Terzo ciclo

Anno liturgico A (2007-2008)

Tempo di Pasqua

 

4a Domenica

(13 aprile 2008)

 

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At 2,36-41;  Sal 22;  1Pt 2,20-25;  Gv 10,1-10

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La liturgia di questa domenica è intessuta sull’immagine del buon pastore (cfr. Sal 22; 1Pt 2,25; canto al vangelo e colletta), sebbene il brano di vangelo si incentri più semplicemente sulla figura della porta: “in verità, in verità io vi dico: io sono la porta delle pecore”. Porta, che dà accesso a ‘pascoli e acque tranquille’, dove trovare vita e vita in abbondanza. Il brano appartiene a uno dei discorsi di Gesù con i Giudei, che nel vangelo di Giovanni costituiscono, insieme agli avvenimenti della vita di Gesù, la trama narrativa della rivelazione del Figlio di Dio. A noi che non siamo più familiari con le Scritture, a differenza di quei Giudei che interrogavano Gesù proprio a partire dalle Scritture, le parole di Gesù sembrano semplicemente illustrare attraverso immagini ben scelte un certo insegnamento. La forza però delle parole di Gesù, che quei Giudei sembrano cogliere nella loro reale portata anche se poi respingono colui che le ha proferite, sta nel fatto che lui si attribuisce la prerogativa tipica di Dio, con l’intensità tutta speciale dovuta alla rivelazione ultima e definitiva di Dio che compie finalmente le sue promesse.

Solo Dio è il pastore di Israele; solo lui guida il suo popolo perché se l’è scelto, l’ha posto in essere, gli testimonia il suo amore di predilezione e ne esige la santità corrispondente. Ogni altro che ambisce a pascere Israele a titolo proprio è ladro e brigante. Quando Dio affidava la cura del suo popolo a certi capi, affidava la sua parola a certi profeti perché il popolo ritornasse a lui, sua comunque era la signoria sul suo popolo, lui solo era la guida e lui solo il popolo riconosceva (lo riconosceva nel senso che solo da Dio derivava il bene e la felicità per se stesso). Basta riandare al cap. 34 di Ezechiele dove tutta la tensione di comunione-comunanza tra Dio e il suo popolo si incentra sull’invio del Re Messianico, del nuovo Davide, quando Dio si rivelerà compiutamente come Pastore di Israele.

Quando Gesù dice che il pastore delle pecore entra per la porta, vuol alludere al fatto che il Padre in lui si fa vedere e in nessun altro: “Dio nessuno l' ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato” (Gv 1,18); “Chi vede me, vede colui che mi ha mandato” (Gv 12,45). In lui Dio stesso si rivela e giunge a pascere le sue pecore. E quello che Dio fa, anche lui lo fa: lui è il pastore (non solo la porta, come dirà più avanti), come Dio; lui dà la vita, come Dio … Gesù è la porta nel senso che lui è l’accesso al cielo; in lui il cielo si apre sul mondo e il mondo si apre sul cielo. L’episodio del battesimo al Giordano è assolutamente rivelativo: si aprono i cieli, discende lo Spirito, si ode la voce del Padre che lo dichiara prediletto, luogo della sua compiacenza. Gesù è porta tanto da parte di Dio (lui solo, che ha visto il Padre, lo può rivelare) quanto da parte dell’uomo (lui solo costituisce la chiave di senso che manca all’agire dell’uomo perché lui solo lo apre in verità al compimento della sua vocazione all’umanità come rivelazione di Dio nel mondo). Per questo Gesù dice di sé che è venuto a dare la vita in abbondanza, quella vita che costituisce il supremo desiderio dell’uomo. Non semplicemente la vita, ma la vita in abbondanza, ad indicare quella certa qualità di vita che sola colma i desideri dell’uomo, fatto per Dio.

La sua venuta è finalizzata proprio a dare la vita eterna, la vita abbondante. In ciò si compie il desiderio di comunione di Dio con gli uomini e il desiderio di appartenenza degli uomini a Dio. Quando il salmo 22 proclama che il pastore fa riposare le pecore in pascoli erbosi e presso acque tranquille, allude proprio al dono della vita eterna, sovrabbondante. Le acque tranquille, le acque di ‘menuchot’, richiamano la creazione del riposo/ristoro nel settimo giorno della creazione. Il testo della Genesi, dopo aver narrato la creazione di tutte le cose, dice: “Il settimo giorno Dio terminò la sua opera”. Ma non era più logico attendersi che avesse terminato la sua opera nel sesto giorno? Gli antichi rabbini hanno concluso evidentemente che vi fu un atto di creazione anche il settimo giorno: “Che cosa è stato creato il settimo giorno? La ‘menuchà’, la tranquillità, la serenità, la pace e il riposo” (Cfr Gen Rabbà, 10, 9). È lo stato in cui non vi è contesa né lotta, né paura né diffidenza; è felicità, pace e armonia; vita nel mondo futuro, vita eterna. Proprio quella ‘vita abbondante’ che Gesù riconsegna agli uomini che lo accolgono. È la gioia di un amore che non sarà più mortificato da nulla, amore che, testimoniato nel suo splendore sul calvario, è donato come Spirito di vita agli uomini che nel ‘crocifisso’ colgono il compimento della promessa di Dio per l’uomo.

A quel dono anelano gli ascoltatori che hanno seguito il discorso di Pietro a Pentecoste sentendosi trafiggere il cuore: “Che cosa dobbiamo fare, fratelli?”. “Convertitevi”: tornate alla promessa di Dio che si è compiuta in quel ‘trafitto’, morto e risorto; tornate a sentirvi destinatari della promessa di Dio che ha fatto risplendere il quel ‘trafitto’ lo splendore del suo amore salvatore, riunendo – come buon pastore – i figli di Dio dispersi. Tornate a dar credito alla potenza salvatrice di Dio che per mezzo di quel ‘trafitto’ ha realizzato la sua promessa di vita, la quale non è che l’offerta incondizionata della sua comunione perché tutto e tutti possano godere del suo amore.