Terzo ciclo
Anno liturgico B (2008-2009)
Tempo Ordinario
13a Domenica
(28 giugno 2009)
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Sap
1,13-15; 2,23-24; Sal 29; 2Cor 8,7-15;
Mc 5,21-43
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Il brano evangelico di oggi riporta due
miracoli di Gesù, uno incastonato nell’altro. Ambedue i richiedenti, la prima
nel segreto del suo cuore, il secondo con l’insistenza aperta, cercano un contatto con Gesù: l’emorroissa,
credendo che se riuscirà a toccare anche solo il vestito di Gesù, potrà essere
guarita; il capo della sinagoga, credendo che se Gesù toccherà sua figlia
questa guarirà. In gioco è la fede in Gesù come la rivelazione del mistero
della sua persona.
Se entriamo nel brano evangelico
attraverso la porta della prima lettura e del canto al vangelo tutto acquista
un sapore diverso. I primi due capitoli del libro della Sapienza oppongono
l’agire di Dio per la vita e la scelta degli empi per la morte. Il ragionamento
degli empi è introdotto con le parole: “Dicono
fra loro sragionando” e si conclude con l’annotazione: “Hanno pensato così, ma si sono sbagliati; la
loro malizia li ha accecati. Non conoscono i misteriosi segreti di Dio...”.
I segreti di Dio però non sono semplicemente quelli che vengono enunciati nel
brano della Sapienza: la ricompensa del giusto e l’immortalità dell’uomo. Un
particolare è assolutamente illuminante. Il ragionamento degli empi è ripreso
nel vangelo di Matteo alla crocifissione di Gesù quando i capi: “... facendosi beffe di lui dicevano: ‘Ha salvato
gli altri e non può salvare se stesso! È il re d’Israele; scenda ora dalla
croce e crederemo in lui. Ha confidato in Dio, lo liberi lui, ora, se gli vuol
bene” (Mt 27,42-43). I segreti di Dio riguardano quel Figlio, venuto perché
gli uomini abbiano la vita e la vita in abbondanza. Come dice il canto al
vangelo: “Il salvatore nostro Gesù Cristo ha vinto la morte e ha fatto
risplendere la vita per mezzo del Vangelo” (2Tm 1,10). Qui Paolo, alla fine
della sua vita, nell’imminenza del martirio, sintetizza il senso del vangelo
nello splendore della vita che il Signore Gesù ha fatto scaturire per l’uomo
riscattandolo dalla morte. A dire il vero, il testo greco non riporta ‘ha
vinto’, ma, in contrapposizione al ‘fece risplendere’, dice con più precisione
‘ha reso inefficace la morte’, vale a dire ha svigorito la morte di tutto il
suo potere, potendola ormai patire senza subirne la condanna. Ha lo stesso
valore dell’espressione: satana gli viene contro con tutto il suo potere ma non
trovando nulla di suo in lui non lo può distogliere dal suo compito di mostrare
quanto è grande l’amore di Dio per gli uomini e quanto lui ama il Padre (cf. Gv
14,30-31). È vinta definitivamente l’invidia del diavolo e il cuore dell’uomo
può tornare a splendere dell’amore di Dio che conferisce la vita.
I miracoli, narrati nel brano di oggi
con tale intensità da assumere valenze simboliche precise, alludono alla
‘potenza’ del Figlio, testimone dell’amore di Dio per l’uomo, amore che farà
risplendere proprio nel suo essere innalzato sulla croce, quando il potere
della morte sarà esautorato. I miracoli sono l’occasione di rivelazione del
Figlio di Dio, rivelazione che necessita, per esplicitare la sua potenza nel
cuore dell’uomo, della fede.
L’emorroissa, la donna che per la sua
malattia era dichiarata immonda (cf. Lev 15,25-27), nella calca generale, è
l’unica a toccare Gesù. Gesù se ne accorge perché chi lo tocca nella fede
permette alla sua potenza salvatrice di operare. Così lui che è il Santo santifica,
lui che è il Salvatore salva, lui che è il Potente soccorre e guarisce. Chi non
ha vivo il senso della propria immondezza, della propria miseria, non ha fede
sufficiente per ottenere salvezza. Il particolare del mantello (o della
frangia, come nel passo parallelo di Matteo) ha fatto pensare al vestito del
Verbo che sono le parole della Scrittura. Ci si può accalcare attorno alla
Scrittura, ma non succede nulla, come non successe nulla alla folla dei
discepoli che pressava il Maestro lungo la strada. Se però ci si accosta anche
a una sola parola con fede, allora ne scaturisce la potenza che racchiudeva e
l’anima è guarita. E la parola come il suo corpo sono lì (pensiamo alla
celebrazione eucaristica) proprio nell’attesa di lasciar uscire la potenza che
racchiudono e rivelare l’amore per cui è stata proferita ed è stata inviata.
Gesù resta nell’attesa di dirci: la tua fede ti ha salvato, va’ in pace e sii
guarito dal tuo male!
Se pensiamo ora alla fede del capo
della sinagoga, ne possiamo intuire la grandezza allorquando i messaggeri da
casa gli mandano a dire che tutto è inutile: sua figlia è morta. Lui aveva
insistito con Gesù perché venisse presto a casa sua: temeva l’irreparabile.
Gesù acconsente, ma in un certo senso se la prende comoda. Tutto l’episodio
dell’emorroissa, agli occhi del capo della sinagoga, deve essere suonato come
una terribile perdita di tempo prezioso, come un penoso dover sostare. Ma Gesù
conduce la scena e conduce anche il suo cuore e lo invita a continuare a credere.
Di lui non viene riferito più nulla perché l’essenziale è stato detto: ha
continuato a credere. Per quella fede Gesù ha operato, Gesù si è manifestato.
Quella fede Gesù ha nutrito. E se alla fine comanda di non divulgare il fatto
vuol dire che solo nella e alla fede Gesù può apparire per quello che è. Se
Pietro, come del resto tutti i discepoli, trova indigeribili le parole di Gesù
ma dice: “Tu hai parole di vita eterna”
(cf. Gv 6,68), vuol dire che il suo cuore sta comunque con lui nell’attesa che
lui stesso gli sveli il senso di ciò che ora non comprende o che fraintende.
Della fede di Pietro, dell’emorroissa e di Giairo abbiamo bisogno.