Terzo ciclo
Anno liturgico B (2008-2009)
Tempo Ordinario
12a Domenica
(21 giugno 2009)
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Gb
38,1-11; Sal 106; 2Cor 5,14-17; Mc 4,35-41
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La liturgia collega l’immagine di Gesù
che comanda al vento e al mare con quella di Dio che parla a Giobbe in mezzo
all’uragano. L’esito è il medesimo. Non viene sottolineata semplicemente la
potenza di Dio: sarebbe banale l’esibizione di potenza da parte di Dio che
domina il mare, pur così terribile. Se Dio parla di mezzo al turbine a Giobbe
(siamo alla fine del libro, quando Dio ormai ha conquistato Giobbe all’incontro
con lui e lo elogia davanti ai suoi amici perché ha pensato più rettamente di
loro) è per introdurlo al mistero di un incontro che apre al senso del vivere.
La vita è assai più misteriosa di quanto siamo portati ad ammettere. Così Gesù,
che fa come finta di dormire sulla barca nel lago in burrasca, non è destato
dai discepoli per lasciarli a bocca aperta davanti al suo potere sul mare.
Il passo comporta più livelli di
lettura. Si inserisce anzitutto nella storia dei discepoli. Questi hanno
accettato di stare con il loro Maestro, lo stanno imparando a conoscere e Gesù
si premura di introdurli poco a poco nel suo mistero. Nella stessa giornata, i
cui eventi coprono il racconto dei capitoli 4 e 5 di Marco, sono riunite sia la
proclamazione delle parabole sul regno che la realizzazione di alcuni miracoli.
Quella parola di Gesù che illustrava la realtà del regno di Dio nelle parabole
e nelle spiegazioni private ai suoi discepoli era la medesima che aveva il
potere di calmare la tempesta, guarire l’indemoniato e l’emorroissa,
risuscitare la figlia di Giairo. Di fronte a quelle parole e a quella parola
potente, i discepoli non possono non domandarsi, profondamente toccati nel loro
intimo: davanti a chi ci troviamo? Chi è dunque costui? Cosa sta succedendo? È
il primo significato del brano. Il canto al vangelo ci introduce alla
condivisione dei sentimenti dei discepoli riportando l’esclamazione della gente
di fronte al miracolo di Gesù che risuscita il figlio della vedova di Nain: “Un
grande profeta è sorto tra noi, e Dio ha visitato il suo popolo” (cf. Lc 7,16)
e prelude allo stupore dei commensali di fronte al comportamento di Gesù che
rimanda la peccatrice perdonata nei suoi peccati: “Chi è costui che perdona
anche i peccati?” (cf. Lc 7,49).
Ma il brano si inserisce anche nella
storia di Gesù. Lui dorme sulla barca in mezzo alla tempesta e viene svegliato
dai discepoli spaventati. L’annotazione non ha semplicemente il sapore di
cronaca vissuta, ma di accesso a un mistero più profondo. Il mare in tempesta
assume il valore simbolico delle potenze del male che Dio domina. Quando Dio
svelerà tutta la sua potenza contro il male? Quando si addormenterà sulla croce
e attraverso quel ‘sonno’ sconvolgerà il regno degli inferi. La morte in croce
di Gesù viene spesso percepita come un sonno perché poi si sveglia, perché poi
risuscita e su di lui la morte non avrà più alcun potere.
C’è pure un’allusione alla storia dei
credenti, che si sentiranno molte volte oggetto del rimprovero, amorevole, del
Signore: “Perché siete così paurosi? Non
avete ancora fede?”. Potremmo rendere: perché avete così paura del male?
Oppure: forse che non vi fidate di me? Temete che vi inganni? Gesù è amorevole
nel fare il rimprovero perché sa che il cuore dell’uomo, per quanto desideri la
vita, ha paura di viverla temendo l’inganno e che occorre un lungo tragitto per
collocarsi stabilmente nella fiducia. È la nostra storia.
Di fronte alla scena evangelica,
possiamo anche farci un’ulteriore domanda: perché i discepoli hanno avuto
paura? Detto in altre parole: quando il male comincia a ghermirci? Sappiamo che
il male serpeggia dentro di noi e non è un problema, sappiamo che ci lambisce;
ma quando comincia ad avere la meglio su di noi? Un particolare del racconto ci
può illuminare. I discepoli hanno dimenticato che quella traversata l’aveva
ordinata Gesù. È Gesù che ordina: “Passiamo
all’altra riva”. Nel passo parallelo di Matteo è tanto evidente che si
dice: “Salito sulla barca, i suoi
discepoli lo seguirono” (Mt 8,23). Tutto ciò che quella traversata comporta
sta dentro il comando di Gesù. Se i discepoli non avessero completamente
dimenticato che era stato Gesù a chiedere loro di iniziare la traversata,
probabilmente non si sarebbero lasciati sorprendere dalla paura, che li ha
fatti sentire soli, in balia delle onde. La fede è appunto percezione di
compagnia, una compagnia di alleanza. Non che l’uomo non provi più paura di
fronte al male, ma se la vive in compagnia del proprio Signore è tutt’altra
cosa. Così è la nostra vita, una traversata tra i marosi, all’interno e
all’esterno. Vivere la vita dentro un’obbedienza a un’alleanza che sperimentiamo
a nostro favore significa allora non permettere al male di ghermirci, significa
non essere in balia degli inevitabili marosi. Sarebbe il senso della scena
nella sua valenza ecclesiale: la barca è la chiesa che attraversa il mare di
questo mondo in subbuglio; sebbene Gesù dorma, è sulla barca e la fede lo
risveglia e le onde non l’affondano.