Terzo ciclo
Anno liturgico A (2007-2008)
Tempo di Avvento
1a Domenica
(2 dicembre 2007)
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Is
2,1-5; Sal 121; Rm 13,11-14;
Mt 24,37-44
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Con l’Avvento inizia un nuovo ciclo
liturgico. Proprio alla sua apertura, la liturgia suggerisce subito una visione
spirituale del tempo, non più concepito semplicemente come una successione
lineare di istanti, ma essenzialmente come un riverbero dell’eterno dove il
tempo ha senso solo nel suo riferimento ad un mistero che vi si dispiega. Il
periodo dell’Avvento ha come scopo diretto la preparazione alla festa della
nascita di Gesù, ma guarda a quel mistero con un movimento che parte dal futuro
ritornando indietro. La prima domenica mostra la visione del Cristo che verrà
alla fine dei tempi; la seconda e la terza domenica mettono in scena la
testimonianza di Giovanni Battista riguardo a Gesù all’inizio della sua
predicazione, per arrivare, nella quarta domenica, a riconoscere in quel
Bambino nato a Betlemme proprio colui di cui i profeti parlavano e che sarà,
come Figlio dell’uomo, il giudice supremo.
La nota caratteristica della liturgia
dell’avvento è l’invito alla vigilanza. Ciò significa che il mistero della
venuta di Gesù non si presenta con evidenza. È un mistero di cui dobbiamo
imparare a riconoscere i contorni, le linee di sviluppo, il senso. Si tratta di
una venuta di Gesù nella parola: è la parola che presiede alla creazione e che
costituisce il senso segreto delle cose, come anche è la parola che manifesta
il volere di bene di Dio per l’uomo comunicandogli la sua santità; di una
venuta nella carne: la parola, per mezzo della quale le cose furono create e fu
conosciuto il volere di bene di Dio, diventa essa stessa visibile e prende
forma e volto umani, a sottolineare la prossimità di Dio con l’uomo e dell’uomo
con Dio; di una venuta nella gloria quando, ormai dispiegato tutto il mistero
dell’amore di Dio per l’uomo, tutti lo riconosceranno e ne godranno lo
splendore.
Il mistero si regge insieme e tutti e
tre gli aspetti si richiamano. Ma la percezione che di quel mistero noi
abbiamo, nel tempo, è appena percettibile. Siamo invitati a diventare più
percettivi, più sensibili al suo splendore. Prendiamo la prima lettura, tratta
dal profeta Isaia. Il profeta parla della fine, parla del monte Sion e di
Gerusalemme, parla del dono della pace; il tutto da afferrare nella luce di
Dio. La visione profetica annuncia per il futuro quello che costituisce il
sogno per il cuore dell’uomo. E se l’annuncia già ora, vuol dire che l’uomo può
incominciare a percepirne il mistero e ad orientare la sua vita in tal senso.
Il salmo così appunto interpreta e invita a muovere i propri passi verso la
casa del Signore, che diventa l’orientamento del cammino della vita e motivo di
responsabilità nell’agire.
È la lettura di san Paolo a indicarci
la natura di quella ‘luce’ che ci fa intravedere il mistero in atto: “Rivestitevi invece del Signore Gesù Cristo e
non seguite la carne nei suoi desideri”. Come anche altrove dice: “Abbiate in voi gli stessi sentimenti che
furono in Cristo Gesù” (Fil 2,5). Sono quelle ‘le armi della luce’ da
indossare, per attraversare la storia e realizzare la nostra vocazione
all’umanità come prossimità di Dio all’uomo e dell’uomo a Dio.
Il brano di vangelo, invece, invita
alla vigilanza contando sul fattore sorpresa, con un ragionamento del tipo: se
riconoscere la venuta di Gesù è essenziale al nostro vivere, dato che non
verrete preavvertiti, allora state vigili. Il non essere preavvertiti allude
non tanto alla possibile fine del tempo, ma al fatto che non siamo padroni del
tempo; l’essere vigili, al fatto che ogni tempo della nostra vita si può aprire
al mistero di Dio che viene, perché lui non è impedito da nulla. Allora, perché
non cercare di tenere aperto ogni tempo a che la venuta del Signore si riveli
al nostro cuore? In effetti, l’immagine del ladro che viene inaspettato va
unita all’altra, che leggiamo nell’Apocalisse: “Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre
la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me” (Ap 3,20). Quel
‘ladro’ è poi il Signore che sta alla porta e bussa, vale a dire che sempre
cerca l’accesso al nostro cuore finché gli apra la porta e possa condividere la
sua gioia. Dietro l’urgenza del tempo sta il desiderio di Dio di essere in
compagnia degli uomini e dietro il desiderio di Dio, quando lo percepiamo, c’è
il riconoscimento che i sogni del nostro cuore parlano di quel desiderio.
Pregare con il canto al vangelo:
“Mostraci, Signore, la tua misericordia”, significa cogliere l’eco di quel
desiderio di Dio che intende come germogliare dentro il nostro cuore. Fare
esperienza della sua misericordia significa accorgersi e accompagnare la
fioritura di quel germoglio. Germoglio che, come fiorisce dall’umanità della
Vergine perché tutti ne possiamo contemplare la bellezza, così anche fiorisce
dal cuore di ciascuno perché la nostra umanità ritrovi lo splendore della sua
bellezza.
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Terzo ciclo
Anno liturgico A (2007-2008)
Tempo di Avvento
Immacolata Concezione
(8 dicembre 2007)
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Gn
3,9-15.20; sal 97; Ef 1,3-6.11-12; Lc 1,26-38
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“Ave,
piena di grazia” è il saluto dell’angelo Gabriele a Maria. La festa di oggi
fa presagire quanto siano insondabili i confini di questa sua pienezza di
grazia: unica tra tutte le creature non è toccata da ombra di peccato, fin dal
suo concepimento, fin dal suo primo istante di esistenza. Dire che non ha ombra
di peccato non è che la modalità per negativo di dire quanto sia coperta
dall’ombra dello Spirito Santo: “Lo
Spirito Santo scenderà su di te, su te stenderà la sua ombra la potenza
dell’Altissimo…”.
La liturgia oggi non fa che proclamare
l’insondabile e straordinaria volontà di benevolenza di Dio per gli uomini, in
tutto lo splendore d’amore che comporta, che,
per dirla con l’espressione di Paolo agli Efesini, esprime tutto ‘il
beneplacito della sua volontà’. Se leggiamo la festa di oggi sulla falsariga
dell’inno di Paolo, nel capitolo primo della sua lettera agli Efesini, potremo
comprendere più adeguatamente sia l’inno del magnificat pronunciato dalla
Vergine che la ragione della profezia rivoltale di essere ‘la benedetta tra
tutte le donne’. Dice Paolo: “In lui
siamo stati fatti anche eredi, essendo stati predestinati secondo il piano di
colui che tutto opera efficacemente, conforme alla sua volontà, perché noi
fossimo a lode della sua gloria, noi, che per primi abbiamo sperato in Cristo”.
Vediamo in lei la prima che ha sperato in Cristo e che perciò è stata fatta a
lode della sua gloria, vale a dire adatta a rivelare la sua gloria, adeguata a
portare la sua gloria. E se la gloria non è che lo splendore del suo amore per
gli uomini, allora è lei colei che più di tutti l’ha fatto risplendere con il
portare in grembo, partorire, custodire, condividere il mistero di quel Gesù,
suo Figlio, dato per noi, a rivelazione dell’amore di Dio per gli uomini. La
pienezza di grazia della Vergine è in funzione di quella rivelazione, che
costituisce la ragione per cui lei è chiamata a dare carne a colui nel quale
riposa il sommo beneplacito, la totale compiacenza di Dio, come sarà dichiarato
espressamente nel momento del battesimo e della trasfigurazione del Signore
Gesù. È lei che può esprimere in tutta la sua profondità ed esultanza
quell’amore di benevolenza di Dio che salva l’uomo, di cui tutti siamo chiamati
a fare esperienza: “benedetto sia Dio,
Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione
spirituale nei cieli, in Cristo…”. Ci può essere per l’uomo motivo più
autentico di benedizione di Dio di questo ‘riconoscimento’ dell’amore Suo per
noi, in Cristo, che ha presieduto alla stessa origine del mondo e che ha avuto
nella Vergine Immacolata il suo segno tangibile?
Riflettendo sul passo del racconto del
peccato narrato dal libro della Genesi si può osservare come le varie creature
si pongano nei confronti di Dio. Quando Dio chiede ad Adamo se abbia trasgredito
il suo comando, lui risponde addossando la colpa ad Eva. Quando Dio si rivolge
ad Eva, lei risponde addossando la colpa al serpente. Ma quando Dio è davanti
al serpente, il serpente tace. Adamo ed Eva rispondono a Dio, pur
giustificandosi, perché hanno nostalgia di Dio. Il serpente sembra non avere
alcuna nostalgia: non semplicemente ha peccato, ma non è proprio d’accordo sul
fatto che Dio conceda i suoi favori agli uomini e resta quindi avversario di
Dio. È avversario di Dio chi è geloso dei beni che Lui riversa sulle sue
creature e perciò resta astioso, astio di cui facciamo le spese noi
continuamente. Chi è capace di far risplendere i doni di Dio solo godendo
dell’immenso amore di Dio per gli uomini è pieno di grazia. E da tale pienezza
di grazia non può non derivare il Salvatore, che è la rivelazione dell’infinito
amore di Dio per gli uomini. Credo voglia dire anche questo la pienezza di
grazia della Vergine, dalla quale nasce Gesù, il Salvatore. Ed è per questo che
la tradizione saluta la Vergine come la gioia dell’universo.
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Terzo ciclo
Anno liturgico A (2007-2008)
Tempo di Avvento
2a Domenica
(9 dicembre 2007)
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Is
11,1-10; Sal 71; Rm 15,4-9;
Mt 3,1-12
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Il ritornello del salmo responsoriale
(“Vieni, Signore, re di giustizia e di pace”), commentando la profezia di
Isaia, illustra in cosa consista la potenza di colui che Giovanni il Battista
descrive : “ma colui che viene dopo di me
è più potente di me”. È come se Giovanni Battista dicesse: quella giustizia
e quella pace, da parte di Dio, che io annuncio, Lui la compie; quella
conversione a cui io vi invito, Lui ce la otterrà. C’è però un particolare che
fa problema: Gesù corrisponde all’annuncio del Battista? Il Battista ha visto
giusto? Tutta la sua vita non ha avuto altro scopo se non quello di mostrare
che in quell’uomo, Gesù di Nazaret, si compiva il piano di Dio. La sua
esistenza mirava a fare spazio all’apparizione dell’Agnello di Dio e tutta la
sua predicazione, che attirava folle numerose, evidentemente colpite dalla sua
santità di vita, non tendeva ad altro se non a preparare i cuori alla fede nel
Figlio di Dio. La forza del suo annuncio: “Convertitevi,
perché il regno dei cieli è vicino…. Fate frutti degni di conversione”,
dipendeva dalla percezione dell’imminenza del terribile giudizio di Dio, al
quale non ci si sarebbe più potuti sottrarre. Gesù invece si presenterà come un
servo dolce e umile (cfr. Mt 12,18-21; 11,28-30), come colui che salva dall’ira
(1Ts 1,10) più che come l’esecutore dell’ira di Dio.
Se ritorniamo ora al brano di Isaia
possiamo comprendere perché la Chiesa risponde a quella profezia con il
ritornello: vieni, Signore, re di giustizia e di pace! Il profeta parla di un
germoglio che sorgerà ed evidentemente la chiesa pensa subito al natale di
Gesù, a cui viene riferito tutto il brano. Le conseguenze dell’apparizione di
quel germoglio sono precisamente due: viene vinta l’inimicizia col serpente
(nell’immagine della profezia: “il
bambino metterà la mano nel covo di serpenti velenosi”) e la sapienza è
diffusa su tutta la terra (“la saggezza
del Signore riempirà il paese, come le acque ricoprono il mare”). Se
l’immagine del serpente, presente nel giardino dell’Eden a frodare l’uomo del
suo vestito di luce, costituisce l’icona dell’iniquità che insidia il mondo,
allora, quando è vinta l’inimicizia con lui, il mondo torna a risplendere della
santità di Dio, che è il vestito di luce dell’uomo. Colui che assicura la
vittoria su questa radicale inimicizia sarà proprio Gesù, rivestendosi del
quale torniamo a risplendere di quella luce di Dio. Questa è la giustizia di
Dio per il mondo e Gesù può essere chiamato a pieno titolo re di giustizia.
L’immagine della sapienza diffusa
allude invece ad un’altra profezia, quella di Ger 31,31-34: “Ecco verranno giorni - dice il Signore - nei
quali con la casa di Israele e con la casa di Giuda io concluderò una alleanza
nuova… Porrò la mia legge nel loro animo, la scriverò sul loro cuore. Allora io
sarò il loro Dio ed essi il mio popolo. Non dovranno più istruirsi gli uni gli
altri, dicendo: Riconoscete il Signore, perché tutti mi conosceranno, dal più
piccolo al più grande, dice il Signore; poiché io perdonerò la loro iniquità e
non mi ricorderò più del loro peccato”. La sapienza diffusa corrisponde a
‘tutti mi conosceranno’. E tutti mi conosceranno perché ‘io perdonerò le loro
iniquità’ e la pace regnerà di nuovo.
Gesù è proprio il re di pace perché in lui è fatta pace tra cielo e terra, tra
Dio e l’uomo e tra uomo e uomo. Così, quando di lui si dirà che è ‘mite e umile
di cuore’, si vorrà indicarlo come colui sul quale riposa lo sguardo di
compiacenza del Padre, nel quale tutta l’umanità può star raccolta. Gesù è
colui che di sé dice: “Venite a me, voi
tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. Prendete il mio
giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e
troverete ristoro per le vostre anime” (Mt 11,28-29). È la sua ‘umiltà e
mitezza’ a rivelare la presenza dello Spirito Santo in Lui; è l’umiltà e la
mitezza il segno della guida dello Spirito Santo. Così la colletta oggi fa
pregare: “Dio dei viventi, suscita in noi il desiderio di una vera conversione,
perché rinnovati dal tuo Santo Spirito sappiamo attuare in ogni rapporto umano
la giustizia, la mitezza e la pace, che l’incarnazione del tuo Verbo ha fatto
germogliare sulla nostra terra”.
Con l’esortazione di Paolo ai Romani,
intuiamo dove possiamo cominciare a percepire quel movimento di pace che con
Gesù si rivela al mondo. Proprio nelle Scritture, definite da Gregorio Magno
come la lettera d’amore all’umanità. Tutto nelle Scritture converge verso
Cristo, tutto illumina il Suo mistero, perché Lui è la rivelazione dell’amore
di Dio per l’uomo e tutte le Scritture narrano di tale amore per l’uomo da
parte di Dio. L’intelligenza delle Scritture ci porta a conoscere ‘la
perseveranza e la consolazione’ che Dio trova in noi con il suo Figlio, come
anche la perseveranza e la consolazione che noi troviamo in Lui, nel suo
Figlio. E quale augurio più bello per una comunità cristiana di quello di Paolo
ai Romani: “E il Dio della perseveranza e
della consolazione vi conceda di avere gli uni verso gli altri gli stessi
sentimenti ad esempio di Cristo Gesù”? Non c’è più separazione tra ebrei e
pagani; non c’è più separazione che tenga tra uomo e uomo. Tutti possiamo avere
gli stessi sentimenti gli uni verso gli altri: è il frutto più maturo di quella
conversione che porta a rivestirsi del Signore Gesù, a vivere secondo il suo
Spirito.
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Terzo ciclo
Anno liturgico A (2007-2008)
Tempo di Avvento
3a Domenica
(16 dicembre 2007)
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Is
35,1-10; Sal 146; Gc 5,7-10; Mt 11,2-11
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La liturgia di oggi fa da contrappunto
alla domanda di Giovanni Battista e alla risposta di Gesù. Il Battista, alla
fine della vita, si è accorto che Gesù non corrisponde all'immagine del Messia
che si era fatto e tuttavia non cessa di riferirsi a lui. Gesù risponde al
Battista usando il linguaggio delle Scritture, che il Battista conosceva:
"Andate e riferite a Giovanni ciò
che voi udite e vedete: i ciechi ricuperano la vista, gli storpi camminano, i
lebbrosi sono guariti... E beato colui che non si scandalizza di me".
L'espressione di Gesù è un assemblaggio di vari passi del profeta
Isaia: se ciò che dice il profeta si
avvera, allora Dio davvero si mostra - questo è il senso delle parole di Gesù;
allora puoi avere fiducia in me. E se conclude con la beatitudine "beato
chi non si scandalizza di me", è per sottolineare che se Lui viene
accolto, viene per davvero il Regno di Dio, Dio è per davvero con noi, la Sua
presenza per davvero risplende.
Le opere a cui accenna Gesù sono opere
di Dio: quale uomo può vantarsi di far vedere i ciechi, sanare i lebbrosi,
risuscitare i morti? E Dio non ha atteso la conversione degli uomini per
compiere quelle opere; anzi, la conversione deriverà proprio dal vedere che
Gesù compie quelle opere e quindi che Dio è con noi. Ma pur vedendo, quanti
crederanno? Quanti rimetteranno in discussione l'accoglienza di Gesù come
Inviato di Dio in ragione proprio del fatto che la sua apparizione risulterà
troppo diversa da ciò che si immaginavano!
L'immagine di Dio che accarezziamo
spesso risponde al desiderio di
vendetta: i cattivi devono sparire, i
buoni devono prevalere. Evidentemente, in nome di una 'giustizia' divina, ma
pensata in termini troppo mondani.
Gesù scombina quell'immagine. Di lui si
dirà che sta con i peccatori, che mangia e beve, che finisce per essere
annoverato tra i malfattori, che soccombe e muore: come ritenerlo 'il Dio con
noi' se quel Dio non stabilisce la giustizia come noi immaginiamo? Paolo dice
che gli ebrei cercano la giustizia (la religiosità) e i pagani la sapienza,
mentre Dio, in Gesù, mostra debolezza e follia. Gesù può allontanare da Dio: è
questo lo scandalo. Se per gli antichi era facile mettere in discussione Gesù
nella sua verità umana, per noi moderni è facile metterlo in discussione per la
sua verità divina. Ciò significa che la portata dello scandalo non è esaurita.
La liturgia di oggi, consapevole della
vicinanza del mistero del Natale che ci prepariamo a celebrare e della perenne
portata di scandalo di quell'evento, indica la porta di accesso per il mistero
di Dio in Gesù.
Invita alla gioia, alla letizia, che
suona scandalosa per la carne. Se l'uomo fosse davvero giusto, potrebbe gioire.
Ma può l'uomo trovare nella sua giustizia la fonte della letizia? Così, se
l'uomo potesse vantarsi di una scienza sicura e potente, potrebbe gioire. Ma
può derivare all'uomo la letizia dalla potenza della scienza? Tutti ci rendiamo
conto dell'illusione di una letizia che avesse tali radici.
Ora, proprio la possibilità di una
letizia che non ha bisogno di trovare nella propria giustizia e nella propria
scienza la radice della sua desiderabilità rivela al cuore dell'uomo la
presenza finalmente del Dio con noi, del Dio che accondiscende alla nostra
umanità perché risplenda della sua luce sanante. Gesù rivela questo al Battista
e quando ne tesse l'elogio non fa che mettere in risalto la grandezza della sua
umanità, tutta protesa al mistero di Dio, ma che a paragone della ricchezza di
verità che viene da Dio risulta essere assolutamente incompiuta. Ma
l'ammissione di tale incompiutezza è espressione della vera grandezza del
Battista, che riconosce nel Figlio dell'uomo la 'grazia della verità' che viene
da Dio.
Il movimento interiore del Battista
esprime la traiettoria dello stesso movimento che caratterizza il nostro cuore.
Anche noi siamo nella sua condizione e, come lui, per vivere fino in fondo la
nostra vocazione all'umanità, abbiamo bisogno di affidarci all'Inviato di Dio e
di imparare a modellare le nostre attese sul compimento effettivo delle opere
di Dio che in Gesù si manifestano. Il segnale dell'accoglienza di quell'Inviato
è dato proprio da quel principio di letizia che possiede il cuore senza aver
alcun altro titolo per goderla se non che quella è il dono dell'incontro con il
Salvatore che si è fatto nostro vero prossimo.
Quando Giacomo, nella sua lettera,
invita alla pazienza, vuole invitarci ad attendere la manifestazione del
Salvatore al nostro cuore finché essa diventi radice di letizia. Solo allora
non scambieremo più le nostre opere con la pretesa di giustizia o la nostra
scienza con la rivendicazione di potere e sapremo rapportarci a tutti nella
condivisione di quella letizia che fa conoscere a tutti l'amore salvatore di
Dio.
Sarà il senso della gioia del Natale
scoperta come radice di speranza per il mondo che trova nella presenza del 'Dio
con noi' la ragione profonda della sua storia.
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Terzo ciclo
Anno liturgico A (2007-2008)
Tempo di Avvento
4a Domenica
(23 dicembre 2007)
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Is
7,10-14; sal 23; Rm 1,1-7; Mt 1,18-24
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La liturgia di oggi proclama che
l’Emmanuele, il Dio-con-noi, è il re della gloria: sarà questa la buona novella
che costituisce la radice di gioia dell’universo. L’aspetto misterioso
dell’evento è descritto con la profezia di Isaia: “Stillate dall’alto, o cieli, la vostra rugiada e dalle nubi scenda a
noi il Giusto: si apra la terra e germogli il Salvatore” (Is 45,8), ripresa
dall’antifona di ingresso. Il testo è riportato secondo la versione della
Volgata che attualizza messianicamente il testo ebraico più generico che parla
solo di giustizia e di salvezza. L’allusione più diretta è all’imminente
nascita di Gesù, il Giusto, dal grembo della Vergine. Ma la colletta allarga
questa allusione anche alla terra del nostro cuore invitata a far nascere il
Verbo della vita: “…concedi anche a noi
di accoglierlo e generarlo [= Verbo della vita] nello spirito, con l’ascolto
della tua parola, nell’obbedienza della fede”.
Come è possibile che uno
contemporaneamente scenda dall’alto e germogli dal basso? È appunto il mistero
dell’agire divino che il profeta fa risaltare e che vale anche per noi. Non
bisogna dimenticare che, in termini spaziali, ‘alto’ e ‘dentro’ alludono alla
stessa regione, in contrapposizione a ‘basso’ e ‘fuori’. La grazia proviene
dall’alto e agisce dal di dentro, mentre il peccato viene dal basso e agisce
dal di fuori. È il peccato ad aver creato tale contrapposizione. Superarla
significa ritrovare l’unità del cielo e della terra, l’unità del divino e
dell’umano. Con la nascita di Gesù tale unità si compie: viene dall’alto e
germoglia dal basso, ma senza più contrapposizione tra i due poli. Viene dal
cielo e germoglia dalla terra, come ‘segno’ dell’azione di salvezza di Dio per
l’uomo: “Pertanto il Signore stesso vi
darà un segno. Ecco: la vergine concepirà e partorirà un figlio, che chiamerà
Emmanuele: Dio-con-noi”. All’uomo sarebbe stato impossibile perfino
immaginare un segno di tal genere, benché quel segno compia finalmente i suoi
desideri più profondi. Dio sopravanza sempre la sua creatura, ma nella linea
del desiderio della sua creatura stessa.
Dio, non semplicemente viene vicino a
noi, ma germoglia dalla nostra umanità. Ciò significa che Dio è più intimo a
noi di noi stessi; che Dio costituisce l’eredità più preziosa della nostra
umanità; che Dio costituisce il senso della nostra stessa umanità. Tale
rivelazione, che costituisce la gioia del nostro cuore per sempre, si presenta
però con modalità assolutamente imprevedibili. Consideriamo la figura di
Giuseppe. È l’ultimo testimone chiamato in causa nella serie delle
testimonianze a favore del Figlio di Dio che si fa uomo. Paolo, nel saluto
iniziale ai Romani, proclama: “… il
vangelo di Dio, che egli aveva promesso per mezzo dei suoi profeti nelle sacre
Scritture, riguardo al Figlio suo, nato dalla stirpe di Davide secondo la carne…”.
Quel Figlio è la buona novella di cui
tutte le Scritture raccontano l’annuncio e la promessa e si fa uomo nella linea
della discendenza davidica, discendenza che Giuseppe assicura. Quando l’angelo
gli appare, chiama Giuseppe ‘figlio di Davide’. Naturalmente, Giuseppe non ha
più nulla della gloria mondana di una
discendenza regale, e tuttavia assicura a Gesù la verità del titolo ‘Figlio di
Davide’, la verità della sua regalità. A convincere Giuseppe non sono bastate
le parole della Vergine, la quale gli avrà spiegato la natura misteriosa del
bambino che portava in grembo con le parole dell’angelo che l’aveva visitata. Eppure,
le parole dell’angelo che gli appare in sogno riprendono le stesse parole della
Vergine e avviene anche per lui ciò che era avvenuto alla sua sposa: si affida
completamente a Dio. Di Giuseppe i vangeli non riportano alcuna parola;
annotano solo i suoi pensieri, le sue decisioni, la sua obbedienza adorante e
la sua premura per la sua sposa e il suo
bambino. Entra nella gloria di Dio,
che è splendore di amore per l’uomo, nella consapevolezza soltanto di
permettere al Signore di realizzare le sue promesse d’amore all’umanità. Ma non
sa in anticipo cosa questo gli richieda; sa solo che questo è il suo compito e
in tutta obbedienza lo eseguirà, fedele in tutto e in ciò ritrovando gli
aneliti supremi del suo cuore di uomo e di credente.
Giuseppe accoglie: la grazia viene
dall’alto. Ma Giuseppe acconsente nella sua umanità: dalla terra germoglia il
Salvatore. Così si manifesta la gloria del Dio-con-noi, che, mentre rivela la
grandezza del suo amore per l’uomo, rende l’uomo capace di operare in
quell’amore e secondo quell’amore, tanto da indurre tutti a vedere la vicinanza di Dio. La sua vocazione può
essere definita come l’accettazione del compito affidatogli in rapporto al
disegno di Dio di rivelare il Suo Amore agli uomini. E la sua obbedienza si
rivela nel fatto di accettare di svolgere una parte semplicemente a favore
della sua sposa, dentro un disegno più grande di lui, che imparerà a decifrare
lungo tutta la sua vita senza mai essere in primo piano e proprio questo rivela
la sua grandezza agli occhi di Dio. Così la vocazione di ciascuno di noi, nella
fede, non è che quella di acconsentire a che il disegno di amore di Dio per gli
uomini ci raggiunga e si manifesti e ci abiliti a diventare dei segni
nell’unico ‘Segno’ che rivela compiutamente il volto d’amore di Dio, Gesù
Cristo, Salvatore.
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Terzo ciclo
Anno liturgico A (2007-2008)
Tempo di Natale
Natale del Signore
(25 dicembre 2007)
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Messa vespertina della vigilia: Is 62,1-5; Mt 1,1-25
Messa della notte: Is 9,1-6; sal 95; Tt 2,11-14; Lc 2,1-14
Messa dell’aurora: Is 62,11-12; Lc 2,15-20
Messa del giorno: Is 52,7-10; Gv 1,1-18
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Se consideriamo lo sviluppo della
liturgia natalizia nei suoi quattro formulari delle Messe, il mistero del
Natale appare in tutto il suo splendore. Una tensione unica percorre la
liturgia, sottolineata dalle collette: Dio si fa uomo perché l’uomo diventi
‘dio’. Ciò significa che la natura dell’uomo è strutturata sulla vita divina e
la liturgia del natale del Signore appunta lo sguardo sul mistero da dentro
tale prospettiva.
Se teniamo presenti i brani evangelici
possiamo notare che l’evento della nascita di Gesù, a Betlemme, celebrato nella
messa della notte, con la successiva adorazione dei pastori, commemorato nella
messa dell’aurora, risulta incastonato dai brani della genealogia di Gesù
(messa vespertina della vigilia) e dal prologo di Giovanni (messa del giorno).
Quale lettura possibile?
È come se la liturgia insegnasse ad
affinare gli sguardi. Quel Bambino che contempliamo nel presepio è Colui che
compie la promessa di Dio al popolo d’Israele. La geneaologia di Matteo,
all’inizio del suo vangelo, vuol proprio dire questo: Gesù, che risale ad
Abramo, è inserito nella storia sacra di Dio col popolo d’Israele. Lui realizza
le profezie, Lui compie le promesse, Lui è il Messia. Se però leggiamo la
genealogia in Luca, posta dopo il battesimo di Gesù al Giordano, quando il
cielo si apre e si ode la voce del Padre: “Questi
è il Figlio mio prediletto ...”, allora il significato muta. Il Bambino del
presepe è Colui sul quale il Padre dice: “Questi è il mio Figlio amatissimo, in
Lui mi sono compiaciuto, mi sono sentito bene in Lui, in Lui ho trovato il mio
posto, il mio spazio”. In effetti il cielo si apre su di lui e passa per lui
(Gesù dirà: ‘io sono la porta…’) in
modo che chi entra per lui arriva al principio della sua genealogia umana e la
sorpassa, collegandola al mistero che la origina. Nella genealogia di Luca Gesù
non risale ad Abramo, ma discende da Dio, assumendo Adamo: viene svelato il
mistero della sua identità di Figlio di Dio, il mistero dell’amore di Dio nel
quale prende origine la creazione dell’uomo e la storia di amore di Dio con
l’umanità.
Con il brano di Giovanni si afferma la
stessa cosa dando la griglia di lettura della storia umana a partire da Dio e
dal Figlio, sul quale e per mezzo del quale tutto è stato creato, avvalorata
ormai dalla testimonianza apostolica di aver visto lo splendore della gloria di
Dio in quel Figlio, nato, vissuto, morto e risorto per noi. Dice Giovanni: “il Verbo si è fatto carne e noi abbiamo
visto la sua gloria”.
Quando nella notte si celebra l’evento
della nascita a Betlemme è da dentro questa prospettiva che gli occhi guardano.
Forse noi non ci rendiamo conto della immensa sproporzione e inadeguatezza tra
la povertà del segno indicato (un bambino giace nella mangiatoia) e lo
splendore della visione celebrata con gli angeli che lodano Dio, con la luce
che risplende, con la letizia immensa e incontenibile che riempie i cuori. Se
si rilegge l’episodio del presepe di Greccio nella vita di s. Francesco di
Assisi ci rendiamo conto della ‘logica’ di quella visione. “Meditava
continuamente le parole del Signore e non perdeva mai di vista le sue opere. Ma
soprattutto l’umiltà dell’incarnazione e la carità della Passione aveva
impresse così profondamente nella sua memoria, che difficilmente gli riusciva
di pensare ad altro… E ogni volta che diceva ‘Bambino di Betlemme’ o ‘Gesù’ passava
la lingua sulle labbra, quasi a gustare e trattenere tutta la dolcezza di
quelle parole” (FF 467-470). È il desiderio di far memoria di Gesù, il
desiderio di condividere con lui quello che lui vive, sente e opera, perché il
cuore è pieno di lui, a permettere agli occhi di vedere, all’anima di gustare.
Allora, la semplicità del segno parla, si spalanca su spazi immensi perché la
storia umana si apre sulla storia di Dio con l’umanità e la letizia non può non
spuntare.
Così, se consideriamo le collette, la progressione
della comprensione del mistero è delineata secondo questa traiettoria: l’evento
sprigiona una tale luce (notte) da investire il nostro agire (aurora) per
partecipare alla stessa vita di Dio (giorno). “O Dio, che hai illuminato questa
santissima notte con lo splendore di Cristo, vera luce del mondo …”
(notte);”Fa’ che risplenda nelle nostre opere il mistero della fede che rifulge
nel nostro spirito” (aurora); “Fa’ che possiamo condividere la vita divina del
tuo Figlio…” (giorno) e questo è lo scopo di tutta la nostra gioiosa
adorazione.
Un poema natalizio di s. Efrem canta:
“Sia benedetto Colui che ha consegnato la nostra anima, che l’ha adornata e se
ne è fatta la fidanzata! Sia benedetto Colui che ha fatto del nostro corpo una
tenda per la sua Invisibilità! Sia benedetto Colui che nella nostra lingua ha
tradotto i suoi segreti!... Gloria a Colui che non ha mai bisogno che noi lo
ringraziamo. Ma che ha bisogno di tenerci per cari, che ha sete di amarci e che
chiede che noi gli diamo perché Lui possa darci ancora di più”. Possano i
nostri cuori percepire quei segreti e scoprire le radici della letizia in
questo mondo. La letizia dell’annuncio natalizio costituisca il vigore
dell’anima e lo spazio di intelligenza del cuore per la vita propria e quella
di tutti.
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Terzo ciclo
Anno liturgico A (2007-2008)
Tempo di Natale
Santa Famiglia
(30 dicembre 2007)
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Sir
3,2-6.12-14; sal 127; Col 3,12-21; Mt 2,13-23
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"O Dio, nostro creatore e Padre,
tu hai voluto che il tuo Figlio divenisse membro dell'umana famiglia":
così prega la colletta della festa di oggi. È significativo che la Chiesa non
celebri l'incarnazione del Figlio di Dio in generale, ma dentro una singola
famiglia della famiglia umana. Per quanto misteriosa e singolare sia questa
famiglia, è proprio a questa famiglia che tutte le altre famiglie possono
guardare per comprendere e vivere il loro stesso mistero.
Si tratta del mistero che io definirei
dell’obbedienza all’amore. Parlo di obbedienza prima che di amore perché
l’amore costituisce l’esito di un’obbedienza confidente. Vale nei confronti di
Dio, ma anche nei confronti degli uomini. È caratteristico che nella liturgia
di oggi come nella liturgia del matrimonio al termine amore si accompagni il
termine onore. Senza la percezione dell’onore dovuto al mistero che si vive,
l’amore non riuscirà a sopravvivere perché divorerà invece di comunicare vita.
Lo dice chiaro il libro del Siracide invitando a onorare il padre e la madre, a
suggello del patto di solidarietà con l’umanità che rende la vita in questo
mondo vivibile. Senza onore non si assicura più quella ‘vivibilità’ perché la
vita sarà vissuta nella logica dell’arraffare, che mina alle radici le ragioni
appunto della vivibilità.
Nell’esperienza cristiana l’onore è
vissuto ‘in Cristo’. La lettera di Paolo ai Colossesi descrive la famiglia come
il luogo di esercizio e di visione nella fede, in obbedienza all’unico mistero
che tutti ci riguarda. Paolo parla di ‘sottomissione’ per la moglie, di ‘amore’
per il marito, di ‘obbedienza’ per i figli. Il senso lo si ricava dalle
espressioni precedenti quando Paolo delinea la comunità dei credenti come
eletti di Dio rivestiti dei sentimenti di Cristo, riconciliati, nella pace di
un unico sentire, con la parola di Cristo che tutto regge e pervade. La
‘sottomissione’ della donna non ha nulla a che vedere con la soggezione
all’uomo; si riferisce a quella visione del mistero che appartiene alla donna,
che le colma il cuore e che estende continuamente i confini di quell’ ‘amore’
che è richiesto all’uomo, perché senza di lei l’uomo non saprebbe coglierne la
profondità e la preziosità. La ‘obbedienza’ dei figli in quel contesto non è
che l’appropriazione della tenerezza verso la propria umanità, terreno ideale
per imparare a vedere la ‘promessa’ di vita che si apre davanti a loro. E così
tutti restano immersi in quell’unico mistero di obbedienza che regge e orienta
la loro vita, mistero di cui imparano, insieme, poco a poco, a dipanare i
segreti nel concreto della loro vita. L'avvertimento di Paolo ai Colossesi
"...rivestitevi, come eletti di Dio,
santi e amati, di sentimenti di misericordia ... perdonandovi a vicenda ... e
la pace di Cristo regni nei vostri cuori ..." allude appunto al
mistero di obbedienza. L'obbedienza si fa trasparenza della tenerezza di Dio
che non disdegna di consegnarsi agli uomini perché essi imparino a consegnarsi
vicendevolmente e a Lui. E se l'obbedienza non porta a svelare la tenerezza
vuol dire che non procede dall'adorazione, da una visione, ma solo da una
volontà. E quando tutto procedesse dalla mia volontà, come posso accogliere e
celebrare la salvezza che viene da Dio? Come essere segno e custode del
'segreto' di Dio?
Il vangelo presenta Giuseppe proprio
come il custode del segreto di Dio, nella concretezza e nel dramma della vita
quotidiana, custode della tenerezza di Dio per l'umanità, che per lui si
concentrava nella sua famiglia, luogo di rivelazione di Dio nel mondo e la sua
storia è storia di questa famiglia, storia per questa famiglia. La
realizzazione di sé, come diremmo oggi, passa per l'assunzione di un compito di
grazia che fa dell'obbedienza a Dio, nel cammino di fedeltà all'assolvimento di
tutto ciò che un tal compito comporta nel concreto delle situazioni, la porta
dell'amore. Porta che può essere intravista solo se gli occhi del cuore
'vedono' quanto basta per non tirarsi indietro.
La storia di una famiglia è la storia
di come questo 'segreto' di Dio è accolto, custodito, vissuto. Abbiamo solo
bisogno di 'rivestirci', di divenire cioè consapevoli del dono e compito di
grazia che ci ha riguardati nell'intimo e ci ha resi , nella nostra piccolezza
e nelle situazioni concrete, 'evangelici', cooperatori della gioia altrui,
segni e strumenti di salvezza, come Giuseppe. Non però di quella salvezza
operata da noi, come se il nostro amore bastasse a salvare noi o gli altri, ma
di quella che viene da Dio la cui debolezza è più forte della forza degli
uomini, debolezza la cui eco io sento nel qualificare Gesù 'il nazareno'.
In effetti, l’ultimo versetto del brano
evangelico letto riporta: "... andò
ad abitare in una città chiamata Nazaret, perché si adempisse ciò che era stato
detto dai profeti: «Sarà chiamato Nazareno»". Non è chiaro a quali
passi profetici l'evangelista si richiama, ma è chiara l'allusione al mistero
che quell'aggettivo comporta. Tre sono almeno i significati di quell'aggettivo.
Designa Gesù come proveniente da Nazaret, abitante a Nazaret con i suoi
genitori ai quali, come riporta l'evangelista Luca, stava sottomesso. È un'affermazione della sua vita
quotidiana, nascosta, in famiglia. Esprime la concretezza della sua umanità
quanto alle radici, agli affetti, alla crescita. Gesù è uomo non solo perché è
nato, ma perché è stato allevato, nutrito, curato, educato, amato,in una
famiglia umana. Nazareno richiama poi 'nazir' (cfr. Gen 49,26; Gdc 13,5), il
consacrato a Dio, il Santo di Dio. Esprime la natura del compito che è chiamato
a compiere: salvare Israele, salvare l'umanità. E siccome il Salvatore è solo
Dio, partecipare al compito di 'salvare' comporta la pienezza di santità di Dio
stesso. Nazareno richiama anche un altro termine ebraico che vuol dire
'germoglio'. Girolamo spiega così l'etimologia del nome Nazaret: "Il luogo
dove la terra ha germinato il Salvatore, dove è cresciuto il germoglio giusto,
il fiore della radice di Jesse, si chiama Nazaret, che significa: santità,
germoglio, fiore, ramoscello". E si allude alle profezie di Is 11,1 e Zac
6,12.
Se andiamo a vedere quando Gesù è
chiamato 'nazareno' notiamo che lo chiamano così i demoni (Mc 1,24) i quali lo
sanno 'Santo di Dio'; lo chiamano così anche gli angeli alla risurrezione (Mc
16,6); ma soprattutto l'aggettivo compare nei racconti della passione di
Giovanni, all'arresto e soprattutto sull'iscrizione sopra la croce: Gesù
Nazareno Re dei Giudei (Gv 18,5; 19,19). Tutte sottolineature della realtà
della sua umanità: è proprio quell'uomo che è vissuto a Nazaret, la cui
famiglia è di Nazaret, è proprio lui il Figlio di Dio, morto e risorto per la
nostra salvezza, Lui proprio nel quale abita la pienezza della divinità.
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Terzo ciclo
Anno liturgico A (2007-2008)
Tempo di Natale
Maria ss. Madre di Dio
(1 gennaio 2008)
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Num
6,22-27; Sal 66; Gal 4,4-7;
Lc 2,16-21
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Il primo gennaio, capodanno, coincide
con l’ottava del Natale. La Chiesa festeggia, da una parte, la gloria della madre
nella sua divina maternità venerando la Vergine con il titolo di ‘madre del
Cristo e di tutta la chiesa’, come recita la preghiera dopo la comunione
espressamente voluta da papa Paolo VI e, dall’altra, la verità
dell’incarnazione del Figlio di Dio facendo memoria del rito della
circoncisione e dell’imposizione del nome al bambino nell’ottavo giorno.
Consacrando poi la giornata all’intercessione per la pace, la chiesa annunzia
al mondo che in Cristo è fatta pace tra cielo e terra e che la pace tra gli uomini
ne è come il riverbero, lo splendore di benedizione.
Nessuno meglio della Vergine Maria ha
potuto vedere l'estensione e la profondità della benedizione che Dio promette
di elargire: "Ti benedica il Signore
e ti protegga. Il Signore faccia brillare il suo volto su di te e ti sia
propizio. Il Signore rivolga su di te il suo volto e ti conceda pace"
(Num 6, 24-26). Se la formula di benedizione riportata nel libro dei Numeri
concerne Israele, il salmo 66 la estende a tutta l’umanità perché ormai Colui,
che del Padre è lo splendore, è nato per noi. In Lui si concentra la pienezza
di benedizione, in Lui che è nato nella pienezza dei tempi, come dice
l’apostolo. Ciò significa che la Sua benedizione copre tutti i tempi e
contemporaneamente ogni genere di tempo, tutto il tempo della vita in tutte le
situazioni possibili. Quando il canto al vangelo proclama: “Dio ha parlato ai nostri padri per mezzo dei
profeti; oggi, invece, parla a noi per mezzo del Figlio” allude non
semplicemente al fatto che Colui che era stato annunciato dai profeti è venuto,
ma che in Lui si compiono tutte le possibilità dei tempi.
La colletta, quando prega: “Padre
buono, che in Maria, vergine e madre, benedetta fra tutte le donne, hai
stabilito la dimora del tuo Verbo fatto uomo tra noi…”, riprende la
dichiarazione di Giovanni: “E il Verbo si
fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi” (Gv 1,14). Ma anche la
promessa di Gesù ai discepoli: “Se uno mi
ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e
prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14,23). La benedizione di Dio per
l’uomo consiste proprio nel suo dimorare fra noi, in noi. L’aspetto
straordinario, sconvolgente, dell’amore di Dio per l’uomo, che però spesso
nemmeno siamo più capaci di percepire, è dato dal fatto che possiamo essere
accolti in quella stessa intimità di vita e di relazione che esiste tra il
Padre e il Figlio e che ci è fatto dono di quella stessa intimità. Sembra
strano, ma soltanto da dentro quella intimità possiamo sperare di compiere la
volontà del Padre nella nostra vita e sentirci avvolti dalla sua benedizione.
Se prima non si gusta la volontà di benevolenza di Dio nei nostri confronti,
che si esprime nella benedizione che è il Cristo per noi, come poter arrivare
alla gioia dell’osservanza dei comandamenti e ad essere operatori di pace? Se
non capiamo come Cristo non antepose nulla all’amore per noi, come possiamo noi
non anteporre nulla all’amore per Cristo e ritrovarci amati dal Padre, che nel
suo Figlio ha posto tutta la sua compiacenza? Il mistero della benedizione di
Dio sull’uomo sta tutto qui e tutta la vita della Vergine, come il suo parto
prodigioso, è lì a dimostrarlo.
Gli angeli, apparendo ai pastori,
annunciano “Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini di
buona volontà” (tradotto anche: ‘agli uomini che egli ama’). Il significato più
veritiero di questa lode sta nell’affermare che, se gli uomini vogliono vedere
il volto sorridente di Dio nei loro confronti, vogliono essere accolti dallo
splendore del suo sguardo benevolo e compiaciuto, come descrive il libro dei
Numeri, devono compiacersi di quel Figlio, in quel Figlio, sul quale si
concentra tutta la benevolenza assoluta di Dio. E non in quel Figlio eterno, ma
in quel Figlio fatto uomo, che ha preso carne, che conosce il nostro patire,
che condivide le nostre aspirazioni, i nostri sentimenti. Quel Figlio è il
Volto sorridente del Padre, quel Figlio è la benedizione invocata sull’umanità,
quel Figlio è il nome pronunciato e posto sull’umanità perché l’uomo e Dio riconoscano
la mutua appartenenza. È quello che la vergine Maria proclama nella sua divina
maternità, come le icone del Natale sottolineano. La Vergine non è
rappresentata china sul proprio bambino, ma rivolta ai pastori e al mondo a
proclamare che quel ‘figlio’ è la benedizione per loro.
