Terzo ciclo

Anno liturgico B (2008-2009)

Tempo Ordinario

 

20a Domenica

(16 agosto 2009)

 

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Prov 9,1-6;  Sal 33;  Ef 5,15-20;  Gv 6, 51-58

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Continua la proclamazione del cap. 6 di Giovanni. Ma oggi la liturgia ci addita una particolare finestra di luce per cogliere il senso del discorso-rivelazione di Gesù. ‘Non siate stupidi!’, ci ripetono la prima e la seconda lettura: “abbandonate l’inesperienza” (Pro 9,6); “non siate sconsiderati” (Ef 5,17). L’intelligenza della vita! Appare desiderabile, chi non la vuole? Non è segreta, non è inaccessibile, non è complicata, non richiede studi particolari. Eppure, non è proprio a portata di mano. E nonostante tutto, il cuore la gradirebbe sempre.

Se la gente era rimasta perplessa davanti alla proclamata provenienza celeste di Gesù, ora la domanda si fa veramente drammatica: “Come può costui darci la sua carne da mangiare?”. È  evidentemente necessario un forte supplemento di intelligenza! Il discorso di Gesù è impostato su due verbi: mangiare e dimorare. Il mangiare è in funzione del dimorare. Lo stesso modo di parlare Gesù lo userà nell’Ultima Cena insistendo però assai di più, allora, sul dimorare: “Se uno mi ama ... prenderemo dimora presso di lui”; “Rimanete in me e io in voi.”; “Rimanete nel mio amore.” (cf. Gv capp. 14-16). Come rimanere in Gesù senza assumere Gesù? E dove più concretamente, più realmente, più intimamente assumiamo Gesù se non nell’Eucaristia? É appunto questo il mistero che vuole illustrare Gesù: se non assumete me, non potrete essere in me e se non sarete trovati in me, non potrete riuscire graditi a Dio. Quando mangiamo il pane eucaristico, in realtà non siamo noi a mangiare il Corpo di Gesù, ma è Lui ad assimilarci al suo Corpo, ad assumerci in Sé. Come fa dire a Gesù una bella preghiera di Lorenzo Scupoli (1530-1610): “Io voglio da te, che niente vogli, niente intenda, niente veda fuori di me e della mia volontà, acciocché io in te tutto voglia, pensi, intenda e veda in modo che il tuo niente assorto nell’abisso della mia infinità, in quella si converta, così tu sarai in me pienamente felice e beata, e io in te tutto contento”. È la consumazione di quella ‘vita in Cristo’ in cui consiste lo scopo della comunione eucaristica e a cui tende ogni sforzo ascetico e l’anelito di ogni preghiera.

Diventa vero anche per noi quello che Gesù dice: “Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me”. Vale a dire: vivrà della stessa vita di cui io vivo, opererà secondo lo stesso amore per il quale io opero. La preghiera dopo la comunione della messa di oggi lo ricorda molto bene: “O Dio, che in questo sacramento ci hai fatti partecipi della vita del Cristo, trasformaci a immagine del tuo Figlio, perché diventiamo coeredi della sua gloria nel cielo”. Diventare partecipi della vita del Cristo significa somigliargli, farsi immagine sua, rivestirsi dei suoi sentimenti, vivere della sua stessa umanità sulla quale risplende, imperitura, la gloria dell’amore di Dio per gli uomini. Significa incarnare la Presenza di Dio in mezzo al suo popolo. Perché, per la nostra stoltezza, non ritenerci ‘degni’ dell’offerta di Dio, del suo mistero?

Le condizioni ce le elenca la lettera agli Efesini. Purtroppo le Bibbie moderne come anche la lettura proclamata nella liturgia di oggi suddividono l’unico pensiero del passo in due distinte sezioni. Il passo, invece, andrebbe letto unitariamente, come si trova espresso in greco, per non perderne la potenza. Paolo elenca le cinque condizioni che aprono al mistero di Dio e che io riassumerei in cinque aggettivi: intelligenti, spirituali, oranti, riconoscenti, sottomessi (aggiungendo al passo letto il versetto successivo: “sottomessi gli uni agli altri nel timore di Cristo”). Non si può pretendere di essere intelligenti senza essere spirituali, né spirituali senza essere oranti, né oranti senza essere riconoscenti, né riconoscenti senza essere sottomessi. Si tratta di avere la intelligenza di Dio, la intelligenza della sua volontà. Non pensiamo però che si tratti di scoprire cosa Dio vuole da noi; piuttosto, di scoprire quanto bene Dio ci vuole, tutto il Bene che sta nascosto nelle sue parole, nelle sue iniziative, nel suo Figlio che per noi si fa cibo e bevanda di vita. Per questo Paolo parla di imparare a essere ‘pieni di Spirito Santo’ e indica tre vie: la preghiera, il rendimento di grazie, lo stare sottomessi gli uni agli altri. Il dono dello Spirito è il contenuto della preghiera nel senso di imparare a percepire la volontà di Bene di Dio per noi; il rendere grazie esprime l’esperienza della percezione di quel Bene per noi e lo stare sottomessi indica il radicamento di quel Bene nel cuore da risultare il tesoro più prezioso. Ma tra il rendere grazie e lo stare sottomessi c'è tutto il tragitto del cammino da fare. Se si rende grazie senza stare sottomessi si è boriosi; se si è sottomessi senza rendere grazie si è servili. Invece, il segno di un cuore che adora sinceramente il suo Dio è proprio il fatto di rendere continuamente (= sempre, in ogni circostanza, comunque) grazie e di stare sottomessi (ai propri fratelli, ma anche alla vita in generale) portando dolce pazienza con il tempo, le cose, le circostanze, il nostro cuore e i nostri difetti.

Ancora un’ultima osservazione. Dimorare allude alla dinamica di un amore che diventa radice di vita, che si fa vita di amore partecipando alla stessa potenza di amore che qualifica la vita del Figlio dell’uomo, splendore dell’amore di Dio. E così, se l’uomo vuole la vita e dimora nella vita, non può non viverla che in forza e per estendere a tutti quell’amore che gli si è rivelato in quel Gesù, che ha accolto nel suo cuore come la parola definitiva di Dio per l’uomo, sigillo di Bene e di Verità, principio di vita vera che riempie il suo desiderio.