Terzo ciclo

Anno liturgico A (2007-2008)

Tempo Ordinario

 

3a Domenica

(27 gennaio 2008)

 

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Is 8,23-9,3;  Sal 26;  1Cor 1,10-17;  Mt 4,12-23

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La liturgia di oggi, giocando su alcune immagini di fondo, suggerisce diverse porte di accesso al brano evangelico. Consideriamo l’immagine della luce. Gesù è presentato alle prese con l’inizio della sua predicazione in Galilea, dopo l’investitura del battesimo e il superamento delle tentazioni. L’evangelista Matteo, che molte volte si premura di collegare gli eventi evangelici al mondo delle Scritture per offrirne la retta comprensione, si rifà a un testo del profeta Isaia che descrive i territori del nord della Palestina lungo la via che i vari conquistatori percorrevano per estendere i loro domini, la via tra l’Egitto e l’Assiria, i due imperi antagonisti. Un territorio di popolazioni miste perché soggetto a deportazioni e vassallaggi. Il profeta però esorta alla fiducia perché l’angoscia degli abitanti di quel territorio si trasformerà in esultanza per la venuta di un nuovo re liberatore (“un bambino è nato per noi, ci è stato dato un figlio”, Is 9,5), che la liturgia canta il giorno di Natale. La luce che gli abitanti vedranno è la luce di colui che Giovanni descriverà nel prologo del suo vangelo: “In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini … veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo” [reso forse meglio: il Verbo era la vera luce che, venendo nel mondo, illumina ogni uomo].

Il salmo responsoriale riprende la stessa immagine: “Il Signore è mia luce e mia salvezza”. E così, quando Matteo descrive la predicazione di Gesù, la colloca nella prospettiva di questa luce che splende, luce che si esprimerà nel discorso della montagna, con l’annuncio delle beatitudini, che segue subito dopo.

Sempre in riferimento a quella luce va compreso l’annuncio: “Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino”. Convertirsi è vedere quella luce che splende. Non si tratta però di una visione materiale perché all’esterno non si vede nulla di particolare. La luce induce alla conversione ma è la conversione che permette di vedere lo splendore di quella luce. La luce che induce alla conversione è la percezione della potenza che abita quel Maestro, tanto da andargli dietro se ti chiama, come hanno fatto gli apostoli. Come se si dicesse: se volete che il regno di Dio diventi vostro, convertitevi, cioè acconsentite alla visione che scaturisce dalla fede nel Figlio di Dio. Il convertirsi comporta prima di tutto un dare fiducia, un affidarsi, un prestar fede alla promessa di Dio, alla potenza della sua parola, potenza di verità e di vita lasciata a noi perché diventi nostra. Solo in un secondo momento la conversione comporta un valore morale, nel senso di una disciplina del vivere che corrisponda e fortifichi nello stesso tempo il desiderio del cuore.

Gregorio Magno, commentando la prontezza dei pescatori a seguire la chiamata di Gesù, riflette sul fatto che a dire il vero quegli uomini avevano ben poco da lasciare essendo poveri. Ma, aggiunge “ha molto lasciato chi non ha tenuto nulla per sé”. È appunto il senso della fede genuina. Non importa lasciare poco o tanto; l'importante è non conservare nulla per sé, vale a dire fidarsi fino in fondo, con tutto il cammino, con tutte le fatiche che questo comporta, in modo che la grazia dell'incontro possa rivelare tutti i suoi frutti, nel tempo.

Se ora riflettiamo sul significato della chiamata degli apostoli non si può non notare il fatto che non sono stati chiamati semplicemente alla sequela di Gesù, ma alla sequela di Gesù che è inviato a portare a tutti la salvezza e la consolazione (vi farò pescatori di uomini). Seguire Gesù comporta un’esperienza di vita, la condivisione del suo insegnamento e della sua missione; dice prima di tutto quanto l’intimità di vita con il Signore sia sconfinata nel senso che non può ripiegarsi su se stessa ma continuamente si traduce in condivisione della misericordia di Dio per l'umanità. L'intimità con Dio comporta sempre una buona dose di sana angoscia per i propri fratelli e per questo non sta mai ferma: fin dove c'è un uomo, fin dove c'è un livello di umanità non ancora aperto alla grazia dell'incontro, fin dove c'è una malattia da curare, l'apostolo, come Gesù, non si dà pace. Più profonda è la pace che viene dalla grazia dell'incontro, meno pace si dà finché tutti i fratelli possano godere della stessa grazia. Il senso del guarire ogni sorta di malattie e di infermità da parte di Gesù in missione, come avverrà per gli apostoli inviati in missione (imporranno le mani ai malati e questi guariranno, Mc 16,18), è proprio questo: condividere la misericordia di Dio per l’umanità.

Un altro particolare della chiamata degli apostoli è estremamente significativo. Gesù li chiama non semplicemente a seguirlo, ma a mettersi dietro a lui, come poi dirà Gesù a Pietro quando lo rimprovererà per aver pensato non secondo Dio: “Ma egli, voltandosi, disse a Pietro: Lungi da me, satana! [da intendersi: vieni dietro a me]. Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!” (Mt 16,23). Quel mettersi dietro a corrisponde a quanto il salmo fa dire al fedele: “Una cosa ho chiesto al Signore, questa sola io cerco: abitare nella casa del Signore tutti i giorni della mia vita”. Qual è la nostra domanda al Signore? Qual è l’unica cosa necessaria da domandare? Tutto dipende dalla profondità che nei nostri cuori ha raggiunto la conversione al  vangelo del regno, di cui ci ha fatto vedere lo splendore da indurci a rivestircene.