Benedizione, che possiamo ripetere a
ciascuno e su ciascuno intendendo:
- che tu possa sentirti dentro confini
di benevolenza, possa sentire alleata la vita e Padre tuo il tuo Dio
- che il volto del Signore si riveli al
tuo cuore e faccia brillare il tuo volto del suo splendore
- possa fare esperienza del Suo
perdono, del Suo farsi grazia a te e sentirti fortificato, imprendibile, per il
legame di intimità che ti nasconde nella Sua pace. E così apparterrai al Suo
amore, non desiderando altro se non di attrarre a questo amore tutto e tutti
finché ci si possa riposare insieme nella Sua benedizione.
La realtà dell’incarnazione comporta
anche la variabile tempo. Ogni cosa ha il suo tempo, ogni cosa ha bisogno del
suo tempo. Anche la Vergine Maria ha
avuto bisogno di tempo per ‘assuefarsi’ all’agire di Dio. Il brano evangelico
la descrive come colei che “serbava tutte queste cose meditandole nel suo
cuore”. Evidentemente perché anche per lei la realtà non svelava il suo mistero
di colpo. I due verbi, serbava e meditando significano più direttamente:
teneva se stessa e queste cose insieme in cuore, facendole rimbalzare l'una
sull'altra in modo da ottenerne una visione d'insieme. Sono termini che
illustrano il metodo di lettura delle Scritture: una parola si illumina con
un'altra parola ed il senso che ne scaturisce si riverbera nel cuore aprendo la
parola al cuore ed il cuore alla parola. E non se ne tralascia nessuna: tutte
queste cose del testo sono sia le parole udite (dall'angelo, dai profeti, dai
pastori) sia gli eventi successi; non si cerca solo quella 'adatta' a me, ma ci
si 'adatta' a loro tutte, insieme. Non si preferisce un tempo (il tempo della
gioia, del godimento), ma si tengono insieme tutti i tempi (anche il tempo del
dubbio, dell’afflizione). Allora, poco a poco, anche al nostro cuore si svelerà
quella ‘benedizione’ che Dio ha posto sull’umanità e la vita torna a
risplendere della presenza del nostro Dio.
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Terzo ciclo
Anno liturgico A (2007-2008)
Tempo di Natale
Epifania
(6 gennaio 2008)
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Is
60,1-6; Sal 71; Ef 3,2-6; Mt 2,1-12
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Epifania vuol dire manifestazione. La
festa di oggi ingloba tre momenti della manifestazione del Signore: la
manifestazione di Gesù alle genti con la venuta dei magi; la manifestazione del
Signore all’inizio della sua carriera messianica con il battesimo al fiume
Giordano; la manifestazione del Signore con il primo miracolo alle nozze di
Cana.
L’antifona di ingresso della messa si
richiama al libro del profeta Malachia, l’ultimo libro dell’Antico Testamento:
“È venuto il Signore nostro re: nelle sue
mani è il regno, la potenza e la gloria”. Quale visione singolare: un
bambino è proclamato ‘sovrano, potente e glorioso’! La proclamazione comporta
qualcosa di radicalmente nuovo per gli occhi umani o, se vogliamo, comporta la
visione di una realtà con occhi radicalmente nuovi. Stessa ‘novità’ che sta
dietro la proclamazione di Gesù come re nei vangeli (soltanto durante la sua
passione Gesù accetta il titolo di re) e particolarmente come re della gloria
(titolo che fornisce, da una parte, la ragione della condanna sul patibolo
della croce e, dall’altra, per la visione di fede dei credenti, la ragione
dell’amore di Dio per l’uomo che proprio sulla croce risplende). È in ragione
di quella ‘novità’ che la manifestazione di Gesù può conquistare le genti e può
convincere Israele. Quando la colletta fa pregare: “O Dio, che in questo giorno,
con la guida della stella, hai rivelato alle genti il tuo unico Figlio, conduci
benigno anche noi, che ti abbiamo conosciuto per la fede, a contemplare la
grandezza della tua gloria”, guida i credenti alla percezione di quella
‘novità’ e li predispone a cogliere e a vivere dello splendore di quell’amore,
che costituisce ormai la ragione di senso del vivere nella storia.
La visione dei popoli che si ritrovano
a Gerusalemme, ripresa anche dal salmo 71 e celebrata dal salmo 87 (Il Signore scriverà nel libro dei popoli:
“Là costui è nato”. E danzando canteranno: “Sono in te tutte le mie sorgenti”),
mostra come ormai non esiste più motivo di distinzione tra gli uomini perché la
loro dignità deriva da un’unica radice. La dignità degli uomini parla
dell’amore di Dio che si è rivelato in quel Figlio di Dio fatto uomo e che
nella liturgia odierna è adorato da tutte le genti. Quando Paolo ricorda agli
Efesini che il mistero manifestato ora agli uomini è il fatto che i Gentili
sono chiamati, in Cristo Gesù, a partecipare alla stessa eredità di Israele,
rivela che davanti a Dio sussiste un’unica famiglia umana, destinataria e
portatrice allo stesso tempo del Suo amore. Se il Signore, come dice il salmo
71, interviene a favore del povero e del debole, categorie che attraversano la
diversità dei popoli e si riferiscono all’umanità di tutti, significa che chi
calpesta il povero e il debole ferisce la propria dignità umana e non rispetta
l’immagine di quel Figlio che si è confuso con l’umanità di tutti. Davanti a
quel Figlio, Bambino, adorato dalle genti – dice il salmo, eco del pensiero di
Dio: chiunque tu sia, da qualunque paese provenga, qualsiasi sia stata la tua
storia, a qualsiasi cultura appartenga, da qualsiasi parte proceda, sappi che
qui sei nato, di qui trai vita e qui conducono i tuoi desideri perché qui si
compiono i miei progetti: nel mio Figlio! Non è evidentemente una forma di
imposizione spirituale all'umanità. Si tratta invece di una visione lucida,
nella fede, sulla realtà delle cose e del mondo. Non si tratta di contrapporre
una visione ad altra visione, una fede ad altra fede. Si tratta di imparare a
stupirsi a tal punto dei pensieri di Dio per l'umanità che la modalità stessa
di vivere e testimoniare quella visione diventa 'divina'. Per questo l'amore è l'ultima
parola convincente, sebbene non sia la parola più potente. La debolezza di Dio
è più forte della forza degli uomini e la stoltezza di Dio è più sapiente della
sapienza degli uomini: per questo a tutti gli uomini, di ieri, come di oggi e
di domani, a tutti spetta questa 'eredità', che è il Figlio di Dio fatto uomo.
I magi sono la figura della
manifestazione di Dio alle genti; portando i loro doni, si aprono al mistero di
Dio (con l’oro riconoscono la regalità misteriosa di quel ‘bambino nato per
noi’, con l’incenso riconoscono la sua divinità, con la mirra la sua umanità
pronta a soffrire la passione per la nostra salvezza) e permettono al loro
cuore di vedere la gloria di Dio tanto che fanno ritorno a casa loro per altra
strada, come a dire che chi si apre all’adorazione di Dio riscopre la casa
propria in altro modo, con altro sguardo, sotto altri orizzonti. Questo mi
induce a due osservazioni: 1) se il Messia è promesso alle genti, di che cosa
siamo noi credenti debitori al mondo? Siamo debitori proprio della conoscenza
del Signore. E questo debito pende sulla nostra testa. Qui si ricollega la
responsabilità della testimonianza dei credenti di fronte al mondo; 2) se il
Messia è promesso alle genti, vuol dire che fin tanto che tutte le genti non
l’hanno conosciuto, la nostra stessa conoscenza del Messia è manchevole, resta
limitata. Come in un’amicizia: fin tanto che non ho trovato qualcuno che voglia
bene a me, io non potrò scoprire quello che sono in verità, quello che porto e
di cui sono capace. Così è con Dio. Fin tanto che tutti non l’hanno conosciuto,
Dio non ha ancora avuto modo di manifestarsi in tutta la sua ricchezza.
Attendere questa manifestazione, nel cuore di tutti, rende umili e adoranti e
risponde al comandamento dell’amore verso tutti, anche verso i nemici, finché
la gloria di Dio si manifesti compiutamente.
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Terzo ciclo
Anno liturgico A (2007-2008)
Tempo di Natale
Battesimo del Signore
(13
gennaio 2008)
_________________________________________________
Is
42,1-7; Sal 28; At 10,34-38;
Mt 3,13-17
_________________________________________________
La liturgia del battesimo di Gesù fa
parte ancora del ciclo natalizio. La Chiesa celebra, nel battesimo al fiume
Giordano, la manifestazione di Gesù al suo popolo e il mistero di salvezza che
ne deriva, collegato alla visita dei Magi e al primo miracolo a Cana di
Galilea, come canta l’antifona al Benedictus: "Oggi la Chiesa, lavata
dalla colpa nel fiume Giordano, si unisce a Cristo suo Sposo; accorrono i magi
con doni alle nozze regali e l'acqua cambiata in vino rallegra la mensa".
Il mistero è contemplato nell’ottica dell’invocazione: "Dio onnipotente ed
eterno, che nel Natale del Redentore hai fatto di noi una nuova creatura,
trasformaci nel Cristo tuo Figlio, che ha congiunto per sempre a sé la nostra
umanità" (colletta, sabato 12 gennaio).
Nel battesimo di Gesù, che la Chiesa
legge a partire dal mistero della nascita a Betlemme, si preannuncia il
compimento della Pasqua. L'immagine di fondo è quella delle nozze: Dio sposa
l'umanità. A Betlemme il Figlio di Dio si fa uomo, Dio assume l'umanità, ma
quello che ha comportato tale assunzione si fa manifesto con il Battesimo di
Gesù quando, confuso con i peccatori, Lui, l'Innocente, solidarizza con
l'umanità reale e a questa umanità reale dona il suo riscatto. L'evento è però
solo proclamato, sigillato, in attesa di compierlo definitivamente con la sua
morte-risurrezione. Con l'adorazione dei magi questo mistero è rivelato essere
eredità di tutte le genti e con la trasformazione dell'acqua in vino a Cana
viene celebrata la gioia messianica dell'umanità. Oramai l'umanità appartiene
in proprio a Dio, oramai l'umanità, pur con tutto il suo carico di paure e
ferite, è carne del Figlio di Dio, che se l'è assunta nella sua realtà, integralmente.
Non si può più parlare di umanità senza che sia Dio ad esserne toccato. Non si
può più gemere sull'umanità senza aver compassione di Dio. Non c'è più motivo
di temere questa umanità perché tutta parla di Dio, del Suo amore e della Sua
sofferenza.
“Appena
battezzato, Gesù uscì dall' acqua: ed ecco, si aprirono i cieli ed egli vide lo
Spirito di Dio scendere come una colomba e venire su di lui. Ed ecco una voce
dal cielo che disse: «Questi è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono
compiaciuto»”. Questi due versetti celano molti
misteri. Notiamo intanto che Gesù viene al battesimo di Giovanni nella sua
natura di servo e proprio in questa forma riceve la consacrazione dello Spirito
Santo e la testimonianza del Padre. Lo Spirito riempie non tanto il Figlio di
Dio, ma il Figlio di Dio fatto uomo, lo riempie nella sua umanità; il Padre
esprime il suo compiacimento non semplicemente sul Figlio, ma sul Figlio nella
sua umanità. Così il particolare dei cieli che si aprono assume un significato
molto denso: non si tratta semplicemente della rivelazione della divinità di
Gesù, ma del fatto che il cielo e la terra si specchiano perfettamente, del
fatto che Dio è in comunione con l’umanità riconciliata, che l’umanità può
entrare nei cieli. Quando Matteo, descrivendo gli eventi dopo la morte di Gesù
in croce, riferisce: “Ed ecco il velo del
tempio si squarciò in due da cima a fondo” (Mt 27,51) allude proprio a
questa ‘apertura’ dei cieli. Il particolare che Marco, nel suo vangelo, usa lo
stesso verbo ‘squarciare’ per indicare i cieli aperti al battesimo e il velo
del tempio che si lacera, conferma l’accostamento.
Il battesimo mostra anticipatamente
quello che si compie alla Pasqua: il velo del tempio (per l’esattezza, del
Santo dei santi) che si squarcia, significa, tra l’altro, che ciò che è riposto
nel seno del Padre, il suo Verbo, germoglia dall’interno della terra ove è
stato riposto con la morte-risurrezione, aprendo, per l’umanità intera,
l’accesso al Santo dei santi: la vita intima del Padre. Quando Gesù dirà che
lui è la porta vuole riferirsi a
questa medesima realtà: in Gesù l’umanità entra nel cielo e il cielo si apre
sull’umanità. L’immagine della colomba sembra riferirsi alla stessa realtà,
almeno secondo certe interpretazioni patristiche: lo Spirito annuncia al mondo
la misericordia di Dio, che in Gesù risplende piena e assoluta.
La voce del Padre è quella di cui Gesù
dirà: “Io sono nel Padre e il Padre è in
me” (Gv 14,10); “Io dico quello che
ho visto presso il Padre” (Gv 8,38); “Io
invece lo conosco” (Gv 8,55); “Faccio
quello che il Padre mi ha comandato” (Gv 14,31). L'aggettivo prediletto,
proclamato dalla voce del Padre, non dice soltanto tutta l'intimità goduta tra
il Padre e il Figlio, ma illustra anche
lo sconfinato amore per l'umanità che i due condividono. Prediletto fa
pensare ad Abramo, pronto ad immolare il figlio Isacco (Gen 22,2). Rimanda al
figlio della parabola dei vignaioli omicidi (Mc 12,6). Prediletto ha attinenza
con “Dio ha tanto amato il mondo da
mandare il suo Figlio unigenito” (Gv 3,16), ha attinenza al mistero
dell'amore del Padre per l'umanità di cui il Figlio è il rivelatore, lui che è
il Volto visibile del suo splendore. È il prediletto perché il Suo Amore di
Padre in Lui è perfetto nel senso che in Lui si compie perfettamente il Suo
volere di benevolenza per l'umanità e Lui non ha altro volere che quello di
compierlo perfettamente: “Mio cibo è fare
la volontà del Padre” (Gv 4,34). È prediletto perché non solo il Suo Amore
si volge verso di lui , in lui si posa, ma anche si riposa, sta soddisfatto, ne
ottiene la risposta più piena.
Il risvolto tutto speciale del mistero
allude però a qualcos’altro. Lo sguardo di predilezione del Padre sul Figlio
non concerne più oramai solo la persona del Verbo, ma il Verbo nella sua
umanità, il Capo con le sue membra. La lettura del profeta Isaia riguarda
proprio l’identificazione di Gesù come il servo, l’identificazione del Messia
nella sua natura di servo. Non dimentichiamo che questo brano di Isaia ricorre
nella liturgia del lunedì della settimana santa, a sottolineare la dimensione
pasquale di quell’identificazione. In quella natura di servo siamo noi, nella nostra umanità, ad essere considerati. Non
dobbiamo perciò pensare che lo sguardo di compiacimento del Padre attenda a
posarsi su di noi allorquando saremo capaci di seguire Cristo in una vita
santa; è esattamente il contrario. Potremo impegnarci in una vita santa solo se
sentiremo sulla nostra umanità peccatrice, ferita e piena di paure, questo
sguardo di compiacimento perché Dio ama per primo, perché a Lui apparteniamo,
perché siamo la sua stessa carne. Ed è proprio perché la nostra fede squarcia
l’orizzonte per introdurci in questa visione che possiamo pregare, come citavo
all'inizio: " ... trasformaci nel Cristo tuo Figlio, che ha congiunto per
sempre a sé la nostra umanità".
§*§*§*§*§*§*§*§*§*§
Terzo ciclo
Anno liturgico A (2007-2008)
Tempo Ordinario
2a Domenica
(20 gennaio 2008)
_________________________________________________
Is
49,3-6; Sal 39; 1Cor 1,1-3; Gv 1,29-34
_________________________________________________
Il vangelo di Giovanni, a differenza di
Matteo, Marco e Luca, non parla delle tentazioni che Gesù subisce nel deserto
prima di iniziare la sua predicazione. Subito dopo il battesimo al Giordano, i
sinottici mostrano Gesù, nel deserto, assalito dal diavolo che cerca di
imporgli una visione messianica tutta sua, senza evidentemente riuscire a
distoglierlo da quella vera secondo Dio. Con la particolarità di Luca che,
prima di narrare delle tentazioni, riporta la genealogia di Gesù risalendo
all’indietro fino ad Adamo, fino alla sua figliolanza divina, a sottolineare
che colui che è stato battezzato e colui che intraprenderà la predicazione del
Regno è proprio il Figlio di Dio, fatto uomo per noi, inviato per la nostra
salvezza.
In Giovanni leggo l’allusione alle
tentazioni, soprattutto a quello che le tentazioni comportano nell’economia dei
racconti evangelici, nella testimonianza
solenne del Battista: “Ecco l’agnello di
Dio, ecco colui che toglie il peccato del mondo!”. La figura dell’agnello
richiama sia il servo obbediente sia l’agnello pasquale e rimanda al contesto
pasquale in cui si compie la salvezza, là dove il diavolo sarà definitivamente
sconfitto.
La figura del servo obbediente è
richiamata dalla lettura di Isaia. Si tratta del secondo canto del Servo
obbediente, testo che viene proclamato solennemente nella settimana santa, il
martedì. “Ora disse il Signore che mi ha
plasmato suo servo dal seno materno per ricondurre a lui Giacobbe e a lui
riunire Israele… : "È troppo
poco che tu sia mio servo per restaurare le tribù di Giacobbe e ricondurre i
superstiti di Israele. Ma io ti renderò luce delle nazioni perché porti la mia
salvezza fino all' estremità della terra”. Il salmo 39, che riprende quel
testo, commenta: “Sacrificio e offerta
non gradisci, gli orecchi mi hai aperto. Non hai chiesto olocausto e vittima
per la colpa. Allora ho detto: «Ecco, io
vengo. Sul rotolo del libro di me è scritto, che io faccia il tuo volere. Mio
Dio, questo io desidero, la tua legge è nel profondo del mio cuore»”.
Il servo è il Figlio che ha lo stesso
volere del Padre nel suo amore agli uomini. L’espressione della sua obbedienza
a quel volere di amore per gli uomini si esprime con le parole ‘gli orecchi mi
hai aperto’, che la versione greca, ripresa dalla lettera agli Ebrei 10,5,
rende con ‘un corpo mi hai preparato’.
L’umanità del Figlio di Dio costituisce l’obbedienza al volere di amore del
Padre per gli uomini, umanità che con il battesimo al Giordano viene consacrata
per diventare luce delle nazioni e portare salvezza al mondo. Quando il
Battista testimonia che Gesù, che ha appena battezzato, è il Figlio di Dio,
svela il segreto di Dio al mondo: in quell’umanità si giocherà l’amore di Dio
agli uomini. Dove la luce di quella salvezza risplenderà in tutta la sua
potenza? Sulla croce, dove il Signore è innalzato. Là conduce gli sguardi la
figura dell’agnello di cui dà testimonianza il Battista.
Quando il salmo 39 usa l’espressione
‘sul rotolo del libro’, l’allusione è all’insieme delle Scritture che di quel
segreto parlano. La figura dell’agnello raccoglie tutta la storia del mondo,
come suggerirà il libro dell’Apocalisse, rimandando all’agnello immolato fin
dalla fondazione del mondo (Ap 13,8) e
nella Gerusalemme celeste alla luce di Dio e dell’Agnello che sostituirà il
sole (Ap 22,5).
Non dimentichiamo che la proclamazione
di Giovanni Battista: "Ecco
l'agnello di Dio, ecco colui che toglie il peccato del mondo!" risuona
con la stessa solennità e lo stesso stupore in ogni celebrazione eucaristica
prima della comunione. È diventata l'invito alla mensa del Signore. In vista di
quale mistero, per partecipare a quale mistero? Lo dice bene la preghiera dopo
la comunione: "Infondi in noi, o Padre, lo Spirito del tuo amore, perché nutriti
con l'unico pane di vita formiamo un cuor solo ed un'anima sola". Quello
Spirito che Giovanni Battista ha visto scendere e rimanere su Gesù, quello
Spirito che l'ha condotto a dare la sua vita per noi, quello Spirito che su di
noi ha effuso dalla croce, in quello stesso Spirito noi siamo battezzati, di
quello stesso Spirito siamo rivestiti. È lo Spirito dell'amore del Padre, lo
Spirito del Figlio che è prediletto proprio perché condivide con il Padre lo
sconfinato amore per gli uomini per riunire i quali non esita a mettere in
gioco tutta la sua vita. Il compimento della grazia dello Spirito è proprio
quel mistero della fraternità che è sacramento della paternità di Dio. È
caratteristico che nel Canone eucaristico si invochi due volte lo Spirito
Santo: una volta, prima della consacrazione, per trasformare il pane ed il vino
nel Corpo e nel Sangue del Signore e un'altra volta, dopo la consacrazione, per
formare un unico corpo, per vivere cioè il mistero della fraternità in tutta la
sua potenza di rivelazione dell'amore di Dio. Non si può dispiegare in tutta la
sua potenza e profondità la rivelazione dell'amore di Dio in questo mondo se
non dentro il mistero della fraternità, se non in cuori che, in Cristo, Agnello
di Dio, conoscono i segreti di Dio tanto da essere perfettamente solidali con i
loro fratelli portando i loro peccati, massimo segno di amore per loro perché
si concedono a loro tutti i diritti su di noi.
§*§*§*§*§*§*§*§*§*§
Terzo ciclo
Anno liturgico A (2007-2008)
Tempo Ordinario
3a Domenica
(27 gennaio 2008)
_________________________________________________
Is
8,23-9,3; Sal 26; 1Cor 1,10-17;
Mt 4,12-23
_________________________________________________
La liturgia di oggi, giocando su alcune
immagini di fondo, suggerisce diverse porte di accesso al brano evangelico.
Consideriamo l’immagine della luce.
Gesù è presentato alle prese con l’inizio della sua predicazione in Galilea,
dopo l’investitura del battesimo e il superamento delle tentazioni.
L’evangelista Matteo, che molte volte si premura di collegare gli eventi
evangelici al mondo delle Scritture per offrirne la retta comprensione, si rifà
a un testo del profeta Isaia che descrive i territori del nord della Palestina
lungo la via che i vari conquistatori percorrevano per estendere i loro domini,
la via tra l’Egitto e l’Assiria, i due imperi antagonisti. Un territorio di
popolazioni miste perché soggetto a deportazioni e vassallaggi. Il profeta però
esorta alla fiducia perché l’angoscia degli abitanti di quel territorio si
trasformerà in esultanza per la venuta di un nuovo re liberatore (“un bambino è nato per noi, ci è stato dato
un figlio”, Is 9,5), che la liturgia canta il giorno di Natale. La luce che
gli abitanti vedranno è la luce di colui che Giovanni descriverà nel prologo
del suo vangelo: “In lui era la vita e la
vita era la luce degli uomini … veniva nel mondo la luce vera, quella che
illumina ogni uomo” [reso forse meglio: il
Verbo era la vera luce che, venendo nel mondo, illumina ogni uomo].
Il salmo responsoriale riprende la
stessa immagine: “Il Signore è mia luce e
mia salvezza”. E così, quando Matteo descrive la predicazione di Gesù, la
colloca nella prospettiva di questa luce
che splende, luce che si esprimerà nel discorso della montagna, con
l’annuncio delle beatitudini, che segue subito dopo.
Sempre in riferimento a quella luce va
compreso l’annuncio: “Convertitevi,
perché il regno dei cieli è vicino”. Convertirsi è vedere quella luce che
splende. Non si tratta però di una visione materiale perché all’esterno non si
vede nulla di particolare. La luce induce alla conversione ma è la conversione
che permette di vedere lo splendore di quella luce. La luce che induce alla
conversione è la percezione della potenza
che abita quel Maestro, tanto da andargli dietro se ti chiama, come hanno fatto
gli apostoli. Come se si dicesse: se volete che il regno di Dio diventi vostro,
convertitevi, cioè acconsentite alla visione che scaturisce dalla fede nel
Figlio di Dio. Il convertirsi
comporta prima di tutto un dare fiducia,
un affidarsi, un prestar fede alla promessa di Dio, alla potenza della sua parola,
potenza di verità e di vita lasciata a noi perché diventi nostra. Solo in un
secondo momento la conversione comporta un valore morale, nel senso di una
disciplina del vivere che corrisponda e fortifichi nello stesso tempo il
desiderio del cuore.
Gregorio Magno, commentando la
prontezza dei pescatori a seguire la chiamata di Gesù, riflette sul fatto che a
dire il vero quegli uomini avevano ben poco da lasciare essendo poveri. Ma,
aggiunge “ha molto lasciato chi non ha tenuto nulla per sé”. È appunto il senso
della fede genuina. Non importa lasciare poco o tanto; l'importante è non
conservare nulla per sé, vale a dire fidarsi fino in fondo, con tutto il
cammino, con tutte le fatiche che questo comporta, in modo che la grazia
dell'incontro possa rivelare tutti i suoi frutti, nel tempo.
Se ora riflettiamo sul significato
della chiamata degli apostoli non si può non notare il fatto che non sono stati
chiamati semplicemente alla sequela di Gesù, ma alla sequela di Gesù che è
inviato a portare a tutti la salvezza e la consolazione (vi farò pescatori di uomini). Seguire Gesù comporta un’esperienza
di vita, la condivisione del suo insegnamento e della sua missione; dice prima
di tutto quanto l’intimità di vita con il Signore sia sconfinata nel senso che
non può ripiegarsi su se stessa ma continuamente si traduce in condivisione
della misericordia di Dio per l'umanità. L'intimità con Dio comporta sempre una
buona dose di sana angoscia per i propri fratelli e per questo non sta mai ferma: fin dove c'è un uomo, fin dove
c'è un livello di umanità non ancora aperto alla grazia dell'incontro, fin dove
c'è una malattia da curare, l'apostolo, come Gesù, non si dà pace. Più profonda
è la pace che viene dalla grazia dell'incontro, meno pace si dà finché tutti i
fratelli possano godere della stessa grazia. Il senso del guarire ogni sorta di malattie e di infermità da
parte di Gesù in missione, come avverrà per gli apostoli inviati in missione (imporranno le mani ai malati e questi
guariranno, Mc 16,18), è proprio questo: condividere la misericordia di Dio
per l’umanità.
Un altro particolare della chiamata
degli apostoli è estremamente significativo. Gesù li chiama non semplicemente a
seguirlo, ma a mettersi dietro a lui,
come poi dirà Gesù a Pietro quando lo rimprovererà per aver pensato non secondo
Dio: “Ma egli, voltandosi, disse a
Pietro: Lungi da me, satana! [da intendersi: vieni dietro a me]. Tu mi sei di scandalo, perché non pensi
secondo Dio, ma secondo gli uomini!” (Mt 16,23). Quel mettersi dietro a corrisponde a quanto il salmo fa dire al fedele:
“Una cosa ho chiesto al Signore, questa
sola io cerco: abitare nella casa del Signore tutti i giorni della mia vita”.
Qual è la nostra domanda al Signore? Qual è l’unica cosa necessaria da
domandare? Tutto dipende dalla profondità che nei nostri cuori ha raggiunto la conversione al vangelo
del regno, di cui ci ha fatto vedere lo splendore da indurci a
rivestircene.
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Terzo ciclo
Anno liturgico A (2007-2008)
Tempo Ordinario
4a Domenica
(3 febbraio 2008)
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Sof
2,3; 3,12-13; Sal 145; 1Cor 1,26-3; Mt 5,1-12
_________________________________________________
Oggi viene proclamato il vangelo delle
beatitudini. Lasciandoci guidare dalla liturgia, proviamo ad avvicinarlo
partendo dal salmo responsoriale, il salmo 145, che esplicita la profezia di
Sofonia. “Il Signore regna” conclude
il salmo. La proclamazione fa da contrappunto ai primi versetti del salmo: “non confidate nei potenti, in un uomo che
non può salvare”, da rendere con più precisione, secondo la versione greca:
‘in un uomo che non ha salvezza’. Quando la moltitudine dei santi in paradiso
loda Dio grida: “La salvezza appartiene
al nostro Dio seduto sul trono e all'Agnello” (Ap 7,10). L’uomo non può
darsi la salvezza: ecco l’evidenza della storia. Se l’uomo si affida all’uomo
non troverà salvezza. Il che equivale anche a dire: non godrà felicità. Eppure
l’uomo non godrà felicità se non in comunione con gli uomini. Perché?
Possiamo anche intendere così: la
nostra vocazione è la felicità e, per quanto possa sembrare strano, la felicità
è paradossale. Non la si prende dove sembra di vederla, ma la si ottiene spesso
con ciò che sembra il contrario. Perché in gioco è la credibilità stessa di Dio
che viene incontro all'uomo, senza però mai poterlo convincere all'evidenza.
Nella felicità è in gioco non semplicemente l'esaudimento di un cuore, ma
l'incontro di due, la comunione di due.
Il brano del profeta Sofonia introduce
la promessa per il resto d’Israele di godere del regno di Dio nel contesto,
terribile, del giorno dell’ira del Signore. Il profeta assiste ad avvenimenti
tragici: in pochi decenni si susseguono devastazioni immani ad opera dei due
regni contrapposti, Egitto e Assiria. Israele non confida più in Dio; cerca
alleati umani, si fida ora dell’uno ora dell’altro, per scampare al pericolo,
ma non trova riposo perché l’uno e l’altro sono antagonisti perenni e lui ne fa
continuamente le spese. Dopo le minacce e le invettive tra le più terribili
della Bibbia, il profeta annuncia la fedeltà di Dio al suo popolo, annuncia la
felicità che vuol procurare al suo popolo.
Il salmo 145, che riprende la promessa
annunciata da Sofonia, fonda la credibilità di Dio su di una sua specifica
qualità: “egli custodisce la verità in eterno’, ‘egli è fedele per semprè. Quale questa verità? La verità del
suo amore per l’uomo, la verità del suo agire in benevolenza verso l’uomo. Alle
nostre orecchie appare perlomeno contraddittoria questa affermazione, quando
risuona in un contesto di afflizioni e drammi. Ma la profondità di senso di
quell’affermazione si può cogliere solo a partire dal dramma nel quale l’uomo
vive.
Gesù, quando annuncia le sue
beatitudini, ha presente il dramma dell’uomo. Senza riferire le sue parole al
profondo dramma che vivono gli uomini, le beatitudini suonano come pie
esortazioni e il riferimento alla felicità una pia illusione.
Intanto, Gesù può annunciare le sue
beatitudini ai discepoli perché ha già fatto vedere che ‘il regno di Dio è vicino’, vale a dire:
a) ha già potuto far vedere la potenza
dell’agire di Dio a loro favore (Gesù ha già cominciato a predicare il vangelo
del regno, ha già entusiasmato uomini che lo seguono, ha già guarito molti da
malattie e infermità e mostrato il suo potere sui demoni, come dirà più avanti:
“Ma se io scaccio i demòni per virtù
dello Spirito di Dio, è certo giunto fra voi il regno di Dio”, Mt 12,28);
b) è stato però necessario convertirsi al mistero della sua persona
per cogliere il suo agire come testimonianza della presenza salvatrice di Dio
in mezzo a loro. Diversamente – e per molti si ridurrà a questo! – vedranno
solo un guaritore da importunare in ogni caso per avere un po’ di sollievo. Chi
però agirà così, non troverà felicità,
perché non avrà incontrato il suo
Dio.
Ciò che le beatitudini hanno di
paradossale deriva dall'esperienza di un incontro assoluto che pone tutto il
resto in sott'ordine. E tutto il resto sta in sott'ordine perché è tale la
potenza che si sprigiona da quell'incontro che nulla potrà sostituirsi al suo
fascino. La beatitudine che proclama Gesù deriva dalla comunione con la sua, da
quella vita con il Padre e lo Spirito che lo rende così Figlio da non volere
altro per sé se non di vedere tutti immersi nello stesso amore del Padre.
Deriva dalla rivelazione dell'esperienza del Regno ormai giunto fino a noi,
ormai schiuso nella sua inaccessibilità e nel suo mistero tanto da schiudere
ogni evento alla sua realtà. Deriva dalla partecipazione alla vita divina,
quella che non avrà più fine e che si fa accessibile a noi fin da ora.
Le beatitudini sono otto. La prima e
l’ultima comportano la stessa promessa: ‘perché
di essi è il regno dei cieli’ e racchiudono le altre sei. C’è un doppio
movimento nell’elenco delle beatitudini: un movimento di concatenazione e un
movimento circolare. La concatenazione riguarda lo spazio definito dalla
seconda alla settima, mentre il movimento circolare è dato dal ritornare
dell’ottava alla prima per riavviare, a livelli sempre più profondi, la
concatenazione. La felicità scaturisce dai passaggi indicati: se ti affliggi
solo per la potenza del male che ti domina e dal quale vuoi esserne liberato,
se non avrai altro motivo di ira se non quello di opporti al maligno e così custodirti
dolce con tutti, se cercherai la giustizia al di sopra del tuo interesse, se
condividerai con tutti la misericordia che avrai gustato nel perdono di Dio, se
sarai così privo di rivendicazioni e pretese da vedere tutto e tutti nella luce
di Dio di cui godrai la presenza, se seguirai l’opera di Dio che è la
fraternità tra gli uomini, allora – è la promessa della settima beatitudine –
sarai come il Figlio di Dio che, per essere venuto a testimoniare quanto è
grande l’amore di Dio per gli uomini, non ha preferito se stesso all’amore che
lo divorava e ha accettato di essere consegnato nelle mani degli uomini. Se
nella persecuzione l’uomo non perde la sua gioia, allora vuol dire che la
potenza del Regno l’ha lambito, che
la sua felicità non dipende più dal mondo. Non avrà più bisogno di cercare
altra affermazione di sé perché ha trovato quella capace di soddisfare
l’anelito del suo cuore, che così sarà confermato nella rinuncia alla brama di
ogni bene che non sia espressione di quell’esperienza. Tanto che si affliggerà
ancora più profondamente del male che in lui si annida e ripercorrerà la
concatenazione dei passaggi a livelli sempre più coinvolgenti.
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Terzo ciclo
Anno liturgico A (2007-2008)
Tempo di Quaresima
1a Domenica
(10 febbraio 2008)
_________________________________________________
Gn
2,7-9; 3,1-7; Sal 50; Rm 5,12-19; Mt 4,1-11
_________________________________________________
Il cammino quaresimale è una buona
immagine del cammino della vita. Il percorso per arrivare alla Pasqua del cielo
è segnato da innumerevoli tentazioni. Senza tentazioni non c’è verità, dicevano
i nostri padri. Il brano evangelico di questa prima domenica di quaresima
riporta le tentazioni di Gesù. Il maligno, non essendo stupido, non tenta certo
di distogliere Gesù da Dio per indurlo al male. La sua azione è più raffinata.
Gli suggerisce che ci sarebbe un modo più diretto ed efficace per arrivare al
suo scopo. L’inganno sta nel fatto di fargli fare qualcosa in nome di Dio senza
condividere il segreto di Dio, senza il compiacimento di Dio. Le tentazioni
hanno appunto lo scopo di distoglierci dall’obiettivo vero per suggerirne uno
fasullo.
Le tre tentazioni sono precedute
dall’annotazione che, dopo quaranta giorni di digiuno, Gesù ebbe fame. Non si tratta
solo di una fame materiale (solo la prima tentazione alluderebbe direttamente
al desiderio di cibo) ma del suo desiderio di realizzare il compito di cui è
stato investito come Messia: portare tutti a Dio. Il ritirarsi di Gesù nel
deserto segue l’evento del battesimo al Giordano allorquando si è sentito
proclamare ‘Figlio prediletto’, ripieno dello Spirito Santo. Il suo aver fame richiama il grido sulla croce:
ho sete (Gv 19,28). Ha fame e sete
degli uomini. È nel suo zelo per gli uomini che viene tentato.
La scena richiama l’esperienza del
popolo di Israele in viaggio verso la terra promessa nel suo peregrinare nel
deserto, luogo della rivelazione di Dio e nello stesso tempo luogo di terribili
tentazioni. Le risposte che Gesù dà al diavolo sono tutte citazioni prese dal
libro del Deuteronomio (Dt 8,3; 6,16; 6,13), soprattutto da quel capitolo 6 che
contiene la professione di fede del pio israelita, lo Shema Israel.
D’altro canto, è caratteristico che
l’antifona di ingresso della messa di oggi sia la ripresa di un versetto del
salmo 90, di cui si serve anche il diavolo nel suo secondo attacco a Gesù: “Egli mi invocherà e io lo esaudirò; gli darò
salvezza e gloria, lo sazierò con una lunga vita”. Il salmo 90, nella
tradizione ebraica, è il salmo che chiude la celebrazione del sabato. Dopo aver goduto della luce e
della gloria della presenza del Signore nella meditazione della sua parola per
tutta la giornata, all’appressarsi del nuovo giorno della settimana, quando le
occupazioni quotidiane riprenderanno con il loro fardello di preoccupazione, di
fatica e di tentazioni, il fedele supplica fiducioso: la gloria di questo santo
giorno si estenda nella settimana per essere custodito nella pace del Signore.
L’invocazione corrisponde a ciò che la colletta fa pregare: “concedi ai tuoi
fedeli di crescere nella conoscenza del mistero di Cristo e di testimoniarlo
con una degna condotta di vita”.
Cogliere la dinamica specifica delle
tentazioni di Gesù significa individuare l’illusione con cui il diavolo vuole
estendere al mondo la gelosia che lo divora e di cui ne facciamo amaramente le
spese. Per Gesù le tentazioni riguardano il potere di trasformare in pane le
pietre, di buttarsi dal pinnacolo del tempio e cadere illeso, di possedere i
regni di questo mondo se solo accettasse di prenderli dal diavolo.
Il riferimento a Dio suggerito dal
diavolo è ingannevole, perché il destinatario ultimo dei miracoli non è Dio, ma
lui stesso. Così se mai Gesù avesse accolto l'inganno, non si sarebbe trovato
dalla parte di Dio, ma del diavolo; vale a dire non avrebbe portato a
compimento la missione affidatagli da Dio, ma ne avrebbe pervertito il senso a
danno degli uomini e li avrebbe condannati alla disperazione.
Consideriamo la tentazione dalla parte
del diavolo. Quale sarebbe l’esito per noi se acconsentissimo? Ci ritroveremmo
condannati a queste illusioni:
all’oppressione dell’esibizione del
nostro potere, che in realtà ci allontana dalla vita, perché rende tutto il
resto insignificante;
all’ipertrofia di se stessi a tal punto
da servirci persino di Dio per riempire la scena;
alla tirannia della gloria effimera di
questo mondo che vuole la nostra vita.
In realtà la
posta in gioco della vita sta in questa corrispondenza: scegliere Dio stando
dalla parte degli uomini e scegliere gli uomini stando dalla parte di Dio.
Quando questa corrispondenza si spezza – lo scopo del diavolo è proprio quello
di pervertirla – allora l’uomo diventa schiavo, perché idolatra. L’intenzione
segreta del diavolo la vediamo emergere nella terza tentazione: “… se, prostrandoti, mi adorerai”.
Sottrarre l’uomo a Dio significa sottrarlo alla gloria che gli spetta. L’uomo
schiavo non rientra nel progetto di Dio.
Se consideriamo la tentazione dalla
parte di Dio che la consente, vediamo come sia in gioco la verità della
promessa di Dio al nostro cuore:
ci è promessa la vita, ma non secondo
il proprio piacere;
ci è promesso il soccorso, ma dentro
una provvidenza che impariamo ad accogliere;
ci è promessa la gloria, ma non per i
propri interessi.
Essere figli non comporta titolo alcuno di
pretesa; significa solo condividere con Dio il suo amore per gli uomini.
La penitenza quaresimale va diretta
contro l'illusione. Le risposte di Gesù frantumano l'illusione con la quale il
diavolo irretisce per impedirci di essere liberi e veritieri. E lo scopo del
vincere l'illusione lo rivela assai bene s. Francesco nel suo commento al Padre
nostro: “sia fatta la tua volontà come in
cielo così in terra: finché ti amiamo con tutto il cuore, sempre pensando a
te; con tutta l'anima, sempre desiderando te; con tutta la mente, orientando a
te tutte le nostre intenzioni e in ogni cosa cercando il tuo onore. E con tutte
le nostre forze, spendendo tutte le nostre energie e sensibilità dell'anima e
del corpo a servizio del tuo amore e non per altro; e affinché amiamo il nostro
prossimo come noi stessi, trascinando tutti con ogni nostro potere al tuo
amore, godendo dei beni altrui come dei nostri e compatendoli nei mali e non
recando offesa a nessuno”. È l'illusione infranta, la libertà acquisita, lo
spazio nuovo dell'umanità da riempire.
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Terzo ciclo
Anno liturgico A (2007-2008)
Tempo di Quaresima
2a Domenica
(17 febbraio 2008)
_________________________________________________
Gn
12,1-4; Sal 32; 2Tm 1,8-10;
Mt 17,1-9
_________________________________________________
Il cammino quaresimale porta alla
Pasqua di risurrezione, ma la chiesa sa che prima dell'esultanza della
risurrezione viene il dramma della morte. Così, prima di ritrovarci immersi nel
dramma della passione e della morte, la liturgia ci consola con la visione della trasfigurazione, allo scopo di
predisporci a vedere nel volto che sarà martoriato e insanguinato il volto del
Signore della gloria.
Una duplice tensione anima la liturgia:
a) proclama l’evento della trasfigurazione di Gesù per esaltarne la tensione
alla Pasqua, tensione che Gesù vive in se stesso e nella sollecitudine per i
suoi discepoli perché imparino a fidarsi di Dio; b) fa emergere la tensione che
lavora il cuore dell’uomo nel suo desiderio di vedere il volto di Dio e saziare
la sua nostalgia.
L’antifona di ingresso: “Di te dice il
mio cuore: «Cercate il suo volto». Il tuo volto io cerco, o Signore. Non
nascondere il tuo volto da me” risponde allo stupore estasiato di Pietro: “Signore è bello per noi restare qui”. Il
salmo 26 incomincia con “Il Signore è mia
luce e mia salvezza”; prosegue con “Una
cosa ho chiesto al Signore, questa sola io cerco: abitare nella casa del
Signore” e finisce con “Mostrami,
Signore, la tua via”. È la tensione di una vita: “sono certo di contemplare la bontà del Signore nella terra dei viventi”.
Quando il salmo proclama: “Non
nascondermi il tuo volto”, supplica Dio per due cose precise: perché faccia
sentire la sua presenza di accompagnamento e si degni di far vedere il suo
volto. L’uomo ha bisogno di tutte e due le cose.
Il punto di convergenza delle due
tensioni non riguarda però il vedere, ma l’ascoltare. Il racconto si conclude
infatti con la proclamazione della voce: “Questi
è il mio Figlio prediletto: ascoltatelo” e con la consegna del silenzio. Come a sottolineare che, se il racconto è per
gli occhi, lo scopo che ne costituisce la ragione è per gli orecchi, con
l’evidente conseguenza che soltanto ascoltando si potrà vedere.
La narrazione è preceduta da due particolari
estremamente significativi. Nel contesto dell’annuncio della sua passione a
Gerusalemme , Gesù aveva rimproverato apertamente Pietro e gli aveva detto “Lungi da me, satana!”, vale a dire: va’ dietro di me (Mt 16,23). E dopo che
Gesù aveva richiamato gli apostoli a seguirlo portando ciascuno la sua croce,
aveva concluso: “vi sono alcuni tra i
presenti che non morranno finché non vedranno il Figlio dell'uomo venire nel
suo regno” (Mt 16,28). ‘Sei giorni dopo’ (probabilmente all’inizio o alla
fine della festa delle capanne, che era diventata la festa dell’alleanza e del
dono della Legge al Sinai) Gesù si trasfigura sul monte in mezzo a Mosè ed
Elia. In questo caso, Mosè ed Elia non stanno a significare semplicemente la
Legge e i Profeti, ma che essi sono i precursori o i testimoni dell’Alleanza.
L’alleanza non è questione di vista, ma di udito. In effetti l’aspetto misterioso e strano della
narrazione evangelica è dato dal fatto che la paura assale gli apostoli non
quando vedono ma quando ascoltano.
