Dio non ha detto il vero, ha ragione il serpente. Allora posso
mangiare per avere la conoscenza…! Ed incontra la
morte. Basta pensare alla trama dei ricatti affettivi che facciamo valere
vicendevolmente per capire quanto sia pernicioso aggiungere al comandamento di
Dio!
L’aspetto misterioso del comandamento
di Dio deriva dal fatto che la parola di Dio cela la rivelazione del Suo volto
al nostro cuore abilitandolo a vivere in pienezza la sua vocazione all’umanità.
Ogni comandamento ha quel contesto di applicazione e se o quando la vocazione
all’umanità non si compie, allora vuol dire che l’abbiamo stravolto. Per questo
la logica dell’intelligenza della parola di Dio capovolge la logica normale
della comprensione. L’atteggiamento, davanti al comandamento, è quello invocato
nella colletta: “O Dio, nostro Padre, ... suscita in noi l’amore per te e
ravviva la nostra fede”, per cui, davanti alla parola di Dio, siamo invitati
subito a metterla in pratica al fine di cogliere la rivelazione di Dio che si
svela al nostro cuore. Il primo moto è affettivo, non intellettivo, nel senso
che prima devo poter cogliere l’intenzione segreta di Dio che a me si rivolge
fidandomi del suo amore. È per questo che, continuando la lettura del brano del
Deuteronomio, al v. 9, si proclama: “Ma
bada a te e guardati bene dal dimenticare le cose che i tuoi occhi hanno visto,
non ti sfuggano dal cuore, per tutto il tempo della tua vita”. L’accento è
così posto sul fatto di ‘far memoria delle parole che si sono viste’ (il testo
dovrebbe essere tradotto infatti più letteralmente: ‘guardati bene dal
dimenticare le parole che i tuoi occhi hanno visto’).
L’accento cade sulla sincerità del cuore che si trova dentro una storia d’amore
che lo precede e l’accompagna e a cui risponde e non sulla sua generosità. Cosa
significa ‘vedere’ le parole? Significa aver accolto la parola ed essere
avanzati in quella realizzazione di umanità che fa risplendere la prossimità di
Dio.
La liturgia ha ben collocato, a
commento del brano del Deuteronomio, il salmo 14, il quale riassume la
sincerità del cuore davanti a Dio nell’agire con giustizia e nel parlare
lealmente, cioè nel non danneggiare il prossimo, noi stessi compresi, né coi
fatti né con la lingua (quello che i nostri Padri chiamavano: non ferire mai la
coscienza del prossimo, né coi fatti né con le parole né con i pensieri né con
i sentimenti). Questo vale assai di più di qualsiasi pratica umana, pur
grandiosa, perché in questo risplende la vicinanza di Dio.