Terzo
ciclo
Anno
liturgico A (2007-2008)
Tempo
di Quaresima
5a Domenica
(9 marzo
2008)
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Ez
37,12-14; Sal 129; Rm 8,8-11;
Gv 11,1-45
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Gesù, che ha
appena saputo della malattia mortale del suo amico Lazzaro, non si muove
subito. Sa che morirà e lui andrà non a guarirlo, ma a svegliarlo dal sonno della morte e lo spiega così ai discepoli: “Questa malattia non è per la morte, ma per
la gloria di Dio, perché per essa il Figlio di Dio venga glorificato”.
Quando Marta, davanti al sepolcro del fratello, come arrendendosi di fronte
alla terribile realtà della morte, ricorda a Gesù il fetore dei morti, si sente
dire: “Non ti ho detto che, se credi,
vedrai la gloria di Dio?”. Sembra che la domanda di fondo che serpeggia per
tutto il brano non sia: perché la morte?, ma: perché Dio ritarda? Perché Dio
non impedisce la morte? L’osservazione assume tutto il suo valore proprio
tenendo conto della conoscenza del potere di Gesù e dell’amore grande che lo
lega ai suoi amici, amore che tutto il racconto rimarca con vari dettagli. La
domanda invece che rimbalza per noi si può formulare così:come possiamo entrare
nella gloria di Dio?
È la stessa
domanda di fondo che muove Tommaso a solidarizzare con Gesù: “Andiamo a morire con lui”. È la stessa
domanda della fede di Marta, che non dice di credere a quanto le ha chiesto
Gesù, ma inaspettatamente dichiara: “Sì,
Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio che deve venire nel
mondo”. In effetti non dice: io credo che tu hai il potere di far risorgere
i morti, ma piuttosto: io credo che tu sei il Figlio di Dio. Afferma la verità
del suo incontro con lui, del suo amore; ha piena fiducia in lui. Non solo, ma
dichiara che di ogni desiderio che porta nel suo cuore colui che glielo farà
realizzare compiutamente è soltanto lui. Per questo potrà vedere la gloria di
Dio. E sarà per questo che potrà seguire il suo Gesù, con sua sorella Maria,
fino alla fine, fino a che la sua glorificazione appaia al mondo.
La colletta fa
pregare: “Vieni in nostro aiuto, Padre misericordioso, perché possiamo vivere e
agire sempre in quella carità che spinse il tuo Figlio a dare la vita per noi”.
Quella carità è il frutto della sua glorificazione che ci viene elargito dallo
Spirito Santo. Il combattimento spirituale, la lotta contro il male, l’acquisto
delle virtù, l’osservanza dei comandamenti altro non è che una partecipazione
alla potenza della risurrezione, allorché la vita viene vissuta nella carità
del Cristo che niente e nessuno può mortificare. È il principio della vita
eterna, quello di una vita che non abbia altra consistenza se non come carità.
L’incontro con Gesù apre a questa dimensione. Se lui è ‘datore di vita’ lo è perché,
facendo vivere nella sua carità, impedisce alla morte di tenere prigioniero il
nostro cuore.
Ireneo l’aveva
proclamato stupendamente: “La gloria di Dio è l’uomo vivente, e la vita
dell’uomo è la visione di Dio” (Adv. Haer. IV,20,7). L’uomo vivente non indica
semplicemente l’uomo che vive la sua vita biologica, ma l’uomo che vive secondo
le potenzialità di cui è stato dotato nella sua capacità di accogliere la vita
di Dio, come rivela il prologo del vangelo di Giovanni: “A quanti però l' hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di
Dio: a quelli che credono nel suo nome, i quali non da sangue, né da volere di
carne, né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati” (Gv 1,12-13). E
la testimonianza a proposito di questa vita la si desume dall’esperienza: “e noi vedemmo la sua gloria, gloria come di
unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità” (Gv 1,14).
Il nostro
gridare, nel salmo responsoriale, a commento del passo di Ezechiele che riporta
la promessa di Dio di aprire le nostre tombe: “Dal profondo a te grido, o Signore; Signore, ascolta la mia voce”,
deriva dalla coscienza della nostra mortalità,
non semplicemente come termine della vita biologica, ma come abisso della
mortificazione della vita che stenta ad accedere alla carità di Dio. Quella
‘mortificazione della vita’ vince il Signore. È interessante osservare che
l’episodio della risurrezione di Lazzaro si chiude non con il riconoscimento o
l’incontro affettuoso di Lazzaro con Gesù, ma con il comando: “Scioglietelo e lasciatelo andare”.
Corrisponde all’invito di Gesù, dopo i miracoli di guarigione: ‘va’, la tua
fede ti ha salvato’. Venire a Gesù (questo potrebbe anche voler significare il
grido di Gesù: Lazzaro, vieni fuori!) comporta vivere della sua vita, della
vita che lui può dare e lo spazio di espressione di questa vita è ormai dato
dalla fraternità che si vive nel mondo. A questa Gesù rimanda.
Un’ultima
annotazione. Con il miracolo della risurrezione di Lazzaro Gesù scatena la sua
ora, come la finale del capitolo sottolinea espressamente: “Ma uno di loro, di nome Caifa, che era sommo
sacerdote in quell' anno, disse loro: "Voi non capite nulla e non
considerate come sia meglio che muoia un solo uomo per il popolo e non perisca
la nazione intera". Questo però non lo disse da se stesso, ma essendo
sommo sacerdote profetizzò che Gesù doveva morire per la nazione e non per la
nazione soltanto, ma anche per riunire insieme i figli di Dio che erano
dispersi” (Gv 11,49-52). Lo scopo e la ragione del suo agire, sottolineato
dal potere di fare miracoli, di cui questo della risurrezione di Lazzaro è il
settimo nel racconto di Giovanni, si manifesteranno chiaramente con la sua
stessa morte e risurrezione.
Se Gesù non ha
voluto risparmiare la prova ai suoi amici e viene a condividerla, tanto da
restarne intimamente e profondamente scosso, la ragione è da ricercare nel
fatto che così facendo si espone alla sua
prova, anzi la provoca con l'arresto e la morte imminenti. Ma la sua non è una semplice condivisione
della sofferenza umana. Il suo rendere grazie l'attraversa, la porta fino in
fondo. È però più forte della morte e se esulta, non è per aver impedito il suo
corso, ma per aver trionfato su di essa dopo averle lasciato esprimere tutto il
suo potere.