Ci aiuta
a entrare nel mistero la colletta di oggi: “O Padre, che ci chiami ad ascoltare
il tuo amato Figlio, nutri la nostra fede con la tua parola e purifica gli
occhi del nostro spirito, perché possiamo godere la visione della tua gloria”.
La supplica è in funzione dell’ascoltare; sarà l’ascoltare che purificherà gli
occhi del cuore perché possano vedere.
L’esempio
di Abramo è eloquente. Sente la voce di Dio: “Vattene dal tuo paese, dalla tua
patria e dalla casa di tuo padre”. Non conosce nulla del nuovo paese: sa solo
che Dio gliene fa promessa. Sarà il suo ascoltare che gli consentirà di vedere
la benedizione realizzarsi. Proprio perché accetta la relazione con
colui che lo coinvolgeva nella sua storia sacra fino a diventare il suo Dio,
lascia la sua casa (se scegli il Padre celeste, devi lasciare quello terreno;
se scegli il regno di Dio, devi lasciare ogni altro regno; se ti accetti da
Dio, di Dio e secondo Dio devi vivere, come dirà Cipriano nel suo commento al
Padre nostro) e per questo, oltre a godere della benedizione di Dio, diventa
benedizione lui stesso per tutti perché rivela la grandezza dell'amore di Dio e
lo splendore che si irradia su tutto.
Così, se Abramo ascolta Dio, Gesù
ascolta il Padre, i discepoli ascoltano Gesù e il frutto della benedizione
promessa rivelerà il suo splendore. Per gli uomini, quello splendore consisterà
nel godere della visione del volto del Cristo, testimone dell’amore di Dio per
gli uomini, nella gloria della Pasqua di morte e risurrezione, condividendo
nella loro umanità lo sguardo di compiacenza del Padre che riposa tutto sul suo
Figlio benedetto. L’ascolto condurrà così alla visione di colui che mentre ci
squaderna il segreto di Dio per l’uomo fa rilucere il mondo dello splendore
della sua bellezza.
§*§*§*§*§*§*§*§*§*§
Terzo ciclo
Anno liturgico A (2007-2008)
Tempo di Quaresima
3a Domenica
(24 febbraio 2008)
_________________________________________________
Es
17,3-7; Sal 94; Rm 5,1-8;
Gv 4,5-42
_________________________________________________
Il brano evangelico di oggi si può
definire come una delle catechesi più riuscite di Gesù. Dico ‘riuscite’ nel
senso dell’esito finale, che corrisponde all’intenzione del Maestro. Il brano
finisce con l’accesso alla fede nel Salvatore non solo della donna samaritana, ma
dei Samaritani, simbolo della venuta alla fede da parte delle genti.
Il dialogo con la samaritana al pozzo
di Giacobbe comporta riferimenti diretti e suggestioni più segrete, in un
susseguirsi di immagini allusive della storia dell’alleanza di Dio con il
popolo di Israele. Se consideriamo il racconto dal punto di vista della
posizione della donna samaritana di fronte a Gesù, non possiamo non notare l’evoluzione del suo
atteggiamento interiore. Prima lo considera semplicemente un giudeo, poi uno più grande del patriarca
Giacobbe, poi un profeta, poi messia, infine salvatore del mondo. Nel suo
percorso leggiamo anche il nostro stesso percorso; la sua scoperta del Salvatore invita noi a porci nello stesso
atteggiamento di scoperta e la prosecuzione della lettura del vangelo di
Giovanni darà l’orizzonte di intelligenza
e la consistenza di coinvolgimento nell’avventura che scaturisce da
quella scoperta.
Vorrei però soffermarmi su una di
quelle che ho chiamato suggestioni
segrete di cui il brano è ricchissimo. La si può desumere dai passaggi
repentini nello svolgimento del dialogo. Che senso ha introdurre nel dialogo
con la samaritana la richiesta: Va’ a
chiamare tuo marito? Ricollochiamo la scena del dialogo. Siamo presso il
pozzo di Giacobbe, descritto dall’immaginazione popolare come miracoloso per la
capacità di trasbordare senza che nessuno attingesse l’acqua, da quando
Giacobbe vi incontra la sua futura sposa, Rachele (cfr. Gn 29,1-14). Presso un
pozzo anche Isacco incontra Rebecca (Gn 24) e Mosè la sua futura sposa (Es
2,15-22). Il tema dell’acqua è collegato
alle nozze. E chi dà l’acqua è il futuro marito: Giacobbe a Rachele e Mosè a
Zippora.
Nell’accusa che Dio rivolgerà al suo
popolo che si è prostituito tradendo il suo amore, Osea metterà in bocca a Israele
queste parole di tragico vaneggiamento: “Seguirò
i miei amanti, che mi danno il mio pane e la mia acqua, la mia lana, il mio
lino, il mio olio e le mie bevande” (Os 2,7). E dopo che Dio avrà rinnovato
il suo amore per Israele, dirà: “ti
fidanzerò con me nella fedeltà e tu conoscerai il Signore. E avverrà in quel
giorno - oracolo del Signore - io risponderò al cielo ed esso risponderà alla
terra; la terra risponderà con il grano, il vino nuovo e l' olio e questi
risponderanno a Izreèl. Io li seminerò di nuovo per me nel paese e amerò Non -
amata; e a Non - mio - popolo dirò: Popolo mio, ed egli mi dirà: Mio Dio”
(Os 2,22-25). Dio ricorderà che l’acqua la dà lui.
La vicenda personale della samaritana
(l’uomo con cui sta non è suo marito) diventa l’emblema dell’uomo che non sta
con il suo Dio. L’invito di Gesù a ritrovare il vero marito è l’invito a
ritornare al vero Dio. Così il tema dell’acqua, che è implicato con l’immagine
delle nozze, si apre al tema del tempio e della vera adorazione: dove trovare
il vero Dio? In questo contesto si comprendono le parole di Gesù sull’adorare in spirito e verità. Abbiamo sì bisogno
di un luogo in cui stare per adorare,
ma è finita l'economia antica: né qui né là, né sul monte Garizim né a
Gerusalemme. L'unico luogo, l'unico ubi consistam ormai non è che Lui, il
Cristo, il Figlio che rivela il Padre. Adorare Dio ormai non può significare
altro che adorare il Padre, Colui che nello Spirito possiamo chiamare Abbà, Padre. Ma come si può conoscere il
Padre se non dal Figlio che ce lo mostra, di cui ci svela i segreti, nella
comunione del quale ci attrae? E come adorare il Padre se non nel Figlio con il
quale diventare uno stesso Spirito per respirare della stessa intimità che lo
lega al Padre? Qui si innesta il dialogo successivo con i discepoli, in assenza
della samaritana: mio cibo è fare la
volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera. L’opera si rivelerà
subito con il ritornare della samaritana e con il venire dei suoi concittadini
che invitano Gesù a rimanere con loro per concludere: “Non è più per la tua
parola che noi crediamo; ma perché noi stessi abbiamo udito e sappiamo che
questi è veramente il salvatore del mondo”.
Tutto il dialogo come la conclusione
che sfocia nella professione di fede sembra rispondere all’invito evangelico: “Chiedete e vi sarà dato”. Ma cosa va
chiesto? “Se dunque voi, che siete
cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro
celeste darà lo Spirito Santo a coloro che glielo chiedono!” (Lc 9,11.13).
E nel vangelo di Giovanni l’acqua allude sempre al dono dello Spirito Santo.
§*§*§*§*§*§*§*§*§*§
Terzo ciclo
Anno liturgico A (2007-2008)
Tempo di Quaresima
4a Domenica
(2 marzo 2008)
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1Sam
16,1-13; Sal 22; Ef 5,8-14;
Gv 9,1-41
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I vangeli della terza, quarta e quinta
domenica di quaresima formano un tutto compatto per l'accentuato contesto
battesimale nel quale sono proclamati in vista del grande appuntamento
pasquale, soprattutto per i catecumeni. Il vangelo della samaritana (Gesù acqua
viva), del cieco nato (Gesù luce vera) e della risurrezione di Lazzaro (Gesù
vita vera) richiamano appunto il nostro battesimo. In particolare, i tratti che
avevano definito la venuta del Cristo nel prologo del vangelo di Giovanni (“in lui era la vita e la vita era la luce
degli uomini .. Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni
uomo”), con il vangelo del cieco nato e della resurrezione di Lazzaro si
impongono alla coscienza dei fedeli.
Da vari punti di vista può essere letto
il brano di oggi. Per esempio, dal punto di vista della progressiva apertura
alla fede da parte del cieco guarito. Non è lui a chiedere la guarigione:
l’iniziativa è di Gesù. Lui ha fiducia e va a lavarsi alla piscina di
Siloe (quella dalla quale veniva attinta
l’acqua portata solennemente verso il tempio e versata attorno all’altare nella
solennità della festa delle capanne, cfr. Gv 7,37-39. Siloe significa piuttosto
‘chi invia [le acque]’e Giovanni, rendendolo al passivo, ‘Inviato’, indica che
la nostra guarigione si trova in Gesù, che poco prima si era definito ‘inviato’
dal Padre, v. 4). Nelle parole del cieco guarito Gesù è indicato prima come
‘quell’uomo che si chiama Gesù’, poi ‘un profeta’, poi ‘che è da Dio’ e infine,
davanti alla domanda di Gesù che lo va a cercare dopo che è stato cacciato dai
farisei: “Tu credi nel Figlio dell’uomo?”,
risponde: “Io credo, Signore!”.
La progressione segnala la dinamica
spirituale del credente. Da un singolo evento (la guarigione dalla cecità) si
arriva al coinvolgimento di tutta la propria vita (la fede nel Figlio
dell'uomo). Oppure, per esprimerla con altra immagine, dalle cose si passa a
scoprire un Volto e da questo Volto si torna, nuovi, alla propria vita, alla
propria storia. Gli eventi ci sono dati per scoprire il Volto di colui che il
nostro cuore cerca e la scoperta di questo Volto ci rimanda agli eventi perché
siano vissuti nella luce e nella vita che da lui promanano.
Altro aspetto di tale dinamica è quello
che chiamerei la responsabilità della storia personale. È vano voler trovare il
senso delle cose per assumerle (l'atteggiamento dei farisei lo dimostra);
piuttosto, le assumo e scopro il senso (è la via della fede e dei comandamenti evangelici).
A tale riguardo è estremamente
significativo l’introduzione al brano del cieco nato. I discepoli interrogano
Gesù: “ha peccato lui o i suoi genitori?”.
La domanda esprimeva il tentativo di sfuggire all’angoscia del male da parte di
una coscienza religiosa. Noi non formuleremmo più la domanda in quei termini,
ma non per questo l’interrogativo di fronte al male ha perso la sua angoscia
lancinante. Gesù non dà risposta in termini ‘ragionevoli’. Invita più
semplicemente, ma più potentemente, a distogliere lo sguardo dal passato e
volgerlo al futuro: “è così perché si
manifestassero in lui le opere di Dio”. Cosa significa? Vuol solo dire che
si appresta a fare il miracolo? E per tutti gli altri ‘ciechi’ che non verranno
mai guariti? S. Paolo, in Rm 3,9-20, ricorda che ‘tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio’. Sarebbe
inutile cercare la causa 'indietro'; ci inchioda al non-senso e alla rabbia
della frustrazione. La motivazione va cercata 'in avanti', rispetto a un
'qualcosa' che per noi deve ancora farsi, deve ancora rivelarsi. Ma non si
tratta più semplicemente di cose, di eventi, bensì di incontri, di volti. È il
mistero stesso della fede. La vita scaturisce dalla fede nel senso che la si
può vivere ricevendola dalle mani di colui che ci è venuto incontro ed ha
mostrato il suo Volto. Del resto, il mistero dell'amore umano trova qui le
radici del suo insopprimibile fascino, nonostante le ferite e le delusioni alle
quali così spesso ci condanna.
I vari personaggi che entrano in gioco
nella scena del racconto tendono a inchiodare il cieco alla sua storia. I
discepoli di Gesù lo vedono sotto il peso del castigo di Dio; i farisei si
tengono a distanza per paura di dover trarre le conseguenze dall’evidenza di un
miracolo del genere e gli rinfacciano perciò la sua ‘nascita nei peccati’ (in
questo, dimostrandosi ‘veri ciechi’, come dirà Gesù alla fine); i suoi genitori
se ne stanno da parte per timore. Lui, invece, forte della gioia della sua
guarigione, sa tener testa a tutti e proprio perché nessuno gli sta attorno
amichevolmente, quando Gesù si fa vedere da lui, è pronto a riconoscerlo non
semplicemente come il suo guaritore, ma come colui che gli ha aperto la visione
della vita: “Io sono la luce del mondo;
chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita” (Gv
8,12), ripreso nel canto al vangelo.
Quando Gesù dice “Io sono la luce del
mondo” non si può non risalire al racconto della creazione in Genesi 1,3,
quando fu creata la luce. Non è semplicemente la luce fisica, quella che deriva
dal sole, creato solo nel quarto giorno. È la luce della santità amorevole di
Dio che attraversa il mondo, luce che è stata nascosta. È la luce che fa
intuire il mondo dentro uno sguardo unico. È la luce che il messia rivelerà. È
la luce che Gesù ha fatto risplendere liberando gli uomini succubi del serpente
che li ha privati della gloria di Dio. Come fa pregare la preghiera dopo la
comunione: “O Dio, che illumini ogni uomo che viene in questo mondo, fa
risplendere su di noi la luce del tuo volto [il Signore nostro Gesù Cristo],
perché i nostri pensieri siano sempre conformi alla tua sapienza e possiamo
amarti con cuore sincero”.
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Terzo ciclo
Anno liturgico A (2007-2008)
Tempo di Quaresima
5a Domenica
(9 marzo 2008)
_________________________________________________
Ez
37,12-14; Sal 129; Rm 8,8-11;
Gv 11,1-45
_________________________________________________
Gesù, che ha appena saputo della
malattia mortale del suo amico Lazzaro, non si muove subito. Sa che morirà e
lui andrà non a guarirlo, ma a svegliarlo
dal sonno della morte e lo spiega così ai discepoli: “Questa malattia non è per la morte, ma per la gloria di Dio, perché per
essa il Figlio di Dio venga glorificato”. Quando Marta, davanti al sepolcro
del fratello, come arrendendosi di fronte alla terribile realtà della morte,
ricorda a Gesù il fetore dei morti, si sente dire: “Non ti ho detto che, se credi, vedrai la gloria di Dio?”. Sembra
che la domanda di fondo che serpeggia per tutto il brano non sia: perché la morte?,
ma: perché Dio ritarda? Perché Dio non impedisce la morte? L’osservazione
assume tutto il suo valore proprio tenendo conto della conoscenza del potere di
Gesù e dell’amore grande che lo lega ai suoi amici, amore che tutto il racconto
rimarca con vari dettagli. La domanda invece che rimbalza per noi si può
formulare così:come possiamo entrare nella gloria di Dio?
È la stessa domanda di fondo che muove
Tommaso a solidarizzare con Gesù: “Andiamo
a morire con lui”. È la stessa domanda della fede di Marta, che non dice di
credere a quanto le ha chiesto Gesù, ma inaspettatamente dichiara: “Sì, Signore, io credo che tu sei il Cristo,
il Figlio di Dio che deve venire nel mondo”. In effetti non dice: io credo
che tu hai il potere di far risorgere i morti, ma piuttosto: io credo che tu
sei il Figlio di Dio. Afferma la verità del suo incontro con lui, del suo
amore; ha piena fiducia in lui. Non solo, ma dichiara che di ogni desiderio che
porta nel suo cuore colui che glielo farà realizzare compiutamente è soltanto
lui. Per questo potrà vedere la gloria di Dio. E sarà per questo che potrà
seguire il suo Gesù, con sua sorella Maria, fino alla fine, fino a che la sua
glorificazione appaia al mondo.
La colletta fa pregare: “Vieni in
nostro aiuto, Padre misericordioso, perché possiamo vivere e agire sempre in
quella carità che spinse il tuo Figlio a dare la vita per noi”. Quella carità è
il frutto della sua glorificazione che ci viene elargito dallo Spirito Santo.
Il combattimento spirituale, la lotta contro il male, l’acquisto delle virtù,
l’osservanza dei comandamenti altro non è che una partecipazione alla potenza
della risurrezione, allorché la vita viene vissuta nella carità del Cristo che
niente e nessuno può mortificare. È il principio della vita eterna, quello di
una vita che non abbia altra consistenza se non come carità. L’incontro con
Gesù apre a questa dimensione. Se lui è ‘datore di vita’ lo è perché, facendo
vivere nella sua carità, impedisce alla morte di tenere prigioniero il nostro
cuore.
Ireneo l’aveva proclamato
stupendamente: “La gloria di Dio è l’uomo vivente, e la vita dell’uomo è la
visione di Dio” (Adv. Haer. IV,20,7). L’uomo vivente non indica semplicemente
l’uomo che vive la sua vita biologica, ma l’uomo che vive secondo le
potenzialità di cui è stato dotato nella sua capacità di accogliere la vita di
Dio, come rivela il prologo del vangelo di Giovanni: “A quanti però l' hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di
Dio: a quelli che credono nel suo nome, i quali non da sangue, né da volere di
carne, né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati” (Gv 1,12-13). E
la testimonianza a proposito di questa vita la si desume dall’esperienza: “e noi vedemmo la sua gloria, gloria come di
unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità” (Gv 1,14).
Il nostro gridare, nel salmo
responsoriale, a commento del passo di Ezechiele che riporta la promessa di Dio
di aprire le nostre tombe: “Dal profondo
a te grido, o Signore; Signore, ascolta la mia voce”, deriva dalla
coscienza della nostra mortalità, non
semplicemente come termine della vita biologica, ma come abisso della
mortificazione della vita che stenta ad accedere alla carità di Dio. Quella
‘mortificazione della vita’ vince il Signore. È interessante osservare che
l’episodio della risurrezione di Lazzaro si chiude non con il riconoscimento o
l’incontro affettuoso di Lazzaro con Gesù, ma con il comando: “Scioglietelo e lasciatelo andare”.
Corrisponde all’invito di Gesù, dopo i miracoli di guarigione: ‘va’, la tua
fede ti ha salvato’. Venire a Gesù (questo potrebbe anche voler significare il
grido di Gesù: Lazzaro, vieni fuori!) comporta vivere della sua vita, della
vita che lui può dare e lo spazio di espressione di questa vita è ormai dato
dalla fraternità che si vive nel mondo. A questa Gesù rimanda.
Un’ultima annotazione. Con il miracolo
della risurrezione di Lazzaro Gesù scatena la sua ora, come la finale del
capitolo sottolinea espressamente: “Ma
uno di loro, di nome Caifa, che era sommo sacerdote in quell' anno, disse loro:
"Voi non capite nulla e non considerate come sia meglio che muoia un solo
uomo per il popolo e non perisca la nazione intera". Questo però non lo
disse da se stesso, ma essendo sommo sacerdote profetizzò che Gesù doveva
morire per la nazione e non per la nazione soltanto, ma anche per riunire
insieme i figli di Dio che erano dispersi” (Gv 11,49-52). Lo scopo e la
ragione del suo agire, sottolineato dal potere di fare miracoli, di cui questo
della risurrezione di Lazzaro è il settimo nel racconto di Giovanni, si
manifesteranno chiaramente con la sua stessa morte e risurrezione.
Se Gesù non ha voluto risparmiare la
prova ai suoi amici e viene a condividerla, tanto da restarne intimamente e
profondamente scosso, la ragione è da ricercare nel fatto che così facendo si
espone alla sua prova, anzi la
provoca con l'arresto e la morte imminenti.
Ma la sua non è una semplice condivisione della sofferenza umana. Il suo
rendere grazie l'attraversa, la porta fino in fondo. È però più forte della
morte e se esulta, non è per aver impedito il suo corso, ma per aver trionfato
su di essa dopo averle lasciato esprimere tutto il suo potere.
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Terzo ciclo
Anno liturgico A (2007-2008)
Tempo di Quaresima
Domenica delle Palme
(16 marzo 2008)
_________________________________________________
Ingresso
in Gerusalemme Mt 21,1-11
Messa Is
50,4-7; sal 21; Fil 2,6-11;
Mt 26,14-27,66
_________________________________________________
L’arrivo a Gerusalemme di Gesù, nella
narrazione di Matteo, è preceduto dalla guarigione a Gerico di due ciechi, dei
quali si dice: “Gesù si commosse, toccò
loro gli occhi e subito ricuperarono la vista e lo seguirono” (in Marco il racconto si riferisce al cieco
Bartimeo di cui si dice: “Subito
riacquistò la vista e prese a seguirlo
per la strada”). Quella strada portava a Gerusalemme. C’è bisogno di
aver gli occhi aperti per cogliere il
senso dell’arrivare di Gesù a Gerusalemme. Qui porta il suo cammino, qui lo
spinge la sua vocazione, qui si compie quel disegno
del Padre che Gesù andava illustrando con le sue parole e con i suoi atti,
sebbene nessuno, neanche i suoi discepoli, fosse ben consapevole della posta in
gioco.
La liturgia di oggi accompagna Gesù nel
suo ingresso trionfale a Gerusalemme
ma per celebrare, con i testi della messa, l’inizio della sua drammatica
passione. Vorrei prima soffermarmi sull’ingresso di Gesù in Gerusalemme e
illustrare qualche dettaglio del racconto evangelico.
È caratteristico che in Matteo e Marco
Gesù sia chiamato il Signore solo in
questa occasione e quasi in sordina: “il
Signore ne ha bisogno”, per rispondere a chi si fosse mostrato contrariato
del fatto che i suoi discepoli si portavano via l’asina e il puledro. Secondo
la profezia messianica di Zaccaria 9,9-10, Gesù entra in città seduto
sull’asina, tra i gesti di devozione dei discepoli e della folla che stendevano
al suo passaggio i loro mantelli. La scena ha sapore regale perché ricorda la
proclamazione di Salomone come re di Israele sulla mula di Davide (1Re
1,33-34); ricorda i patriarchi (Abramo si incammina verso il monte Moria per il
sacrificio di Isacco a dorso di asino); richiama il re Messia mite e pacifico, che disdegna i cavalli
perché simbolo di guerra.
Nel particolare delle fronde tagliate
riecheggia il sal 117,27: “Ordinate il
corteo con rami frondosi fino ai lati dell’altare” allorquando i sacerdoti
benedicevano i pellegrini che salivano al tempio e dicevano: “Benedetto colui che viene nel nome del
Signore … Dona, Signore, la tua salvezza [= Hosanna]”. Anche la folla che
accompagna Gesù riprende le parole del salmo: “Osanna al figlio di Davide! Benedetto colui che viene nel nome del
Signore! Osanna nel più alto dei cieli!”.
La citazione risulta ancor più
misteriosa se si tiene conto dell’antica versione aramaica: “Legate la vittima
per la festa con rami frondosi fino ai lati dell’altare”. A Gesù si fa festa
perché è la vittima prescelta, ma
nessuno ancora lo sa se non lui. L’acclamazione dell’hosanna era già risuonata sulla bocca degli angeli alla nascita di
Gesù e risuona ora sulla bocca dei discepoli per la sua morte. Ciò che avviene
in Gerusalemme lascia intravedere ciò che avviene nei cieli e ciò che avviene
nei cieli è proprio la verità di quanto sta succedendo in Gerusalemme. Solo
Gesù evidentemente è consapevole ma di lì a poco se ne renderanno conto tutti,
prima in forma drammatica con il rifiuto di quel re mite e pacifico e poi in forma di esultanza con il
riconoscimento del Signore risorto, datore di pace e di letizia.
A dire il vero, almeno secondo la
narrazione di Giovanni, una persona che si accorge di quanto sta succedendo
c’è. È Maria di Betania la quale, il giorno prima dell’ingresso di Gesù in
Gerusalemme, fa presagire la sua morte con l’espressione di devozione del suo
amore. Soltanto lei, nella tenerezza del suo amore, intuisce il mistero di
Gesù. Spezzare quel vasetto di unguento assai prezioso (se la stima di Giuda è
realistica, il costo ammonterebbe più o meno allo stipendio di un anno per un
operaio), ungere i piedi di Gesù e asciugarli con i suoi capelli finché tutto
in quella casa senta di quel profumo, risponde al desiderio di accompagnare
Gesù nella sua solitudine. Quel profumo rivela la morte imminente, che nessuno
è pronto ad accettare, ma anche tutto l'amore che quella morte significa ed
esprime, tutto l'amore che quel corpo 'dato per noi' significa ed esprime. E i
Padri antichi hanno visto in quel profumo versato su Gesù il pentimento dei
nostri cuori, pentimento che si allarga ed impregna tutto perché l'amore che
Gesù ha testimoniato con la sua passione non resti estraneo a niente di noi e
perché niente di noi resista a tale amore.
Da oggi e per tutta la settimana santa
la prima lettura è tratta dal libro del profeta Isaia. Vengono proclamati i
quattro canti del Servo del Signore (cap. 42, 49, 50 e 53) che, insieme al
salmo 21, costituiscono le straordinarie testimonianze profetiche della
passione di Gesù. Sono quei versetti a costituire la cornice di riferimento per
lo svolgimento dei riti santi e sono quei versetti a esprimere la profondità e
la tenacia dell’amore di Dio per l’uomo e insieme la tenerezza dell’amore
dell’uomo per il suo Dio. Le espressioni sono altamente drammatiche ma l’esito
colmo di speranza. Dalle prime parole del salmo: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? Tu sei lontano dalla mia
salvezza” si arriva alle ultime, già piene del frutto di grazia ottenuto: “E io vivrò per lui, lo servirà la mia
discendenza. Si parlerà del Signore alla generazione che viene; annunzieranno
la sua giustizia; al popolo che nascerà diranno: Ecco l’opera del Signore!”.
Ma il tragitto passa per momenti estremamente oppressivi: “Ma io sono verme, non uomo, infamia degli uomini, rifiuto del mio
popolo … Hanno forato le mie mani e i miei piedi, posso contare tutte le mie
ossa…” (sal 21). Parole ancora piene degli echi del profeta Isaia che
descrive il Servo del Signore così: “Disprezzato
e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire…il castigo
che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui, per le sue piaghe noi siamo stati
guariti” (Is 53). Parole e echi che si concretizzano in quell’uomo, inviato
da Dio, vilipeso, schiacciato, deriso, torturato, crocifisso, che noi
contempliamo nelle celebrazioni pasquali, il nostro Signore Gesù Cristo, che
per noi ha patito, è morto e risorto.
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Terzo ciclo
Anno liturgico A (2007-2008)
Tempo di Pasqua
Domenica di Pasqua
(23 marzo 2008)
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Risurrezione
del Signore
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Il giovedì santo la chiesa pone a
suggello della celebrazione del triduo pasquale l’affermazione del vangelo di
Giovanni: “Dopo aver amato i suoi che
erano nel mondo, li amò sino alla fine” (Gv 13,1). Certamente non vuol
significare solo che Gesù starà fedele al suo amore fino alla morte, ma più
precisamente che va incontro alla morte perché si sveli in tutto il suo
splendore l’amore che lo muove rispetto al Padre e a tutti noi. Nella stessa
celebrazione, con l’istituzione dell’eucaristia e la lavanda dei piedi, l’amore
è definito nel suo mistero di dono (“questo
è il mio corpo, che è per voi”) e di servizio (“Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i vostri piedi, anche
voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri”). La posta in gioco è ‘aver
parte con lui’. Accogliere il servizio di Gesù e non praticarlo al fratello
significa non riconoscere quel ‘corpo, che è per noi’, tanto il mistero
dell’amore parla di Dio e dell’uomo insieme.
Quando, nel venerdì santo, la liturgia
illustrerà fino a che punto l’amore di Gesù ha prevalso nella sua passione, non
avrà che da citare la profezia di Isaia: “Si
compirà per mezzo suo la volontà del Signore” (Is 53,10). Non tanto nel
senso che la volontà del Signore era di condurlo alla passione, ma piuttosto
nel senso che la volontà di bene e di salvezza da parte di Dio per gli uomini
potesse risplendere in tutta la sua forza e il suo splendore proprio per mezzo
della sua passione. Lì possiamo comprendere la potenza dell’amore di Dio che
sopravanza l’ingiustizia e la durezza di cuore degli uomini con la sua
mansuetudine. Giovanni interpreta con il profeta Zaccaria 12,10: “Volgeranno lo sguardo a colui che hanno
trafitto” (da leggere, secondo il testo ebraico e greco della LXX:
“Guarderanno verso di me che hanno trafitto”). È quello che succederà dopo
Pasqua, quando Pietro annuncerà il mistero della morte e risurrezione di Gesù
in modo che gli ascoltatori si sentiranno trafiggere il cuore ripensando alla
morte di Gesù. In quel ‘si compirà per mezzo suo la volontà del Signore’ sta
anche l’esempio per i suoi discepoli che non potranno far risplendere l’amore
di Dio in questo mondo se non come Gesù, se non seguendo la via di Gesù. Non
esiste altro modo di vivere l’amore se non quello di ‘amare sino alla fine’,
vale a dire di amare fino a che il mistero che richiama si sveli in tutta la
sua potenza di mansuetudine e porti vita.
Ma il mistero dell’amore, per quanto
desiderabile, non è affatto scontato. Senza il sigillo della risurrezione di
Gesù non sarebbe stato colto e non avrebbe potuto essere immesso nel mondo. Le
donne, i discepoli, la domenica di Pasqua, attendono o corrono al sepolcro per
trovare un morto; l’unico orizzonte possibile è avere il corpo del loro amato
Signore. Se l’esperienza della risurrezione di Gesù era del tutto inconcepibile
per i discepoli, ciò significa che anche l’esperienza del suo amore sino alla fine non poteva essere
colto.
Il primo giorno, il giorno uno della
settimana, dischiude un tempo completamente diverso, un tempo nel quale tutto
ciò che è stato compiuto fino ad ora si rivela come novità. Il primo
personaggio che ci conduce alla soglia di questa novità è Maria Maddalena. A
differenza dei sinottici, Giovanni non aveva menzionato per la circostanza
della sepoltura la presenza delle donne. La mistura di mirra e aloe era stata
portata da Nicodemo e Giuseppe di Arimatea. I sinottici narrano dell’arrivo al
sepolcro, all’alba, delle donne con gli oli per completare l’unzione del corpo
di Gesù. Giovanni sorvola su tutto questo. Parla solo di Maria Maddalena e
l’accento è posto sulla motivazione profonda, interiore, della sua presenza al
sepolcro. Essa vive un’angoscia personale, un sentimento di assenza
irrimediabile; per lei oramai il Signore è l’Assente; non può che sentirlo che
così. Per prima vede la pietra del sepolcro tolta via e corre ad avvertire i
discepoli: “Hanno portato via il Signore
dal sepolcro e non sappiamo dove lo hanno posto”. Dall’angoscia
dell’assenza passa all’angoscia dell’incertezza. Ma Giovanni parla della pietra
tolta via dal sepolcro per sottolineare, in questo Giorno della Risurrezione,
che viene tolto l’ultimo impedimento alla ‘vista’, alla ‘visione’, come poi il
brano dirà a proposito di Giovanni entrato nel sepolcro.
L’episodio dei due discepoli che
corrono al sepolcro lo conferma in una tensione crescente per giungere, alla
fine, alle straordinarie parole: “Allora
entrò anche l’altro discepolo …e vide e credette”. È come una richiesta che
viene sussurrata al cuore dei possibili lettori del vangelo, la richiesta di
avanzare nella conoscenza del mistero, di salire fino all’intelligenza della
risurrezione che viene svelata poco a poco: “Vide e credette”.
La letizia pasquale che, poco a poco,
invade e conquista i discepoli e che scaturisce dall’esperienza dell’incontro
con lui, vivo, capace di far vincere ogni paura, ha anche a che fare con i tre
doni che Gesù conferisce: la gioia, la pace e la libertà. Ma se andiamo a
vedere, quei tre doni, tipicamente pasquali, uniti all’esperienza dell’incontro
con lui, il Vivente, ci partecipano la sua stessa vita e ci consentono di
vivere come lui, vale a dire ci porteranno a poter dire di noi: “e lo amarono
sino alla fine’, ‘amarono i loro fratelli sino alla fine’. L’augurio pasquale
più bello!
§*§*§*§*§*§*§*§*§*§
Terzo ciclo
Anno liturgico A (2007-2008)
Tempo di Pasqua
2a Domenica
(30 marzo 2008)
_________________________________________________
At
2,42-47; Sal 117; 1Pt 1,3-9;
Gv 20,19-31
_________________________________________________
Per tutta l’ottava è risuonata
l’acclamazione pasquale: “Questo è il giorno fatto dal Signore: rallegriamoci e
esultiamo”, ripresa dal sal 117. Se la risurrezione di Gesù inaugura il giorno
fatto dal Signore, si comprende come essa non potesse appartenere all’orizzonte
mentale dei discepoli. I racconti di risurrezione lo provano. Ma allora qual è
il significato di quei racconti? In Giovanni, a differenza dei sinottici, i
racconti delle apparizioni del Risorto non hanno un valore apologetico; non
mirano semplicemente a comprovare la ‘realtà’ del corpo risorto di Gesù. La
risurrezione di Gesù non è il ‘miracolo’ che può convincere della sua divinità.
La fede degli apostoli come quella dei discepoli che li seguiranno, quindi
anche la nostra, riposa sempre sulla parola trasmessa con la forza dello
Spirito Santo e non sui segni visibili della Presenza. Non esiste ‘evidenza’
costringente del mistero di Dio e del suo amore per gli uomini.
Cosa allora ‘costringe’ il cuore
dell’uomo a riconoscere il mistero di Gesù, morto e risorto? Notiamo anzitutto
che non si tratta tanto di ‘riconoscere’ che Gesù è davvero risorto, quanto
piuttosto di restare intimamente coinvolti nel dinamismo di un rapporto che
porta vita e cambia tutto. Se Tommaso, che non era stato presente alla prima
apparizione di Gesù, non vuol credere ai suoi compagni, non è per mancanza di
fede, ma per eccesso di zelo, come ben si attaglia al suo personaggio, fervido
e coraggioso. Ha preso sul serio la storia con Gesù e non vuole alcuna
illusoria consolazione. Vuole Gesù e basta. Quando Gesù si ripresenta una
settimana dopo e si rivolge a lui con le sue stesse parole, Tommaso non ha
bisogno di alcuna comprova (di mettere cioè il dito e la mano nelle ferite),
riesce solo a sussurrare: “Mio Signore e mio Dio”, che è la professione di fede
più solenne e più intima di tutto il vangelo. La frase conclusiva di Gesù: “Perché mi hai veduto, hai creduto: beati
quelli che pur non avendo visto crederanno” è spesso letta come un
rimprovero nei suoi confronti, ma niente autorizza a leggerla così. Tommaso ha
semplicemente avuto quello che è stato concesso agli altri apostoli e la cosa
risponde alla promessa di Gesù nell’ultima cena: “Ancora un poco e il mondo non mi vedrà più; voi invece mi vedrete,
perché io vivo e voi vivrete. In quel giorno voi saprete che io sono nel Padre
e voi in me e io in voi” (Gv 14,19-20).
Il mondo non può vedere, il discepolo
sì. Ciò significa che in gioco non è un vedere semplicemente con gli occhi, ma
un vedere nella fede, un vedere nella luce della compiacenza di Dio per noi.
Tommaso è riconosciuto beato non per aver toccato, ma per aver ‘veduto’.
L’aveva già preannunciato Gesù a proposito della missione degli apostoli
allorquando, esultando nello Spirito, aveva innalzato la sua solenne
benedizione al Padre: “Io ti rendo lode,
Padre, Signore del cielo e della terra, che hai nascosto queste cose ai dotti e
ai sapienti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, Padre, perché così a te è
piaciuto. Ogni cosa mi è stata affidata dal Padre mio e nessuno sa chi è il
Figlio se non il Padre, né chi è il Padre se non il Figlio e colui al quale il
Figlio lo voglia rivelare". E volgendosi ai discepoli, in disparte, disse:
"Beati gli occhi che vedono ciò che voi vedete. Vi dico che molti profeti
e re hanno desiderato vedere ciò che voi vedete, ma non lo videro, e udire ciò
che voi udite, ma non l' udirono” (Lc 10,21-24).
Quando gli apostoli ‘vedono’ Gesù
risorto non significa che hanno ‘visioni’, ma più concretamente che ‘il Signore
si fece vedere’, cioè sperimentano degli incontri. Ma come un cuore può aprirsi
all’incontro se già non tende a colui che desidera vedere? Per questo, nella
proclamazione di fede della chiesa nella risurrezione sempre si aggiunge
‘secondo le Scritture’. Gesù è risorto, secondo le Scritture; Gesù risorto apre
la mente all’intelligenza delle Scritture. Non è semplicemente il suo ‘essere ritornato
in vita’ che costituisce il mistero della risurrezione. Non per nulla, nella
narrazione di Giovanni, quando Lazzaro è risuscitato appare avvolto con bende,
impedito di muoversi, mentre quando risorge Gesù le bende (i ‘lenzuoli’
funerari) diventano segno di qualcosa d’altro.
Nella proclamazione del Signore risorto
da parte dei discepoli si fonda la comunità cristiana che risponde all’Alleanza
annunciata dal profeta Osea 2,25. “Li
seminerò di nuovo per me nel paese e amerò Non - amata; e a Non - mio - popolo
dirò: Popolo mio, ed egli mi dirà: Mio Dio”, confessione che è quella di
Tommaso. Perché allora Gesù proclama beati quelli che pur non avendo visto
crederanno? La narrazione evangelica ha presente non semplicemente la cronaca
degli eventi pasquali, ma la storia dei credenti. Finirà il tempo di una certa
‘visione’, come finirà il tempo dei testimoni oculari sulla cui autorevolezza
coloro che verranno dopo continueranno a credere al Signore Gesù. Quello che
non finisce, perché continua eterno il giorno fatto dal Signore, è la
possibilità reale dell’incontro, è la percezione della Presenza in mezzo al suo
popolo, a cui il dono della pace fa riferimento e di cui la gioia è il segnale
per eccellenza.
La prima lettera di Pietro lo dice
chiaro riferendosi a coloro che sono venuti alla fede dopo gli apostoli: “voi lo amate, pur senza averlo visto; e ora
senza vederlo credete in lui. Perciò esultate di gioia indicibile e gloriosa”
(1Pt 1,8). Per cogliere a fondo il senso si dovrebbe però tradurre: ‘senza averlo
visto, voi l’amate; senza vederlo ancora, ma credendo in lui, voi trasalite di
gioia’. L’espressione si riferisce a noi, che siamo venuti dopo l’epoca
apostolica. L’accento non è più posto tanto sul ‘vedere’ ma sulla ‘fede’ che
permette il vedere in modo da avere la vita, la stessa vita che scorre nel
Figlio di Dio, morto e risorto. Si passa dalla gioia della presenza ‘vista’
(apparizioni del risorto agli apostoli) alla gioia della presenza percepita
(celebrazione dell’eucaristia) fino alla letizia nello Spirito quando si dovrà
soffrire per il nome di Cristo perché la sua pace conquisti il mondo intero e
la gioia dell’essere in lui riveli a tutti lo splendore dell’amore di Dio per
gli uomini. A questo si riferisce la confessione di Tommaso e della chiesa a
proposito di Gesù risorto: “Mio Signore e mio Dio”.
§*§*§*§*§*§*§*§*§*§
Terzo ciclo
Anno liturgico A (2007-2008)
Tempo di Pasqua
3a Domenica
(6 aprile 2008)
_________________________________________________
At
2,22-35; Sal 15; 1Pt 1,17-21;
Lc 24,13-35
_________________________________________________
Nel vangelo di Luca, l’apparizione del
Risorto ai discepoli di Emmaus costituisce il racconto più dettagliato e
espressivo delle testimonianze pasquali. I particolari del racconto non
esprimono solo quella che potremmo chiamare la relazione dettagliata
dell’incontro dei due discepoli con il Risorto, ma tendono a suggerire lo
scenario possibile di ogni incontro con Gesù, morto e risorto, per tutti i
credenti.
Gesù si accompagna loro nel cammino,
spezza loro la sua parola aprendo le Scritture, si ferma a cenare da loro (con
tutta probabilità, i discepoli erano arrivati a casa loro quando invitano Gesù
a fermarsi da loro per la notte), benedice e spezza il pane per loro e loro lo
riconoscono, tornano a Gerusalemme per condividere l’esperienza e insieme si
rallegrano: tutti particolari che parlano anche di noi, del nostro incontro con
Gesù.
Vorrei soffermarmi solo su alcuni
punti. Prima di tutto sui due discepoli. Sono tristi e abbattuti. Conoscevano
le Scritture, ma restavano loro chiuse. La loro vicenda potrebbe essere
riassunta in questo modo: proprio a partire dalla loro fede nel Dio di Israele
erano stati affascinati dalla figura di Gesù e avevano creduto in lui;
l’avevano seguito, ma forse in funzione delle loro attese secondo la storia di
Israele, perché avevano, sì, sentito Gesù predire la sua passione, ma a
passione avvenuta non si raccapezzavano più e cedettero alla delusione; non
avevano però rinunciato alla loro storia con Gesù e quando il viandante che si
accompagna loro ritorna alle Scritture che loro stessi conoscevano, pur senza
essere capaci di aprirle, il loro cuore torna a ardere, sommessamente; quando
vogliono con loro quel pellegrino e lo invitano a cena e Gesù si fa
riconoscere, la loro storia si riaccende, tutto si collega e prende vita;
devono tornare a Gerusalemme dai compagni che a loro volta hanno fatto la
stessa esperienza e nella gioia che tutti insieme provano vivranno ormai la
loro storia aperta sul mondo, che ha diritto anch’esso a quella letizia.
Il salmo 15 dice bene la sostanza di
questa letizia: “Benedico il Signore che
mi ha dato consiglio [il greco, più precisamente: benedico il Signore che mi ha
dato intelligenza]… gioia piena nella tua presenza, dolcezza senza fine alla tua
destra”. Si può applicare al racconto dei discepoli di Emmaus che
acquistano intelligenza e vedono, al colmo della letizia, ma anche a noi con il
Signore Gesù che si accompagna a noi, suoi discepoli, perché la sua ‘vita
immortale’ possa scorrere nelle nostre vene e recare al mondo la letizia di Dio
per i suoi figli. Il salmo, nella sua stesura antica, richiama l’adesione al
vero Dio di Israele rifuggendo da ogni pratica idolatrica; richiama l’eredità
di Levi che, a differenza delle altre tribù, non riceve alcun appezzamento di
terra, essendo scelto per il culto. Nella sua formulazione più recente, il
salmo celebra l’adesione a Dio in un’esperienza di intimità così grande da
costituire il vero tesoro del cuore, così carica di letizia da diventare radice
di senso e di vita. Siccome però il dono di Dio risponde direttamente al
desiderio dell’uomo, al cuore dell’uomo sembra che le attese che lo muovono
corrispondono al dono di Dio. Il dramma della vita e la vicenda dei discepoli
come dello stesso Signore Gesù parlano invece diversamente. Ci attende un lungo
cammino perché le nostre attese si convertano al dono di Dio, ma quando questo
avviene scatta quella letizia che tutto riempie.
I discepoli non riconoscono Gesù quando
spiega loro le Scritture, ma quando si dona loro con l’eucaristia (a questa
allude, secondo l’esperienza della chiesa, il benedire e lo spezzare il pane
del racconto). Senza quel ‘dono’ la Scrittura rimane ancora muta. Per noi, ora,
la ‘visione’ non c’è più, ma lo ‘spezzare il pane’, questo, sì, continua nella
chiesa e continua la percezione della Presenza di Gesù, morto e risorto, che si
dà a noi tramite la parola e il corpo, tramite le Scritture e l’eucaristia.
Quello che non è detto, ma fa da sfondo vitale, è che parola e corpo si possono
‘vedere’ solo nella chiesa, dentro la storia comune che ci ingloba. Non si può
assumere il corpo di Gesù se non accogliendolo ‘secondo le Scritture’. Quel
‘secondo le Scritture’ allude al mistero di Gesù come apertura al mistero di
Dio, al mistero e al senso del mondo, al mistero del Regno che ci lambisce fino
a inglobare tutti nella sua luce di letizia. Gesù rimanda alla storia di Dio
con Israele, nella quale accogliere la storia di Dio con l’umanità e la nostra,
personale, singola storia, perché il suo Spirito di vita faccia esplodere le
nostre attese secondo il dono di Dio. Come per i discepoli di Emmaus, una volta
che gli occhi si sono schiusi e la fede si è fatta ‘visione’ per la parola e
per il corpo del Signore Gesù, il cuore mette fretta ai piedi in due direzioni:
una, verso la chiesa, nel senso di vedere confermata e condivisa la propria
visione; l'altra, verso il mondo, perché nessuno possa restare privo di questa
visione, tanto racconta la verità di Dio e la verità del cuore dell'uomo. In
questa comunione condivisa, testimoniata, cercata, donata, accolta, il cuore
può riposarsi perché gode lo stesso riposo di Dio: si faccia una sola famiglia,
nel regno di Dio. Ma il riposo che si godrà è assai diverso da quello che ci si
immagina ... sicuri però che comunque sarà il vero riposo.
