Terzo ciclo

Anno liturgico A (2007-2008)

Tempo Ordinario

 

30a Domenica

(26 ottobre 2008)

 

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Es 22,20-26;  Sal 17;  1Ts 1,5-10;  Mt 22,34-40

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Per cogliere la portata della risposta di Gesù la liturgia di oggi ci offre varie porte di accesso. Il brano evangelico risponde a due grosse domande che serpeggiano nel nostro cuore: 1) che tipo di amore Dio ci richiede se ci comanda di amare? È possibile in verità comandare di amare? 2) dato che il comandamento riguarda l’agire, interiore e esteriore, allora cosa cerchiamo con il voler osservare il comandamento?

Notiamo anzitutto le due novità nella formulazione evangelica di Matteo. Era usuale nell’ambiente rabbinico la domanda attorno al comandamento grande, a quale fosse il primo comandamento, come del resto era generalmente accettata la risposta di Gesù che si basava su Dt 6,5 e Lv 19,18 (cf. anche i passi paralleli, nel contesto più cordiale di Mc 12,28-34 e Lc 10,25-28). La prima novità di Gesù sta nel raccordare i due comandamenti, dichiarando il secondo simile al primo. L’altra novità consiste nell’uscire dallo schema di riferimento usuale per le Scritture con il porre i Profeti sullo stesso piano della Legge, con l’allusione all’unità delle Scritture che in lui trova ormai la sua chiave di lettura.

L’allusione a un nuovo modo di accostarsi alle Scritture, come il raccordo tra i due comandamenti, hanno a che fare con la rivelazione che da lui procede, che attraverso di lui si compie. C’è una tensione di compimento dietro le sue parole, tensione che la liturgia insegna a intravedere con il canto di ingresso, il salmo responsoriale e il canto al vangelo. Di quale Dio ci si fa comando di amare? È il Dio dell’alleanza, per la gioia che ci procura e per la forza che ci infonde, come canta l’antifona di ingresso: “Gioisca il cuore di quanti cercano il Signore. Cercate il Signore e la sua potenza, cercate sempre il suo volto”, presa dal salmo 104, che può essere definito la celebrazione della fedeltà di Dio. I comandamenti si accolgono perché si è sperimentato come Dio sia la nostra forza. Recita il ritornello del salmo responsoriale: “Ti amo, Signore, mia forza”, dal salmo 17, con il quale si canta l’amore di Dio per noi che dall’alto ci tende la mano e che si abbassa a noi per farci grandi. I comandamenti hanno dunque a che fare con l’esperienza di una storia sacra, di una nostalgia vicendevole tra Dio e l’uomo; non sono imperativi categorici o religiosi, ma alludono alla possibilità per noi di vivere e gustare quell’alleanza che ci precede e ci accompagna (cf. la prima lettura, tratta dal codice dell’alleanza). I comandamenti rimandano ad un’esperienza gioiosa, che la colletta interpreta facendoci pregare: “O Padre, che fai ogni cosa per amore e sei la più sicura difesa degli umili e dei poveri, donaci un cuore libero da tutti gli idoli ...”.

Ma la novità di Gesù fa intravedere una dimensione ancora più misteriosa e più potente. Il brano evangelico è introdotto dal canto al vangelo tratto da Gv 14,23: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui”. Il comandamento allude a una possibile rivelazione, la rivelazione del volto di Dio al nostro cuore. Ma la rivelazione è data dalla osservanza o da altro? L’abbinamento del passo di Giovanni al brano di Matteo vuol significare che non è la pratica a produrre la rivelazione, ma l’amore che presiede alla pratica e che alla pratica conduce. Perché? Nella risposta a questo interrogativo si cela anche la ragione dell’abbinamento dei due comandamenti nella sequenza che dà Gesù: Dio, prima e il prossimo, dopo, sebbene non ci sia alcuna distanza tra i due.

La frase di Gv 14,23 costituisce la risposta di Gesù alla domanda dell’apostolo Giuda: “Signore, come è accaduto che devi manifestarti a noi, e non al mondo?”. Una manifestazione che procede da un amore è ravvisabile da chi non partecipa a questo amore? Poco prima Giovanni aveva scritto: “Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama” (14,21). Frase che si contrappone all’altra, a conclusione del discorso di Gesù: “... viene il principe del mondo; contro di me non può nulla, ma bisogna che il mondo sappia che io amo il Padre” (14,30). Purtroppo la traduzione italiana non fa cogliere la contrapposizione, che è essenziale per comprendere il ragionamento di Gesù. La contrapposizione riguarda la frase: ‘chi ha i miei comandamenti...’(v. 21) e l’altra: ‘in me non ha nulla’ (v. 30). Chi ha l’esperienza dell’amore del Padre, chi fa l’esperienza dell’essere amato dal Padre, non ha bisogno di nulla e nulla cerca per sé: pratica i comandamenti che sono l’espressione di questo amore nel tempo e nello spazio e niente e nessuno gli può sottrarre questo amore. Solo in Gesù questo si compie assolutamente, ma la promessa di Gesù è che la stessa cosa varrà per i discepoli, se stanno in lui. Così i comandamenti hanno a che vedere con il fatto che ‘bisogna che il mondo sappia che io amo il Padre’. Vale a dire: la pratica dei comandamenti è in funzione del fatto che il mondo possa scoprire l’amore del Padre e così vivere la dimensione della fraternità nella sua radicale luminosità.

Così il senso dell’amore al prossimo sta tutto nel fatto di far ‘sapere al mondo’ che l’amore del Padre è per loro. Per questo, se il primo comandamento esprime la radice di un’umanità che ha scoperto l’amore del Padre, il secondo ne segnala l’orizzonte di tensione, perché l’amore del Padre è per il mondo. E in questo possiamo abbozzare la risposta anche alle prime due domande: il comando dell’amore procede da un’intimità e dalla ‘reazione’ a un’offerta al cui fascino non ci si può sottrarre; lo scopo della pratica del comandamento non è in funzione della mia perfezione, ma dello splendore dell’amore del Padre che a tutti è rivolto e di cui posso ammirare l’accondiscendenza per noi.