Terzo ciclo

Anno liturgico A (2007-2008)

Tempo di Quaresima

 

Domenica delle Palme

(16 marzo 2008)

 

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Ingresso in Gerusalemme        Mt 21,1-11

Messa Is 50,4-7;  sal 21;  Fil 2,6-11;  Mt 26,14-27,66

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L’arrivo a Gerusalemme di Gesù, nella narrazione di Matteo, è preceduto dalla guarigione a Gerico di due ciechi, dei quali si dice: “Gesù si commosse, toccò loro gli occhi e subito ricuperarono la vista e lo seguirono” (in Marco il racconto si riferisce al cieco Bartimeo di cui si dice: “Subito riacquistò la vista e prese a seguirlo per la strada”). Quella strada portava a Gerusalemme. C’è bisogno di aver gli occhi aperti per cogliere il senso dell’arrivare di Gesù a Gerusalemme. Qui porta il suo cammino, qui lo spinge la sua vocazione, qui si compie quel disegno del Padre che Gesù andava illustrando con le sue parole e con i suoi atti, sebbene nessuno, neanche i suoi discepoli, fosse ben consapevole della posta in gioco.

La liturgia di oggi accompagna Gesù nel suo ingresso trionfale a Gerusalemme ma per celebrare, con i testi della messa, l’inizio della sua drammatica passione. Vorrei prima soffermarmi sull’ingresso di Gesù in Gerusalemme e illustrare qualche dettaglio del racconto evangelico.

È caratteristico che in Matteo e Marco Gesù sia chiamato il Signore solo in questa occasione e quasi in sordina: “il Signore ne ha bisogno”, per rispondere a chi si fosse mostrato contrariato del fatto che i suoi discepoli si portavano via l’asina e il puledro. Secondo la profezia messianica di Zaccaria 9,9-10, Gesù entra in città seduto sull’asina, tra i gesti di devozione dei discepoli e della folla che stendevano al suo passaggio i loro mantelli. La scena ha sapore regale perché ricorda la proclamazione di Salomone come re di Israele sulla mula di Davide (1Re 1,33-34); ricorda i patriarchi (Abramo si incammina verso il monte Moria per il sacrificio di Isacco a dorso di asino); richiama il re Messia mite e pacifico, che disdegna i cavalli perché simbolo di guerra.

Nel particolare delle fronde tagliate riecheggia il sal 117,27: “Ordinate il corteo con rami frondosi fino ai lati dell’altare” allorquando i sacerdoti benedicevano i pellegrini che salivano al tempio e dicevano: “Benedetto colui che viene nel nome del Signore … Dona, Signore, la tua salvezza [= Hosanna]”. Anche la folla che accompagna Gesù riprende le parole del salmo: “Osanna al figlio di Davide! Benedetto colui che viene nel nome del Signore! Osanna nel più alto dei cieli!”.

La citazione risulta ancor più misteriosa se si tiene conto dell’antica versione aramaica: “Legate la vittima per la festa con rami frondosi fino ai lati dell’altare”. A Gesù si fa festa perché è la vittima prescelta, ma nessuno ancora lo sa se non lui. L’acclamazione dell’hosanna era già risuonata sulla bocca degli angeli alla nascita di Gesù e risuona ora sulla bocca dei discepoli per la sua morte. Ciò che avviene in Gerusalemme lascia intravedere ciò che avviene nei cieli e ciò che avviene nei cieli è proprio la verità di quanto sta succedendo in Gerusalemme. Solo Gesù evidentemente è consapevole ma di lì a poco se ne renderanno conto tutti, prima in forma drammatica con il rifiuto di quel re mite e pacifico e poi in forma di esultanza con il riconoscimento del Signore risorto, datore di pace e di letizia.

A dire il vero, almeno secondo la narrazione di Giovanni, una persona che si accorge di quanto sta succedendo c’è. È Maria di Betania la quale, il giorno prima dell’ingresso di Gesù in Gerusalemme, fa presagire la sua morte con l’espressione di devozione del suo amore. Soltanto lei, nella tenerezza del suo amore, intuisce il mistero di Gesù. Spezzare quel vasetto di unguento assai prezioso (se la stima di Giuda è realistica, il costo ammonterebbe più o meno allo stipendio di un anno per un operaio), ungere i piedi di Gesù e asciugarli con i suoi capelli finché tutto in quella casa senta di quel profumo, risponde al desiderio di accompagnare Gesù nella sua solitudine. Quel profumo rivela la morte imminente, che nessuno è pronto ad accettare, ma anche tutto l'amore che quella morte significa ed esprime, tutto l'amore che quel corpo 'dato per noi' significa ed esprime. E i Padri antichi hanno visto in quel profumo versato su Gesù il pentimento dei nostri cuori, pentimento che si allarga ed impregna tutto perché l'amore che Gesù ha testimoniato con la sua passione non resti estraneo a niente di noi e perché niente di noi resista a tale amore.

Da oggi e per tutta la settimana santa la prima lettura è tratta dal libro del profeta Isaia. Vengono proclamati i quattro canti del Servo del Signore (cap. 42, 49, 50 e 53) che, insieme al salmo 21, costituiscono le straordinarie testimonianze profetiche della passione di Gesù. Sono quei versetti a costituire la cornice di riferimento per lo svolgimento dei riti santi e sono quei versetti a esprimere la profondità e la tenacia dell’amore di Dio per l’uomo e insieme la tenerezza dell’amore dell’uomo per il suo Dio. Le espressioni sono altamente drammatiche ma l’esito colmo di speranza. Dalle prime parole del salmo: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? Tu sei lontano dalla mia salvezza” si arriva alle ultime, già piene del frutto di grazia ottenuto: “E io vivrò per lui, lo servirà la mia discendenza. Si parlerà del Signore alla generazione che viene; annunzieranno la sua giustizia; al popolo che nascerà diranno: Ecco l’opera del Signore!”. Ma il tragitto passa per momenti estremamente oppressivi: “Ma io sono verme, non uomo, infamia degli uomini, rifiuto del mio popolo … Hanno forato le mie mani e i miei piedi, posso contare tutte le mie ossa…” (sal 21). Parole ancora piene degli echi del profeta Isaia che descrive il Servo del Signore così: “Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire…il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui, per le sue piaghe noi siamo stati guariti” (Is 53). Parole e echi che si concretizzano in quell’uomo, inviato da Dio, vilipeso, schiacciato, deriso, torturato, crocifisso, che noi contempliamo nelle celebrazioni pasquali, il nostro Signore Gesù Cristo, che per noi ha patito, è morto e risorto.