§*§*§*§*§*§*§*§*§*§
Terzo ciclo
Anno liturgico A (2007-2008)
Tempo di Pasqua
4a Domenica
(13 aprile 2008)
_________________________________________________
At
2,36-41; Sal 22; 1Pt 2,20-25;
Gv 10,1-10
_________________________________________________
La liturgia di questa domenica è
intessuta sull’immagine del buon pastore (cfr. Sal 22; 1Pt 2,25; canto al
vangelo e colletta), sebbene il brano di vangelo si incentri più semplicemente
sulla figura della porta: “in verità, in
verità io vi dico: io sono la porta delle pecore”. Porta, che dà accesso a
‘pascoli e acque tranquille’, dove trovare vita e vita in abbondanza. Il brano
appartiene a uno dei discorsi di Gesù con i Giudei, che nel vangelo di Giovanni
costituiscono, insieme agli avvenimenti della vita di Gesù, la trama narrativa
della rivelazione del Figlio di Dio. A noi che non siamo più familiari con le
Scritture, a differenza di quei Giudei che interrogavano Gesù proprio a partire
dalle Scritture, le parole di Gesù sembrano semplicemente illustrare attraverso
immagini ben scelte un certo insegnamento. La forza però delle parole di Gesù,
che quei Giudei sembrano cogliere nella loro reale portata anche se poi
respingono colui che le ha proferite, sta nel fatto che lui si attribuisce la
prerogativa tipica di Dio, con l’intensità tutta speciale dovuta alla
rivelazione ultima e definitiva di Dio che compie finalmente le sue promesse.
Solo Dio è il pastore di Israele; solo
lui guida il suo popolo perché se l’è scelto, l’ha posto in essere, gli
testimonia il suo amore di predilezione e ne esige la santità corrispondente.
Ogni altro che ambisce a pascere Israele a titolo proprio è ladro e brigante.
Quando Dio affidava la cura del suo popolo a certi capi, affidava la sua parola
a certi profeti perché il popolo ritornasse a lui, sua comunque era la signoria
sul suo popolo, lui solo era la guida e lui solo il popolo riconosceva (lo
riconosceva nel senso che solo da Dio derivava il bene e la felicità per se
stesso). Basta riandare al cap. 34 di Ezechiele dove tutta la tensione di
comunione-comunanza tra Dio e il suo popolo si incentra sull’invio del Re
Messianico, del nuovo Davide, quando Dio si rivelerà compiutamente come Pastore
di Israele.
Quando Gesù dice che il pastore delle
pecore entra per la porta, vuol alludere al fatto che il Padre in lui si fa
vedere e in nessun altro: “Dio nessuno l'
ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha
rivelato” (Gv 1,18); “Chi vede me,
vede colui che mi ha mandato” (Gv 12,45). In lui Dio stesso si rivela e
giunge a pascere le sue pecore. E quello che Dio fa, anche lui lo fa: lui è il
pastore (non solo la porta, come dirà più avanti), come Dio; lui dà la vita,
come Dio … Gesù è la porta nel senso che lui è l’accesso al cielo; in lui il
cielo si apre sul mondo e il mondo si apre sul cielo. L’episodio del battesimo
al Giordano è assolutamente rivelativo: si aprono i cieli, discende lo Spirito,
si ode la voce del Padre che lo dichiara prediletto, luogo della sua compiacenza.
Gesù è porta tanto da parte di Dio (lui solo, che ha visto il Padre, lo può
rivelare) quanto da parte dell’uomo (lui solo costituisce la chiave di senso
che manca all’agire dell’uomo perché lui solo lo apre in verità al compimento
della sua vocazione all’umanità come rivelazione di Dio nel mondo). Per questo
Gesù dice di sé che è venuto a dare la vita in abbondanza, quella vita che
costituisce il supremo desiderio dell’uomo. Non semplicemente la vita, ma la
vita in abbondanza, ad indicare quella certa qualità di vita che sola colma i
desideri dell’uomo, fatto per Dio.
La sua venuta è finalizzata proprio a
dare la vita eterna, la vita abbondante. In ciò si compie il desiderio di
comunione di Dio con gli uomini e il desiderio di appartenenza degli uomini a
Dio. Quando il salmo 22 proclama che il pastore fa riposare le pecore in
pascoli erbosi e presso acque tranquille, allude proprio al dono della vita
eterna, sovrabbondante. Le acque tranquille, le acque di ‘menuchot’, richiamano
la creazione del riposo/ristoro nel settimo giorno della creazione. Il testo
della Genesi, dopo aver narrato la creazione di tutte le cose, dice: “Il settimo giorno Dio terminò la sua opera”.
Ma non era più logico attendersi che avesse terminato la sua opera nel sesto
giorno? Gli antichi rabbini hanno concluso evidentemente che vi fu un atto di
creazione anche il settimo giorno: “Che cosa è stato creato il settimo giorno?
La ‘menuchà’, la tranquillità, la serenità, la pace e il riposo” (Cfr Gen
Rabbà, 10, 9). È lo stato in cui non vi è contesa né lotta, né paura né
diffidenza; è felicità, pace e armonia; vita nel mondo futuro, vita eterna.
Proprio quella ‘vita abbondante’ che Gesù riconsegna agli uomini che lo
accolgono. È la gioia di un amore che non sarà più mortificato da nulla, amore
che, testimoniato nel suo splendore sul calvario, è donato come Spirito di vita
agli uomini che nel ‘crocifisso’ colgono il compimento della promessa di Dio
per l’uomo.
A quel dono anelano gli ascoltatori che
hanno seguito il discorso di Pietro a Pentecoste sentendosi trafiggere il
cuore: “Che cosa dobbiamo fare, fratelli?”.
“Convertitevi”: tornate alla promessa
di Dio che si è compiuta in quel ‘trafitto’, morto e risorto; tornate a
sentirvi destinatari della promessa di Dio che ha fatto risplendere il quel
‘trafitto’ lo splendore del suo amore salvatore, riunendo – come buon pastore –
i figli di Dio dispersi. Tornate a dar credito alla potenza salvatrice di Dio
che per mezzo di quel ‘trafitto’ ha realizzato la sua promessa di vita, la
quale non è che l’offerta incondizionata della sua comunione perché tutto e
tutti possano godere del suo amore.
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Terzo ciclo
Anno liturgico A (2007-2008)
Tempo di Pasqua
5a Domenica
(20 aprile 2008)
_________________________________________________
At
6,1-7; Sal 32; 1Pt 2,4-9;
Gv 14,1-12
_________________________________________________
Il brano di vangelo di oggi contiene
due affermazioni e due domande estremamente eloquenti. È giunta la sua ora e
Gesù parla con i suoi discepoli del suo ritorno al Padre. Filippo, colui che
aveva accompagnato a Gesù quei greci che volevano vederlo (cfr. Gv 12,21), domanda: “Mostraci il Padre”. Il momento è drammatico e rivelativo
dell’intera storia di amore di Dio con il suo popolo e l’umanità tutta. La sua
richiesta riformula la domanda di Mosè: “Mostrami
la tua Gloria” (Es 33,18); contiene l’ardente desiderio del cuore dell’uomo
per il Dio di cui porta così intima traccia da averne una nostalgia acuta: “L’anima mia ha sete di Dio, del Dio vivente:
quando verrò e vedrò il volto di Dio?” (Sal 43,3). Filippo non si rende
conto che chiedere di ‘mostrare il Padre’ significa voler vedere il Dio che
salva e il Regno di Dio venire con potenza; significa cioè voler vedere
risplendere in Gesù l’amore di Dio per gli uomini dall’alto della croce. I
discepoli sono ancora turbati, non comprendono bene cosa stia accadendo e non
sono ancora pronti a leggere gli avvenimenti che di lì a poco si scateneranno
in rapporto al loro Maestro, ma Gesù li precede, li orienta, li prepara. Tutto
il discorso e le azioni di quella sera, la sera dell’ultima cena (l’istituzione
dell’eucaristia, la lavanda dei piedi, l’istruzione ai discepoli) mirano a
predisporre gli occhi e il cuore dei discepoli allo svelamento del segreto di
Dio che Gesù è.
Prima di Filippo, anche Tommaso aveva
mostrato di non comprendere: “Non
sappiamo dove vai e come possiamo conoscere la via?”. Tommaso era quello
che aveva voluto seguire Gesù fino a morire con lui (cfr. Gv 11,16); sarà
quello che non vorrà illudersi sulla risurrezione di Gesù e vorrà tastare il
corpo del Risorto per sincerarsene e alla fine riassumerà la fede dei discepoli
e dei futuri credenti con la sua solenne e intima professione: ‘mio Signore e
mio Dio!’. Gli era ancora impossibile cogliere che ‘luogo e via’ indicavano la
stessa cosa. Ragionava in termini spaziali: non poteva sapere ancora che luogo
e via a cui alludeva Gesù si riferivano al nostro essere in lui, partecipi
dello stesso suo amore per il Padre e dell’amore del Padre per lui.
Non per nulla, quando Gesù commenta la
richiesta dei greci di volerlo vedere e dichiara che ormai la sua ora è
arrivata, presenta la sua morte come gloria e rivela la comunanza di destino
con i suoi discepoli: dove sono io, là
sarà anche il mio servo. Anche nel nostro brano, Gesù spiega il suo ritorno
al Padre e il suo ‘venire’ ai discepoli (un venire che non allude semplicemente
al suo ‘farsi vedere’ dopo la risurrezione o al suo ritorno glorioso alla fine
dei tempi, ma al suo ‘dimorare’ nei discepoli, alla sua ‘presenza’ potente tra
i discepoli, al divenire uno spirito solo con il Signore da parte dei
discepoli) con l’espressione: “perché
siate anche voi dove sono io”. L’espressione non significa: io soffro e
anche voi soffrirete; io sono ripudiato dal mondo e pure voi lo sarete; io
muoio sulla croce e anche voi avrete la vostra croce. Dice piuttosto: io sono
nell'amore del Padre, anche voi lo sarete; sono il testimone del suo amore in
questo mondo e anche voi lo sarete; risplendo della gloria dell'amore del Padre
e pure voi risplenderete dello stesso amore. E questo proprio perché
sopportando l'ingiustizia e la violenza senza venir meno alla potenza
dell'amore, sarà noto a tutti che io amo il Padre e faccio quello che il Padre
mi ha comandato (Gv 14,31) e così l’amore del Padre risplenderà sul mondo.
Le due affermazioni di Gesù sono
strettamente collegate a questo segreto di Dio per il mondo che in Gesù si fa
scoperto: “Io sono nel Padre e il Padre è
in me” e “Io sono la via, la verità e
la vita”. La prima affermazione la collego ai passi: “Dio nessuno l’ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno
del Padre, lui lo ha rivelato” (Gv 1,18), per cui “chi vede me vede il
Padre” (cfr. Gv 12,45; 6,46), con la sfumatura che vedere Gesù comporta
essenzialmente vedere il suo invio da parte del Padre. Il che significa che, se
in Gesù riposa tutta la compiacenza del Padre, riconoscerlo significa entrare
in questa compiacenza e goderne la potenza risanante e vivificante. In Gesù si
concentra tutto il desiderio di comunione di Dio con l’uomo e tutto il
desiderio dell’uomo per il suo Dio: riconoscere Gesù, nel suo invio come
testimone dell’amore del Padre per gli uomini, significa godere la rivelazione
del volto di Dio, che è amore per gli uomini.
L’altra affermazione la collego al
passo: “Mi è stato dato ogni potere in
cielo e in terra” (Mt 28,18). Il potere di Gesù è duplice: dalla parte di
Dio, ha il potere di rivelare il vero volto di Dio; dalla parte dell’uomo, ha
il potere di compiere i desideri dell’uomo, di soddisfare la sua fame di
conoscenza e di relazione in pienezza e verità. Questo potere viene come
sancito nel compiersi del suo mistero pasquale quando torna al Padre e ritorna
agli uomini allorché gli uomini possono ‘vedere’ che il suo amore per il Padre
testimonia l’amore del Padre per loro e che l’amore che rivela comporta la
partecipazione agli uomini della sua stessa potenza, vita divina per l’uomo,
dono del suo Spirito, verità di Dio e dell’uomo.
Quando Gesù proclama che è ‘via e
verità e vita’ si riferisce al mistero di Dio che viene svelato all’uomo nella
sua offerta d’amore, offerta che costituisce la vita per lui, una vita piena,
per ciascuno e per tutti, perché la vita e la verità di Dio, se valgono per la
singola persona, valgono in quanto dinamismo di comunione tanto da poter
proclamare Dio, a pieno titolo e in tutta evidenza, Padre di tutti. Se Gesù è
via-verità-vita lo è in quanto Figlio, che è nel seno del Padre e di cui svela
il Volto d’amore per gli uomini. Solo accogliendo quel dinamismo di rivelazione
esteso a tutti gli uomini si può conoscere il Padre ed essere ritrovati figli
in quell’unico Figlio. È la tensione ‘apostolica’ della fede nel Cristo: per
credere al Cristo occorre ritrovarsi nel suo stesso ‘essere inviati’ perché il
mondo conosca che amiamo il Padre e facciamo quello che il Padre ha comandato.
Solo a mistero pasquale compiuto gli
apostoli si rendono conto della reale posta in gioco del loro seguire il
Signore e della grazia concessa al mondo.
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Terzo ciclo
Anno liturgico A (2007-2008)
Tempo di Pasqua
6a Domenica
(27 aprile 2008)
_________________________________________________
At
8,5-17; Sal 65; 1Pt 3,15-18;
Gv 14,15-21
_________________________________________________
Il brano di vangelo di oggi è denso di
misteri che la liturgia legge in riferimento alla prossima ascensione di Gesù e
all’invio dello Spirito Santo, che chiude il periodo pasquale. Letto poi nel
contesto del cap. 14 di Giovanni, il brano assume sfumature impreviste.
Il dato centrale è la proclamazione di
Gesù che va al Padre e contemporaneamente viene a noi, evento che costituisce
la rivelazione del ‘giorno del Signore’ (v. 20: “In quel giorno voi saprete”). La rivelazione di ‘quel giorno’ è
definita dalle parole di Gesù: “Ancora un
poco e il mondo non mi vedrà più; voi invece mi vedrete, perché io vivo e voi
vivrete”, parole che forse sarebbe meglio rendere con: ‘voi invece mi
vedrete vivo e anche voi vivrete’. Si tratta della assolutamente imprevedibile
esperienza della presenza del Cristo risorto e della condivisione della sua
nuova vita, nello Spirito. A questa particolarissima ‘comunanza’ di vita col
Risorto, nello Spirito, alludono tutte le espressioni sull’amore a Gesù e
sull’osservanza dei suoi comandamenti.
Possiamo intuirne il mistero cogliendo
le corrispondenze sulle quali è intessuto tutto il cap. 14 di Giovanni. Ne
accenno ad alcune. Gesù aveva appena assicurato i discepoli che se chiederanno
qualche cosa al Padre nel nome suo, lui la farà. E continua dicendo: “Se mi amate, osserverete i miei
comandamenti. Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Consolatore perché
rimanga con voi per sempre”. Da intendere: se voi farete [= osserverete i
miei comandamenti], io pregherò di mandarvi lo Spirito Santo, colui che renderà
vere per voi le mie parole e potente in voi il mio amore. Come la preghiera dei
discepoli ha a che fare con l’agire potente di Gesù in essi, così la preghiera
di Gesù ha a che fare con l’invio dello Spirito Santo, il quale, mentre fa
conoscere al cuore il Signore Gesù, ci partecipa la sua potenza di azione. In
Gesù il Padre compie le sue opere e nei discepoli Gesù compie le sue. Ma
l’opera di Dio è il suo amore per gli uomini ed è questo che ci viene
partecipato con l’osservanza dei comandamenti. Ed è per questo che la promessa
di Gesù a chi pratica i suoi comandamenti suona: “noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui … Chi mi ama sarà
amato dal Padre mio e anch' io lo amerò e mi manifesterò a lui”. Gesù
promette ‘comunanza’ di vita, non solo nel senso che Dio abita il cuore
dell’uomo, ma nel senso che l’uomo diventa capace di agire nell’amore e secondo
l’amore di Dio. L’uomo fa uno spirito solo con il suo Signore (cfr. 1Cor 6,17),
vale a dire attinge le stesse ragioni di vita e partecipa dello stesso
dinamismo di vita.
L’espressione che mi pare più
rivelativa di questo mistero è quella conclusiva del cap. 14: “Non parlerò più a lungo con voi, perché
viene il principe del mondo; egli non ha
nessun potere su di me, ma bisogna che il mondo sappia che io amo il Padre
e faccio quello che il Padre mi ha comandato”. La frase che viene tradotta:
‘non ha nessun potere su di me’, in greco è resa più semplicemente: ‘in me non ha nulla’. Vale la stessa
cosa per i comandamenti. La frase: ‘chi accoglie i miei comandamenti’ andrebbe
resa con: ‘chi ha i miei comandamenti’. Parola e comandamento evocano la verità
di un legame, di un’alleanza; evocano la volontà di bene, di benevolenza di Dio
per l’uomo tanto che l’uomo, se li accoglie, può ottenere la visione di quella
verità piena d’amore, espressa in un volto, il volto del Cristo. Il
comandamento non ha a che fare con un imperativo, con un dovere morale; ha a
che fare con l’esperienza di un amore. Come a dire: chi ha in sé la parola, il
comandamento di Dio, non offre presa alcuna al potere del demonio e quindi il
demonio lo lascia indenne, vale a dire il demonio non può rapirgli quell’amore
che aveva giustificato la sua venuta e la sua testimonianza presso gli uomini,
per cui la verità di Dio risplende in lui rivelando agli uomini l’amore che lo
abita. Come è per Gesù, così per i discepoli.
La percezione di questa verità è però
drammatica nel senso che risplende nel contesto del ‘processo’ del mondo a Gesù
e ai suoi discepoli. La giustizia si rivela se non acconsente all’ingiustizia;
l’amore si rivela se non si fa disperdere dall’odio o dall’invidia. Gesù
diventa ‘il re della gloria’ dall’alto della croce. Quando Pietro, nella sua
prima lettera, parla di coloro che domandano ragione ai cristiani della
speranza che è in loro, allude proprio a questo ‘processo’ del mondo contro i
seguaci di Gesù. Non allude alle possibili discussioni sulla fede, ma alle
sofferenze che il seguace di Gesù patisce per testimoniare l’amore di Dio agli
uomini, non cedendo all’ingiustizia e non venendo meno alle ragioni di questo
amore. La testimonianza ha valore se viene praticata con dolcezza e rispetto,
nella coscienza cioè di non abbandonare quella benevolenza di amore che Dio ha
testimoniato in Gesù per gli uomini. La forza di quella testimonianza deriva dall’azione
dello Spirito nel cuore dei discepoli, che li rende insieme ‘concordi,
partecipi degli stessi sentimenti, fraternamente affettuosi, misericordiosi,
con un sentire umile e sempre benedicenti’. È lo spazio della chiesa che
diventa credibile, rispetto alla testimonianza che porta, se fa trasparire la
‘benedizione’ di Dio sull’umanità, che è Gesù, vivo e operante nel cuore dei
discepoli. Così il mondo ‘saprà’ che i discepoli di Gesù amano il Padre e fanno
quello che ha loro comandato, come è stato per Gesù. È questa la speranza di
vita per il mondo che i credenti testimoniano.
§*§*§*§*§*§*§*§*§*§
Terzo ciclo
Anno liturgico A (2007-2008)
Tempo di Pasqua
Ascensione
(4 maggio 2008)
_________________________________________________
At
1,1-11; sal 46; Ef 1,17-23;
Mt 28,16-20
_________________________________________________
Probabilmente oggi non esprimeremmo i
desideri profondi del nostro cuore con le parole della liturgia nella preghiera
dopo la comunione: “Dio onnipotente e misericordioso, che alla tua Chiesa
pellegrina sulla terra fai gustare i divini misteri, suscita in noi il desiderio della patria eterna, dove hai innalzato
l’uomo accanto a te nella gloria”. Eppure, questa preghiera corrisponde
profondamente all’anelito dei cuori.
Tutto dipende dalla prospettiva in cui
guardiamo ai misteri della vita del Signore. Possiamo guardarli da spettatori,
come da fuori campo o da attori in gioco, dentro la scena. I misteri della vita
di Gesù, ascensione compresa, vanno tutti letti nella loro potenza di rivelazione
dell’amore del Padre per noi uomini. La colletta lo illustra molto bene:
“Esulti di santa gioia la tua Chiesa, o Padre, per il mistero che celebra in
questa liturgia di lode poiché nel tuo Figlio asceso al cielo la nostra umanità
è innalzata accanto a te, e noi, membra del suo corpo, viviamo nella speranza
di raggiungere Cristo nostro Capo nella gloria”. Se guardiamo al mistero come
rimirando un quadro vediamo Gesù in alto e immaginiamo, oranti e fiduciosi, di
poter partecipare un giorno alla sua gloria. Se guardiamo da dentro la scena la
vista cambia. Dov’è il cielo o che cosa è cielo? Il cielo non è un luogo ma una
dimensione e non per nulla quando Gesù dice che va al Padre dice anche che
viene a noi. Cielo è il cuore dove Dio è adorato in tutta la sua gloria e la
sua gloria è l’amore per gli uomini che in Gesù, morto e risorto, risplende e
che il suo Spirito ci partecipa perché possiamo conoscere il Padre nel suo
immenso amore per noi e avere la vita. Così, vedere Gesù asceso al cielo
significa vedere compiersi l’umanità nella gloria dell’amore, amore che è la
vita di Gesù che viene a noi e agisce dal di dentro dei nostri cuori,
riempiendo ogni spazio in modo da far risplendere la presenza di Dio.
Il passaggio da un modo di guardare
all’altro è dato dalla tensione che intercorre tra la gioia di adesso e la
gloria di domani. La gioia di adesso ha proprio a che fare con la presenza
esperita del Signore Gesù, quella gioia di cui Gesù aveva detto: “nessuno vi potrà togliere la vostra gioia”
(Gv 16,23). È la gioia che scaturisce da un incontro rivelatore, un incontro
che apre il nostro cuore alla possibilità di vedere compiuti i desideri di
innocenza, di bene, di comunione, che portiamo inscritti ma senza riuscire a
soddisfarli. Lo stesso passaggio è sottolineato dalla diversità di sguardo
rispetto all’evento dell’ascensione come narrato negli Atti degli apostoli: “Uomini di Galilea, perché state a guardare
il cielo? Questo Gesù, che è stato di tra voi assunto fino al cielo, tornerà un
giorno allo stesso modo in cui l' avete visto andare in cielo”. Un conto è
guardare un fenomeno (in greco, βλέπω) e un conto è
contemplarlo, coglierne il senso, assimilarne il significato, permettergli di
generare in noi quella vita di cui è portatore (in greco,
θεάομαι). Per arrivare al secondo
significato è necessario l’apertura all’incontro, come prega Paolo: “il Dio del Signore nostro Gesù Cristo, il
Padre della gloria, vi dia uno spirito di sapienza e di rivelazione per una più
profonda conoscenza di lui. Possa egli davvero illuminare gli occhi della
vostra mente per farvi comprendere a quale speranza vi ha chiamati, quale
tesoro di gloria racchiude la sua eredità fra i santi e qual è la straordinaria
grandezza della sua potenza verso di noi credenti secondo l'efficacia della sua
forza …” (Ef 1,17-19).
L’apertura all’incontro è l’apertura ad
una ‘potenza’ che dinamizza, che include in una relazione che genera vita, che
induce all’amore e che svela i volti, e di Dio e dell’uomo. È l’effetto della
contemplazione dell’ascensione di Gesù al cielo. Le ultime parole del vangelo
di Matteo, che oggi abbiamo proclamato, sono particolarmente significative a
questo riguardo.
“Mi è stato dato ogni potere in cielo e in
terra.
Andate dunque e ammaestrate tutte le
nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito santo,
insegnando loro ad osservare tutto ciò
che vi ho comandato.
Ecco, io sono con voi tutti i giorni,
fino alla fine del mondo”.
Sono quattro parole che riassumono la
logica della fede in Gesù.
1) a lui è dato tutto il potere per farci conoscere il vero
volto di Dio: lui ci fa conoscere che Dio è Padre e ci riconcilia con Lui
svelandoci il suo immenso amore. Nello stesso tempo, a lui è stato dato il
potere di parteciparci la sua vita, quella vita di cui portiamo immenso
desiderio e che risulta essere condivisione del suo immenso amore.
2) il segreto del mondo è proprio questo: quanto Dio ha
amato il mondo mandandoci il suo Figlio! Non resta che percorrere il mondo
perché sia noto a tutti questo segreto, fonte di vita per l’uomo. ‘Ammaestrare’
significa far sì che tutti possano veder risplendere questo segreto, che tutti
possano vedere quanto Gesù ha amato il Padre e ha testimoniato il suo amore per
gli uomini.
3) quando nei cuori alberga questa verità, allora il compito
dei discepoli è quello di seguire Gesù sempre e comunque, facendo continuamente
memoria di lui, in quello Spirito che li accomuna e li muove, nella storia
degli uomini.
4) vivendo sempre della gioia della sua presenza nell’ora
attuale della nostra storia.
Dio è davvero capace di adempiere le
sue promesse. L’ascensione al cielo di Gesù lo dimostra, come ripete s. Paolo
ricordando “qual è la straordinaria
grandezza della sua potenza verso di noi credenti secondo l’efficacia della sua
forza …”.
§*§*§*§*§*§*§*§*§*§
Terzo ciclo
Anno liturgico A (2007-2008)
Tempo di Pasqua
Pentecoste
(11 maggio 2008)
_________________________________________________
At
2,1-11; Sal 103; 1Cor 12,3-13;
Gv 20,19-23
_________________________________________________
Se colleghiamo l’antifona d’ingresso: “L’amore
di Dio è stato effuso nei nostri cuori per mezzo dello Spirito, che ha
stabilito in noi la sua dimora” (ripresa di Rm 5, 5 e 8,11) con il canto al
vangelo: “Vieni, santo Spirito, riempi i cuori dei tuoi fedeli e accendi in
essi il fuoco del tuo amore” possiamo entrare direttamente nel mistero della
festa di oggi.
Si allude contemporaneamente a una
esperienza ‘antica’ e ‘nuova’, all’esperienza della chiesa e di ogni fedele,
all’esperienza degli apostoli e alla nostra. Come facciamo esperienza dello Spirito
Santo? Rispetto a che cosa possiamo fare esperienza dello Spirito Santo? Paolo
annuncia che l’amore di Dio è stato effuso nei nostri cuori perché la speranza
di cui godiamo non delude. Il senso delle sue dichiarazioni si può riassumere
così: noi abbiamo coscienza di essere amati da Dio proprio nella nostra realtà
di uomini peccatori. Se dunque, da peccatori, Dio ci è venuto incontro nella
persona del suo Figlio, quanto più, una volta riconosciuto e accolto il mistero
del Figlio, potremo godere del suo amore! L’esperienza dello Spirito Santo ha
così a che vedere con l’esperienza della grandezza dell’amore di Dio che, non
avendo vergogna di noi, ci raggiunge dentro il nostro peccato, ci rivela che di
quell’amore siamo intessuti e così ci rende ‘capaci’, nel suo Figlio
prediletto, di vivere proprio di quell’amore, realizzando la nostra vocazione
all’umanità fatta ‘a immagine e somiglianza di Dio’.
È caratteristico il fatto che la
promessa dello Spirito (cfr Lc 24,49: “Io
manderò su di voi quello che il Padre mio ha promesso; ma voi restate in città,
finché non siate rivestiti di potenza dall’alto”) riassuma l’esperienza più
personale e più universale che ci possa essere. È la promessa che riassume
tutte le promesse di Dio al suo popolo. Il mistero della Pentecoste lo rivela.
Lo vediamo prima di tutto dalle ‘condizioni’ che la presuppongono. Luca
sottolinea come gli apostoli, dopo l’ascensione al cielo di Gesù, tornati con
gioia a Gerusalemme, siano “assidui e
concordi nella preghiera” (At 1,14) e che il giorno di Pentecoste “si trovavano tutti insieme nello stesso
luogo” (At 2,1). Non sono semplici annotazioni; indicano piuttosto la
condizione di possibilità dell’esperienza dello Spirito: se lo Spirito viene a
uno, viene in quanto rivelatore di comunione in umanità. La ‘potenza dall’alto’
allude a questa dimensione di comunione profonda e misteriosa in umanità. Così
anche dopo l’evento della Pentecoste, Luca descrive i discepoli, ormai ricolmi
di Spirito Santo: “Erano assidui
nell’ascoltare l’insegnamento degli apostoli e nell’unione fraterna, nella
frazione del pane e nelle preghiere” (At 2,42).
Se guardiamo ora all’evento della
Pentecoste, notiamo che le persone di varie etnie, che ascoltano gli apostoli
parlare nelle varie lingue, sentono tutti la stessa e unica cosa: “li udiamo annunziare nelle nostre lingue le
grandi opere di Dio”. La meraviglia che accomuna tutti non è semplicemente
quella di sentire parlare nella propria lingua, ma quella di cogliere la
grandezza dell’amore di Dio che a tutti si fa manifesto. E questa è attività
propria dello Spirito Santo. L’aspetto misterioso è dato dal fatto che, se la
diversità di espressione fa riferimento all’unica verità, l’unicità della
verità non può che essere comunicata nella varietà delle lingue. E la varietà delle
lingue ormai è vissuta in funzione della comunione, superando così la paura
della diversità che aveva fatto preferire l’uniformità alla comunione (si ha
così il superamento della divisione, perché viene annullato il principio del
potere). Solo dello Spirito di Dio può essere detto: “lo Spirito del Signore ha riempito l’universo, egli che tutto unisce,
conosce ogni linguaggio” (Sap 1,7). Ma questo ‘Spirito di Dio’ non può che
essere lo Spirito del Figlio, perché lui solo ha il potere di rivelare il vero
volto di Dio e di compiere i veri desideri del cuore dell’uomo (cfr Mt 28,18).
In effetti, la venuta dello Spirito rivestirà i discepoli di quella ‘potenza
dall’alto’ perché siano testimoni di Gesù nel mondo e a tutti possa esser
manifesto il segreto di Dio per gli uomini. Se lo Spirito agisce per la
comunione è perché il Figlio ha mostrato quanto è grande l’amore di Dio per gli
uomini che li vuole suoi figli, tutti insieme, nessuno escluso.
La verità di cui lo Spirito è promotore
ha così una coloritura dinamica e drammatica: ingloba in un amore che, mentre
si manifesta a te, lo fa vivere aperto a tutti, perché tutti sono chiamati a
gustare le stesse cose. La verità che viene resa nota, per quanto bella e
consolante, non convince nessuno automaticamente, non ha potere strabiliante:
si comunica di bocca in bocca, di cuore in cuore, di atto in atto, in umanità.
Il racconto di Pentecoste finisce difatti con l’annotazione: “Tutti erano stupiti e perplessi, chiedendosi
l’un l’altro: ‘Che significa questo?’. Altri invece li deridevano e dicevano:
‘Si sono ubriacati di mosto’ ”.
§*§*§*§*§*§*§*§*§*§
Terzo ciclo
Anno liturgico A (2007-2008)
Solennità e Feste
Ss. Trinità
(18 maggio 2008)
_________________________________________________
Es
34,4-9; Sal 3,52-56; 2Cor 13,11-13; Gv 3,16-18
_________________________________________________
La finale della seconda lettera ai
Corinzi riporta la formula più chiaramente trinitaria di tutto il Nuovo
Testamento, che la liturgia usa come saluto iniziale della celebrazione eucaristica:
“La grazia del Signore Gesù Cristo,
l’amore di Dio [Padre] e la comunione dello Spirito Santo siano con tutti voi”.
In questa formula è singolare che Gesù, che pur rappresenta per noi
l’espressione stessa dell’amore (“li amò
sino alla fine”, Gv 13,1), non sia definito in rapporto all’amore, termine
che invece è riservato al Padre. E noi potremmo pensare: se Gesù tanto ci ha
amato, quanto ci amerà il Padre, che è l’Amore stesso? È esattamente il punto
di rivelazione della festa di oggi.
Per coglierlo ci riferiamo alla
rivelazione di Dio a Mosè sul Sinai, oggetto della prima lettura, sulla quale
concentriamo la nostra attenzione. La narrazione è ripresa dal cap. 34
dell’Esodo, che forma però un tutt’uno con i capitoli precedenti 32 e 33. Il
popolo si è traviato: ha voluto un ‘dio’ su misura e si è costruito il vitello
d’oro. Mosè, scendendo dalla montagna, spezza le tavole della legge che il
Signore aveva tagliato e scritto, punisce gli idolatri, sposta la tenda del
convegno fuori dell’accampamento e il popolo fa lutto, accompagnando la
supplica di Mosè al Signore perché perdoni il grave peccato. In questo contesto
Dio ordina a Mosè di far riprendere al popolo il cammino verso la terra
promessa, ma negando la sua presenza diretta. Mosè non acconsente e lotta per
il suo popolo con Dio e gli avanza tre richieste: ‘indicami la tua via così che io ti conosca’ (33,13); ‘mostrami la tua Gloria’ (33,18); ‘che il Signore cammini in mezzo a noi’
(34,9). A tutte e tre le richieste Dio cede, mostrando però che la sua realtà
può essere goduta solo entro certi limiti: Dio si mostra, ma non fa vedere il
suo volto (33,20); la proclamazione del ‘Nome’ implica che l’uomo possa
conoscere ciò che Dio fa e farà a suo favore (34,6); Dio stabilisce
un’alleanza, ma le tavole della legge e le parole ivi scritte non sono più
opera diretta sua, ma di Mosè (34,28).
Se queste pagine sublimi si leggono
nell’ottica della rivelazione del Figlio, allora la loro densità si esprimerà
in tutta la loro portata. Gesù di sé ha detto: ‘io sono la via, la verità e la vita…’ (Gv 14,6). Ma è via per il
Padre, è verità di rivelazione del Padre, è datore di vita che viene dal Padre.
Il desiderio di Mosè per sé e per il suo popolo si compie. Quel desiderio
esprimeva non semplicemente la conoscenza di Dio, ma la conoscenza del favore
di Dio per il suo popolo, il quale lo poteva sperimentare nel fatto che Dio
l’accompagnava per arrivare alla terra promessa. La conoscenza di Dio ha sempre
a che fare con il cammino della nostra vita diretto alla meta agognata. È
rispetto a quella ‘conoscenza’ che l’uomo desidera vedere la gloria di Dio,
cioè lo splendore del suo amore per noi. Splendore, che si compie nel fatto che
non solo Dio viene ad abitare in mezzo a noi, ma che abita in noi: “E il Verbo si fece carne e venne ad abitare
in mezzo a noi; e noi vedemmo la sua gloria, gloria come di unigenito dal
Padre, pieno di grazia e di verità … Dio nessuno l' ha mai visto: proprio il
Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato (Gv 1,14.18);
“Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a
lui e prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14,23).
Il nome che Dio proclama: “Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira
e ricco di grazia e fedeltà” (Es 34,6) si riassume nell’esperienza che ‘il
Signore è per noi’, esperienza che Gesù fa splendere in tutta la sua bellezza.
Chi ci apre a quella esperienza è proprio lo Spirito Santo il quale ci mette in
comunione proprio con l’amore del Padre, di cui il Figlio è la grazia di verità
per noi. Lo Spirito ritorna a scrivere direttamente sul nostro cuore le parole
di Dio di modo che noi non le professiamo semplicemente ricordando che sono
parole di Dio, ma vivendole direttamente come mozione di Dio in noi.
Non dobbiamo tuttavia dimenticare che
il contesto della rivelazione di Dio sul Sinai come sul Calvario, se esprime
l’immensità dell’amore di benevolenza di Dio per i suoi figli, per noi diventa
esperibile solo ‘facendo lutto’, solo riconoscendo la nostra insensata
idolatria e consegnandoci di nuovo interamente nelle mani del Dio Vivente.
Tutta la Scrittura ricorda come quell’esperienza sia la più sublime e la più
tormentosa, la più agognata e la più temuta. Non è così facile spiegarne il
perché nonostante non ci manchino le ragioni di comprensione, che però il cuore
stenta ad accogliere. Eppure, anche per noi risulta vera la proclamazione
evangelica: “Dalla sua pienezza noi tutti
abbiamo ricevuto e grazia su grazia. Perché la legge fu data per mezzo di Mosè,
la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo” (Gv 1,16-17). Se
l’uomo cerca la verità, la verità di cui ha sete il suo cuore è una verità di
grazia e contemporaneamente una grazia di verità. La festa di oggi invita
ciascuno a vivere la propria vita nell’atteggiamento di chi si dispone ad
accogliere nel suo cuore la grazia di
verità che il Signore Gesù testimonia rivelando l’amore del Padre.
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Terzo ciclo
Anno liturgico A (2007-2008)
Solennità e Feste
Ss. Corpo e Sangue di Cristo
(25 maggio 2008)
_________________________________________________
Dt
8,2-16; Sal 147; 1Cor 10,16-17; Gv 6,51-58
_________________________________________________
La liturgia di oggi evidentemente ruota
attorno all’immagine del mangiare. “Chi
mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna” dice Gesù
ripetutamente ai giudei che lo incalzano, desiderosi di seguire la via di Dio
senza però riuscire ad accoglierla.
Il brano evangelico di oggi riporta le
ultime battute del lungo discorso di Gesù con i giudei, prima dello scandalo
finale degli ascoltatori e dopo il miracolo della moltiplicazione dei pani che
tanto entusiasmo aveva suscitato. Le parole di Gesù acquistano altra potenza se
le intendiamo dentro il percorso di intelligenza del suo mistero. Gesù stesso
aveva distribuito alla folla i pani che aveva moltiplicati: nel far dono di
quei pani era sottinteso il dono che di sé faceva, ma non era scontato
coglierlo. Come nell’ultima cena, il suo lavar i piedi agli apostoli
sottintendeva il suo servire l’umanità che di lì a poco sarebbe sfociato nel
dono di sé agli uomini nella passione. Se però i discepoli si scandalizzano
della sua ‘discesa’, come potranno accettare la sua ‘salita’ al Padre, tramite
la croce, come Gesù dirà: “Questo vi
scandalizza? E se vedeste il Figlio dell’uomo salire là dov’era prima?” (Gv
6,61-62)? In effetti, dopo il miracolo la gente viene per farlo re, ma Gesù
come può assumere dagli altri quello che non prende da Dio?
Inizia così la discussione tra Gesù e i
suoi possibili discepoli nel tentativo di scoprire la vera via di Dio. Gesù
obbliga la gente a riflettere riferendosi all’episodio della manna nel deserto
e invitando a cercare un cibo che dura per la vita eterna. Introduce così
l’accesso al suo mistero, perché proprio lui Dio ha consacrato per dare la vita
al mondo. Se ci riferiamo alla prima lettura tratta dal libro del Deuteronomio,
l’espressione più diretta che fa da premessa alle parole di Gesù è la seguente:
“… per farti capire che l’uomo non vive
soltanto di pane, ma che l' uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore”
(Dt 8,3). La manna è l’espressione della potenza di Dio che accompagna il suo
popolo per farlo giungere alla terra promessa. Ma chi ha mangiato quella manna
alla terra promessa non è giunto. Qual è allora il significato dell’episodio
della manna? Gesù accosta quell’episodio ai pani che lui aveva distribuito.
Qual è la posta in gioco? Semplicemente non far morire di fame il popolo? La
manna era sì un pane del cielo, ma non quello vero, come Gesù fa intendere,
perché quello vero ‘dà la vita al mondo’.
Così, nel discorso di Gesù i passaggi
sono: io sono il pane dal cielo, quello vero; io sono il pane disceso dal
cielo; io sono il pane della vita; io sono il pane vivo. Sempre rimanda al
mistero della sua persona, a lui sul quale il Padre ha messo il suo sigillo,
vale a dire a lui sul quale riposa la compiacenza del Padre e nel quale dimora
la pienezza dello Spirito. Ogni dono dato da Dio ha lo scopo di rivelare il suo
Donatore; in particolare, di rivelare che nel suo dono lui stesso si comunica
perché l’uomo viva della comunione con lui. Gesù è proprio colui che di quella
comunione è l’oggetto e il soggetto in assoluto. E quando dice che il pane vivo
che egli darà è la sua carne (evidente l’allusione all’eucaristia) intende dire
che lui, il figlio dell’uomo, l’Uomo pieno, è la carne piena dello Spirito, per
cui mangiare lui vuol dire essere assimilati al suo Spirito, vivere del suo
Spirito, vivere della vita che lo Spirito comunica, vivere della vita
pienamente riconciliata con Dio.
La conseguenza sarà che chi mangia lui,
potrà dimorare in lui come lui dimorerà in colui che lo mangia. Si stabilisce
non solo comunanza di vita, ma la stessa vita e l’uomo ritrova la potenza del
suo essere fatto a immagine e somiglianza di Dio. Non voler ‘mangiare’ lui
significa non accogliere la rivelazione di Dio che vuole gli uomini in
comunione con lui, perché vivano della sua stessa vita, che è amore donato e
condiviso.
Qui si svela in tutta la sua radicalità
l’invito del Deuteronomio: “Baderete di
mettere in pratica tutti i comandi che oggi vi dò, perché viviate” (Dt
8,1). La parola del Signore è finalizzata alla vita e quando non si tiene
conto, non si osserva la parola/comandamento, vuol dire che ci si dimentica del
Signore, cioè non si vive più di quell’amore che ci è comunicato come radice di
vita; non si vive più di quell’umanità santificata, abitata e colmata dallo
Spirito, di cui le sue parole sono realizzatrici. Non per nulla Gesù, dopo aver
detto che chi mangia la sua carne dimora in lui, aggiunge: “Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me
e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia di me vivrà per me”. È
l’aspetto più singolare e impressionante dell’esperienza cristiana: essere
inseriti nella stessa dimensione di essere di Dio. L’uomo è chiamato a vivere
della stessa vita di Dio: come il Figlio vive del Padre, così i fedeli vivono
di Gesù.
Le due perplessità che occupano il
cuore della folla: 1) come può dire che è disceso dal cielo se conosciamo i
suoi genitori? 2) come può darci la sua carne da mangiare?, occupano anche il
nostro cuore. Le potrei esprimere così: è sempre terribilmente facile pensare
di sapere senza sapere e di ascoltare senza imparare. Se vogliamo che l’udire
si traduca in ascoltare dobbiamo arrivare a udire ‘da presso colui che ci
parla’ e non tirare a noi le parole di colui che ci parla. Lo dice Gesù: “Chiunque ha udito il Padre e ha imparato da
lui, viene a me” (Gv 6,45). ‘Imparare’ comporta l’essere attratti, come
Gesù dirà: “Io, quando sarò elevato da
terra, attirerò tutti a me” (Gv 12,32). Così il sapere comporta l’aver
gustato, l’essere raggiunti dalla rivelazione di un amore che ci riguarda e che
diventa radice di vita. Mangiare la carne del Figlio dell’uomo per avere la
vita comporta il ‘vedere e il credere’, ‘l’ascoltare e l’imparare’, essere
passati dalla ‘carne’ allo ‘spirito’: “È
lo Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla; le parole che vi ho
dette sono spirito e vita” (Gv 6,63).
§*§*§*§*§*§*§*§*§*§
Terzo ciclo
Anno liturgico A (2007-2008)
Solennità e Feste
Ss. Cuore di Gesù
(30 maggio 2008)
_________________________________________________
Deut
7,6-11; Sal 102; 1Gv 4,7-16;
Mt 11,25-30
_________________________________________________
Molti testi della liturgia di oggi
possono illustrare emblematicamente l’immagine del cuore di Gesù, spalancato
sul mondo, che la ferita del colpo di lancia del soldato al calvario lascia
intravedere. “Di generazione in
generazione durano i pensieri del suo cuore” (Sal 32,11) canta l’antifona
di ingresso. I nostri pensieri sono mutevoli, i nostri progetti pure, ancor più
i nostri desideri. Ma sperimentare che quelli del Signore sussistono per
sempre, sono sempre i medesimi, significa cogliere e accogliere il segreto di
amore che regge il mondo. Il fatto stesso che tale segreto possa essere svelato
in tutto il suo splendore solo nel momento più drammatico della vita di Gesù la
dice lunga sul fatto che quell’amore non sia scontato coglierlo e viverlo, per
quanto desiderabile.
