Terzo ciclo
Anno liturgico A (2007-2008)
Tempo Ordinario
33a Domenica
(16 novembre 2008)
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Pro
31,10-31; Sal 127; 1Ts 5,1-6;
Mt 25,14-30
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Nelle ultime domeniche dell’anno
liturgico la chiesa legge il capitolo 25 di Matteo con le sue tre parabole:
quella delle vergini, dei talenti e del giudizio finale. Le parabole rispondono
al problema di fondo della comunità credente: dato che dobbiamo aspettare il
ritorno del Signore, come predisporsi convenientemente? La parabola delle
vergini terminava con l’invito alla vigilanza. Quella di oggi, dei talenti,
racconta la modalità del vegliare: si rimane vigilanti attraverso una
appropriata operosità. In cosa consista poi concretamente tale operosità sarà
il tema della parabola del giudizio finale. Il padrone che distribuisce i suoi
beni e parte per un lungo viaggio è il Signore Gesù che con la sua
morte-risurrezione-ascensione lascia i suoi discepoli e affida loro i suoi
beni, ciò che di più prezioso ha: i misteri del Regno. Il Signore Gesù non solo
lascia ai suoi la testimonianza più luminosa dell’amore di Dio per l’uomo, ma
infonde in loro la stessa capacità di vivere di quell’amore, come lui stesso è vissuto,
nella potenza dello Spirito che ci ha lasciato in eredità. In quell’ amore,
nella luce di quell’amore il discepolo gioca la sua vita. Dice Ilario di
Poitiers: “Il padre di famiglia è lo stesso Signore. La durata del viaggio è il
tempo di pentirsi. Durante il quale sedendo in cielo alla destra di Dio egli ha
accordato a tutto il genere umano il potere di credere e operare secondo il
Vangelo. Così ciascuno ha ricevuto il proprio talento secondo la misura della
fede...” (Commento al vangelo di Matteo, 27,6).
La liturgia incastona l’evento con due
particolari illuminanti. Il canto di ingresso riporta un’espressione del
profeta Geremia che, rivolgendosi agli esiliati a Babilonia, li invita ad
accettare l’esilio senza dare retta ai sogni di quanti predicano una subitanea
liberazione, perché i pensieri del Signore sono diversi: “Io conosco i progetti che ho fatto a vostro riguardo – oracolo del
Signore, progetti di pace e non di sventura, per concedervi un futuro pieno di
speranza. Voi mi invocherete e ricorrerete a me e io vi esaudirò...” (Ger
29,11-12). La vigilanza si regge sul fondamento della promessa del Signore. Il
canto al vangelo indica invece la condizione dell’operosità nella vigilanza: “Rimanete in me e io in voi; chi rimane in me
porta molto frutto” (cf. Gv 15,4-5), eco della promessa con la quale si
chiude il vangelo di Matteo: “Ed ecco, io
sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,20).
Varia è la distribuzione, identica la
ricompensa. L’immagine di fondo è quella del giocare la propria vita nella fede
del Signore Gesù. In particolare, la contrapposizione tra la fedeltà nelle
piccole cose, con cui si gioca la nostra vita e la grandezza incommensurabile
della gioia del Regno che ci verrà donata. Lo specifico della parabola risalta
dal colloquio tra il padrone e il servo che non ha voluto trafficare il talento
e che, volendolo restituire, perde anche quello che aveva. Nell’interpretazione
di alcuni Padri l’esempio dei tre servi allude al credente proveniente
dall’Israele di Dio che, partendo dai cinque libri di Mosè, li ha raddoppiati
con la fede nel Vangelo; al credente venuto dal paganesimo che, confessando nel
cuore e con la bocca la fede nel Signore Gesù, li ha raddoppiati per mezzo
delle opere; all’uomo israelita che non ha voluto accettare l’estensione della
giustificazione ai pagani oppure all’uomo che dedicandosi solo agli affari di
questa vita non ha colto la possibilità del Regno: ha voluto vivere come
sepolto nel mondo e il mondo l’ha seppellito (in parallelo con l’immagine del
sotterrare il talento). Il servo che non traffica il talento si priva di ciò
che possiede: gli è data la vita, ma non la spende e così non la gusta; gli è
data la fede, ma non gli serve a nulla e così vive invano; gli è fatto
conoscere l’amore, ma non se ne avvale per la vita. La ragione? La paura – così
almeno dichiarano le sue parole. Ma la ragione profonda è un’altra. Quando
l’uomo teme di dare se stesso, come nel caso del servo cattivo, in gioco non è
semplicemente la sua ‘pigrizia’ verso gli altri uomini, ma il fallimento della
vita perché dietro la sua pigrizia sta il cattivo giudizio sul padrone, come
ritenesse il padrone causa della sua paura perché troppo esigente. Ma così
ragionando non fa che proclamare che lui non ha mai creduto alla generosità del
suo padrone, non ha mai sperimentato l’amore del Signore e soprattutto che
rifiuta di vedere nell’agire del padrone l’amore per i suoi servi. E così la
vita non assurge mai a quel livello di ‘dignità’ che la rende desiderabile,
feconda e fruttuosa. Quest’uomo non ha mai goduto della promessa di Gesù: “Ed
ecco, io sono con voi tutti i giorni...”; non ha mai gustato quel ‘rimanere’ in
Gesù che gli avrebbe consentito di aprire il cuore all’amore del Signore e di
provare a viverlo insieme ai suoi fratelli.
È d’altronde caratteristico che la
prima lettura, tratta dal libro dei Proverbi, tratteggi l’elogio della donna
‘forte’. In realtà canta la donna ‘operosa’, ma la cui operosità, che riguarda
il fatto di costituire la felicità del marito, la prosperità della sua casa e
la solidarietà con il povero, deriva dal suo ‘temere il Signore’. Timore, che
corrisponde a quello che il canto al vangelo proclama essere la condizione
prima della fruttuosità dell’operare: “Rimanete in me e io in voi...”.