“In
questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi
e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati”
(1Gv 4,10). Questa espressione dell’apostolo Giovanni riassume bene tutta la
consolazione e tutto il dramma dell’amore di Dio per l’uomo. L’invito è a
leggere la storia del mondo e la propria storia personale a partire da
quell’invio. Gesù è il testimone per eccellenza dell’amore del Padre: “Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare
il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la
vita eterna” (Gv 3,16).
Collegare questi passi al brano di
vangelo odierno fa scaturire una luce potente. Gesù aveva inviato in missione i
suoi discepoli e questi, tornando tutti pieni di gioia per il successo
dell’impresa (cfr. Lc 10,21), provocano un’intima esultanza in lui tanto da
fargli esclamare, rapito nello Spirito Santo: “Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai
tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate
ai piccoli. Sì, o Padre, perché così è piaciuto a te. Tutto mi è stato dato dal
Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il
Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare. Venite a
me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. Prendete il
mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e
troverete ristoro per le vostre anime. Il mio giogo infatti è dolce e il mio
carico leggero”.
Due particolari sono da rilevare: la beatitudine
dei piccoli e l’invito a imparare. Per amare è necessario farsi piccoli:
l’amore è rivelazione, non conquista. Vediamo l’amore di Dio in Gesù perché lui
si è fatto ‘piccolo’, così piccolo da dimenticare totalmente la sua gloria e
poter far arrivare agli uomini l’amore di Dio. Ora, la sua piccolezza ha a che
fare con la situazione degli uomini, incapaci di vedere Dio perché non più
capaci di amare (“Chi non ama non ha
conosciuto Dio”), non più aperti alla rivelazione dell’amore (potrebbe
essere spiegata così la situazione di peccato in cui versano gli uomini che
tanto li inasprisce). Quando gli uomini si accorgono, guardando Gesù morire
sulla croce, dell’amore di Dio per loro e chiedono perdono (chiedono cioè di
uscire dal peccato), con ciò non vogliono semplicemente mettersi a posto, ma
vogliono tornare a godere dell’amore di Dio, in umiltà. Più l’umiltà sarà
sincera e profonda, più faranno esperienza della tenerezza di quell’amore e più
saranno disposti a condividerlo con tutti.
E se Gesù invita: “Imparate da me”, che cosa dobbiamo imparare? Nel fatto di
‘imparare’ va letta la sfumatura di significato di ‘essere attratti’, come si
può arguire dal discorso di Gesù alla folla dei giudei riportato in Gv 6,45 (“Chiunque ha udito il Padre e ha imparato da
lui, viene a me”, pa/j o` avkou,saj
para. tou/ patro.j kai. maqw.n e;rcetai pro.j evme). Imparare e essere attratti comportano lo stesso
movimento, alludono alla condivisione di una intimità di vita e di sentire che
diventa potenza di azione. Imparare da Gesù significa perciò essere attratti a
lui, per vivere della sua stessa vita. Non per nulla Giovanni dice che
‘chiunque ama è generato da Dio’ perché ‘a quanti però l’hanno accolto ha dato
potere di diventare figli di Dio’. L’amore viene dal fatto di essere generati
da Dio, vale a dire di aver accolto il Figlio, che è stato mandato per
testimoniare agli uomini quanto è grande l’amore di Dio. Accogliere il Figlio
significa vivere dello stesso dinamismo di amore che quel Figlio ha inviato, in
modo da far risplendere nel mondo, nella comunione tra gli uomini, la comunione
con Dio. Di tutto questo l’immagine del Cuore di Gesù è emblema.
La proclamazione del salmista: “Benedici il Signore anima mia …” (Sal
102) risuona in tutta la sua potenza sulle nostre labbra appena ci apriamo al
mistero del cuore di Gesù, sentendoci implicati nelle sue parole: “Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e
della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli
intelligenti e le hai rivelate ai piccoli…”. E avremo così modo di
comprendere meno confusamente come le due definizioni di Dio dell’apostolo
Giovanni (“Dio è amore”, 1Gv 4,8.16; “Dio è luce”, 1Gv 1,5) siano un tutt’uno.
La luce allude alla santità di Dio nel suo splendore di amore per l’uomo, come
l’amore è la dimensione della santità di Dio che accomuna a sé l’uomo. Il cuore
di Gesù mostra sia l’amore di Dio che la sua santità. Non siamo attratti allo
stesso titolo dall’amore e dalla santità e forse per questo l’amore, che è così
desiderabile, ci riesce così irraggiungibile. Eppure, il cuore di Gesù è lì a
ricordarci il contrario: possiamo entrare anche noi nella santità dell’amore di
Dio e avere la vita.
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Terzo ciclo
Anno liturgico A (2007-2008)
Tempo Ordinario
9a Domenica
(1 giugno 2008)
_________________________________________________
Dt
11,18.26-28; Sal 30; Rm 3,21-25.28; Mt 7,21-27
_________________________________________________
Le parole del brano di vangelo di oggi
sono le ultime battute del grande discorso di Gesù sul monte delle beatitudini
(cfr. Mt 5,1-7,29), che termina con l’annotazione: “Quando Gesù ebbe finito questi discorsi, le folle restarono stupite del
suo insegnamento: egli infatti insegnava loro come uno che ha autorità e non
come i loro scribi” (Mt 7,28-29). La parabola della casa costruita sulla
roccia o sulla sabbia assume così il valore riassuntivo rispetto all’intero
discorso. Segnala il giudizio della fine allorquando l’uomo potrà essere messo
a confronto con la sincerità del suo cuore davanti al Signore. Essa è riferita
alle ‘parole di Gesù’ e non semplicemente alle ‘parole della Scrittura’,
mettendo subito in chiaro davanti ai possibili discepoli che “se la vostra giustizia non supererà quella
degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli” (Mt 5,20).
Modalità di insegnamento, questo, da parte di Gesù, che strappa agli
ascoltatori la dichiarazione: ma questi non insegna come uno scriba qualunque;
parla in proprio!
Evidentemente, non c’è alcuna
contraddizione o opposizione tra le parole della Scrittura e le parole di Gesù.
Anzi! “Non pensate che io sia venuto ad
abolire la Legge o i Profeti; non son venuto per abolire, ma per dare
compimento” (Mt 5,17). Qual è allora il senso delle sue parole?
La parabola è costruita sulla natura
del fondamento della casa: roccia o sabbia. Non vuol dire però che la roccia è
il Signore e la sabbia la Legge. Nemmeno vuol dire che la roccia è la parola di
Dio e la sabbia i pensieri dell’uomo. E nemmeno si può pensare che la roccia
sia la retta dottrina e la sabbia la falsa dottrina. Il paragone è giocato sul
fatto che l’uomo può fare il bene o solo parlarne; può compiere il bene o solo
vantarsi di essere ritenuto buono. Non per nulla la parabola è introdotta con
le parole: “Perciò chiunque ascolta
queste mie parole e le mette in pratica [= tutto il discorso sul monte
delle beatitudini], è simile a un uomo
saggio … Chiunque ascolta queste mie parole e non le mette in pratica, è simile
a un uomo stolto…” . Gesù sta illustrando il volere del Padre di cui, nella
preghiera del Padre nostro (Mt 6,9-13), si chiede il compimento. Richiama il
regno di Dio che in lui si realizza e di cui mostra le coordinate perché gli
uomini possano gustarlo concretamente. A quello scopo indirizza l’animo degli
ascoltatori e ne esige la sequela. Chi intravede questo e si mette nella
condizione di agire secondo quanto ha colto ascoltando, allora costruisce sulla
roccia. La sua casa resisterà davanti al giudizio di Dio. Chi lo intravede ma
poi se ne discosta nella sua vita, non ne tiene conto, lo disprezza, allora
costruisce sulla sabbia. La sua casa crollerà: non otterrà il compiacimento di
Dio e si ritroverà condannato, un perfetto sconosciuto.
In questo senso la parabola è diretta
primariamente contro i falsi profeti o i falsi carismatici, contro coloro cioè
che piegano la parola di Dio o le capacità ricevute a scopi personali, per
prestigio personale, per imporsi, rinnegando così la volontà di salvezza di
Dio. A loro, primariamente, è diretto il monito: “Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma
colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli”. E per estensione, a
tutti coloro che vogliono essere discepoli di Cristo ma senza condividere con
Dio l’ansia di salvezza per l’umanità.
Così, costruire sulla roccia e fare la
volontà del Padre indica la stessa cosa. Ma noi ci possiamo chiedere: qual è la
volontà del Padre? Cosa intendere per volontà del Padre?
La lettura del cap. 11 del libro del
Deuteronomio ce ne può fornire la spiegazione. Occorre leggerlo per intero e
non limitarsi al brano scelto come prima lettura di oggi. A differenza
dell’Egitto, ‘dove gettavi il tuo seme e
poi lo irrigavi con il piede’ (11,10: in pianura, con l’acqua abbondante
del Nilo, i canali tra i solchi erano aperti o chiusi con un piede), la terra
promessa è ‘un paese di monti e di valli,
beve l’acqua della pioggia che viene dal cielo: paese del quale il Signore tuo
Dio ha cura e sul quale si posano sempre gli occhi del Signore tuo Dio dal
principio dell’anno sin alla fine’ (11,11). Israele dipende da Dio per la
terra che lavorerà. Ma se si allontana da lui, allora anche la terra non
produrrà e il popolo perirà. La ‘benedizione’ e la ‘maledizione’ alludono
direttamente a questa situazione. Il punto centrale del discorso è però un altro.
Osservare i comandi di Dio e metterli in pratica per godere la sua benedizione
richiede un certo atteggiamento del cuore: obbedire diligentemente ‘amando il Signore vostro Dio e servendolo
con tutto il cuore e con tutta l’anima’ (11,13). Sarà quell’amore che
permetterà a Israele di ‘eseguire’ e di ‘ascoltare’ (cfr. Es 24,7, secondo
l’interpretazione antica, ebraica e patristica: ‘noi eseguiremo e
ascolteremo’).
Costruire sulla roccia o fare la
volontà del Padre allude a quell’amore che coinvolge la vita e ci predispone
all’ascolto, alla partecipazione cioè dei segreti di Dio, che si esprimono nel
suo desiderio, condiviso da noi, di salvezza per tutti e per ciascuno. Se la
proclamazione della propria fede (si può credere vanamente) o la pratica della
propria vita (si può praticare vanamente) non diventano espressioni della
condivisione dei segreti di Dio, nulla ci gioverà e la nostra casa andrà in
rovina. Gesù, con il suo discorso sul monte delle beatitudini, è lì appunto a
ricordarci quei segreti di Dio che vuole svelare al mondo e di cui vuole
investire i suoi discepoli perché il mondo creda e si salvi e Dio sia
glorificato.
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Terzo ciclo
Anno liturgico A (2007-2008)
Tempo Ordinario
10a Domenica
(8 giugno 2008)
_________________________________________________
Os
6,3-6; Sal 49; Rm 4,18-25;
Mt 9,9-13
_________________________________________________
Gesù si trova a Cafarnao, dove ha
stabilito la sua residenza. Conosce bene quindi i suoi abitanti. Ha appena
guarito un uomo paralitico suscitando stupore e scompiglio: l’ha guarito dalla
sua malattia, ma l’ha anche rimandato libero dai suoi peccati. Con quale potere
osa comportarsi in tal modo? Uscendo di casa, si avvicina al banco delle
imposte e invita l’esattore, di nome Matteo (o Levi), a seguirlo. Altra scena
di scompiglio: Matteo (forse per sancire il commiato dalla vita solita) lo
invita a pranzo e gli fa festa insieme ai suoi amici, gente poco raccomandabile
dal punto di vista della purità legale seguita scrupolosamente dai farisei. “Perché il vostro maestro mangia insieme ai
pubblicani e ai peccatori?”. Evidentemente, quel maestro colpisce: prende
iniziative inaudite, sebbene poi alle parole faccia seguire i fatti. Ma se
viene da Dio, perché non osserva la Legge?
I discepoli tacciono. Gesù però sente e
ribatte: “Non sono i sani che hanno
bisogno del medico, ma i malati”. E giustifica il suo agire con le parole
del profeta Osea: “Andate dunque e
imparate che cosa significhi: Misericordia io voglio e non sacrificio. Infatti
non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori”.
Perché Dio cerca la ‘misericordia’?
Perché essa sola è segno della sua presenza, splendore della sua grazia. Quel
‘sacrificio’ che non parla della Sua misericordia, che non fa risplendere la
Sua misericordia, non Gli è gradito. La ragione profonda mi sembra questa. Ciò
che conta è l’accondiscendenza allo splendore del Suo amore. Più risulta
autentica quell’accondiscendenza, più il suo amore, supplicato, accolto e
condiviso, risplende nel mondo. E questo corrisponde alla gloria di Dio. Ora,
l’accondiscendenza a quello splendore ci fa gustare la misericordia di Dio e ci
dispone a ricercarla e a viverla come dono supremo, come il tesoro più prezioso
del cuore.
L’aveva già proclamato il profeta
Samuele davanti al re Saul che nella guerra contro gli Amaleciti aveva
risparmiato, contro il comando del Signore, il meglio del bestiame minuto e
grosso con l’intenzione di offrire poi sacrifici al Signore: “Il Signore forse gradisce gli olocausti e i
sacrifici come obbedire alla voce del Signore? Ecco, obbedire è meglio del
sacrificio, essere docili è più del grasso degli arieti” (1Sam 15,22).
Anche lo scriba, lodato da Gesù, l’aveva sottolineato: “Hai detto bene, Maestro, e secondo verità che Egli è unico e non v' è
altri all' infuori di lui; amarlo con tutto il cuore, con tutta la mente e con
tutta la forza e amare il prossimo come se stesso val più di tutti gli
olocausti e i sacrifici” (Mc 12,32-33).
La parola profetica di Osea, citata da
Gesù, proclama: “Voglio l' amore e non il
sacrificio, la conoscenza di Dio più degli olocausti” (Os 6,6).
Se colleghiamo il passo di Osea con il
brano evangelico ci accorgiamo che l’espressione di Gesù: ‘sono venuto a chiamare i peccatori’ risponde alla frase del
profeta: ‘Affrettiamoci a conoscere il
Signore’, frase che riassume l’atteggiamento di pentimento del popolo
davanti a Dio. Nel testo del profeta, però, Dio non accoglie quel pentimento
perché procede da un calcolo: torniamo al Signore e offriamogli sacrifici di
modo che finiscano le sciagure che ci ha mandato! ‘Conoscere il Signore’
equivale a fare esperienza della sua benevolenza. Ma tale atteggiamento può
derivare solo dal fatto di non poterne più dei rovesci della vita. Dio non può
gradire un atto di culto che derivi solo dal non voler più subire afflizioni
semplicemente. Per questo Dio dice al popolo: “voglio l' amore e non il sacrificio, la conoscenza di Dio più degli
olocausti”.
Nell’espressione profetica di Osea
l’amore, la misericordia, allude alla lealtà in amore secondo l’alleanza con
Dio. Ma l’uomo può vivere l’alleanza con Dio solo come una forma di protezione
(che suona come un ‘tener buono’ chi è pensato detenere il potere sulle vicende
umane) senza accedere allo spazio di un amore condiviso. Così, quando l’uomo,
illuso dei beni che può godere, non sembra più interessato alla storia di amore
con il suo Dio, non riesce a far fronte ai rovesci della vita e si ritrova
abbandonato e disperso. Ricorre allora a Dio, ma come dall’esterno, solo per
riottenere quei beni che ha perso. Fa cose sante senza lambire la santità.
Dio, invece, invitando alla
misericordia e non ai sacrifici, è come se dicesse: tornare a me vuol dire
tornare a vedere la mia Provvidenza per voi, tornare a vedere la mia grazia
risplendere. Quando il salmo 149 parla del ‘sacrificio di lode’ allude proprio
al’agire dell’ uomo che miri a far risplendere l’amore di Dio, non solo in me o
per me, ma nel mondo, attraverso me. Così Dio è glorificato, così l’umanità
torna a Dio. Così è vinto il peccato, quando non divide più né da Dio né dai
fratelli e si realizza l’invocazione dell’antifona dopo la comunione: “Ci
guarisca dal male che ci separa da te”. Di per sé la dinamica del sacrificio
che tende a divenire ‘sacrificio di lode’ lavora proprio a impedire quella
separazione e quindi a favorire l’esperienza della misericordia. E questo
corrisponde al dar gloria a Dio, come Paolo dice di Abramo: dare gloria a Dio
significa far spazio al compimento della sua promessa nella mia esistenza e la
sua promessa non è che l’offerta della sua comunione perché su tutto e tutti
risplenda il suo amore. Ora, la mia vita si gioca precisamente in questo punto:
dare credito di fiducia alla sua potenza perché questo si compia anche in me e,
attraverso me, nel mondo. Coltivare dunque la misericordia non vuol dire
sforzarsi di essere generosi con il prossimo, ma coltivarsi nell’apertura
all’esperienza del suo amore, al riconoscimento del suo agire nella nostra
vita, allo splendore della sua presenza, alla condivisione dei suoi sentimenti.
Applicato al contesto in cui Gesù si
rivolge ai farisei, la domanda che potremmo farci può suonare così: cosa fa
conoscere di Dio quel modo di agire di Gesù? Se Dio non è per tutti, quale
immagine di Dio adoriamo? Se adoriamo un Dio che tiene qualcuno lontano, l’orizzonte
della nostra umanità resta limitato. Gesù, cercando i peccatori, facendo suoi
discepoli gente peccatrice, svelando la bontà di Dio a coloro che si tenevano
lontani dalla santità di Dio, svela sia la natura della conversione secondo Dio
che la grandezza del suo amore salvatore: non è un invito alla virtù, ma
un’introduzione ad una visione, ad una esperienza dell’anima che ‘conosce’
l’amore del suo Dio nella misericordia, gustata e condivisa.
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Terzo ciclo
Anno liturgico A (2007-2008)
Tempo Ordinario
11a Domenica
(15 giugno 2008)
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Es
19,2-6; Sal 99; Rm 5,6-11; Mt 9,36-10,8
_________________________________________________
“Gesù,
vedendo le folle, ne sentì compassione”. In questa 'compassione' prendono
senso e valore tutti i gesti e le parole di Gesù per noi. È estremamente
importante per il nostro cuore riuscire a percepire almeno gli echi della sua
compassione. Già nell'Antico Testamento il Signore si era espresso allo stesso
modo: “Il Signore disse: Ho osservato la
miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi
sorveglianti; conosco infatti le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo dalla
mano dell’Egitto e per farlo uscire da questo paese verso un paese bello e
spazioso” (Es 3,7-8). E Origene in una sua omelia su Ezechiele (VI,6)
sottolinea arditamente: "Egli è disceso sulla terra mosso a pietà del
genere umano, ha sofferto i nostri dolori prima ancora di patire la croce e
degnarsi di assumere la nostra carne; se egli non avesse patito, non sarebbe
venuto a trovarsi nella condizione della nostra vita di uomini. Prima ha
patito, poi è disceso e si è mostrato. Qual è questa passione che per noi ha
sofferto? È la passione dell'amore". E se Gesù prova compassione è perché
sa che può dire: "Venite a me, voi
tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. Prendete il mio
giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e
troverete ristoro per le vostre anime. Il mio giogo infatti è dolce e il mio
carico leggero" (Mt 11,28-30). E ancora perché sa che, se il cuore
dell'uomo cerca ristoro e non lo trova, è perché si illude di cercarlo fuori di
Lui. Così, quando Gesù, mosso dalla sua compassione, invita i discepoli a
pregare perché il Padre mandi operai nella sua messe, fa pregare non tanto
perché mandi tanti operai, ma perché ne mandi di quelli che si muoveranno
spinti dalla stessa sua compassione. Compassione, nella quale si riconosce
l'amore del Padre. E gli operai che lavorassero in questa messe immensa senza
essere il riflesso di questo amore e di questa compassione, non favorirebbero
il ristoro del cuore degli uomini. Ma come diventare il riflesso dell'amore e
della compassione di Dio per gli uomini senza la preghiera? Per questo Gesù fa
pregare.
“Gesù
andava attorno per tutte le città e i villaggi, insegnando nelle loro
sinagoghe, predicando il vangelo del regno e curando ogni malattia e infermità”
recita il v. 35 che precede l'inizio del nostro brano. Quando chiama i
discepoli, li fornisce delle stesse sue prerogative: 'diede loro il potere di
scacciare gli spiriti immondi e di guarire ogni sorta di malattie e
d'infermità'. Nessuno può proclamare la verità della vita a titolo proprio,
come nessuno può procurare ristoro al cuore degli uomini a titolo proprio. La
verità e il ristoro che essa procura procedono dall'alto, esprimono la
compassione di Dio che raggiunge il cuore degli uomini, in Cristo. E se il
discepolo non lascia intravedere chiaramente tale rimando, non è un 'chiamato',
un 'inviato', lavora per la sua gloria e non potrà sanare nessuno.
Tanto che Gesù, nel suo inviare i
discepoli, di ieri come di oggi, comanda i miracoli: "guarite gli infermi,
risuscitate i morti, sanate i lebbrosi, cacciate i demoni". Quale uomo di
buon senso può sottoscrivere seriamente queste ingiunzioni? Quando l’annuncio
del vangelo pesca nella compassione di Gesù, allora il regno di Dio è percepito
vicino. E da che cosa si vede? Dal potere che viene conferito ai discepoli di
guarire gli infermi e cacciare i demoni. Sono i demoni, per la volontà di far
condividere agli uomini la loro scelta di separazione da Dio, di grandezza
ricercata sulla piccolezza degli altri, di gloria ottenuta sulla vergogna
altrui, che turbano la vita, l’ammorbano, la opprimono e la mortificano.
Cacciare i demoni significa tornare a far risplendere l’umanità nella sua
vocazione di dignità e di comunione con Dio, con il creato, con i fratelli;
significa ridare speranza ai cuori che incominciano a vedere splendere in mezzo
a loro la presenza del loro Dio, Salvatore; significa tornare a far giungere ai
cuori la compassione di Dio. È questo il potere del vangelo. Al di là del dono
particolare, fatto a qualche discepolo, qualche volta, di fare miracoli, credo
che il valore di queste 'guarigioni' che Gesù promette nell'annuncio del
vangelo del regno stia tutto nel senso di procurare quel 'ristoro' che rende un
cuore pieno di vita, colmo di gratitudine, solidale e ricco in umanità, puro da
vedere Dio e da desiderare il bene di tutti perché Dio sia conosciuto ed il suo
amore riconosciuto.
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Terzo ciclo
Anno liturgico A (2007-2008)
Tempo Ordinario
12a Domenica
(22 giugno 2008)
_________________________________________________
Ger
20,10-13; sal 68; Rm 5,12-15;
Mt 10,26-33
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Gesù ha appena avvertito i discepoli
che subiranno persecuzioni ma li invita a non aver paura. Tutto il brano si
fonda sul principio: “Un discepolo non è
da più del maestro, né un servo da più del suo padrone; è sufficiente per il
discepolo essere come il suo maestro e per il servo come il suo padrone”
(Mt 10,24-25). La paura che prendesse il discepolo nella tribolazione non
equivarrebbe semplicemente alla mancanza di coraggio, ma alla mancata intimità
con il suo maestro. Tale è l’ottica di lettura per i brani di oggi. Lo rivela
anche il canto al vangelo riportando, in forma abbreviata, un passo di
Giovanni: “Questo perché si adempisse la
parola scritta nella loro Legge: Mi hanno odiato senza ragione [sal 68,5]. Quando verrà il Consolatore che io vi
manderò dal Padre, lo Spirito di verità che procede dal Padre, egli mi renderà
testimonianza; e anche voi mi renderete testimonianza, perché siete stati con
me fin dal principio” (Gv 15,25-27).
Come a dire: la verità che lo Spirito
farà risplendere è la verità, accolta, del mistero della persona di Gesù, di
cui si è condiviso la vita e l’insegnamento, imparando a conoscerne l’amore e a
viverne la dinamica di rivelazione che comporta. Davanti alla tribolazione che
sorprende il discepolo, quando subirà persecuzione dagli uomini, quando subirà
ingiustizie e oppressione, quando si sentirà ingiustamente accusato, egli potrà
‘mostrare’ che cosa il suo cuore cerca, di che cosa è pieno, che cosa
costituisce il suo tesoro. Di qui deriva la sua non paura. In effetti, il contrario della paura non è il
coraggio, ma la confidenza, la fiducia. L’uomo che ha rinunciato alla sua
pretesa di innocenza di fronte all’amore di Dio che lo accoglie e lo perdona,
gli fa godere la sua intimità, è un uomo che non ha più paura, che non ha più
paura di essere calpestato dagli uomini, di essere da loro discreditato o
umiliato. Il segreto che porta, di cui è testimone, è più potente. E sarà
proprio quel segreto che dovrà essere manifestato, gridato a tutti e in tutto
il mondo. Proprio quello che nella più personale intimità di incontro col
Signore costituisce la verità del proprio cuore, proprio quello andrà gridato
in tutti modi, perché tutto sarà svelato a suo tempo, a tutti apparirà chiara
la verità di quel segreto a suo tempo. Forse Gesù allude a un proverbio
popolare: tutto finisce per arrivare al grande giorno. Ciò che ora è ancora un
segreto, sarà la verità più limpida e convincente per tutti a suo tempo. Non
temete dunque, conclude Gesù: fate risuonare quel segreto, fate risplendere
davanti a tutti quella verità.
Il passo di Giovanni del canto al
vangelo richiama il salmo 68, da molti interpretato come salmo della passione
di Gesù. La preghiera che Gesù innalza al Padre per essere liberato dalla prova
è quella di cui parla la lettera agli Ebrei: “Proprio per questo nei giorni della sua vita terrena egli offrì
preghiere e suppliche con forti grida e lacrime a colui che poteva liberarlo da
morte e fu esaudito per la sua pietà” (Eb 5,7). Gesù però non fu sottratto
alla morte, ma nella morte ottiene la vita. Una cosa simile ricorda Pietro
nella sua prima lettera: “E chi vi potrà
fare del male, se sarete ferventi nel bene? E se anche doveste soffrire per la
giustizia, beati voi! Non vi sgomentate per paura di loro, né vi turbate, ma
adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a
chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi” (1Pt 3,13-15).
Così, nella terribile esperienza del
profeta Geremia, insidiato da ogni parte e abbandonato da tutti, la sua
preghiera è esaudita nel senso che i suoi nemici non ottengono la sua anima,
cioè non lo piegano ai loro voleri e non lo distolgono dal perseguire la verità
della parola di Dio, che continua a proclamare imperterrito. Ma da dove deriva
la sua forza, la forza di non avere paura nonostante le angosce e i terrori che
lo tormentano? “Mi hai sedotto, Signore,
e io mi sono lasciato sedurre; mi hai fatto forza e hai prevalso… Mi dicevo:
“Non penserò più a lui, non parlerò più in suo nome!”. Ma nel mio cuore c’era
come un fuoco ardente, chiuso nelle mie ossa; mi sforzavo di contenerlo, ma non
potevo” (Ger 10,7.9). La sua vita scaturiva dal legame con il suo Signore
che gli aveva rapito il cuore.
Da dove i discepoli traggono la forza
di non avere paura? Se il brano evangelico di oggi richiama al principio della
fedeltà nella persecuzione – cosa che di per sé supporrebbe un coraggio
incredibile! – ricorda però che la testimonianza si alimenta nella prospettiva
di una confidenza goduta: “Due passeri
non si vendono forse per un soldo? Eppure neanche uno di essi cadrà a terra
senza che il Padre vostro lo voglia”. Come a dire: il Padre vostro è sempre
con voi; voi siete cari al Padre vostro. Tutto quello che vi capita non è un
incidente, ma ha lo scopo di mostrare il suo desiderio di comunione con gli
uomini, desiderio che in voi è diventato il vostro segreto di vita. Se il male
che ci viene dagli altri uccide la nostra anima nel senso che ci distoglie
dalla comunione con Dio e soffoca il suo amore, come potrà il mondo ancora
risplendere della presenza di Dio? Come la salvezza di Dio potrà ancora lambire
i cuori?
Da notare la corrispondenza tra il
riconoscimento di Gesù davanti agli uomini e il riconoscimento suo davanti al
Padre. A dire il vero, il testo evangelico suona: ‘Chi confesserà in me davanti
agli uomini, anch’io confesserò in lui davanti al Padre mio’. Il che significa:
non si può confessare il Signore Gesù se non a partire da un’intimità di vita
con lui, per cui riconoscerlo significa godere dell’intimità che ci offre. E la
cosa avviene davanti agli uomini nel senso che quell’intimità si svela
nell’amore verso gli uomini, alla comunione coi quali tende il desiderio di
Dio, proprio quando gli uomini, rifiutando di rispondere a quel desiderio,
contestano e opprimono coloro che vivono secondo quel desiderio che è diventato
il loro segreto. Il riconoscere di Gesù davanti al Padre significa mostrare al
cuore la verità dell’amore salvatore di Dio per gli uomini che prevale in ogni
circostanza, anche la più drammatica o la più affliggente.
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Terzo ciclo
Anno liturgico A (2007-2008)
Solennità e feste
Ss. Pietro e Paolo
(29 giugno 2008)
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At
12,1-11, Sal 33; 2Tm 4,6-8.17-18; Mt 16,13-19
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A cosa guardi la chiesa, nella
celebrazione degli apostoli Pietro e Paolo, lo rivela la preghiera dopo la
comunione: “Concedi, Signore, ai membri della tua Chiesa, che hai nutriti alla
mensa eucaristica, di perseverare nella frazione del pane e nella dottrina
degli Apostoli, per formare nel vincolo della tua carità un cuor solo e
un’anima sola”. La preghiera riecheggia la descrizione di At 2,42: “Erano assidui nell' ascoltare l' insegnamento
degli apostoli e nell' unione fraterna, nella frazione del pane e nelle
preghiere”. Come a dire: l’esperienza di Gesù si fonda sulla testimonianza
degli apostoli, che ci danno la verità del Cristo, come parola e come Corpo,
perché possiamo formare un cuor solo e un’anima sola nella potenza del suo
Spirito, perfettamente riconciliati con Dio e con il prossimo.
L’aspetto singolare della loro
testimonianza è dato dal fatto che soltanto tramite loro siamo garantiti
nell’accesso alla rivelazione di Dio, in Gesù. Il brano evangelico della
confessione di Pietro a Cesarea lo conferma: “Disse loro: "Voi chi dite che io sia?". Rispose Simon Pietro:
"Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente". E Gesù: "Beato
te, Simone figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te l' hanno
rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli”. La confessione della verità del Signore Gesù
comporta la partecipazione alla rivelazione di Dio. Quando ci si appressa al
mistero della persona di Gesù si comincia a godere di un dinamismo di
rivelazione che proviene da Dio e che ci precede. Non si tratta in effetti di
conquistare una verità su Gesù, ma di percepire che Dio ci si fa incontro nella
sua accondiscendenza di amore per noi. Accondiscendenza, che ci riguarda a
doppio titolo: implica il movimento che viene direttamente da Dio nel suo amore
anche per me e il movimento che viene dai suoi servi che già hanno goduto di
quell’amore e di cui si fanno garanti per me. Ambedue gli aspetti sono
essenziali per il nostro cuore, perché questa è la provvidenza di Dio per gli
uomini.
La ragione profonda di questo doppio
dinamismo è svelata da Gesù quando prorompe in un inno di lode al Padre dopo
che gli apostoli, inviati in missione evangelizzatrice, tornano a lui: “In quel tempo Gesù disse: Ti benedico, o
Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose
ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così è piaciuto a te”
(Mt 11,25-26). ‘Così è piaciuto a te’: l’espressione non si riferisce
semplicemente al fatto che Dio ha voluto così, ma al fatto che in quel volere
di Dio sta tutta l’accondiscendenza di amore per l’uomo. Quel ‘compiacimento’
del Padre sta tutto sul Figlio, come viene rivelato al Giordano e al Tabor e
noi siamo chiamati – questo è il valore della confessione di Pietro! – ad
accogliere il Figlio per godere di quella stessa compiacenza, fonte per noi di
bene e di santità.
Pietro confessa in tutta sincerità la
verità di Gesù, ma non è ancora consapevole di ciò che quella verità comporta.
Basta leggere il seguito del brano e il resto del racconto evangelico per
sincerarsene. Eppure, Gesù proprio sulla verità confessata da ‘Pietro’ (il nome
Pietro, traduzione greca del nome aramaico Kepha, roccia, non era usato come nome
proprio di persona nell’ambiente di allora) edifica la sua chiesa. Il che
significa che quella verità non sarà mai più ritoccata; risuonerà eterna e
salvatrice a dispetto di ogni prova. Tuttavia – noi possiamo domandarci - la
confessione di Pietro, pur veritiera, a quale profondità di risonanza si situa
nel suo cuore? Se rileggiamo la confessione di Pietro dopo il brano evangelico
della messa vigiliare, Gv 21,15-19, possiamo comprendere più da vicino l’arco
di sviluppo della fede di Pietro. Quando Gesù gli domanda per tre volte:
‘Simone di Giovanni, mi vuoi bene?’, Pietro sa bene che non ha mai rinunciato
al suo Gesù, ma sa altrettanto bene che l’aver saputo la verità su Gesù non gli
ha impedito il tradimento. Ha dovuto rendersi conto direttamente di quanto
l’uomo possa misconoscere il dono e le vie di Dio, sebbene non sia mai venuto
meno al fascino di Gesù che l’ha segnato nell’intimo. “Signore, tu sai tutto; tu sai che ti voglio bene”: il suo amore non
è più proclamato, è solo sussurrato; non si fonda più sul suo slancio, ma sulla
confidenza nella compiacenza di Gesù che lo vuole suo intimo e testimone; ha
ormai accettato che le vie di Dio sono diverse da quelle degli uomini. È così
pronto, come gli profetizza Gesù, a vivere la verità del suo Maestro dovunque
la testimonianza del suo amore lo porterà. In quel momento, la sua confessione:
“Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente” acquista tutta un’altra
risonanza. E anche la rivelazione di Dio per lui acquista tutta un’altra
densità e potenza. Lì tutti noi siamo fondati.
È caratteristico che la liturgia
accomuni a Pietro Paolo nella sua testimonianza di apostolo che ha combattuto
la buona battaglia, che ha terminato la corsa conservando la fede: la verità
confessata di Gesù, acquisita per rivelazione, ha impegnato tutta la sua vita
perché risplendesse al di sopra di tutto l’amore del Signore che conquista
tutti. La corona che si aspetta, che ha sempre cercato e che ha condiviso con
tutti, è quella che definisce con l’attesa della manifestazione del Signore: “Ora mi resta solo la corona di giustizia che
il Signore, giusto giudice, mi consegnerà in quel giorno; ma anche a tutti
coloro che attendono con amore la sua manifestazione”. Manifestazione, che
costituisce la tensione del cuore nell’adesione al Signore Gesù che man mano
condivide con i suoi fedeli i suoi segreti, fonte di dignità per il mondo
intero.
§*§*§*§*§*§*§*§*§*§
Terzo ciclo
Anno liturgico A (2007-2008)
Tempo Ordinario
14a Domenica
(6 luglio 2008)
_________________________________________________
Zc
9,9-10; sal 144; Rm 8,9-13;
Mt 11,25-30
_________________________________________________
Il passo del vangelo che viene
proclamato oggi è forse il momento più alto della presentazione della figura di
Gesù, almeno nella prima parte del vangelo di Matteo. Gesù prorompe in un grido
di esultanza davanti ai discepoli che tornano dalla predicazione, come il passo
parallelo di Luca 10,21-22 conferma: “Ti
benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste
queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o
Padre, perché così è piaciuto a te”. È l’esultanza di fronte
all’accondiscendenza di benevolenza del Padre per gli uomini, che possono
godere del suo amore senza averne alcun titolo. L’uomo può godere del fatto che
Dio si approssimi a lui in Gesù e tutto si risolve in una questione di sguardo.
L’uomo non deve conquistare Dio, ma aprirsi alla sua rivelazione. Dio è già
dalla sua parte. L’unica conquista è quella di acquisire quell'atteggiamento del
cuore che consente di ricevere la rivelazione del suo amore. Questo
caratterizza i ‘piccoli’, la cui qualità è definita in rapporto ai ‘sapienti’
che si affannano invece a volere che Dio sia come è stabilito che sia, come a
cercare le condizioni possibili per una presenza accettabile di Dio. I pensieri
degli uomini non corrispondono ai pensieri di Dio e chi preferisce quelli di
Dio ai propri appartiene al numero dei ‘piccoli’. La condivisione da parte di
Gesù del piacere di Dio, non allude semplicemente al fatto che a Dio piace
rivelarsi ai piccoli, ma alla condizione essenziale perché Dio possa rivelarsi,
come a dire: appena ci si fa piccoli, nella misura in cui ci si fa piccoli, Dio
si rivela a noi. Qui si cela il segreto dell’obbedienza al Padre di Gesù,
dell’obbedienza del discepolo al suo Maestro, dell’obbedienza della fede.
L’esultanza di Gesù come del credente deriva da qui.
In effetti, tutta la compiacenza del
Padre sta nel Figlio, come tutta la conoscenza di Dio sta nel Figlio. Alla fine
del vangelo di Matteo, Gesù lo ribadisce chiaramente: “Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra” (Mt 28,18), cioè tutto
il potere di far conoscere Dio in verità e tutto il potere di compiere i
desideri del cuore dell’uomo quanto alla sua vocazione in umanità, in modo da
far risplendere l’umano della compiacenza di Dio. È per questo che Gesù invita
tutti ad appressarsi a lui. Come se dicesse: per quanto vogliate vivere secondo
leggi sante, resterete schiacciati dalla fatica se la vostra santità non
parlerà dell’amore di compassione di Dio che in me risplende e tutto investe.
Del resto, è caratteristico che Gesù si attribuisca i tratti di ‘mitezza e
umiltà’ per convincere i cuori della sua verità da parte di Dio.
Sono i tratti della profezia di
Zaccaria, proclamata come prima lettura, che viene riferita a Gesù che entra
trionfale a Gerusalemme: “Ecco, a te
viene il tuo re. Egli è giusto e vittorioso, umile, cavalca un asino, un
puledro figlio d’asina”. Il termine italiano ‘umile’ qui dovrebbe essere
reso con più precisione ‘mite’. È lo stesso termine che compare sia in Mt 5,5
(‘beati i miti…’) che in Mt 21,5 (entrata in Gerusalemme) come in Mt 11,29. È
il termine che fa pensare al ‘re della gloria’ dal legno della croce, porta di
accesso perché a noi arrivi lo splendore dell’amore di Dio e perché noi ci si
faccia capaci di portare quello splendore. L’unione tra mitezza e umiltà
costituisce la cifra divina dell’umanità perché al mite e all’umile sono
svelati i segreti di Dio, che sono i segreti di amore per gli uomini di cui il
Figlio è il Testimone per eccellenza. Come anche leggiamo nel libro del
Siracide secondo alcuni manoscritti: “… i
suoi segreti li rivela agli umili… poiché grande è la misericordia di Dio, agli
umili svela il suo segreto” (Sir 3,19-20).
Di questa capacità parla la colletta
che interpreta assai bene il movimento di rivelazione che ci è dato gustare: “O
Dio, che ti riveli ai piccoli e doni ai miti l’eredità del tuo regno, rendici
poveri, liberi ed esultanti, a imitazione del Cristo tuo figlio, per portare
con lui il giogo soave della croce e annunziare agli uomini la gioia che viene
da te”. La colletta riassume in tre caratteristiche l'imitazione del Cristo:
'rendici poveri, liberi ed esultanti'. Poveri di tutto ciò che ci allontana
dalla rivelazione dell’amore del Padre, liberi da tutto ciò che si oppone a
quella rivelazione ed esultanti di tutto ciò che la consente. Ma giustamente 'a
imitazione del Cristo tuo Figlio' perché, per quanto si sia desiderosi dei
segreti di Dio, non si è disposti a riconoscerli dove si trovano, ad accettarli
per quello che sono, a goderli per quello che comportano. Stare con il Signore
Gesù è il modo migliore per riconoscere le vie di Dio, accogliere i suoi
segreti e non illudere il nostro cuore. Per questo, per quanto strana suoni
l'espressione, viene aggiunto 'per portare con lui il giogo soave della croce'.
Nulla di più contrastante tra 'soavità' e 'croce'. Ma quel 'con lui' cambia
tutto. La storia è attraversata dal grido di angoscia del Cristo: 'ho
desiderato ardentemente mangiare questa pasqua con voi', 'c'è un battesimo che
devo ricevere e come sono angosciato finché non sia compiuto', 'Dio mio, Dio
mio, perché mi hai abbandonato?'. Ma è contemporaneamente percorsa dal suo
grido di esultanza: 'Ti benedico, Padre ...', 'io ho vinto la morte'. Noi
dobbiamo imparare a percepire la sua esultanza, dobbiamo imparare a farla
nostra, a ritrovarci in questa esultanza che deriva da un’intimità che nulla
può violare o sopprimere. Anzi, sarà a partire da questa intimità, dentro quell’esultanza,
che si svela il senso della storia e delle cose. Si tratta però di un'esultanza
sul 'giogo soave della croce'. È un'esultanza del cuore, degli occhi, non della
bocca. E quando gli uomini coglieranno da noi l'eco di quell'esultanza, allora
sapranno che la gioia viene da Dio e la desidereranno anche loro. Anche loro
torneranno piccoli per non perdere la possibilità di godere della stessa gioia.
§*§*§*§*§*§*§*§*§*§
Terzo ciclo
Anno liturgico A (2007-2008)
Tempo Ordinario
15a Domenica
(13 luglio 2008)
_________________________________________________
Is
55,10-11; sal 64; Rm 8,18-23;
Mt 13,1-23
_________________________________________________
A partire da oggi e per altre due
domeniche verrà proclamato il cap. 13 di Matteo con le sette parabole del
regno. La parabola di oggi, del seminatore o dei quattro terreni, è quella che
fa da cornice di riferimento a tutte le altre. La parabola è ricchissima di
suggestioni nella sua semplicità.
Il cap. 12 di Matteo finiva con la
dichiarazione di Gesù: «“Chi è mia madre
e chi sono i miei fratelli?”. Poi stendendo la mano verso i suoi discepoli
disse: “Ecco mia madre ed ecco i miei fratelli; perché chiunque fa la volontà
del Padre mio che è nei cieli, questi è per me fratello, sorella e madre”».
Il cap. 13 comincia con ‘quel giorno Gesù uscì di casa’ e il racconto della
parabola ‘ecco, il seminatore uscì a
seminare’. Gesù, Verbo del Padre, lascia il Padre e viene tra gli uomini,
non solo seminando la sua parola nei cuori, ma seminando sé, sua Parola Vivente,
nei cuori. C’è identità tra il seminatore e il seme, perché colui che semina e
la cosa che viene seminata è la stessa realtà, Gesù stesso. Ognuno è chiamato a
far nascere e far crescere Gesù dentro il proprio cuore. Questo è il
significato profondo della parabola.
È rispetto a questo significato
profondo che la parabola è narrata come da dentro un dramma. Perché a qualcuno
è dato conoscere i misteri del Regno dei cieli (espressione che in Matteo
allude direttamente ai segreti del regno che solo Gesù svela) e a qualcun altro
no? Perché ai discepoli Gesù parla direttamente e alle folle invece solo in
parabole? Cosa è in gioco?
Come ci viene illustrato dalla prima
lettura di Isaia, la Parola produce sempre quello per cui è mandata. Ma – e
questo è il dramma – se in chi l’accoglie, produce salvezza, in chi la rifiuta
produce condanna (cfr. Gv 5,24), la condanna di non vedere compiuti i desideri
del proprio cuore perché impenetrabile alla tenerezza della Parola. È il dramma
della relazione mancata con il proprio Dio! Si può vedere e sentire Gesù, ma
non entrare nel suo mistero e perciò il cuore non portare frutto.
Il brano profetico è preso dal cap. 55,
che chiude la seconda parte del libro di Isaia con la promessa di un nuovo
esodo. I versetti che precedono il nostro brano recitano: “L’empio abbandoni la sua via e l' uomo iniquo i suoi pensieri; ritorni
al Signore che avrà misericordia di lui e al nostro Dio che largamente perdona. Perché i miei
pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie -
oracolo del Signore. Quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le mie vie
sovrastano le vostre vie, i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri” (Is
55,7-9). Quando leggiamo nel v. 11: “così
sarà della parola uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me senza effetto,
senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l’ho
mandata”, il significato è da mettere in relazione al ‘largamente perdona’.
E il ‘largamente’ allude alla straordinaria prodigalità del seminatore che
‘spreca’ generosamente il suo seme (non si stanca mai di seminare, non teme di
buttar via il seme, evidentemente perché sempre Dio ricerca la conversione del
cuore dell’uomo) su ogni tipo di
terreno, ad illustrare l’estrema accondiscendenza di Dio che va in cerca dei
suoi figli con i quali vuole condividere i segreti del suo regno. Dietro ogni
Parola annunciata e ascoltata, sta sempre il desiderio di Dio di essere accolto
e l’invito suo ad accoglierlo. Questa alleanza di Dio con l’umanità costituisce
il quadro di riferimento, il contesto di senso della parabola del seminatore.
In quel contesto prende significato sia la prodigalità del seminatore che la
potenza di crescita del seme (che può produrre fino a 100 volte tanto),
mostrando in questo il compimento dei desideri del cuore dell’uomo: “chiunque avrà lasciato case, o fratelli, o
sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi per il mio nome, riceverà cento
volte tanto e avrà in eredità la vita eterna” (Mt 19,29).
Quanto ai vari tipi di terreno, il
frutto è in rapporto all’accoglienza del seme, come a dire: tutto il lavorio
del cuore, tutto lo sforzo ascetico e spirituale è per accogliere e far
crescere in noi il Cristo, per diventare sua madre, suoi fratelli. Accogliere e
far crescere significa allora ascoltare la parola di Dio, metterla in pratica,
compiere la volontà del Padre.
I terreni, che possiamo intendere come
le possibili condizioni di una conversione sempre più coinvolgente e radicale,
sono: la strada, i sassi, le spine, la terra buona. Dobbiamo operare tre
passaggi per arrivare a produrre qualche frutto. Dobbiamo prima lasciare
l’essere come la strada. Il terreno della strada è calpestato, duro,
impenetrabile. È la situazione di un cuore che dà il diritto d’accesso a
qualsiasi cosa, a qualsiasi pensiero, con un andirivieni senza sosta e
soprattutto senza senso. La terra va perciò lavorata per renderla soffice,
penetrabile dal seme della Parola e ciò comporta l’imparare a orientare i
nostri pensieri, a riconoscerli, a saperli distinguere e a lottare per non andar
dietro ad ognuno che passa e subire vessazioni di ogni tipo.
Poi dobbiamo lasciare l’essere come i
sassi, dove la terra è uno strato superficiale, che non permette al seme di
mettere radice. Se la Parola non può aver radici, non ha ancora consistenza ed
il cuore non può che restare incostante. È la situazione di un cuore che ha
paura di soffrire a causa della Parola, che non ha fiducia nella promessa di
Dio. Dio fa sempre paura, perché temiamo chieda cose che siano contro di noi e
cedendo a questa paura non conosceremo mai l’amore e la vita!
Quando la terra è lavorata ed è
profonda, fa nascere di tutto: cresce il seme, ma crescono anche facilmente le
erbacce. La terra va dunque tenuta pulita, se no le erbacce, le spine,
crescendo insieme al seme, ne soffocano il germoglio. È la situazione del cuore
che fa resistenza al distacco da tutto ciò che momentaneamente ci alletta.
Troppi beni finiscono per nascondere il vero Bene; troppe attese soffocano la
vera attesa del cuore; le pretese impediscono al cuore di godere. Si deve
lavorare per non compromettere il cuore in cose che ritardano o addirittura
soffocano i suoi aneliti più genuini. È la battaglia della sobrietà: siamo sì
liberi verso ogni cosa, ma non ogni cosa giova. Occorre imparare a discernere bene
e scegliere ciò che è in funzione degli aneliti più veri.
La terra, così lavorata, diventa buona,
capace di accompagnare la crescita del seme fino a maturazione, fino cioè a
godere dei frutti sperati. La distinzione della terra buona in ragione della
capacità di dar frutto per il 30, il 60 e il 100 per uno, allude alla diversità
di coinvolgimento e di radicalità della risposta da parte del cuore alla
Parola. La tradizione ebraica ha visto in questa distinzione la fedeltà di chi
crede e uniforma la sua vita ai precetti del Signore, di chi lo fa spendendo
tutti i propri beni per il regno di Dio, di chi lo fa fino al dono di se
stesso, capace di morire pur di star fedele al suo Dio. Nella tradizione
cristiana si sono visti i martiri, i vergini e gli altri credenti in generale.
In sostanza, tutto dipende dal livello di profondità e di verità del cuore
nell’aderire alla Parola; direi, tutto dipende da quanto si vuole investire
della propria vita nella relazione con il Signore.
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Terzo ciclo
Anno liturgico A (2007-2008)
Tempo Ordinario
16a Domenica
(20 luglio 2008)
_________________________________________________
Sap
12,13-19; sal 85; Rm 8,26-27;
Mt 13, 24-43
_________________________________________________
Vengono oggi proclamate altre tre
parabole del Regno: quella della zizzania, del lievito e del granellino di
senapa. Notiamo subito un particolare. Gesù, quando racconta le parabole,
spesso conclude con l’avvertimento: chi ha orecchi intenda! Ma qui,
l’avvertimento non è dato alla fine del racconto della parabola, ma dopo la
spiegazione stessa della parabola che avrebbe dovuto chiarirne adeguatamente i
significati nascosti. Due cose da notare: 1) con Gesù vengono ‘rivelate’ cose
nascoste fin dalla fondazione del mondo, vale a dire: tutto il mondo si regge
sul mistero di Dio e del suo amore per l’uomo e all’uomo viene data finalmente
la possibilità, con Gesù, l’Inviato del Padre, di aprirsi a quel mistero e
trovare riposo nel suo cuore; 2) il passaggio dal nascosto al chiaro è continuo,
non è mai dato una volta per tutte e segue l’evoluzione del rapporto di
intimità con Gesù, il Figlio di Dio, ‘potenza e sapienza’ di Dio.
La parabola della zizzania potrebbe
rispondere alla domanda: perché Dio non toglie di mezzo i malvagi? Perché Dio
lascia spazio al male? La domanda può essere formulata a partire dal brano
della Sapienza e dal salmo 85. Nel brano della Sapienza è detto: “Con tale modo di agire hai insegnato al tuo
popolo che il giusto deve amare gli uomini”, dove a ‘tale modo di agire’ si
intende l’indulgenza e la mitezza con cui Dio, dotato di forza onnipotente,
agisce verso gli uomini e li giudica. Quel ‘deve amare gli uomini’ sarebbe,
letteralmente, ‘è necessario che il giusto sia amante degli uomini’. Dove la
Scrittura segnala un ‘deve’, un ‘è necessario’, vuol dire che allude a una
radice e a un compimento divini, a un esito divino della vita umana. Anche per
Gesù si dice: è necessario che il Figlio dell’Uomo patisca…
Così il salmo 85, quando riprende, come
a commento del brano della Sapienza, la lode di Dio compassionevole, pieno di
amore, fedele e misericordioso, lo fa in un contesto preciso, che è il
seguente: “Mio Dio, mi assalgono gli
arroganti, una schiera di violenti attenta alla mia vita, non pongono te
davanti ai loro occhi”. E continua: “Ma
tu, Signore, Dio di pietà, compassionevole, lento all’ira e pieno di amore, Dio
fedele, volgiti a me e abbi misericordia: dona al tuo servo la tua forza”.
L’invocazione a Dio misericordioso nasce dal fatto che il giusto subisce
l’azione dei malvagi e l’invocazione si traduce nella richiesta della ‘forza’,
tipica di Dio, che è quella della ‘indulgenza, mitezza, pazienza…’.
La parabola indica la storia di Dio nel
mondo. Il Signore vuol fare degli uomini i figli del Regno, ma insieme, di
nascosto, è all'opera anche il Maligno che invece vuole renderli suoi figli.
L'esito della contesa tra l'uno e l'altro è scontato: prevarrà il Regno di Dio.
Il problema nasce dal fatto che, se il Regno di Dio è reale per noi e dentro di
noi, non è ancora però manifesto, per cui l'uomo si sperimenta come un campo di
tensioni contrapposte, che la venuta di Gesù rende ancora più evidenti.
Possiamo allora commentare la parabola con rapidi flash:
- 'un nemico ha fatto questo', cioè il
male non proviene dall'intimo dell'uomo. L'uomo non è fatto per il male,
sebbene il male stia sempre con lui.
- 'mentre tutti dormivano', il male si
diffonde per la mancanza di vigilanza, per non vegliare alle porte del cuore,
sebbene sia inevitabile che il cuore si addormenti e sia toccato dal male. È questa
'inevitabilità' del male che rende inutile ogni lamentela, che rende inutile il
condannarsi: meglio lottare e basta. Ogni forma di lamentela è una vittoria del
maligno perché fa partecipi della stessa sua condanna.
- contrasto tra la pazienza del padrone
e lo zelo dei servi. La pazienza del padrone è data dalla sicurezza della
vittoria, mentre il falso zelo dei servi denuncia la ristrettezza delle vedute
umane, l'impazienza dell'uomo che cede al potere della violenza, anche se camuffata
da nobili ideali. Il rischio dell'uomo è appunto tra un'assunzione indebita di
responsabilità (posizione rigorista) e un abbandono di responsabilità
(posizione lassista), ambedue procedenti da una ipertrofia dell'io che tutto
fagocita, anche se stessi, rendendoci nemici a noi stessi e incapaci di adorare
il vero Dio.
È esattamente il contesto della
parabola della zizzania. Dio non toglie di mezzo i malvagi perché sono oggetto
della sua ‘pazienza’, perché i giusti possano rivelare ai malvagi la ‘forza’ di
Dio che non rinuncia al suo amore perché l’uomo lo disattende e i giusti
saranno tanto più giusti quanto più faranno risplendere questa potenza di amore
paziente di Dio.
Ora, la ragione di tale ‘pazienza’ dei
giusti è basata sulle altre due parabole, quella del granellino di senapa e del
lievito, parabole che rispondono alla domanda: perché l’inizio del Regno è così
insignificante? Dove si rivela l’evidenza del Regno?
La parabola del seme non insiste tanto
sulla sua piccolezza, ma sulla potenza che possiede nonostante la sua
piccolezza. Il paragone del seme vale anche per la fede: ‘aveste fede come un
granellino di senape…’. Non da intendere: basta che abbiate almeno un pochino
di fede. Piuttosto: aveste fede autentica, grande come un minutissimo seme di
senape… Il paragone è basato sulla potenza che il seme racchiude. E quando
questa potenza si dispiega cresce a dismisura e diventa un albero e tutti gli
uccelli del cielo (intesi dalla tradizione: i popoli pagani, i pensieri
malvagi, tutti i pensieri dell’uomo) vengono a nidificare sui suoi rami, cioè
sono attratti e lì trovano riposo. Tale potenza appartiene al seme, non a noi:
questo è il motivo profondo della fiducia del cuore rispetto al peso della
vita, al peso dei malvagi nella vita.
La parabola del lievito mostra come
l’evidenza del Regno non riguardi una cosa o l’altra. Del ‘regno’ non si può
dire: eccolo qui, eccolo là. Riguarda l’insieme del mondo, della vita, dei
rapporti, dell’agire e del sentire, dell’essere e del fare. Girolamo spiega
come il lievito sia la conoscenza e la comprensione delle Scritture, la
conoscenza del mistero del Figlio di Dio fatto uomo per noi, la gioia della
scoperta del Figlio di Dio come tesoro e perla preziosa tanto da investire
tutte le proprie energie in quel cammino di scoperta e da cedere ogni altro
bene in vista di ottenere e di condividere con tutti quel tesoro. Saranno le
parabole proclamate domenica prossima. Sempre secondo s. Girolamo, la potenza
del lievito è quella di portare tutto all’unità: all’unità delle potenze
dell’anima, all’unità di spirito/anima/corpo, all’unità della famiglia umana. È
la tensione divina che attraversa la nostra storia, che per questo è sempre
storia sacra.
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Terzo ciclo
Anno liturgico A (2007-2008)
Tempo Ordinario
17a Domenica
(27 luglio 2008)
_________________________________________________
1Re
3,5-12; Sal 118; Rm 8,28-30;
Mt 13,44-52
_________________________________________________
La proclamazione del vangelo contiene
le ultime tre parabole del Regno, a completare il quadro delineato nelle due
domeniche precedenti. Consideriamo oggi in particolare quelle del tesoro
nascosto in un campo e della perla preziosa. La colletta ci apre direttamente
l'intelligenza: "O Padre, fonte di sapienza, che ci hai rivelato in Cristo
il tesoro nascosto e la perla preziosa ...". Il tesoro e la perla sono il
Cristo stesso. Le parabole rispondono alla domanda: potrà mai l'uomo aprirsi
per davvero alla rivelazione del Regno di Dio se è necessario attraversare
molte tribolazioni per accedervi? Potrà l'uomo portare il giogo del Regno dei
cieli? Non c'è contraddizione tra il suo istinto alla felicità e l’asprezza
dell'esigenza evangelica?
Non che il regno dei cieli siano
paragonati a un tesoro o a un mercante. Il paragone si gioca sulla situazione
che si è invitati a vivere, come a dire: il regno dei cieli è simile a ciò che
succede quando si scopre un tesoro o quando un mercante trova una perla di gran
valore. Il punto nevralgico per la comprensione è dato appunto dalla gioia della
scoperta. Tutta l'azione successiva scaturisce dalla gioia prorompente della
scoperta. Senza quella gioia non è possibile concepire nessuna azione
significativa a livello dell'orientamento della propria vita, sebbene le
parabole alludano anche ad altre dinamiche, più nascoste ma non meno vere.
Alla dinamica di ricerca, anzitutto.
Non si scopre a caso. Ci deve essere, di fondo, una passione per ciò che è
prezioso, una inquietudine che non ti lascia vaneggiare o istupidire. Non sono
sufficienti, al cuore dell'uomo, le cose che arriva a possedere; ha bisogno di
cogliere quello che dentro le cose vive e attira, quello che solo può colmare
il suo desiderio.
Alla dinamica di compravendita. Ciò che
è prezioso non sta insieme a ciò che è vile, ciò che è profondo a ciò che è
superficiale, ciò che ha sostanza con ciò che ha solo apparenza. Perlomeno,
insieme non possono stare tanto tempo e difatti viene il momento in cui ci si
deve disfare di una cosa per comprare l'altra. È inevitabile.
Alla dinamica di rischio. Più grosso è
l'affare, più alto il rischio. E quando il tesoro o la perla trovata sono
incomparabilmente più preziosi di tutto quello che ci si sarebbe potuti
immaginare di trovare, allora ci si disfa di tutto. Il tutto di cui ci si disfa
è direttamente proporzionale alla preziosità del tesoro trovato. La molla che
permette, anzi che spinge al rischio della compravendita è appunto la gioia,
percepita così profonda e piena da cacciare ogni timore.
In queste parabole l'accento non è
posto sul fatto che l'uomo è chiamato a lasciare tutto per il Regno dei cieli,
ma che lascia tutto perché trasportato dalla gioia di una scoperta che gli
riempie il cuore. D’altra parte, il Regno non si contrappone a nulla di per sé.
Non è la perla più bella delle altre. È, più semplicemente ma più potentemente,
la perla di ‘gran valore’; è il tesoro tra i beni e non un bene più prezioso
degli altri beni. Saper cogliere questo è frutto di ‘sapienza’ e la colletta fa
pregare: “concedi a noi il discernimento dello Spirito, perché sappiamo apprezzare
fra le cose del mondo il valore inestimabile del tuo regno, pronti ad ogni
rinunzia per l’acquisto del tuo dono”.
È il tema della prima lettura, dove il
re Salomone chiede la sapienza del giudicare, con la conseguenza di avere
insieme anche quello che non ha chiesto: regno, vittoria e stabilità. Chiedere
sapienza per il cuore per ben discernere significa predisporsi a vivere la vita
per il verso giusto, per il verso santo, per il verso beato. E la sapienza va
impetrata dall'alto perché il tesoro e la perla di gran valore sono come
nascosti; realmente si possono trovare, ma solo dentro una rivelazione che fa
aprire gli occhi.
Ora, per quale via si accede alla
sapienza del discernimento? Lo indica il canto al vangelo: “Ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e
della terra, perché ai piccoli hai rivelato i misteri del Regno” (cfr. Mt
11,25). Se colleghiamo questo versetto alla suggestione del serpente nel
giardino: “Dio sa che quando voi ne
mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio, conoscendo il
bene e il male” (Gen 3,5) insieme all’ingiunzione di Dio ai progenitori: “Il Signore Dio disse allora: Ecco l' uomo è
diventato come uno di noi, per la conoscenza del bene e del male. Ora, egli non
stenda più la mano e non prenda anche dell' albero della vita, ne mangi e viva
sempre!” (Gen 3,22), scopriamo che la sapienza che non porta alla vita non
è degna dell’uomo. Conoscere il bene e il male significa conoscere le vie della
vita. Ma chi può illudersi di conoscerle? Se l’uomo non si fa piccolo, non si
dispone cioè alla confidenza nel suo Dio, come potrà godere dei segreti della
vita per cui è fatto? Il dramma dell’uomo sta appunto nel volere la vita senza
fidarsi del suo Dio che gliel’ha preparata. Chi non vede in Gesù la promessa di
vita che si compie per l’uomo da parte di Dio, non sarà disposto ad accoglierlo
e non vedrà il tesoro che costituisce per la sua umanità.
La stessa allusione, sebbene in termini
assai più misteriosi, si cela nel versetto di ingresso ‘ai derelitti Dio fa abitare
una casa’ (Sal 67, 6). Se nell’interpretazione ebraica i ‘derelitti’ sono
coloro che aspettano di essere raccolti dal Messia, nell’interpretazione
patristica sono ‘gli uomini di un solo intento’, gli uomini che vivono senza
divisioni perché abitanti della casa di Dio, la chiesa. Loro sono i piccoli,
quelli che hanno preferito i sentimenti di Dio ai propri, quelli per i quali la
gioia della comunione con Dio e con i fratelli risulta essere di gran lunga
preferibile a ogni altro desiderio perché si sono aperti ai segreti di Dio. La
sapienza ha a che fare con quella gioia di condivisione dei sentimenti di Dio
per l’uomo.
Un’ultima annotazione. La scena delle
parabole è presentata come avvenisse in un momento determinato. Invece
interessa tutto il corso della vita. Sempre troviamo 'averi' che occorrerà
vendere per godere appieno del nostro tesoro dove far riposare il cuore in
tutta pace. E sarà sempre la stessa dinamica in gioco: una nuova gioia ci farà
accettare il rischio, fino a che tutto di noi risplenderà della luce di quel
tesoro e via via scopriamo come il cuore si possa costantemente rinnovare e
aprire alla rivelazione del suo Signore, mai sazio di Lui come mai sazio di
vita e di amore.
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Terzo ciclo
Anno liturgico A (2007-2008)
Tempo Ordinario
18a Domenica
(3 agosto 2008)
_________________________________________________
Is
55,1-3; sal 144; Rm 8,33-39;
Mt 14,13-21
_________________________________________________
Il filo rosso che attraversa tutta la
liturgia odierna è suggerito dal canto al vangelo: “Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca
di Dio” (Mt 4,4). Con l’accentuazione che la parola di Dio che oggi viene
celebrata è una parola ‘capace di moltiplicare il pane’. Il brano evangelico
incastona l’episodio della moltiplicazione dei pani nel movimento di
compassione di Dio per l’uomo: “e sentì
compassione per loro”.
Dietro ogni parola di Gesù, dietro ogni
gesto sta una ‘compassione’, immensa, che rimanda direttamente all’amore
sconfinato di Dio per i suoi figli, per i quali non ha esitato a mandare il suo
Figlio. Proprio come annotava Origene in un suo commento a Ezechiele: “Egli è
disceso sulla terra mosso a pietà del genere umano, ha sofferto i nostri dolori
prima ancora di patire la croce e degnarsi di assumere la nostra carne; se egli
non avesse patito, non sarebbe venuto a trovarsi nella condizione della nostra
vita di uomini. Prima ha patito, poi è disceso e si è mostrato. Qual è questa
passione che per noi ha sofferto? È la passione dell’amore”. È a partire da
quella passione che Gesù si ‘muove
nelle viscere’ davanti allo smarrimento, alla sofferenza, alla fatica degli
uomini. Ed è per aver percepito quella passione che san Paolo dirà con la
convinzione dell’esperienza di una vita: “Chi
ci separerà dall’amore di Cristo?...”.
Quando il profeta Isaia, sempre
percependo quella passione di Dio per
il suo popolo, riassumerà l’invito di Dio per gli uomini alla comunione con
lui, dirà: “Porgete l’orecchio e venite a
me, ascoltate e vivrete”. Il desiderio di Dio e dell’uomo si richiamano.
Come Dio invita l’uomo a venire a lui, così l’uomo grida a Dio perché venga a
lui. Tutta la Scrittura è modulata sul grido del desiderio di Dio e dell’uomo
perché tornino in comunione e tornino a godersi a vicenda. Dio dà la vita e
l’uomo, che vi anela angosciosamente, da lui la può accogliere. L’ascoltare
riguarda sempre l’ascoltare una ‘parola viva’ per avere la vita. L’ascoltare
comporta così l’immagine corrispondente del mangiare perché allusivi di
un’unica realtà: avere la vita. Il Signore sa saziare la fame dei suoi figli!
Eppure, non risulta sempre evidente questa 'capacità' di Dio per noi tanto che
ha bisogno di invitarci al suo banchetto, ha bisogno di sollecitarci a venire
al suo banchetto. Le letture di oggi si intersecano per illustrare appunto il
pressante invito di Dio. Si mangia per vivere. Ma che cosa fa vivere il cuore
dell'uomo?
Risponde il salmo 144: “Paziente e misericordioso è il Signore,
lento all’ira e ricco di grazia. Buono è il Signore verso tutti, la sua
tenerezza si espande su tutte le creature”. Nello stesso capitolo 55, Isaia
riporta la parola di Dio: “i miei
pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie” (v.
8). Il punto è esattamente questo. Quando Dio fa rilevare che il suo pensiero
non è come il nostro vuol sottolineare che Lui è paziente e misericordioso con
gli uomini, mentre gli uomini, con se stessi e con i loro simili, non lo sono;
Lui è buono verso tutti, comunque, mentre gli uomini sono buoni ogni tanto e verso
qualcuno piuttosto che verso altri. Se applichiamo la cosa al nostro cuore ne
deriva che, se anche si ritrova cattivo, può sempre sperare nella bontà di Dio
che non lo respinge; se anche si condanna, Dio può salvarlo, basta che
abbandoni la sua iniquità. Tenendo conto di come sono fatti i nostri cuori, che
si confondono con le loro azioni passate, proprie e altrui, incapaci di aprirsi
al futuro come allo spazio di verità e di bene offerto loro da Dio, questa
verità è estremamente consolante, è vivificante per i cuori. Proprio come dice
s. Giovanni nella sua lettera: “Dio è più
grande del nostro cuore e conosce ogni cosa” (1Gv 3,20).
La parola di Gesù agli apostoli: “date voi loro da mangiare”, è interpretata
dalla tradizione nel senso che viene affidato loro il compito di spiegare le
Scritture come un pane spezzato per nutrire l'intelligenza dei fedeli. Solo il
pane distribuito è un pane moltiplicato. E l'intelligenza dei fedeli resta
nutrita appena il cuore si apre a questa rivelazione: i pensieri di Dio sono
diversi dai nostri, il suo amore ci raggiunge comunque, il suo perdono, cioè la
comunione con Lui, ci è sempre offerto. Questo è il banchetto a cui siamo
invitati. Non per nulla tutto il brano evangelico ha una forte coloritura
eucaristica. I verbi che introducono il miracolo della moltiplicazione dei pani
e dei pesci sono i verbi tipici della celebrazione eucaristica: prese i pani,
li benedisse, li spezzò, li diede. E l'Eucaristia costituisce il momento
culminante dell'offerta di comunione da parte del Signore all'uomo tanto da
renderlo un tutt'uno con Sé. È questa comunione che sazia il cuore dell'uomo.
Ma - e trattandosi dei doni di Dio non
può mancare questo ma - se il miracolo avviene nella sua materialità, vale a
dire rivela la capacità di Gesù di compierlo, l'effetto non è ancora quello
sperato da Gesù. La gente non interpreta secondo i pensieri di Dio, ma secondo
i propri. E Gesù, dopo il miracolo, si ritrova solo. La gente non ha colto
l'invito di Gesù alla comunione con Dio; ha sì mangiato il suo pane, ma non ne
ha gustato la sostanza, non se ne è potuta impossessare della potenza che
racchiudeva e non ne ha colto il mistero di vita.
Quando allora tale mistero diventa
accessibile? Lo riferisce s. Paolo: “Egli
che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi, come non
ci donerà ogni cosa insieme con lui?” Quando nulla più ci separa dall'amore
di Cristo che ci ha rigenerati nel perdono, quando non permettiamo a nulla,
nemmeno ai nostri ‘nobili’ sensi di colpa, di sopraffare il nostro cuore al di
sopra dell'amore del nostro amato Signore. Non solo le cose negative non ci
separano più da Cristo, ma nemmeno quelle positive, che il cuore umano può
desiderare e ricercare con passione.
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Terzo ciclo
Anno liturgico A (2007-2008)
Tempo Ordinario
19a Domenica
(10 agosto 2008)
_________________________________________________
1Re
19,9-13; sal 84; Rm 9,1-5;
Mt 14,22-33
_________________________________________________
Le parole della Scrittura vanno colte
nella stessa intensità drammatica con cui sono state vissute. Il brano
evangelico di oggi è narrato in Matteo, Marco e Giovanni, ognuno apportandovi
dettagli estremamente rivelatori. Gesù aveva appena operato il miracolo della
moltiplicazione dei pani, che aveva scatenato l’immaginario messianico della
gente. Gesù però accetterà di essere proclamato re solamente durante la
passione, davanti a Ponzio Pilato e sulla croce. Deve quindi rifiutare il
delirio della gente e si premura di salvaguardare i discepoli. Congeda la folla
e si ritira sul monte, a pregare. Non è usuale una annotazione del genere nel
vangelo di Matteo, mentre Luca accenna più volte alla preghiera di Gesù e
sempre in circostanze particolarmente significative (al battesimo, Lc 3,21;
alla chiamata degli apostoli, Lc 6,12; alla trasfigurazione, Lc 9,28). Il fatto
che Gesù si predisponga con la preghiera a determinate azioni sottolinea il
valore di rivelazione di quelle azioni. Tanto più che altri particolari qui
indicano l’intensità e la finalità. Si trova solo, sul monte, in attesa di
ricongiungersi con i discepoli, ma camminando sul mare, come a rivelare
qualcosa del suo mistero a loro e a noi. Ad esempio, Matteo non dice che i
discepoli faticavano ai remi per il vento contrario; parla della barca agitata
dalle onde, della barca in cui Pietro e i discepoli fanno la loro confessione
di fede, della barca che, una volta accolto a bordo Gesù, non ha più il vento
contrario. Tutti particolari che danno all’episodio una forte valenza
simbolica: la barca è la Chiesa, che con la presenza del suo Signore non teme
alcuna traversata, alcun vento contrario.
Non solo, ma l’intervento di Pietro e
dei discepoli è collocato dentro una linea di sviluppo della loro fede in Gesù
che si fa via via più coinvolgente e totale. L’evangelista aveva notato come i
discepoli, al miracolo della tempesta sedata, siano rimasti colmi di stupore;
qui, riconoscono Gesù come Figlio di Dio; poi riconosceranno Gesù il loro
Signore. Pietro, in particolare, attira l’attenzione dell’evangelista Matteo.
Pietro è affascinato dalla figura di Gesù, vuole seguirlo, ma stenta ad
accettare la rivelazione di Dio. Cammina anche lui sulle acque, ma ha paura e
affonda. Nell’ultima cena non vuole essere lavato, al Gethsemani estrae la
spada, segue Gesù nella sua cattura, ma per paura lo rinnega. Tuttavia, sempre
ritorna a Gesù, vuole seguire Gesù, piange il suo tradimento e finalmente il
Maestro lo rassicura sulla sua fedeltà a Lui, ormai conquistato alla fede in
Lui e al suo amore fino a dare la vita per Lui.
La preghiera di Gesù sul monte ha a che
fare appunto con la rivelazione del disegno di Dio, con la rivelazione della
sua persona e dell’amore salvatore di Dio, rivelazione che ha bisogno di tempi
e spazi per conquistare i cuori, cosa che il Signore sa benissimo e che con
fantasia persegue pazientemente. Così, quando Gesù viene incontro ai discepoli
camminando sulle acque – Marco annota che Gesù fa come finta di passare oltre –
il gesto è collocato dentro una successione di rivelazioni che costellano tutto
il percorso della Scrittura al fine di conquistare al suo mistero i discepoli.
Qui ci soccorre il parallelo della
prima lettura, il racconto della rivelazione di Dio al profeta Elia sull’Oreb,
in un contesto altamente drammatico. Come per Mosè, così per Elia, il Signore è
il ‘Dio che passa’, e per Elia il Dio che passa dentro ‘il fruscìo di un
silenzio leggero’, come letteralmente si dovrebbe tradurre il passo. Anche Mosè
e Elia si trovano sul monte, in preghiera. La preghiera ha sempre a che vedere
con la rivelazione del volto di Dio e la rivelazione del volto di Dio ha sempre
a che vedere con la missione ai propri fratelli, in quanto, se Dio si rivela,
si rivela solo come amante e salvatore degli uomini. In effetti, la voce che
viene rivolta al profeta: “Che fai qui,
Elia?” precede e segue la manifestazione di Dio. Nulla è detto di quanto
avviene tra il profeta e il suo Signore nel momento misterioso della
manifestazione. Quello che sappiamo è che Dio rimanda il profeta sui suoi
passi, tra i suoi fratelli, a continuare l’opera di cui lui, forse
presuntuosamente, si era immaginato essere l’unico testimone credibile.
La denominazione del ‘Dio che passa’,
come Gesù fa mostra di assumere, rivela il fatto che Dio può essere conosciuto
solo stando dietro, solo seguendolo, solo camminando dietro a Lui, solo
osservando la sua parola. Ed è quello che fa la Chiesa nel mondo: seguire
Cristo, che rivela al mondo lo splendore dell’amore di Dio. E sarà solo
seguendo Gesù che l’amore agli uomini comporterà lo splendore della presenza di
Dio in questo mondo.
Noi tutti siamo invitati a
identificarci con Pietro, con le sue generosità e debolezze. Ci si può
appoggiare sul Cristo più e meglio che su qualsiasi realtà fluida di questo
mondo. È nella fiducia di quel ‘se sei
tu, comanda che io venga da te sulle acque’ che si intraprende il cammino
spirituale di una vita. Ma c'è da vincere la paura che agita, paralizza,
chiude, affonda. E allora non si parla più semplicemente, come se si trattasse
di una provocazione, di una sfida, di una competizione; si comincia a gridare:
è il tono della preghiera quando è sincera. Non c'è più ombra di sfida, di
pretesa, di vanità. È il momento della verità ed invece di affondare, sentiamo
una mano tesa che ci sottrae ai gorghi. Quante stupide pretese ci condannano a
restare nei gorghi! Ed è allora che capiremo qualcosa di più di quel Signore
che abbiamo accolto venirci incontro e sentiremo il suo nome che si rivela al
nostro cuore : “il Signore, Dio
misericordioso e pietoso, lento all'ira, ricco di grazia e di fedeltà ...”
(Es 34,6).
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Terzo ciclo
Anno liturgico A (2007-2008)
Solennità e feste
Assunzione della Beata Vergine Maria
(15 agosto 2008)
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Ap
12,1-10; Sal 44; 1Cor 15,20-26; Lc 1,39-56
_________________________________________________
In un inno anonimo del VII secolo, la
prima esclamazione degli angeli nei riguardi della Vergine suona: “Ave,
nutrimento della gioia degli uomini”, mentre gli antichi testi agiografici parlano
della Vergine in rapporto ai fedeli come della Regina, della Madre del Signore,
della loro sorella. La liturgia bizantina sottolinea il parallelo tra il parto
verginale e l’assunzione gloriosa in questi termini: “Nel parto, hai conservato
la verginità, con la tua dormizione non hai abbandonato il mondo, o
Madre-di-Dio. Sei passata alla vita, tu che sei Madre della vita e con la tua
intercessione riscatti dalla morte le anime nostre”.
La festa di oggi modula la devozione
alla Vergine su due registri: la gioia come radice di speranza per l’umanità e
la sua intercessione universale. Nella sua lettera ai Corinzi Paolo ricorda il
dato della fede nella risurrezione. E tratteggia tutto il corso della storia
fino alla fine del mondo nel senso di una rivelazione progressiva, anche se
misteriosa e drammatica, della signoria di Cristo che prevarrà su tutto. Noi
siamo nel tempo della sottomissione a Cristo di tutti i nemici di Dio, morte
compresa. Il regno di Cristo coincide con la riduzione a nulla di ogni potere
della morte. La cosa va vista nel suo succedersi temporale in ciascuno di noi
oltre che nella storia. Tutta l’ascesi e la lotta interiore non sono altro che
l’espressione di questo potere di Cristo che riduce a nulla il potere della
morte che ci assilla e ci impasta. E man mano che questo potere di Cristo
prevale, la vita sgorga fluente e incontenibile.
Ora, nella Vergine Maria, tutto questo
non è più in fieri, non ha più spazi o dinamiche da conquistare. È compiuto. E
siccome è compiuto, può essere consegnata a Dio Padre, fulgida di tutto lo
splendore che la salvezza operata da Dio comporta. Il disegno di Dio in tutto
il suo amore per l’uomo, dalla creazione alla glorificazione finale nel suo
Regno, solo questa nostra sorella, la Vergine, l’ha potuto godere
compiutamente. Oggi, festa dell’assunzione, ella lo sa e può dichiarare: ora so
per esperienza tutto l’amore che Dio ha portato all’umanità, che ha portato a
me perché sia vivibile da tutti e quindi posso glorificarlo compiutamente. E
proprio perché la sua lode per Dio è piena, allora anche l’esultanza del suo
cuore è piena e la sua intercessione potente. Quando i credenti guardano alla
Vergine gloriosa, assunta in cielo, non possono non considerarla, come canta il
prefazio: “primizia e immagine della Chiesa … un segno di consolazione e di
sicura speranza”. In lei possono magnificare l’amore di Dio per l’uomo, la
grandezza della salvezza operata da Dio che anche in noi si dispiegherà a suo
tempo, come in lei, che per noi intercede. E a lei rivolti, fiduciosi possiamo
pregarla, come le antiche comunità cristiane: “Sotto la tua protezione troviamo
rifugio, santa Madre di Dio: non disprezzare le suppliche di noi che siamo
nella prova, e liberaci da ogni pericolo, o Vergine gloriosa e benedetta”.
Da dove deriva alla Vergine tutta la
sua gloria? L’elogio alla madre da parte della donna che ascoltava affascinata
Gesù: “Beato il grembo che ti ha portato
e il seno che ti ha allattato!” è trasformato da Gesù nell’elogio ai
discepoli: “Beati piuttosto coloro che
ascoltano la parola di Dio e la osservano!” (Lc 11,27-28). Gesù sembra
spostare l’attenzione sui discepoli, ma in realtà definisce esattamente in che
cosa consiste la beatitudine di sua madre. Come i Padri sottolineano spesso:
prima di essere madre fisicamente di Gesù, Maria lo è spiritualmente, perché il
suo cuore ascolta e osserva la Parola, l’ha sempre ascoltata e osservata. Se
però colleghiamo il commento di Gesù all’espressione pronunciata da Elisabetta
nel saluto alla Vergine: “Beata colei che
ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto”, ci viene
svelato un altro aspetto fondamentale. Ascoltare e osservare la Parola non è
semplicemente un mettere in pratica quello che Dio dice. È assai di più.
Significa permettere alla promessa di Dio racchiusa nella sua parola di
compiersi, di rivelarsi finalmente al cuore e al mondo. Significa acconsentire
al desiderio di Dio di compiersi, significa fare in modo che il desiderio che
Dio ha di incontrare l’uomo finalmente trovi compimento. Ora, da dove deriva la
vita all’uomo se non da un incontro d’amore? Sia in senso fisico, un figlio,
sia nel senso di procurare vitalità, gioia di vivere, visione di speranza,
forza ed energia. Più questo consenso da parte dell’uomo è totale, più la vita
che deriva da Dio è fluente e incontenibile. Vince la morte. Per sempre.
In quel “ha creduto” è indicata tutta la disponibilità della Vergine
all’azione di Dio (“Ecco la serva del
Signore: avvenga per me secondo la tua parola”) dove il proprio essere è
vissuto come risposta al desiderio di Dio, come spazio di compimento all’agire
di Dio. Nell’“adempimento” è
adombrata la generazione del Verbo che in lei prende forma. Accogliere il Verbo
nella propria umanità significa ritrovarsi nel mistero di Dio Trinità, che è
amore comunicato; significa far risplendere l’amore di Dio nel mondo e compiere
la propria umanità permettendole di far trasparire la divina Presenza. La
grazia di questa ‘maternità’ spirituale è estesa a tutti i credenti: tutti
possono ereditare la beatitudine che deriva dall’ascoltare e osservare la
Parola. Nella dinamica dell’obbedienza della fede, l’ascolto della Parola
equivale alla fin fine ad accogliere e generare in noi il Verbo, di cui
risplendono tutte le parole della Scrittura.
Ora, la vera meraviglia di Dio per gli
uomini è proprio il dono del Figlio, che di quell’umanità che ci costituisce
svela i confini e le sorgenti divine. Chi, più della Vergine, ha goduto tutta
la potenza di splendore di questo dono per l’umanità? Così l’intercessione
della Vergine va nella direzione dell’invocazione della preghiera ‘sia fatta la
tua volontà come in cielo così in terra’, interpretata ‘si compia il tuo amore
finché la terra diventi tutta cielo’: nulla rimanga inaccessibile all’amore di
Dio che si dispiega potente. Lei, la serva del Signore, terra come noi, ma
totalmente disponibile all’agire di Dio, è diventata tutta cielo. Intercede
perché anche la nostra umanità, in ciascuno e in tutti, si allarghi agli spazi
e alle profondità della sua stessa umanità, nella comunione con il suo Dio.
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Terzo ciclo
Anno liturgico A (2007-2008)
Tempo Ordinario
20a Domenica
(17 agosto 2008)
_________________________________________________
Is
56,1-7; sal 66; Rm 11,13-15.29-32; Mt 15,21-28
_________________________________________________
Il tema della liturgia di oggi è
l'ingresso dei pagani nell'alleanza del Signore: a tutti si rivolge la salvezza
operata dal Signore. Come l’annuncia il profeta Isaia: “... il mio tempio si chiamerà casa di preghiera
per tutti i popoli”. Il capitolo 56 inizia la terza parte del libro di
Isaia. Siamo a Gerusalemme, pochi decenni dopo la tragedia dell’esilio, in
attesa che la promessa di liberazione si compia. La visione del profeta non
riguarda però semplicemente la liberazione dall’esilio, ma la valenza profetica
di quella liberazione: sarà estesa a tutti i popoli; tutti, pagani ed eunuchi
(categoria di persone che erano escluse dal culto in Israele), tutti potranno
godere della misericordia di Dio, tanto che il Dio di Israele non sarà più
indicato come il Dio che trasse Israele dall’Egitto, come il Dio che liberò
Israele dall’esilio, ma come il Dio che raduna il suo popolo ‘da tutte le
nazioni’.
A dire il vero, siamo abituati a
considerare l’universalità della salvezza del Signore nella sua dimensione
storica: da una persona a tutto un popolo (Abramo e Israele), da un popolo a
tutti i popoli (Israele e le genti). Comporta però anche una dimensione
personale. Il che significa: se io ho accolto l’alleanza del Signore, non tutto
di me l’ha accolta; se io ho accolto la buona novella, non tutto di me è stato
evangelizzato e poco a poco l’insieme di me deve poter godere dei beni di
questa alleanza. Se le mie qualità e virtù mi riportano al Signore, anche i
miei difetti e peccati devono potermi riportare a Lui. Se un pensiero buono mi
svela qualcosa del mio Signore, mi introduce nella sua intimità, anche un
pensiero cattivo cela qualcosa da scoprire per il mio cuore in rapporto al
Signore, così un mio peccato, una mia debolezza. “Tutti i confini della terra” del salmo 66 alludono proprio alla
totalità degli aspetti che ci compongono e ci strutturano: tutti appartengono
al Signore, tutti sono destinati a essere riportati al Signore.
Il brano del vangelo lo mostra
splendidamente. I pagani sarebbero entrati nell’Alleanza non con la
predicazione o i miracoli, ma attraverso la morte redentrice di Gesù. L’ora
però non era ancora giunta e Gesù respinge sulle prime la richiesta della donna
cananea. Era ancora il tempo riservato alle pecore perdute della casa di
Israele. Ma allora perché Gesù cede all’insistenza della donna, come se lui
fosse costretto ad accelerare, ad anticipare la sua ora? Era già successo con
la richiesta del centurione (cfr. Mt 8) che Gesù aveva esaudito. Ma qui Gesù
sembra alzare il prezzo, sembra voler accentuare una distanza, una
inopportunità che tende a suonare ai nostri occhi, oltre che sgradevole, dura e
irrispettosa. Non è però stato così per la donna cananea che non recede, non si
fa intimidire, ha la risposta pronta, nella quale Gesù vede la fede del suo
cuore a cui non resiste. Addirittura, si potrebbe pensare che la fede della
cananea faccia presagire alla coscienza di Gesù l’orizzonte universale della
salvezza che solamente più tardi si farà evidente. La donna, da pagana, sa che
può contare sulla generosità di Dio, sebbene sia perfettamente cosciente di non
poter avanzare alcun titolo di pretesa. Non solo, ma sa che nel banchetto
messianico il pane sarà sovrabbondante, tanto che lei si può accontentare delle
briciole, sebbene Gesù alla fine le dà proprio il pane dei figli. Va notato che
nel racconto precedente della moltiplicazione dei pani per gli isareliti, gli
apostoli passano a raccogliere gli avanzi. Ma il racconto successivo dell’altra
moltiplicazione dei pani sarà per i pagani, anche se in terra di Israele.
La particolarità dell'atteggiamento
della cananea sta in quel grido ‘Signore
figlio di Davide’ dove compare tutto lo stridore della distanza tra lei,
pagana e quel profeta, ebreo. Non minimizza la distanza, la sottolinea, la
rimarca e quando Gesù le rinfaccia che non si dà il pane ai cagnolini (i pagani
erano chiamati 'cani' dai giudei), non si lamenta e non si ritrae sdegnata del
paragone, sviluppa anzi il paragone a suo favore. Riconosce che non ha diritto
a quel pane, ma che per la sua sovrabbondanza alcune briciole possono cadere
anche per lei. Grande era la sua fiducia in quel profeta e nello stesso tempo
era priva di qualsiasi pretesa.
La fede della cananea proveniva poi
dall’urgenza del suo bisogno. Non vedeva altri rimedi, troppo era l’amore per
sua figlia e allora perché non rivolgersi a quel ‘profeta’ di cui sentiva dire
cose meravigliose, sebbene non possedesse alcun titolo per trovare
soddisfazione?
L’aspetto misterioso che va colto è il
fatto che fiducia e indegnità vanno di pari passo, mentre normalmente, nelle
dinamiche interiori che possiamo osservare, tendiamo a separarle. Invece l’una
è custode dell’altra, l’una dice la sincerità dell’altra. Davanti al Signore il
nostro cuore è come la donna cananea. È vero, noi siamo nella grazia, abbiamo
già incontrato il Signore, ma tutto di noi non è ancora nella luce del suo
vangelo. Per molti aspetti siamo cananei, pagani. E possiamo trovare accesso al
Signore, Salvatore nostro, solo come la donna cananea, dove la fiducia nella
potenza di Gesù sta in stretta compagnia con la coscienza della sua indegnità e
l’urgenza del bisogno di guarigione e di vita. L’insincerità del nostro cuore,
quello che indebolisce la nostra fede e l’annacqua è la pretesa di trovar soddisfazione
comunque. È la debolezza dell’israelita ‘fariseo’ che crede di avere la vita
perché Dio gliela deve. In questo modo non scoprirà nulla ed il miracolo non
avverrà. Ci si avvicina a Dio quando più si ha coscienza di essere peccatori e
meno scusanti si adducono ai nostri guai. Quando finiremo di giustificarci
accusando gli altri, gli eventi, il mondo, allora saremo sinceri davanti a Dio
e scopriremo che Dio non potrà resistere al nostro grido perché indegnità e
fiducia accelereranno la sua manifestazione di grazia al nostro cuore.
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Terzo ciclo
Anno liturgico A (2007-2008)
Tempo Ordinario
21a Domenica
(24 agosto 2008)
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Is
22,19-23; sal 137; Rm 11,33-36;
Mt 16,13-20
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I brani evangelici di oggi e di
domenica prossima andrebbero letti insieme. Siamo a Cesarea di Filippo, la
città costruita da Erode Filippo presso le sorgenti del Giordano, in una zona
rocciosa, alle pendici del monte Hermon. Gesù, come annota l’evangelista Luca,
ha appena terminato la sua preghiera, segno evidente dell’imminenza di una
rivelazione. Gesù intende manifestare ai discepoli qualcosa del mistero della
sua persona.
Quando i discepoli rispondono a nome
della gente alludono alla grande attesa che abita i cuori: verrà il messia e ci
libererà. Non era importante definire la persona del messia, era sufficiente
che fosse definito il ruolo del messia. La gente si ferma qui. Ma a Gesù preme
altro e insiste con i discepoli: “Voi chi
dite che io sia?”. La risposta di Pietro fa un passo avanti rispetto alla
gente; cerca di cogliere la persona del messia senza fermarsi semplicemente al
ruolo: “Tu sei il Cristo, il Figlio del
Dio vivente”. Nella sua professione di fede c’è la confessione di Gesù come
l’Eletto, l’Unico, il Figlio Unico, l’Unigenito, nella sua unicità di relazione
con Dio; ma anche nella sua unicità di relazione con gli uomini, per i quali è
l’Inviato, il Figlio prediletto che rivela l’amore del Padre, l’Unico che può
rivelare il vero volto di Dio, di quel Dio che è definito ‘Vivente’, cioè il
vero Dio dell’alleanza e che quindi compie tutte le promesse di Dio per l’uomo
e tutti i desideri dell’uomo. Tutto questo esprime la sua confessione di fede
ed è per questo che Gesù lo proclama beato in quanto quella percezione non può derivare dalla carne
e dal sangue, dalla sua esperienza umana, ma deriva dall’iniziativa stessa di
Dio che al suo cuore si è mostrato.
La beatitudine richiama la benedizione
proferita in precedenza da Gesù per i discepoli: “Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai
tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate
ai piccoli. Sì, o Padre, perché così è piaciuto a te” (Mt 11,25-26). È la
benedizione/beatitudine per i ‘piccoli’, per coloro che stanno aperti al
pensiero e all’azione di Dio in tutta confidenza, capaci perciò di ricevere
senza filtri l’atto di rivelazione di Dio. Ma - il solito ‘ma’ che tanto valore
ha nelle cose di Dio - questa rivelazione, che pure è veritiera, vivida,
coinvolgente, non ha ancora plasmato la carne e il sangue. In effetti, appena
Gesù rivela a fondo il suo mistero, che cioè dovrà soffrire e morire, Pietro si
rifiuta di accoglierlo, segno nello stesso tempo del suo amore e del suo essere
semplicemente ancora carne e sangue e segno anche della sua paura, paura che
nel pericolo della sua vita lo porterà a rinnegare il suo Maestro. Ma quando la
paura sarà tolta, quando l’amore del Signore lo farà testimone in mezzo ai suoi
fratelli nel senso che l’amore per loro deriverà principalmente dal partecipare
all’amore del suo Maestro, allora sarà capace anche lui di dare la vita. La
rivelazione avrà plasmato completamente il suo essere carne e sangue. Questo
tragitto è il tragitto di ogni discepolo del Signore: dall’essere carne e
sangue, giungere alla rivelazione fin tanto che questa avrà plasmato tutto il
proprio essere carne e sangue. Dove è in gioco la nostra vita, a qualsiasi
livello si intenda, finiamo sempre per riscegliere noi stessi, rifiutando il
Signore fino a rinnegarlo, per poi pentirci, piangere, vederlo, sentirci amati,
seguirlo finalmente e poter dare la vita per lui.
Gesù fa una promessa a Pietro: “E io ti dico: Tu sei Pietro e su questa
pietra edificherò la mia Chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro
di essa”. Pietro è la traduzione greca del nome aramaico Kepha (roccia).
Nell’ambiente di allora non veniva usato come nome proprio di persona.
L’attribuzione a Simone, figlio di Giovanni, del nome ‘Kepha’, ‘Roccia’,
Pietro, indica il fondamento sul quale si regge la fede: la persona del Figlio
del Dio vivente, sul quale l’apostolo e tutti i discepoli con lui possono
giocare la loro vita, perché Dio non viene meno alla sua alleanza con gli
uomini e perché Gesù costituisce il sigillo ultimativo e definitivo della
volontà di salvezza di Dio per l’uomo. Dio in effetti è la Roccia, colui che
non viene mai meno, che non manca di adempiere le sue promesse, che è
sufficientemente potente per adempierle; se l’uomo lo accoglie, lo riconosce,
ne avverte il Bene e gli fa spazio, partecipa anche lui di quella ‘saldezza di
fondamento’ e può gustarne la dolcezza incorruttibile.
Il potere delle chiavi, nel giudaismo,
si riferisce all’esercizio di un’autorità fondata sull’interpretazione della
Legge. Qui invece si riferisce al potere della confessione di fede nel Signore
Gesù che apre al perdono dei peccati e dà l’accesso al regno di Dio. È il
mistero della ‘conversione’ che ci ottiene la riconciliazione con Dio, nel
Signore Gesù, garantita dalla chiesa. Come se la chiesa ci ripetesse sempre: il
regno dei cieli è davanti a voi; Colui che Dio ha designato per mostrarvelo,
per aprirvelo, per introdurvici, è qui davanti a voi. Lo potete toccare, è
finalmente alla vostra portata. Del resto, è esattamente la stessa
testimonianza dei discepoli, come riporta Giovanni: “Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi
abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le
nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita (poiché la vita si è fatta
visibile, noi l’abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza e vi annunziamo
la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi), quello che
abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo” (1Gv 1,1-3). In quell’annunzio,
efficace, con l’esperienza di vita alla quale apre, c’è tutto il potere delle
chiavi della chiesa.
Niente e nessuno può rapirci al
Signore: questo significa che le porte degli inferi non prevarranno contro la
chiesa. Se siamo suoi, di lui che è il più forte, allora nessuno può rapirci;
se prendiamo la vita da lui, che è il Vivente, Colui sul quale la morte non ha
più potere, allora la vita che ci attraversa non cederà davanti a nulla perché
non è più soggetta alla morte. Quella promessa è da raccordare con l’altra,
alla fine del vangelo: “Ecco, io sono con
voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”, parole con cui si chiude il
vangelo di Matteo (Mt 28,20). E nelle parole di Gesù è adombrata la promessa
che non mancheranno mai uomini e donne che faranno risplendere in mezzo a noi
quella Presenza.
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Terzo ciclo
Anno liturgico A (2007-2008)
Tempo Ordinario
22a Domenica
(31
agosto 2008)
_________________________________________________
Ger
20,7-9; Sal 62; Rm 12,1-2;
Mt 16,21-27
_________________________________________________
Il brano di vangelo di oggi, unito a
quello della domenica precedente, costituisce un punto nevralgico del racconto
evangelico: rivela la direzione della vita. Gesù svela il suo mistero e insieme
quello dei discepoli. La rivelazione della ‘necessità’ della passione di Gesù,
insieme al destino dei discepoli invitati a portare la loro croce, avviene dopo
la proclamazione della beatitudine a Pietro: “Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne né sangue te lo
hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli”, eco dell’altra: “Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e
della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli
intelligenti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così è piaciuto
a te” (Mt 11,25-26). Ma Pietro, come i discepoli tutti, non sa ancora cosa
comporta la sua confessione di fede. Quando Gesù si rivela come il Messia che
dovrà molto soffrire indica la direzione nella quale si può vivere la
beatitudine. Ed è per questo che Gesù subito dopo parla ai discepoli che lo
vogliono seguire di ‘rinnegamento di sé’ e di ‘portare la croce’. Ma cosa
intende in pratica?
Guardiamo a Pietro. È proclamato beato
perché ‘piccolo’, cioè nella disposizione di accogliere e non di suggerire; è
chiamato ‘satana’ perché si fa grande: vuole suggerire, vuole stare davanti,
vuole condurre. E Gesù lo rimprovera: “Va’
dietro a me”, eco dell’invito di Dio all’uomo in tutte le Scritture a
seguirlo, ad ascoltarlo [Dio dice a Mosè: “Vedrai
le mie spalle, ma il mio volto non lo si può vedere” (Es 33,23)]. Prima è
chiamato pietra di fondazione, poi pietra di scandalo, perché non esiste altro
fondamento se non Gesù (cfr. 1Cor 3,11; 1Pt 2).
Quando Gesù spiega ai discepoli che lui
‘dovrà’ molto soffrire, che ‘è necessario’ che soffra molto, non intende
illustrare nessuna ragione misteriosa, ma più semplicemente e più direttamente
intende implicarli nella rivelazione dell’amore di Dio per l’uomo, intende
collocarli nella verità di un’esperienza di amore che viene dall’alto. Per
Gesù, che parla secondo la lingua delle Scritture, si tratta di reinterpretare
tutte le Scritture in modo globale, si tratta di realizzarle nella loro
tensione di rivelazione dell’amore salvatore di Dio per l’uomo in ragione di
quel sigillo ultimativo che lui costituisce quanto all’azione di Dio nel mondo.
Sarà sulla croce che l’amore di Dio per l’uomo risplenderà in tutto il suo
splendore, tanta è la solidarietà con Dio e con l’uomo che Gesù vive e di cui
tutti possiamo ricevere la grazia. Non per nulla, il racconto continua con la
scena della trasfigurazione con l’apparizione accanto a Gesù di Mosè ed Elia,
cioè della Legge e dei Profeti, di cui lui costituisce il compimento. È da
dentro questo ‘compimento’ che parla ai discepoli e dice loro che se vogliono
gustare la stessa esperienza di amore solidale con Dio e con l’uomo dovranno
rinnegare se stessi e prendere la croce. Da parte nostra, la resistenza ad
accogliere la portata rivelativa di quel ‘è necessario’, detto da Gesù e aperto
ad essere condiviso dai suoi discepoli, indica tutta la distanza tra il sogno
di un amore e la concretezza nel viverlo.
Il rinnegamento di se stessi è la
rinuncia ad avere qualcosa da difendere (da notare che il verbo è il medesimo
che userà l’evangelista quando riferirà del tradimento di Pietro il quale
‘rinnega’ Gesù perché vuole difendere se stesso). Ma la difesa porta sempre
sulla nostra vita che temiamo venga oppressa o soppressa dagli altri; porta
sempre a un io che si arrocca nei suoi confini per paura, a un io che non si
fida della grandezza che gli è offerta da Dio. Il portare la croce, con il
vissuto emotivo di vergogna e disprezzo che l’immagine comporta, indica la
direzione che assume il rinnegamento, vale a dire: non ci si fa grandi
schiacciando gli altri o rendendo gli altri piccoli, ma tenendoli sempre così
grandi e degni di onore che posso essere calpestato per non venir meno a quel
rispetto. Forse, per la nostra sensibilità, l’immagine più adeguata di quanto
vogliono dire le parole di Gesù, è quella del Maestro che si cinge con
l’asciugamano e si china a lavare i piedi ai discepoli nell’ultima cena, segno
di un’umanità tutta ‘dono per’, di un mistero di solidarietà in umanità dai
confini divini (anche là Pietro rifiuta e acconsente solo con la promessa di
non essere escluso dalla gioia del suo Maestro). In effetti, solo così si
scopre la grandezza secondo Dio, che è la grandezza dell’amore, condivisione
dell’esperienza dell’amore di Gesù per noi.
L’anelito del salmo lo esprime a
meraviglia: ‘il tuo amore vale più della
vita’ e ‘a te si stringe l’anima mia’.
A questo alludono le parole di Gesù sul rinnegamento, sul portare la croce. Non
è la vita il valore supremo, tanto meno la mia vita, ma l’amore di Qualcuno che
attraversa la mia vita e rende la vita degna di essere donata, condivisa,
perché la vita possa risplendere in me e in tutti. È quanto mai ‘realistica’
l’affermazione di Gesù: “Chi vuol salvare
la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la
troverà”. La dinamica del perdere/trovare è essenziale alla vita. La vita
che si vuole difendere risulta vuota, fasulla, mentre la vita vera, quella
desiderabile e che la fa desiderabile, è soltanto quella ‘donata’, cioè
trovata. Dire ‘trovata’ significa alludere a quella gioia della scoperta che
rende capaci di lasciare tutto il resto, di vendere tutto, come le parabole del
tesoro nascosto in un campo e della perla preziosa rivelano.
Se torniamo ora alla reazione di
Pietro, possiamo scorgervi la nostra stessa contraddizione. Per esprimerla con
le parole della liturgia di oggi: è vero che nel profondo del cuore diciamo “tu sei il mio Dio, all’aurora ti cerco, di
te ha sete l’anima mia, a te anela la mia carne” (Sal 62) ma è vero anche che,
nel concreto delle situazioni e nel nostro animo, preferiamo i nostri pensieri
ai pensieri di Dio. Lo esperimenta anche il profeta Geremia in tutta
drammaticità: “Mi hai sedotto Signore, e
io mi sono lasciato sedurre”, ma davanti alla fatica di star fedeli alla
parola del Signore si dice in cuor suo “Non
penserò più a lui, non parlerò più in suo nome”. A differenza però del
profeta Geremia il quale continua dicendo: “Ma
nel mio cuore c’era come un fuoco ardente, chiuso nelle mie ossa; mi sforzavo
di contenerlo, ma non potevo”, noi fin troppo bene riusciamo a 'contenere'
quel fuoco, lo mortifichiamo, lo spegniamo e non riusciamo a volte nemmeno più
a sentirne la presenza. Ed è per questo che non riusciamo a liberarci dal
bisogno di difenderci, impedendoci però di ‘godere’ la vita e impedendolo a
tutti.
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Terzo ciclo
Anno liturgico A (2007-2008)
Tempo Ordinario
23a Domenica
(7 settembre 2008)
_________________________________________________
Ez
33,7-9; Sal 94; Rm 13,8-10;
Mt 18,15-20
_________________________________________________
Possiamo entrare nella liturgia di oggi
dall’affermazione di Paolo: “pienezza
della Legge infatti è la carità”, ripresa dell’affermazione precedente: “chi ama l’altro ha adempiuto la Legge”.
Dire ‘compimento’, ‘pienezza’, significa alludere non alla punta di una virtù
umana, costituita dall’osservanza della legge, ma all’ispirazione divina, alla
potenza divina che opera in noi nell’obbedienza alla legge allargando i confini
della nostra umanità sulla misura divina che in Gesù diventa accessibile. Paolo
dice appunto: ‘chi ama l’altro’, dove altro sta per straniero e non
semplicemente ‘chi ama il prossimo’ per allargare l’impostazione della legge
che esigeva l’amore del prossimo entro l’appartenenza ad uno stesso popolo (“Non ti vendicherai e non serberai rancore
contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso”,
Lev 19,18) e compierne l’anelito di fondo che riguardava la condivisione dei
sentimenti di Dio per l’umanità (“Ora,
Israele, che cosa ti chiede il Signore tuo Dio, se non che tu tema il Signore
tuo Dio, che tu cammini per tutte le sue vie, che tu l' ami e serva il Signore
tuo Dio con tutto il cuore e con tutta l' anima...”, Dt 10,12).
Paolo parla di carità come dell’unico
debito da vivere verso gli uomini perché, assolto ogni altro debito di lealtà,
di onestà, di onore, sia a livello sociale che personale, verso tutti, resta
pur sempre nei loro confronti un debito che non potrà mai essere assolto
completamente, il debito appunto della carità. Ma quel debito è percepito tale
se la carità riguarda la condivisione del segreto di Dio che vuole gli uomini
suoi figli alla sua tavola. Finché qualcuno non gode di quella tavola, finché
qualcuno resta escluso, la carità non può darsi pace e farà di tutto perché
quel desiderio di Dio, accolto nel profondo del nostro cuore, possa compiersi.
È il mistero della riconciliazione, l’amore perdonante e condiviso, in atto
nella storia, vera energia di umanità rinnovata.
Il canto al vangelo lo proclama
solenne: “Dio ha riconciliato a sé il
mondo in Cristo, affidando a noi la parola della riconciliazione” (cfr.
2Cor 5,19). Se Dio affida all’uomo il ministero della riconciliazione, vuol
dire che ritiene l’uomo suo compagno. Con la rivelazione di Gesù, che svela,
mentre compie, questo supremo desiderio di Dio, possiamo scorgere all'opera nel
mondo le segrete intenzioni di Dio nei confronti delle sue creature. Noi tutti
siamo appunto chiamati a concorrere alla realizzazione di questa 'opera'. In
questo senso dobbiamo imparare a giudicare ogni cosa in base alla convergenza
verso questo supremo scopo divino. Imparare a diventare coscienti di questa
realtà significa passare dal livello psicologico a quello spirituale, diventare
compagni di Dio. Per questo ci è affidata la parola della riconciliazione. Non
però la parola da dire, ma la parola come fondamento dell’essere, come le
ragioni che convincono il cuore della realtà di quella pace ottenuta da Dio
che, per sua stessa dinamica interna, tende a coinvolgere tutti e tutto. È la
parola come forza d’attrazione, come potenza d’irradiazione, come rivelazione
del segreto di quel ‘far grazia di sé’ di Dio a noi, di noi a tutti. È il
mistero della carità condiviso.
Il vangelo di oggi presenta la chiesa
come comunità di riconciliati, sempre in cerca di riconciliazione, mai stanca
di cercarla, di custodirla, di invocarla, per tutti e per ognuno. Il potere di
legare e di sciogliere allude al potere di impedire o di accogliere nella
comunità, date certe condizioni. Ma può essere inteso: se tu leghi, sarai anche
tu legato; se tu sciogli, anche tu sarai sciolto. Proprio come preghiamo nel
Padre Nostro: 'rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri
debitori'. Dio si muove nei nostri confronti secondo il potere che ci ha
accordato. Perdoniamo? Saremo perdonati. Non tratteniamo un'ingiustizia? Anche
Dio non la trattiene nei nostri confronti. Siamo generosi con un fratello?
Anche Dio lo sarà con noi. Da questo punto di vista, non è importante
preoccuparsi di fare bene, ma di non trattenere, di non legare il male di
nessuno.
Non solo, ma la potenza della preghiera
è vincolata essenzialmente alla realtà di un perdono impetrato e condiviso,
senza il quale essa perde totalmente di efficacia. “Dove sono due o tre riuniti nel mio nome” non allude alla
preghiera, ma al perdono scambievole, alla riconciliazione accolta che
testimonia proprio la presenza di Cristo non solo in noi, non solo in mezzo a
noi, ma nel mondo, perché l'evento della riconciliazione parla direttamente al
mondo della presenza di Dio. Così, anche l'espressione precedente: “Se due di voi sulla terra si metteranno
d’accordo per chiedere qualunque cosa” non si riferisce in primo luogo alla
preghiera, ma alla riconciliazione, a quella pace fra fratelli, data e accolta,
che costituisce l'unica condizione di sincerità della preghiera e quindi del
suo esaudimento. In realtà, null'altro abbiamo da domandare che di vivere
'perdonati', di vivere nella capacità di perdonarci, come segno di quell'amore
misterioso, potente, prepotente, che ci è venuto da Dio ed ha cambiato
radicalmente tutta la nostra vita. Solo a partire da qui la proclamazione
iniziale dell’antifona di ingresso risulterà vera per il nostro cuore: “Tu sei giusto, Signore, e sono retti i tuoi
giudizi: agisci con il tuo servo secondo il tuo amore” (Sal 118,137.124).
Diversamente, resteremo in balia delle nostre rivendicazioni e dei nostri
tormenti, di cui faremo pagare le spese ai nostri fratelli, rifiutando di
diventare compagni di Dio.
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Terzo ciclo
Anno liturgico A (2007-2008)
Solennità e feste
Esaltazione della Santa Croce
(14 settembre 2008)
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Nm
21,4-9; Sal 77; Fil 2,6-11;
Gv 3,13-17
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L’origine di questa festa va ricercata
nell’antica adorazione della croce il venerdì santo, descritta dalla pellegrina
Egeria che visitò i luoghi santi nel IV secolo. È come se la chiesa sentisse il
bisogno di celebrare l’adorazione della croce in toni gloriosi, cosa che non
poteva fare nei riti della settimana santa. L’oggetto della festa è proprio la
croce, non il crocifisso. Il rito centrale della liturgia bizantina è
l’innalzamento della croce ai quattro punti cardinali con la solenne benedizione
del mondo, accompagnata da 500 invocazioni: Kyrie
eleison. La liturgia, soprattutto quella bizantina, acclama la croce ‘arma di pace, che ci ha dato la bellezza,
davanti alla quale la creazione gioisce e fa festa, per la quale è stata donata
al mondo la misericordia e noi siamo stati attratti a Dio mentre la morte è
stata inghiottita’. In particolare, un’immagine colpisce per la sua
potenza: se Adamo è stato ingannato a partire da un albero, anche satana è
stato adescato da un legno. Vale anche per il demonio la legge delle passioni
umane: più la passione è esercitata senza freni, più ci si allontana
dall’obiettivo che si voleva ottenere. Così il demonio si è trovato ingannato
con le sue stesse azioni: la morte inflitta a Gesù si è trasformata in vita per
tutti, in splendore di amore dove la morte non ha più alcun potere.
L’immagine dell’esaltazione della croce
comporta però una terribile ambiguità. Quando Gesù parla della necessità per
lui di essere innalzato, allude al supplizio della croce. Come poter tenere
insieme sofferenza e gloria? Perché l’innalzamento per noi non è mai percepito
nell’umiliazione? Perché la croce, celebrata gloriosa, a noi fa paura?
Due particolari delle letture di oggi
possono illustrarci il mistero. A Nicodemo Gesù dice: “Nessuno è mai salito al cielo, se non colui che è disceso dal cielo, il
Figlio dell’uomo ... Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio
unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita
eterna”. Domando: si può salire al cielo senza scendere? L’immagine è
quella dell’essere innalzato, ma la realtà è quella del discendere. Forse,
l’aspetto più maestoso della gloria di Gesù sta nel suo chinarsi a lavare i
piedi ai discepoli. Quel suo chinarsi allude al suo scendere, al perdere ogni parvenza
di grandezza per assumere la vera grandezza dell’amore, che è il segreto di Dio
e per se stesso e per noi uomini. Il discendere allude all’abbassarsi nel
servizio di tutti perché tutti abbiano la vita e godano dello stesso segreto di
Dio, il quale non accresce la sua grandezza (Egli è l’Altissimo) se non
abbassandosi. Quel movimento è la legge della vita perché l’uomo è fatto a
immagine di Dio. Occorre però partecipare al segreto: è l’amore che dà vita.
Gesù può proprio parlare di
‘innalzamento’ quando allude alla sua morte in croce perché non fa che
esprimere in termini visibili ciò che costituisce l’intimità del movimento
d’amore di tutta la Trinità. Nessuna delle tre Persone si possiede, ma si
riceve eternamente. Lo spazio dell’amore e per l’amore è proprio quella
dimensione di ‘spossesso’ che fa vivere dell’altro e per l’altro. Quello che il
Figlio rivela vivere nell’amore per gli uomini, Dio lo vive in se stesso. Così,
quando Paolo dice che Gesù “svuotò se
stesso assumendo una condizione di servo ... umiliò se stesso facendosi
obbediente fino a una morte di croce” non fa che rivelare in termini umani
ciò che avviene all’interno della stessa Trinità. Non per nulla il segno di
croce è abbinato alla proclamazione delle tre Persone della Trinità. È del
resto caratteristico che Gesù dica che, una volta innalzato, attirerà tutti a
sé (cfr. Gv 12,32). Ma è il Padre che attira a Gesù (cfr. Gv 6,44) e attira
proprio a guardare colui che è stato trafitto (cfr. Gv 19,37, eco della
profezia di Zc 12,10). Ed è opera dello Spirito Santo far ‘vedere’ (cfr. Gv
6,40) nel senso di far ‘riconoscere’, ‘contemplare nella fede’, che il trafitto
è il Salvatore, il testimone dello splendore dell’amore del Padre. Lo scopo
diretto della fede non può che essere quello di ‘godere la vita’, vita che
procede da un amore che niente e nessuno può rapirti.
A questo punto ha senso parlare della
gloria della croce di Cristo, come ripete l’antifona di ingresso: “Di null’altro ci glorieremo se non della
croce di Gesù Cristo, nostro Signore”. Il che significa che non potremo
certo gloriarci della nostra giustizia, ma solo dell’esperienza dell’amore
perdonante di Dio che tende a inglobare tutti, senza riserve. E quando l’anima
accoglierà senza riserve l’intima logica di quella esperienza nella fede,
allora scoprirà lo splendore di un’umanità sulla misura di Dio. Il segno che
quell’esperienza sta radicandosi nell’anima lo si può intravedere dalla misura
di amabilità che il movimento dell’abbassarsi ottiene sul nostro cuore. Allora
si può scoprire la croce come colei che ci ha dato bellezza, come ripete la
liturgia.
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Terzo ciclo
Anno liturgico A (2007-2008)
Tempo Ordinario
25a Domenica
(21 settembre 2008)
_________________________________________________
Is
55,6-9; Sal 144; Fil 1,20-27;
Mt 20,1-16
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La liturgia di oggi illustra un
paradosso che vive il nostro cuore: è proprio vero che i pensieri di Dio non
sono i nostri pensieri (basta osservare i nostri pensieri segreti nelle
afflizioni quotidiane), eppure il nostro cuore è modellato sui pensieri di Dio.
Come a dire: se non accogliamo i pensieri di Dio il nostro cuore non trova
felicità. La domanda allora che sorge è la seguente: cosa non permette ai
nostri cuori di fidarci di Dio?
Quello che il salmo 144 proclama: “Giusto è il Signore in tutte le sue vie e
buono in tutte le sue opere” rivela il frutto di un cammino consumato alla
scoperta del nostro Dio; non indica la condizione di partenza. Non per nulla la
verità della bontà di Dio è tema di rivelazione: la si può scoprire solo
accettando di relazionarsi al proprio Dio, secondo quella radicalità di
rapporto che una relazione d’amore comporta. E come in tutte le relazioni
d’amore, il mondo interiore viene rivoluzionato. Senza accettare questa
‘rivoluzione’ non si vive l’amore e non si troverà il senso del vivere.
La parabola di Gesù è costruita proprio
per sorprendere gli operai della prima ora nei loro pensieri segreti. Se il
fattore avesse cominciato a pagare gli operai dai primi, non sarebbero stati
svelati quei pensieri. Si sarebbero conosciuti solo quelli degli ultimi. Ma la
parabola insiste proprio sui primi; il che significa che in quei ‘primi’ siamo
compresi tutti noi, per un verso o per l’altro. Dal punto di vista ecclesiale,
si può interpretare la parabola come un avvertimento agli israeliti (gli operai
della prima ora) rispetto ai pagani (gli operai dell’ultima ora), ai
giudeo-cristiani rispetto agli ellenisti, ai pastori rispetto ai fedeli, ecc.
La parabola però ha un’estensione molto più larga e allude agli atteggiamenti
dei cuori nei confronti di Dio. Tutti vengono pagati nella stessa misura: è
proprio questo che urta la nostra sensibilità. Notiamo subito che il padrone
della parabola non manca di giustizia perché ai primi dà esattamente quello che
avevano pattuito. Semplicemente, non si attiene solo a quella giustizia e dà
anche agli altri la stessa paga. Dove sta allora la malizia dei pensieri dei
primi?
Il padrone si definisce ‘buono’ e
allude alla definizione di buono che solo a Dio compete, come era stato detto
in precedenza: «Egli rispose: “Perché mi
interroghi su ciò che è buono? Uno solo è buono”» (Mt 19, 17). Come
intendere la bontà di Dio? La lettura del profeta Isaia ce ne fornisce la
chiave. Il cap. 55 chiude la seconda parte del libro di Isaia e contiene la
promessa del nuovo esodo da Babilonia agli esiliati. Quando il profeta
proclama: “Perché i miei pensieri non
sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie - oracolo del Signore”,
si riferisce alla larghezza del perdono che Dio accorda: “Cercate il Signore, mentre si fa trovare, invocatelo, mentre è vicino.
L’empio abbandoni la sua via e l’uomo iniquo i suoi pensieri; ritorni al
Signore che avrà misericordia di lui e al nostro Dio che largamente perdona”.
Per cogliere la portata di queste parole bisogna leggere in quel ‘Dio perdona
largamente’ tutto ciò che si riferisce alla sua provvidenza nei nostri
confronti: le vite degli uomini sono diseguali, la sua provvidenza è
misteriosa, la conoscenza di lui è misteriosa, le nostre sorti sono diverse, le
gioie e le sofferenze sono amministrate nella nostra vita in modo così diverso
gli uni dagli altri. Perché tutto questo? Porci questa domanda significa
rapportarci agli altri e non a Dio. Non è certamente una domanda maliziosa, ma
rivela la difficoltà di cogliere la bontà di Dio e per ciò stesso rivela la
natura del nostro rapportarci a Dio in rivendicazione. Ma la rivendicazione
esprime gelosia, come dice il padrone della parabola ai primi operai. Il segno
della purità di cuore è proprio la mancanza di gelosia, vale a dire la gioia
della felicità altrui. La punta segreta di questa gioia non sta però nella
generosità di cuore che esprime solidarietà verso i fratelli nonostante la
nostra mancanza (cosa del resto pressoché impossibile!), bensì la confidenza
nel proprio Dio di cui si spera il godimento della promessa fatta a noi. Così,
nonostante le diseguaglianze delle nostre vite, nulla ci manca se Dio è con
noi.
E proprio questo è ciò che si acquisisce
con il cammino spirituale. In effetti, il problema per noi è indicato
dall’antifona alla comunione: “Siano
diritte le mie vie nell’osservanza dei tuoi comandamenti”. Non è
sufficiente osservare i comandamenti (il lavorare nella vigna); occorre che siano
retti i cuori nel farlo (lavorare nella promessa del compenso da parte del
padrone e grati di poterlo fare). La ‘giustizia’ è condizione necessaria ma non
sufficiente. L’invito a scoprire e gustare la bontà di Dio salva i cuori dai
confini angusti e li libera da ogni forma di rivendicazione in modo da
partecipare ai sentimenti di Dio che vuole tutti suoi amici.
§*§*§*§*§*§*§*§*§*§
Terzo ciclo
Anno liturgico A (2007-2008)
Tempo Ordinario
26a Domenica
(28 settembre 2008)
_________________________________________________
Ez
18, 25-28; Sal 24; Fil 2,1-11;
Mt 21,28-32
_________________________________________________
Gesù è appena entrato trionfalmente in
Gerusalemme, ha scacciato i venditori dal tempio, ha guarito ciechi e storpi e
in seguito alla discussione sull’origine della sua autorità (“Con quale autorità fai questo? Chi ti ha
dato questa autorità?”) racconta la parabola dei due figli, tipica del
vangelo di Matteo. Chi compie la volontà del padre? Chi acconsente ma poi non
fa o chi alla fine fa anche senza aver acconsentito prima? Non è un invito
all’obbedienza in generale, ma una riflessione profetica sulla storia che va
dritta al cuore degli ascoltatori. Era morto da poco Giovanni Battista e Gesù
ne aveva raccolto l’eredità. Aveva predicato un battesimo di penitenza e chi
gli aveva creduto? I pubblicani e i peccatori, coloro che di fronte alla sua
predicazione si erano ricreduti quanto alla loro vita, avevano sentito l’invito
di Dio che a loro si appressava e avevano visto all’opera in lui l’azione di
Dio. I capi e i farisei si sentono invece dire da Gesù: “Voi, al contrario, avete visto queste cose, ma poi non vi siete nemmeno
pentiti così da credergli”. Da notare che in questo caso, il verbo
‘pentire’ è espresso con un termine che significa ‘ricredersi’, ‘cambiare
parere’, ‘rivedere le cose nella loro verità’. È come se Gesù dicesse: avviene
con me come per il Battista. Voi vedete le cose meravigliose che compio, ma non
volete vedere l’agire di Dio che compie la sua opera di salvezza. Voi l’aspettate
da un’altra parte e resterete sulla vostra fame.
Ritorna l’eco della domanda del profeta
Ezechiele: “Non è retto il modo di agire
del Signore?... Non è retta la mia condotta o piuttosto non è retta la vostra?”.
Il passaggio dal male al bene è sempre possibile, come d’altronde è possibile
l’inverso, dal bene al male. Chi fa il bene vivrà di quel bene e non morirà per
i mali compiuti prima. Siccome però non è evidente per l’uomo riconoscere il
bene, ecco la preghiera del salmo: “Fammi
conoscere, Signore, le tue vie”, a cui tiene dietro la certezza: “insegna ai poveri la sua via”. Se le vie
del Signore sono le vie della vita, allora significa che per avere la vita uno
si debba presentare povero. “Beati i
poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli” (Mt 5,3). Povertà,
che la lettera ai Filippesi descrive come condivisione dei sentimenti di Gesù:
“rendete piena la mia gioia con un
medesimo sentire e con la stessa carità, rimanendo unanimi e concordi. Non fate
nulla per rivalità o vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà,
consideri gli altri superiori a se stesso. Ciascuno non cerchi l’interesse
proprio, ma anche quello degli altri. Abbiate in voi gli stessi sentimenti di
Cristo Gesù ...”.
Dire ‘avere gli stessi sentimenti di
Cristo Gesù’ e dire ‘la volontà del Padre’ è dire la stessa cosa. Se l’apostolo
ci invita ad avere gli stessi sentimenti di Gesù è perché solo in quel modo
possiamo riconoscerci nella volontà del Padre, possiamo acconsentire a quella
volontà e goderne lo splendore di amore che ci viene riversato e che ci spinge
a riversarlo su tutti. Gesù costituisce quel punto di incandescenza nella
storia dove la volontà del Padre muove l’umanità e questa risplende per l’amore
che l’investe e di cui si capacita.
Le parabole delle domeniche successive
dicono fino a che punto l’umanità di Gesù vive la volontà di salvezza per gli
uomini da parte del Padre, allorquando il dramma si consuma. L’accento però non
è posto sulla sofferenza che dovrà subire, ma sullo splendore di amore di cui
si fa testimone. Avviene per i discepoli come per Gesù: se il Figlio, secondo
le parole di Paolo ai Filippesi, ‘svuotò se stesso assumendo una condizione di
servo’, lo può fare perché gode di un amore. Quello ‘svuotamento’ è la
condizione perché l’amore si compia e trascini tutti nello stesso movimento. Ci
si può svuotare dei propri peccati come delle proprie sicurezze; ciò che conta
è svuotarsi perché quell’amore torni a splendere, perché Dio possa essere
adorato come il Salvatore, ricco di misericordia per noi. Quello che i capi del
popolo e i farisei, interlocutori di Gesù, non avevano potuto capire. E lo
svuotarsi attira la grazia perché assimila al movimento che Gesù ha vissuto e
che Dio vive in se stesso. L’obbedienza ha a che fare con la percezione di questo
mistero di amore che porta vita, la vita che viene da Dio e che attraversa la
storia perché tutti ne possano gustare lo splendore. Ed è per questo che la
colletta prega: “ ... il tuo Spirito ci renda docili alla tua parola e ci doni
gli stessi sentimenti che sono in Cristo Gesù”.
§*§*§*§*§*§*§*§*§*§
Terzo ciclo
Anno liturgico A (2007-2008)
Tempo Ordinario
27a Domenica
(5 ottobre 2008)
_________________________________________________
Is
5,1-7; Sal 79; Fil 4,6-9;
Mt 21,33-43
_________________________________________________
Forse, più che una parabola, il brano
evangelico di oggi esprime un’allegoria profetica. Ciò rende ancora più
drammatico il contesto narrativo, come la conclusione, tirata dagli stessi
ascoltatori, capi dei sacerdoti e anziani del popolo, lascia perfettamente
intendere. Avviene come nel caso di Davide, dopo il peccato di adulterio e
assassinio, il quale si condanna con le sue stesse parole rispondendo
all’apologo del profeta Natan (cfr. 2Sam 12,1-13). L’intensità emotiva dello scontro
non deriva però dall’ira, ma da una passione
d’amore, la stessa passione d’amore di Dio per il suo popolo per il quale non
si stanca mai di tornare alla carica.
Il testo di Matteo si dovrebbe leggere
in parallelo con quello corrispondente di Luca 20,9-19 dove alcuni particolari
risultano particolarmente illuminanti. Si veda, ad esempio, nel testo di Luca,
come i vignaioli percuotono, insultano, feriscono i servi ( = i profeti)
mandati dal padrone della vigna, ma solo del figlio del padrone si dice che lo
uccidono; il figlio è presentato come il figlio dilettissimo. Come non cogliere
il valore profetico di questi particolari applicati a Gesù stesso, lui, il
Figlio prediletto, come viene testimoniato dalla voce al battesimo e alla
trasfigurazione?
Il tono d’insieme della parabola,
nonostante l’asprezza delle espressioni, è dato dalla citazione del profeta
Isaia dell’inizio, ripresa dalla prima lettura. L’immagine dell’uomo che pianta
una vigna, la circonda di cure e si attende di raccoglierne i frutti è l’immagine
di Dio che, preso d’amore per il suo popolo, stabilisce un’alleanza con lui,
vuol condividere con lui il suo Bene. Il legame è così profondo che l’immagine
assume sfumature ‘coniugali’ ad indicare la profondità e la totalità di questa
passione d’amore. Così, quando il popolo si ribella e non lo segue, Dio si
sentirà ferito non solo nel suo diritto e nella sua proprietà, ma nei suoi
affetti, nel suo cuore. Gesù sfrutta questa immagine celebre del profeta Isaia
che canta per Dio l’inno d’amore per il suo popolo.
Non per nulla, il canto al vangelo
introduce il brano con l’espressione giovannea: “Io ho scelto voi, perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto
rimanga” (Gv 15,16). In quel scegliere occorre ravvisare tutta la passione
d’amore di Dio per l’uomo; Dio sceglie
(= pianta la vigna del suo regno, manda a lavorare nella vigna, offre la stessa
paga a chiunque accetti di andarvi a lavorare) per raccogliere il frutto, che è
la sua conoscenza in intimità; il frutto rimane nel senso che quella conoscenza
è l’eredità di tutti, vissuta in solidarietà con tutti, finché tutti possano
riconoscere e vivere dell’amore di Dio per l’uomo.
Così, quando Gesù, applicandosi il sal
118,22-23 (“La pietra che i costruttori
hanno scartata è diventata testata d’angolo; dal Signore è stato fatto questo
ed è mirabile agli occhi nostri”) esprime il suo giudizio: “Perciò vi dico: vi sarà tolto il regno di
Dio e sarà dato a un popolo che lo farà fruttificare”, non intende certo
escludere gli israeliti dal suo regno (che passione d’amore sarebbe per il suo
popolo!) e darlo ai pagani, alla chiesa dei gentili, ma intende far prevalere
la logica della rivelazione di tutte le Scritture: l’elezione è in vista di
portare la conoscenza di Dio nel mondo perché tutti godano dello stesso amore.
Gesù è colui che questa elezione vive
nella sua carne al massimo grado possibile e perciò costituisce, dalla parte di
Dio e dalla parte dell’uomo, colui che ne mostra lo splendore di amore che l’ha
originata e di cui ne sostiene la dinamica.
La frase possiede anche un’altra
sfumatura. La vigna del Signore porterà comunque frutto, come a dire: il regno
di Dio sazierà, ma io posso restarne privo; la promessa di Dio non resterà
vana, ma in me potrebbe risultare inefficace. Il fatto è che ci saranno sempre
ascoltatori fedeli, testimoni santi che illustreranno la potenza della promessa
di Dio, che ce la faranno gustare e desiderare: non verrà mai meno il popolo
santo. Ma io accetterò di farne parte?
Il dramma dell’uomo si può intravedere
proprio nel rispondere a quella domanda. Nella parabola si leggono tra le righe
aspetti che suonano tragici. Il ragionamento dei vignaioli alla vista del
figlio mandato dal padrone ‘costui è
l’erede; venite, uccidiamolo, e avremo noi l’eredità’ ne è un esempio. Ma
se proprio il Figlio è stato inviato per metterci in possesso della nostra
eredità (cfr. Gal 4,4-7), come possono questi illudersi di ottenere
diversamente quello che già era stato loro destinato? Spesso ci si ritrova
nella vita in tale posizione: volere a tutti i costi un certo risultato, senza
immaginare nemmeno che ci verrebbe dato in dono se solo lo sapessimo accogliere
dalle mani di Dio! I nostri desideri di gioia, di felicità, di fraternità, non
sono forse così spesso disattesi dai nostri comportamenti? Il nostro guardare
al Figlio non è forse così spesso
appiattito sulle pretese che avanziamo senza poter mai aver sentore della bontà
di quell’amore che in Lui ci viene donato? L’amore di Dio non risponde al buon
senso, non è contenuto nei limiti del giusto; è proprio folle, folle come quel
padrone che, dopo aver visti picchiati e scacciati i suoi servi, non teme di
mandare il suo unico figlio. Lui, almeno, lui sì che non deluderà le sue
attese, Lui sì resterà sempre testimone di quell’amore folle proprio nel subire
la morte e poter riscattare, con la sua risurrezione che lo rende pietra
angolare per tutti, la malvagità di quei vignaioli, la nostra malvagità di
uomini peccatori.
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Terzo ciclo
Anno liturgico A (2007-2008)
Tempo Ordinario
28a Domenica
(12 ottobre 2008)
_________________________________________________
Is
25,6-10; Sal 22; Fil 4,12-20;
Mt 22,1-14
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La parabola evangelica di oggi si situa
nel solco e nello sviluppo di quelle delle domeniche precedenti. Compaiono gli
stessi elementi: il re (il padrone) ed il figlio; i servi ripetutamente
inviati, respinti e uccisi; ira del re e dramma finale; invito rivolto ad
altri. Il tutto però è espresso con accenti e sfumature diverse. La parabola si
sviluppa in due tempi: un tempo dell’azione e un tempo del giudizio; il tempo,
l’attuale, degli inviti e il tempo, finale, del giudizio definitivo.
In rapporto al giudizio, che suscita
sgomento, risuona l’antifona di ingresso della liturgia: “Se consideri le nostre colpe, Signore, chi potrà resistere? Ma presso
di te è il perdono, o Dio di Israele” (Sal 130,3-4). In rapporto agli
inviti si canta il versetto dell’alleluia tratto dalla lettera agli Efesini, il
cui passo completo suona: “il Dio del
Signore nostro Gesù Cristo, il Padre della gloria, vi dia uno spirito di
sapienza e di rivelazione per una più profonda conoscenza di lui. Possa egli
davvero illuminare gli occhi della vostra mente per farvi comprendere a quale
speranza vi ha chiamati, quale tesoro di gloria racchiude la sua eredità fra i
santi e qual è la straordinaria grandezza della sua potenza verso di noi
credenti secondo l’efficacia della sua forza che egli manifestò in Cristo…”
(Ef 1,17-18). È la finestra di luce nella quale guardare al contenuto della
parabola: possa davvero il nostro cuore aprirsi al dono di speranza e di gloria
che il Signore ha preparato per noi! Quello che il passo dice ai nostri
orecchi, l’icona della Trinità di Rublev lo fa vedere ai nostri occhi: i tre angeli
in dolce colloquio, uniti nell’amore all’uomo per il quale il Padre celebra le
nozze del Figlio e invita tutti, nella forza dello Spirito, a partecipare alla
sua gioia. Sulla mensa giace l’Agnello immolato, simbolo e mistero di questo
infinito amore che siamo tutti invitati a gustare. Tre sono i particolari che
vorrei sottolineare.
Primo: le nozze del Figlio. Lo proclama
Giovanni Battista: “Chi possiede la sposa
è lo sposo; ma l’amico dello sposo, che è presente e l’ascolta, esulta di gioia
alla voce dello sposo. Ora questa mia gioia è compiuta. Egli deve crescere e io
invece diminuire” (Gv 3,29-30). Il Figlio, Gesù, sposa l’umanità: è
l’evento centrale della vita del mondo, il fondamento e l’esito finale di tutta
la storia. Tanto profondo e misterioso che passa inosservato, spesso negletto
dagli stessi credenti. Dio e l’uomo ritornano compiutamente uniti, dove tutto
di Dio si rivela nella sua gloria e grandezza e dove tutto dell’uomo acquista
compimento. È per partecipare a queste nozze, a questa festa, a questa gioia,
che Dio chiama. L’Eucarestia celebrata è il talamo dove questo mistero si
realizza, nella cui forza tutta la vita ritorna ad avere poco a poco lo
splendore divino.
Secondo: gli invitati, i vocati. Ogni vocazione, in senso
profondo, non è che la chiamata ad una nuova relazione, ad una intimità
personale con Colui che personalmente ci raggiunge, come dice il profeta: “Non temere, perché io ti ho riscattato, ti
ho chiamato per nome: tu mi appartieni. Se dovrai attraversare le acque, sarò
con te, i fiumi non ti sommergeranno; se dovrai passare in mezzo al fuoco, non
ti scotterai, la fiamma non ti potrà bruciare; poiché io sono il Signore tuo
Dio, il Santo di Israele, il tuo salvatore... Non temere, perché io sono con te”
(Is 43,1-5).
Buoni e cattivi sono chiamati. L’invito
non è in funzione dei nostri meriti, ma semplicemente dell’amore suo. Sarà il
godimento di questo amore che potrà essere in funzione della nostra risposta,
ma non l’offerta di tale amore. Così, tutti sono come costretti, ad indicare la
sollecitudine e la pazienza di Dio che non smette mai di insistere con il
nostro cuore, comunque si trovi, perché acconsenta alla sua gioia. È importante
quell’annotazione ‘buoni e cattivi’. Quante pie illusioni costringono il nostro
cuore all’oppressione e tutto perché immaginiamo di essere più importanti di
Dio stesso!
Terzo: la veste nuziale. Di quale veste
si tratta? Paolo proclama: “poiché quanti
siete stati battezzati in Cristo, vi
siete rivestiti di Cristo” (Gal 3,27). E ancora: “Vi siete infatti spogliati dell’uomo vecchio con le sue azioni e avete
rivestito il nuovo, che si rinnova, per una piena conoscenza, ad immagine del
suo Creatore. Qui non c’è più Greco o Giudeo, circoncisione o incirconcisione,
barbaro o Scita, schiavo o libero, ma Cristo è tutto in tutti. Rivestitevi dunque, come amati di Dio,
santi e diletti, di sentimenti di
misericordia, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di pazienza sopportandovi a
vicenda e perdonandovi scambievolmente, se qualcuno abbia di che lamentarsi
nei riguardi degli altri. Come il Signore vi ha perdonato, così fate anche voi”
(Col 3,10-13).
La veste nuziale sono i segni
distintivi dell’appartenenza a Cristo, dell’essere simili a Cristo. E come
essere trovati così, se Cristo stesso non ci assimilasse a sé? È appunto il
mistero della comunione eucaristica, farmaco di immortalità: ricevere il Cristo
per essere trovati in Lui. L’accento non è posto su quanto l’uomo fa per il
Cristo, ma sul fatto che l’uomo può accogliere il Cristo e ritrovarsi nella
gioia del Padre che l’ha inviato perché tutti godano lo splendore del suo
amore. La sua veste nuziale allude proprio all’accoglienza che l’uomo è
chiamato a dare all’invito di Dio e l’invito di Dio è il suo stesso Figlio. Gli
uomini, fin tanto che sono ancora nella storia terrena, non possono
distinguersi in eletti o meno perché a tutti l’invito di Dio è rivolto. Se
varrà un giudizio, è solo quello di Dio che conosce i cuori. La temibilità del
giudizio allude al fatto che all’invito non consegue automaticamente l’elezione;
l’uomo è chiamato a rispondere.
Alle nozze del Figlio fa riscontro la
nostra gioia, non la nostra perfezione. Ma la gioia dice l’apertura del nostro
cuore all’invito del Padre, nonostante la nostra patente indegnità. In questo
contesto suona strana la dichiarazione finale della parabola: ‘molti sono chiamati, ma pochi eletti’.
Di tutta la moltitudine che riempiva la sala, solo uno è stato trovato senza la
veste appropriata! Se non è un invito alla speranza questo, a fidarci
dell’amore di Dio!!!
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Terzo ciclo
Anno liturgico A (2007-2008)
Tempo Ordinario
29a Domenica
(19 ottobre 2008)
_________________________________________________
Is
45,1-6; Sal 95; 1Ts 1,1-5;
Mt 22,15-21
_________________________________________________
La visione di Isaia e la massima di
Gesù riportata nel brano di vangelo di oggi si richiamano e si sostengono a
vicenda. La liturgia ce ne schiude la porta di accesso con il ritornello
responsoriale: “Grande è il Signore e
degno di ogni lode” (Sal 95,4). Ma quando una simile confessione risulta
vera? Quando prorompe dal fondo di un cuore che a lungo ha invocato, come dice
l’antifona di ingresso: “Io ti invoco,
mio Dio: dammi risposta, rivolgi a me l’orecchio e ascolta la mia preghiera.
Custodiscimi, o Signore, come la pupilla degli occhi, proteggimi all’ombra
delle tue ali” (dal salmo 16). E perché l’uomo è ‘costretto’ a invocare il
suo Dio se non perché la storia è drammatica e l’uomo rischia di perdersi? La
cifra del dramma della storia è ben espressa dalla massima di Gesù: “Rendete dunque a Cesare quello che è di
Cesare e a Dio quello che è di Dio”. Ma Gesù parla di quel Dio che ha una
provvidenza di salvezza da dispiegare, che continuamente intesse la storia
della sua provvidenza di salvezza, come ben rivela la visione di Isaia quando
descrive Ciro, il Cesare dell’impero che aveva fagocitato Israele, nell’atto di
apprestarsi a ridargli quello spazio un tempo negato, compiendo così il disegno
di salvezza del Dio di Israele. Senza riconoscere la via di salvezza offerta
dal Signore nella sua provvidenza, come vivere la confessione del salmista: “Grande è il Signore e degno di ogni lode”?
È appunto tenendo insieme la visione di
Isaia e la dichiarazione di Gesù che la storia sta aperta all’eternità: se ne
può intravedere la finalità di salvezza, dentro uno spazio di libertà che
permette di rispondere alla domanda di senso. Il brano evangelico può essere
letto da più angolature e io vorrei suggerirne una soltanto. La vita di Gesù
volge al termine e i suoi avversari stanno cercando un pretesto per riuscire a
metterlo fuori gioco. Lo provocano sulla questione del tributo da pagare
all’occupante romano. Si tratta della tassa pro
capite (in latino, census) che i
romani esigevano da tutti gli abitanti (uomini, donne e schiavi) di Giudea,
Samaria e Idumea, dai 12/14 anni fino ai 65. La tassa versata corrispondeva a
un denaro d’argento, l’equivalente della paga giornaliera di un operaio, pagata
con una moneta speciale che portava l’immagine dell’imperatore Tiberio (14-37 d.C.)
con l’iscrizione: TIBERIUS CAESAR DIVI AUGUSTI FILIUS AUGUSTUS PONTIFEX MAXIMUS
(Tiberio Cesare, augusto figlio del divino Augusto, sommo sacerdote).
Il tranello consisteva nel costringere
Gesù a prendere posizione o pro o contro l’obbligo del pagamento della tassa:
se rispondeva a favore del pagamento, lo si poteva accusare di
antipatriottismo; se rispondeva contro, poteva essere accusato di sedizione
contro l’autorità costituita.
La risposta di Gesù, come sempre,
allarga la questione e ne fa diventare una questione di discernimento per non
fallire il senso della vita. Tutto il brano acquista uno spessore assolutamente
speciale e tutti i particolari possono essere letti nell’ottica di quello
spessore.
La domanda è posta con malizia. Ma gli
eventi della storia sono immersi tutti nella malizia di quella domanda: la
storia non si apre automaticamente alla salvezza. Occorre saper distinguere,
occorre tener distinti i piani, occorre esercitare la responsabilità adeguata
secondo i piani nei quali siamo confrontati. La storia tutta può diventare storia sacra, ma non automaticamente e
non confusamente.
Così, l’elogio che viene tributato a
Gesù (“Maestro, sappiamo che sei
veritiero e insegni la via di Dio secondo verità. Tu non hai soggezione di
alcuno, perché non guardi in faccia a nessuno”) non risponde solo alla
cattiva intenzione dei suoi accusatori, ma esprime anche la condizione per
poter discernere. Diversamente, la storia soffoca o esalta, ma non si apre alla
salvezza. Aprirsi alla salvezza, alla fin fine, vuol dire sfuggire alla malizia
del potere che vuole tutti ‘soggetti’, senza sapere bene in nome di che cosa.
L’aspetto straordinario e straordinariamente potente della posizione indicata
da Gesù, che costituisce davvero la ‘buona notizia’ per gli uomini nella
storia, è dato dal fatto che Gesù è proclamato come non soggetto a nessuno,
quindi sovranamente libero e tuttavia, lui, di se stesso, si proclama
sottomesso a tutti (pensiamo all’immagine di lui che si cinge il grembiule e
lava i piedi ai discepoli), servo di tutti perché l’amore del Padre conquisti
tutti. La libertà che gli è attribuita gli deriva dalla perfetta comunione con
il Padre, che vuole tutti salvi e che lo abilita a vivere la vita nel servizio
di questa straordinaria provvidenza di amore per l’umanità. Quando Gesù dice di
dare a Dio quello che è di Dio allude proprio a quel Padre da cui lui proviene,
che lui conosce, di cui testimonia l’amore e di cui mette anche noi in
condizione di essere in comunione. Di qui scaturisce quella libertà che, non
rendendoci soggetti alle cose, è capace di aprire gli spazi adeguati perché gli
eventi si schiudano all’eternità, cioè a quella dimensione del vivere un amore
nella storia perché tutti si possa dire: “Grande è il Signore e degno di ogni
lode”.
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Terzo ciclo
Anno liturgico A (2007-2008)
Tempo Ordinario
30a Domenica
(26 ottobre 2008)
_________________________________________________
Es
22,20-26; Sal 17; 1Ts 1,5-10;
Mt 22,34-40
_________________________________________________
Per cogliere la portata della risposta
di Gesù la liturgia di oggi ci offre varie porte di accesso. Il brano
evangelico risponde a due grosse domande che serpeggiano nel nostro cuore: 1)
che tipo di amore Dio ci richiede se ci comanda
di amare? È possibile in verità comandare di amare? 2) dato che il comandamento
riguarda l’agire, interiore e esteriore, allora cosa cerchiamo con il voler
osservare il comandamento?
Notiamo anzitutto le due novità nella formulazione evangelica di
Matteo. Era usuale nell’ambiente rabbinico la domanda attorno al comandamento
grande, a quale fosse il primo comandamento, come del resto era generalmente
accettata la risposta di Gesù che si basava su Dt 6,5 e Lv 19,18 (cf. anche i
passi paralleli, nel contesto più cordiale di Mc 12,28-34 e Lc 10,25-28). La
prima novità di Gesù sta nel raccordare i due comandamenti, dichiarando il
secondo simile al primo. L’altra novità consiste nell’uscire dallo schema di
riferimento usuale per le Scritture con il porre i Profeti sullo stesso piano della
Legge, con l’allusione all’unità delle Scritture che in lui trova ormai la sua
chiave di lettura.
L’allusione a un nuovo modo di
accostarsi alle Scritture, come il raccordo tra i due comandamenti, hanno a che
fare con la rivelazione che da lui procede, che attraverso di lui si compie.
C’è una tensione di compimento dietro
le sue parole, tensione che la liturgia insegna a intravedere con il canto di
ingresso, il salmo responsoriale e il canto al vangelo. Di quale Dio ci si fa
comando di amare? È il Dio dell’alleanza, per la gioia che ci procura e per la
forza che ci infonde, come canta l’antifona di ingresso: “Gioisca il cuore di quanti cercano il Signore. Cercate il Signore e la
sua potenza, cercate sempre il suo volto”, presa dal salmo 104, che può
essere definito la celebrazione della fedeltà di Dio. I comandamenti si
accolgono perché si è sperimentato come Dio sia la nostra forza. Recita il
ritornello del salmo responsoriale: “Ti
amo, Signore, mia forza”, dal salmo 17, con il quale si canta l’amore di Dio
per noi che dall’alto ci tende la mano e che si abbassa a noi per farci grandi.
I comandamenti hanno dunque a che fare con l’esperienza di una storia sacra, di
una nostalgia vicendevole tra Dio e l’uomo; non sono imperativi categorici o
religiosi, ma alludono alla possibilità per noi di vivere e gustare
quell’alleanza che ci precede e ci accompagna (cf. la prima lettura, tratta dal
codice dell’alleanza). I comandamenti rimandano ad un’esperienza gioiosa, che
la colletta interpreta facendoci pregare: “O Padre, che fai ogni cosa per amore
e sei la più sicura difesa degli umili e dei poveri, donaci un cuore libero da tutti gli idoli ...”.
Ma la novità di Gesù fa intravedere una
dimensione ancora più misteriosa e più potente. Il brano evangelico è
introdotto dal canto al vangelo tratto da Gv 14,23: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi
verremo a lui”. Il comandamento allude a una possibile rivelazione, la
rivelazione del volto di Dio al nostro cuore. Ma la rivelazione è data dalla
osservanza o da altro? L’abbinamento del passo di Giovanni al brano di Matteo
vuol significare che non è la pratica a produrre la rivelazione, ma l’amore che
presiede alla pratica e che alla pratica conduce. Perché? Nella risposta a
questo interrogativo si cela anche la ragione dell’abbinamento dei due
comandamenti nella sequenza che dà Gesù: Dio, prima e il prossimo, dopo,
sebbene non ci sia alcuna distanza tra i due.
La frase di Gv 14,23 costituisce la
risposta di Gesù alla domanda dell’apostolo Giuda: “Signore, come è accaduto che devi manifestarti a noi, e non al mondo?”.
Una manifestazione che procede da un amore è ravvisabile da chi non partecipa a
questo amore? Poco prima Giovanni aveva scritto: “Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi
ama” (14,21). Frase che si contrappone all’altra, a conclusione del
discorso di Gesù: “... viene il principe
del mondo; contro di me non può nulla, ma bisogna che il mondo sappia che io
amo il Padre” (14,30). Purtroppo la traduzione italiana non fa cogliere la
contrapposizione, che è essenziale per comprendere il ragionamento di Gesù. La
contrapposizione riguarda la frase: ‘chi ha
i miei comandamenti...’(v. 21) e l’altra: ‘in me non ha nulla’ (v. 30). Chi ha l’esperienza dell’amore del Padre,
chi fa l’esperienza dell’essere amato dal Padre, non ha bisogno di nulla e
nulla cerca per sé: pratica i comandamenti che sono l’espressione di questo
amore nel tempo e nello spazio e niente e nessuno gli può sottrarre questo
amore. Solo in Gesù questo si compie assolutamente, ma la promessa di Gesù è
che la stessa cosa varrà per i discepoli, se stanno in lui. Così i comandamenti
hanno a che vedere con il fatto che ‘bisogna che il mondo sappia che io amo il
Padre’. Vale a dire: la pratica dei comandamenti è in funzione del fatto che il
mondo possa scoprire l’amore del Padre e così vivere la dimensione della
fraternità nella sua radicale luminosità.
Così il senso dell’amore al prossimo
sta tutto nel fatto di far ‘sapere al mondo’ che l’amore del Padre è per loro.
Per questo, se il primo comandamento esprime la radice di un’umanità che ha
scoperto l’amore del Padre, il secondo ne segnala l’orizzonte di tensione,
perché l’amore del Padre è per il mondo. E in questo possiamo abbozzare la
risposta anche alle prime due domande: il comando dell’amore procede da
un’intimità e dalla ‘reazione’ a un’offerta al cui fascino non ci si può
sottrarre; lo scopo della pratica del comandamento non è in funzione della mia
perfezione, ma dello splendore dell’amore del Padre che a tutti è rivolto e di
cui posso ammirare l’accondiscendenza per noi.
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Terzo ciclo
Anno liturgico A (2007-2008)
Solennità e feste
Tutti i Santi
(1 novembre 2008)
_________________________________________________
Ap
7,2-14; Sal 23; 1Gv 3,1-3;
Mt 5,1-12
_________________________________________________
Le preghiere e le letture di oggi
mostrano in cosa consiste la gioia della santità: godere dello splendore
dell’amore di Dio per noi. E tutti gli sguardi si accentrano sulla figura dell’Agnello
glorioso e immolato ‘fin dalla fondazione del mondo’ (Ap 13,8). Il mondo è
uscito dall’amore di Dio, di esso è intessuto e percorso, di esso parla, ma
quanta tenebra ne impedisce la visione! Ebbene, oggi la chiesa mostra al mondo
la sua visione: è l’Agnello che attira gli sguardi e gli uomini si ritrovano
uniti nella stessa visione e possono risplendere della santità di Dio, che è
splendore di amore immolato.
L’antifona di ingresso e la preghiera
dopo la comunione fanno come da cornice alla visione aperta dalle letture della
festa di oggi. “Rallegriamoci tutti nel Signore in questa solennità di tutti i
santi: con noi gioiscono gli angeli e lodano il Figlio di Dio”. È motivo di
gioia la santità perché non può esserci gioia se non a partire da un amore
accolto e condiviso. E la santità, come proclamano i beati davanti al trono
dell’Agnello, è questo amore accolto e condiviso. Perché anche gli angeli sono
implicati nella stessa gioia? E perché tutto si risolve nella lode del Figlio
di Dio? La gioia degli angeli esprime il mistero del loro essere in adorazione:
adorano un Dio che è pieno di amore per gli uomini, non per loro. L’amore di
Dio per gli uomini l’ha indotto a farsi uomo come loro, di modo che l’uomo
potesse, nella sua umanità, essere come il Figlio di Dio. Ne scaturisce una
conseguenza: se l’amore che gli uomini si portano non parla di questo amore di
Dio lodato dagli angeli, allora vuol dire che non si è più capaci di
adorazione, cioè della gioia di vedere splendere l’amore di Dio per tutti gli
uomini, non si è più figli di Dio. Un amore che non allude all’adorazione di
Dio diventa tiranno.
Nella preghiera dopo la comunione
diciamo: “... fa’ che raggiungiamo anche noi la pienezza del tuo amore”. Non
preghiamo semplicemente per arrivare anche noi in paradiso, ma preghiamo perché
quell’amore costituisca l’orizzonte della nostra vita. La proclamazione dei
santi, come viene descritta nella prima lettura, non si riferisce ad un futuro
dopo la storia, ma esprime la verità della nostra storia, verità che non
passerà e riempirà tutto del suo splendore. Ma quello splendore costituisce già
il senso della nostra storia, anche se spesso i nostri occhi sono così velati
da non accorgercene più. Sarebbe il senso della preghiera: renderci accorti di
quella verità.
La lettura della prima lettera di
Giovanni parla di noi come dei ‘figli di Dio’, di cui il brano di vangelo, con
le beatitudini, mostra la dinamica profonda di vita. Dice Paolo in Rm 8,14: “tutti quelli che sono guidati dallo Spirito
di Dio, questi sono figli di Dio”. Se ci chiediamo verso dove ci guida lo
Spirito di Dio, non possiamo che rispondere: al Figlio di Dio, il quale ci ha
riconciliato con Dio (cf. 2Cor 5,18; Ef 4,32). La santità parla di quel mistero
di riconciliazione in atto nella storia, nella carne della propria vita, perché
risplenda per tutti la possibilità della visione dell’amore di Dio per l’uomo.
È caratteristico che l’antifona alla
comunione, riprendendo la serie delle otto beatitudini proclamate nel vangelo,
le riduca a tre: puri di cuore, operatori di pace, perseguitati a causa della
giustizia. La purità di cuore capace di vedere Dio è quella che scaturisce
dall’esperienza della compassione, della misericordia, così tipica della
santità di un cuore che consola e conforta, che accoglie in benevolenza e
solidarietà, che rimanda a tutti quello che lui stesso riceve, cioè il perdono
rigenerante del suo Signore, che viene così conosciuto come il Salvatore, come
l’Amore che ti sottrae all’abisso. La purità però, intrisa di gioia, è solo
quella che si traduce in un agire che porta pace a tutti, che rende capaci i
cuori di pace, che si fa dono di pace, capace di far grazia di sé come il
Figlio di Dio che fa dono di sé perché l’amore di Dio risplenda. E la pace
donata è a prova di persecuzione, perché niente è più caro al cuore di colui
che gli ha restituito la dignità di uomo e di figlio di Dio. L’amore a prova di
persecuzione procede dal fatto di sentire la mia dignità sullo stesso piano
della dignità di tutti. Dire che di questi è il regno di Dio significa
proclamare che il cuore dell’uomo non può saziarsi che della verità di
quell’amore che giunge sanante e potente, sebbene ora si sia sempre
nell’occasione di perderlo di vista, di impedirci di goderlo, di impedire agli
altri di farne esperienza. Eppure, così proclama tutta la liturgia di oggi,
quella verità è la verità del mondo come dei cuori. È la verità di felicità per
il cuore dell’uomo, che intravede nelle beatitudini evangeliche le coordinate
precise per non fallirla.
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Terzo ciclo
Anno liturgico A (2007-2008)
Solennità e feste
Commemorazione di tutti i fedeli
defunti
(2
novembre 2008)
_________________________________________________
Gb
19,23-27//Is 25,6-9//Sap 3,1-9
Sal
26//24//41
Rm
5,5-11//Rm 8,14-23//Ap 21,1-7
Gv
6,37-40//Mt 25,31-46//Mt 5,1-12
_________________________________________________
Se ieri, festa di tutti i santi, la
chiesa guardava al mistero dell’amore di Dio per l’uomo dal cielo, oggi,
commemorazione di tutti i defunti, lo guarda dalla terra. Ieri, lo sguardo
emanava la gioia della lode; oggi, emana la fiducia della supplica. Un versetto
lega idealmente le due liturgie più di tutto: “Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò
ristoro” (Mt 11,28), versetto che costituiva il canto al vangelo della
liturgia di ieri e che fa da sfondo a tutta la liturgia di oggi.
L’Apocalisse definisce gli ‘adoratori
della bestia’, coloro che rifiutano l’esperienza dell’amore salvatore del
Signore, come coloro che “non avranno
riposo né giorno né notte” (Ap 14,11). Le letture di oggi invece
definiscono i salvati come ‘nel riposo’ di Dio e si prega perché i defunti,
coloro che ci hanno preceduto nel regno di Dio, godano il ‘riposo’ di Dio.
Quel ‘riposo’ allude al compimento di
un atto di creazione particolare. Nel primo racconto della creazione, nel libro
della Genesi, il testo dice che, dopo aver creato tutte le cose: “Dio, nel settimo giorno, portò a compimento
il lavoro che aveva fatto”. Se i sei giorni precedenti non sono bastati a
completare il lavoro, che cosa allora è stato creato il settimo giorno? La
‘menuchà’, la tranquillità, la serenità, la pace e il riposo”, rispondono gli
antichi rabbini (cf. Gen Rabbà, 10, 9). È lo stato in cui non vi è contesa né
lotta, né paura né diffidenza; è felicità, pace e armonia; vita del mondo
futuro, vita eterna.
Quella che Gesù promette quando dice:“Venite a me, voi tutti, che siete stanchi e
oppressi, e io vi darò ristoro”.
Quella che corrisponde all’invito che
il re rivolge a quelli alla sua destra: “Venite,
benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin
dalla fondazione del mondo”. Con il ricevere il regno che è preparato fin
dalla fondazione del mondo, finalmente è svelato il senso del mondo, come la
risurrezione di Gesù svela il senso della sua vita e della nostra. Ciò che da
sempre ha mosso il cuore di Dio ora, finalmente, si vede realizzato. In
effetti, il riposo allude anzitutto alla condivisione dei sentimenti di Dio, al
riposo dell’amore suo che tanta pena si è dato per convincere e conquistare; è
il ristoro che segue l’incontro tra il desiderio di Dio e quello dell’uomo.
La particolarità della liturgia di oggi
è data dal fatto che la chiesa supplica il suo Signore perché quel riposo sia
partecipato da tutti i suoi figli, che intercede presso di lui per tutti loro,
fiduciosa nella misericordia immensa di Dio che si è dato pena per i suoi
figli, nessuno escluso. La supplica procede dalla fiducia nella promessa di Dio
che vuole con sé i suoi figli, ma anche dal desiderio, pieno di speranza, che
finalmente potrà avverarsi, come dice Giobbe: “Dopo che questa mia pelle
sarà strappata via, senza la mia carne, vedrò Dio. Io lo vedrò, io stesso, i
miei occhi lo contempleranno e non un altro”. Se questo desiderio alberga
in ogni cuore, la chiesa supplica perché tutti possano vederlo realizzato,
possano sentirlo finalmente come la verità del loro cuore.
E le letture tratte da s. Paolo
aggiungono che addirittura la nostra stessa carne rifiorirà incorruttibile,
addirittura nella nostra stessa carne sperimenteremo l’amore salvatore del
Signore che dà la vita. È l’altra caratteristica della liturgia di oggi: la
chiesa professa la sua fede nella risurrezione della carne, la sua speranza
nella potenza di Dio che esprimerà la vittoria sulla morte nella nostra stessa
carne.
Un ultimo aspetto vorrei sottolineare.
La liturgia di oggi suscita un grande senso di solidarietà umana. Non si tratta
solo di tenere viva la memoria dei propri cari, ma di fare esperienza di una
solidarietà in umanità che gli affetti sanno custodire. È qualcosa che rivela
la percezione di una realtà misteriosa, ma potente, coinvolgente,
insopprimibile. La radice la ravviso nel brano del giudizio finale narrato da
Matteo. Con il suo giudizio il re manifesterà il segreto dell’agire di Dio fin
dalla fondazione del mondo, lungo tutta la storia. Manifesterà il segreto sul
quale si regge il mondo e che ne costituisce la dignità assoluta: Dio ha voluto
farsi solidale con l’umanità a tal punto che chi tocca l’uomo tocca Dio, chi
onora l’uomo onora Dio, chi disprezza l’uomo disprezza Dio. Tale segreto
rifulge nella vita del Figlio dell’uomo, perché è lui che appare davanti agli
occhi di Dio in ogni uomo. In un baleno apparirà tutta la verità dell’uomo e,
contemporaneamente, tutta la gloria di Dio, che è gloria di amore per noi. La
solidarietà negli affetti parla di questo ‘segreto’ di Dio.
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Terzo ciclo
Anno liturgico A (2007-2008)
Solennità e feste
Dedicazione della Basilica
Lateranense
(9 novembre 2008)
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Ez
47,1-12; Sal 45; 1Cor 3,9-17;
Gv 2,13-22
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"Distruggete
questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere": così risponde Gesù a chi chiede un segno che dimostri la
sua autorità di profeta. Aveva appena scacciato dal tempio mercanti e
mercanzie, aveva rovesciato i banchi dei cambiavalute e buttato fuori tutti.
Evidentemente, se non l'hanno preso per pazzo, aveva dovuto mostrare una forza,
un'irruenza tale da lasciare stupefatti. Nei sinottici, questo passo è situato
dopo l'ingresso trionfale di Gesù a Gerusalemme, ma in Giovanni si pone
all'inizio del ministero di Gesù.
Il brano evangelico allude al sacrificio del
Figlio che sancisce la nuova ed eterna alleanza di Dio con l'uomo e il mistero
è colto sotto l'immagine del tempio.
Gesù è appunto il nuovo tempio.
Chiaramente, quando Gesù caccia dal tempio, più precisamente dal recinto sacro,
i venditori e gli animali, adombra questo aspetto del mistero della sua persona:
non ci saranno più olocausti di animali, ma lui stesso sarà la 'vittima
sacrificale' a Dio gradita, nella cui immolazione sarà sancita la nuova,
definitiva alleanza. I profeti avevano annunciato che sarebbe stato ricostruito
il nuovo tempio. Vedi, ad esempio, Is 44,28 o Zac 1,16. E la nuova costruzione
sarebbe stata più splendida, come dice Aggeo 2,9: "La gloria futura di questa casa sarà più grande di quella di una volta,
dice il Signore degli eserciti; in questo luogo porrò la pace - oracolo del Signore
degli eserciti". Michea 4,1-2 estende per tutti i popoli l'alleanza di
Dio con Israele: "… affluiranno ad
esso i popoli; verranno molte genti e diranno: ‘Venite, saliamo al monte del
Signore e al tempio del Dio di Giacobbe’".
Giovanni diceva nel prologo: " ...
il Verbo era Dio…E il Verbo si fece carne
e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi vedemmo la sua gloria, gloria come di
unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità". Quel 'venne ad
abitare' corrisponde al 'pose la sua tenda, la sua dimora, in mezzo a noi'
poiché oramai è in Gesù che dimora la presenza divina. Lui è la pietra scartata
che diventa testata d'angolo per la nuova costruzione; da Lui scaturisce la
fonte del tempio che risana (cfr. Ez 47), Lui si proclama 'consacrato' proprio nella
festa della dedicazione del tempio (cfr. Gv 10,36). Tempio come Dimora di Dio.
Le acque che sgorgano da sotto la soglia del tempio, nella visione di
Ezechiele, acque che risanano e portano vita ovunque arrivano, alludono
all’acqua che zampilla per la vita eterna che dona Gesù effondendo il suo
Spirito, all’acqua e al sangue che sgorgano dal suo costato sulla croce.
Quando Gesù dichiara: "Distruggete
questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere" parlando del suo corpo,
allude a un duplice mistero:
1) Il tempio, e questa volta non più
solo recinto sacro, ma la parte interiore del tempio, il Santo dei Santi, è
ormai il suo corpo. In Lui abita la pienezza della divinità, in Lui si trova
ogni tesoro di sapienza e scienza, Lui è la via al Padre: tutte espressioni che
sottolineano come la Dimora di Dio in mezzo al suo popolo sia oramai Lui
stesso. E tale rivelazione avviene nel mistero pasquale, nella sua
morte-sepoltura-risurrezione, dove l'amore di Dio per il suo popolo appare così
sconfinato e supremo da fondare la nuova, definitiva, permanente alleanza tra
Lui e gli uomini tutti. La caratteristica del nuovo tempio è che non c’è più il
velo a impedire l’entrata nel Santo dei Santi. Con la morte di Gesù il velo è
squarciato; il che significa che l’intimità del Padre è ormai aperta,
accessibile, proprio attraverso quella ferita da cui sgorga acqua e sangue,
segni della vita nuova, della vita vera, della vita incorruttibile dell’amore
di Dio che si comunica all’uomo e lo rende suo intimo.
2) il suo corpo non è soltanto il suo
corpo fisico, ma il suo corpo mistico, di cui siamo membra, nel quale siamo
innestati e conformati attraverso il battesimo e l'eucaristia. Così, quel Gesù,
morto e risorto per noi, dandosi a noi in cibo (cfr. Gv 6), rende anche noi
'dimora' di Dio. Se Lui è la Dimora di Dio, assumendo Lui come cibo
eucaristico, diventiamo anche noi Dimora di Dio. E avviene di noi quel che
avviene di Lui.
La colletta così fa pregare: “O Padre,
che prepari il tempio della tua gloria, con pietre vive e scelte, effondi sulla
Chiesa il tuo Santo Spirito …”. Ora, la gloria di cui attendiamo la piena
manifestazione e che forma il contenuto della visione nella fede non è che lo
splendore dell’amore di Dio per l’uomo che ha in Gesù la sua cifra assoluta. La
figura del tempio esprime il luogo di quello splendore, che però non si
riferisce a un luogo di pietra, ma a un corpo vivo, alla Chiesa di Dio, a
quella comunione viva e di viventi in Cristo. La festa di oggi rivive la
dimensione mistica dell’immagine del tempio nella sua valenza ecclesiale. La
basilica lateranense, chiesa fatta costruire a Roma da Costantino sotto il
pontificato di Silvestro I (314-335), di cui si celebra oggi la dedicazione, è
venerata come madre di tutte le chiese, essendo la chiesa cattedrale del
vescovo di Roma, segno di unità per tutta la Chiesa. Pietro è colui che
conferma i suoi fratelli nella fede, cioè nella visione di quello splendore
dell’amore di Dio che in Gesù rifulge e ci viene comunicato con il dono del suo
Spirito, Spirito di unità e di comunione.
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Terzo ciclo
Anno liturgico A (2007-2008)
Tempo Ordinario
33a Domenica
(16 novembre 2008)
_________________________________________________
Pro
31,10-31; Sal 127; 1Ts 5,1-6;
Mt 25,14-30
_________________________________________________
Nelle ultime domeniche dell’anno
liturgico la chiesa legge il capitolo 25 di Matteo con le sue tre parabole:
quella delle vergini, dei talenti e del giudizio finale. Le parabole rispondono
al problema di fondo della comunità credente: dato che dobbiamo aspettare il
ritorno del Signore, come predisporsi convenientemente? La parabola delle
vergini terminava con l’invito alla vigilanza. Quella di oggi, dei talenti,
racconta la modalità del vegliare: si rimane vigilanti attraverso una appropriata
operosità. In cosa consista poi concretamente tale operosità sarà il tema della
parabola del giudizio finale. Il padrone che distribuisce i suoi beni e parte
per un lungo viaggio è il Signore Gesù che con la sua
morte-risurrezione-ascensione lascia i suoi discepoli e affida loro i suoi
beni, ciò che di più prezioso ha: i misteri del Regno. Il Signore Gesù non solo
lascia ai suoi la testimonianza più luminosa dell’amore di Dio per l’uomo, ma
infonde in loro la stessa capacità di vivere di quell’amore, come lui stesso è
vissuto, nella potenza dello Spirito che ci ha lasciato in eredità. In quell’
amore, nella luce di quell’amore il discepolo gioca la sua vita. Dice Ilario di
Poitiers: “Il padre di famiglia è lo stesso Signore. La durata del viaggio è il
tempo di pentirsi. Durante il quale sedendo in cielo alla destra di Dio egli ha
accordato a tutto il genere umano il potere di credere e operare secondo il
Vangelo. Così ciascuno ha ricevuto il proprio talento secondo la misura della
fede...” (Commento al vangelo di Matteo, 27,6).
La liturgia incastona l’evento con due
particolari illuminanti. Il canto di ingresso riporta un’espressione del
profeta Geremia che, rivolgendosi agli esiliati a Babilonia, li invita ad
accettare l’esilio senza dare retta ai sogni di quanti predicano una subitanea
liberazione, perché i pensieri del Signore sono diversi: “Io conosco i progetti che ho fatto a vostro riguardo – oracolo del
Signore, progetti di pace e non di sventura, per concedervi un futuro pieno di
speranza. Voi mi invocherete e ricorrerete a me e io vi esaudirò...” (Ger
29,11-12). La vigilanza si regge sul fondamento della promessa del Signore. Il
canto al vangelo indica invece la condizione dell’operosità nella vigilanza: “Rimanete in me e io in voi; chi rimane in me
porta molto frutto” (cf. Gv 15,4-5), eco della promessa con la quale si
chiude il vangelo di Matteo: “Ed ecco, io
sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,20).
Varia è la distribuzione, identica la
ricompensa. L’immagine di fondo è quella del giocare la propria vita nella fede
del Signore Gesù. In particolare, la contrapposizione tra la fedeltà nelle
piccole cose, con cui si gioca la nostra vita e la grandezza incommensurabile
della gioia del Regno che ci verrà donata. Lo specifico della parabola risalta
dal colloquio tra il padrone e il servo che non ha voluto trafficare il talento
e che, volendolo restituire, perde anche quello che aveva. Nell’interpretazione
di alcuni Padri l’esempio dei tre servi allude al credente proveniente dall’Israele
di Dio che, partendo dai cinque libri di Mosè, li ha raddoppiati con la fede
nel Vangelo; al credente venuto dal paganesimo che, confessando nel cuore e con
la bocca la fede nel Signore Gesù, li ha raddoppiati per mezzo delle opere;
all’uomo israelita che non ha voluto accettare l’estensione della
giustificazione ai pagani oppure all’uomo che dedicandosi solo agli affari di
questa vita non ha colto la possibilità del Regno: ha voluto vivere come
sepolto nel mondo e il mondo l’ha seppellito (in parallelo con l’immagine del
sotterrare il talento). Il servo che non traffica il talento si priva di ciò
che possiede: gli è data la vita, ma non la spende e così non la gusta; gli è
data la fede, ma non gli serve a nulla e così vive invano; gli è fatto conoscere
l’amore, ma non se ne avvale per la vita. La ragione? La paura – così almeno
dichiarano le sue parole. Ma la ragione profonda è un’altra. Quando l’uomo teme
di dare se stesso, come nel caso del servo cattivo, in gioco non è
semplicemente la sua ‘pigrizia’ verso gli altri uomini, ma il fallimento della
vita perché dietro la sua pigrizia sta il cattivo giudizio sul padrone, come
ritenesse il padrone causa della sua paura perché troppo esigente. Ma così
ragionando non fa che proclamare che lui non ha mai creduto alla generosità del
suo padrone, non ha mai sperimentato l’amore del Signore e soprattutto che
rifiuta di vedere nell’agire del padrone l’amore per i suoi servi. E così la
vita non assurge mai a quel livello di ‘dignità’ che la rende desiderabile,
feconda e fruttuosa. Quest’uomo non ha mai goduto della promessa di Gesù: “Ed
ecco, io sono con voi tutti i giorni...”; non ha mai gustato quel ‘rimanere’ in
Gesù che gli avrebbe consentito di aprire il cuore all’amore del Signore e di
provare a viverlo insieme ai suoi fratelli.
È d’altronde caratteristico che la
prima lettura, tratta dal libro dei Proverbi, tratteggi l’elogio della donna
‘forte’. In realtà canta la donna ‘operosa’, ma la cui operosità, che riguarda
il fatto di costituire la felicità del marito, la prosperità della sua casa e
la solidarietà con il povero, deriva dal suo ‘temere il Signore’. Timore, che
corrisponde a quello che il canto al vangelo proclama essere la condizione
prima della fruttuosità dell’operare: “Rimanete in me e io in voi...”.
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Terzo ciclo
Anno liturgico A (2007-2008)
Tempo Ordinario
34a Domenica
N.S. Gesù Cristo Re dell’universo
(23 novembre 2008)
_________________________________________________
Ez
34,11-17; Sal 22; 1Cor 15,20-28; Mt 25,31-46
_________________________________________________
La parabola o, meglio, la visione
profetica del giudizio finale, da leggersi in simbiosi con le parabole
precedenti delle vergini e dei talenti, risponde alla domanda: qual è il
contenuto specifico dell’esercizio della vigilanza? Per la sua assoluta
incisività, la rivelazione che la parabola comporta ha come assunto un
significato più largo rispetto alla questione della vigilanza, ma dipende pur
sempre da quel contesto. La collocazione poi del brano nella struttura della
narrazione di Matteo fornisce una luce tutta speciale per la sua comprensione.
Alla parabola segue immediatamente il racconto della passione di Gesù. Quel
Gesù, di cui si comincia a raccontare la passione e la morte in croce, è lo
stesso Figlio dell’uomo che siederà glorioso a giudicare le genti.
Stessa cosa sottolinea la liturgia, che
si introduce con la visione dell’Agnello immolato e glorioso (cf. Ap 5,12;
1,6), canta la figura del buon pastore con il salmo 22 a commento del brano di
Ez 34, ripete con il canto al vangelo l’osanna della folla che vede la venuta
di Gesù a Gerusalemme come il presagio del Regno di Dio che viene (cf. Mc
11,9-10).
Le parole di Gesù non ricalcano i toni
delle visioni apocalittiche che abbondano soprattutto nei testi apocrifi. Il
suo parlare del giudizio finale, per quanto inappellabile e tremendo, non
suscita sgomento o tremore. Comporta una rivelazione che parla al cuore, lo
svelamento di un segreto che ha costituito la promessa della vita. Ciò che è
detto avvenire alla fine dei tempi non ha lo scopo di ‘curiosare’ sulla fine
dei tempi, ma di svelare in quale direzione e prospettiva si vive il tempo
presente, in che cosa si gioca la vita. E ciò che è anzitutto sottolineato è la
rivelazione del sogno di Dio con gli uomini, con gli uomini tutti e con gli
uomini di sempre, indipendentemente dalle loro diversità, anche religiose. In
questo senso, le accentuazioni della parabola segnalano un contesto di
intimità, di tenerezza di rapporto, di scelta precisa di Dio che si svela agli
uomini come la via della realizzazione della loro umanità.
In effetti, il giudizio porta sulla
tensione in umanità che dà la misura dell’utilità
del nostro vivere (ecco il senso della vigilanza!), tensione che è radicata nel
mistero stesso di Dio che vuole confondersi con l’umanità nel bisogno, nei suoi
bisogni fondamentali (aver fame, aver sete, essere straniero, essere nudo,
essere malato, patire). Chi tocca l’uomo tocca Dio. La cosa più straordinaria
sembra essere data dal fatto che la fede in Gesù, più è potente, più cioè fa
vedere e fa vivere le cose nella prospettiva di Dio, meno è cosciente del suo
merito. Come a dire: più è radicale, più vale come solidarietà in umanità, non
distinguendosi in questo da chi assume quella stessa umanità pur senza
riferirsi a Gesù. Ciò che, invece, la fede in Gesù fa presagire è la
condivisione del sogno di Dio, la percezione di quella ‘promessa di vita’ che
costituisce la gioia del cuore dell’uomo.
Se ci si ferma a meditare lungamente
sull’espressione del re: “Venite,
benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin
dalla creazione del mondo”, si colgono infinite sfumature, tutte
particolarmente eloquenti per il nostro cuore. Il tono con cui la frase è
pronunciata è il tono di tutte le Scritture: che il desiderio di Dio si
incontri con quello dell’uomo e si possa gioire insieme. L’atto del ‘separare’
le pecore dalle capre riprende l’atto della creazione come compiendola; il
‘venite’ riprende il desiderio dello sposo e della sposa del Cantico dei
Cantici, l’anelito dello Spirito e della Sposa alla fine dell’Apocalisse,
l’invito di Gesù ai suoi discepoli; ‘benedetti del Padre’ riprende la volontà
di benevolenza di Dio per l’uomo di cui Gesù è il Testimone per eccellenza,
l’elezione di Israele come un mistero di intimità condiviso ed esteso a tutte le
genti; ‘ricevete in eredità il regno’ equivale alla stessa eredità del Figlio
(ciò che Gesù vive ci appartiene e ci costituisce) e allo stesso Figlio che è
costituito nostra eredità; ‘preparato per voi’ corrisponde alla gioia per la
quale Dio si è dato premura, per la quale ha fatto il nostro cuore; ‘fin dalla
creazione del mondo’: da sempre, non esiste altro segreto, altra promessa che
interessi il cuore dell’uomo. Una tale pienezza non può derivare dall’uomo. Per
questo i ‘buoni’ non se ne sentono in diritto, si schermiscono: non si sono mai
sentiti superiori ai loro fratelli, non li hanno mai oppressi, li hanno
soccorsi, hanno condiviso beni e vita con loro, ma senza valutare la possibile
ricompensa. Dio, però, che vede nel segreto, li ricompenserà...
A differenza dei ‘cattivi’, i quali,
nemmeno loro hanno valutato la possibile ‘paga’ per il loro agire, ma, siccome
non hanno condiviso beni e vita con i loro fratelli, ora non possono godere la
gioia di Dio che su quella condivisione è fondata. In effetti, il fuoco non è
preparato per gli uomini, ma per i diavoli e se gli uomini faranno esperienza
del fuoco è perché condividono la scelta del diavolo di non partecipare alla
gioia di Dio, ritenuta inadeguata rispetto alle loro aspettative.
La parabola ha a che fare con la
rivelazione della dignità degli atti umani, definiti in rapporto alla
prossimità in umanità, di cui l’uomo non coglie mai veramente la portata
infinita, perché non può mai cogliere fino in fondo la profondità e
l’assolutezza del mistero dell’amore di Dio che si confonde con i suoi figli,
mistero che porta il sigillo del Figlio dell’uomo, morto e risorto per noi.