Terzo
ciclo
Anno
liturgico A (2007-2008)
Tempo
Ordinario
27a Domenica
(5 ottobre
2008)
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Is
5,1-7; Sal 79; Fil 4,6-9; Mt 21,33-43
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Forse, più che
una parabola, il brano evangelico di oggi esprime un’allegoria profetica. Ciò
rende ancora più drammatico il contesto narrativo, come la conclusione, tirata
dagli stessi ascoltatori, capi dei sacerdoti e anziani del popolo, lascia
perfettamente intendere. Avviene come nel caso di Davide, dopo il peccato di
adulterio e assassinio, il quale si condanna con le sue stesse parole
rispondendo all’apologo del profeta Natan (cfr. 2Sam 12,1-13). L’intensità
emotiva dello scontro non deriva però dall’ira, ma da una passione d’amore, la stessa passione d’amore di Dio per il suo
popolo per il quale non si stanca mai di tornare alla carica.
Il testo di
Matteo si dovrebbe leggere in parallelo con quello corrispondente di Luca
20,9-19 dove alcuni particolari risultano particolarmente illuminanti. Si veda,
ad esempio, nel testo di Luca, come i vignaioli percuotono, insultano,
feriscono i servi ( = i profeti) mandati dal padrone della vigna, ma solo del
figlio del padrone si dice che lo uccidono; il figlio è presentato come il
figlio dilettissimo. Come non cogliere il valore profetico di questi
particolari applicati a Gesù stesso, lui, il Figlio prediletto, come viene
testimoniato dalla voce al battesimo e alla trasfigurazione?
Il tono
d’insieme della parabola, nonostante l’asprezza delle espressioni, è dato dalla
citazione del profeta Isaia dell’inizio, ripresa dalla prima lettura.
L’immagine dell’uomo che pianta una vigna, la circonda di cure e si attende di
raccoglierne i frutti è l’immagine di Dio che, preso d’amore per il suo popolo,
stabilisce un’alleanza con lui, vuol condividere con lui il suo Bene. Il legame
è così profondo che l’immagine assume sfumature ‘coniugali’ ad indicare la
profondità e la totalità di questa passione d’amore. Così, quando il popolo si
ribella e non lo segue, Dio si sentirà ferito non solo nel suo diritto e nella
sua proprietà, ma nei suoi affetti, nel suo cuore. Gesù sfrutta questa immagine
celebre del profeta Isaia che canta per Dio l’inno d’amore per il suo popolo.
Non per nulla,
il canto al vangelo introduce il brano con l’espressione giovannea: “Io ho scelto voi, perché andiate e portiate
frutto e il vostro frutto rimanga” (Gv 15,16). In quel scegliere occorre
ravvisare tutta la passione d’amore di Dio per l’uomo; Dio sceglie (= pianta la vigna del suo regno, manda a lavorare nella
vigna, offre la stessa paga a chiunque accetti di andarvi a lavorare) per
raccogliere il frutto, che è la sua conoscenza in intimità; il frutto rimane
nel senso che quella conoscenza è l’eredità di tutti, vissuta in solidarietà
con tutti, finché tutti possano riconoscere e vivere dell’amore di Dio per
l’uomo.
Così, quando
Gesù, applicandosi il sal 118,22-23 (“La
pietra che i costruttori hanno scartata è diventata testata d’angolo; dal
Signore è stato fatto questo ed è mirabile agli occhi nostri”) esprime il
suo giudizio: “Perciò vi dico: vi sarà
tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che lo farà fruttificare”,
non intende certo escludere gli israeliti dal suo regno (che passione d’amore
sarebbe per il suo popolo!) e darlo ai pagani, alla chiesa dei gentili, ma
intende far prevalere la logica della rivelazione di tutte le Scritture:
l’elezione è in vista di portare la conoscenza di Dio nel mondo perché tutti
godano dello stesso amore. Gesù è colui che questa elezione vive nella sua carne al massimo grado possibile e perciò
costituisce, dalla parte di Dio e dalla parte dell’uomo, colui che ne mostra lo
splendore di amore che l’ha originata e di cui ne sostiene la dinamica.
La frase
possiede anche un’altra sfumatura. La vigna del Signore porterà comunque
frutto, come a dire: il regno di Dio sazierà, ma io posso restarne privo; la
promessa di Dio non resterà vana, ma in me potrebbe risultare inefficace. Il
fatto è che ci saranno sempre ascoltatori fedeli, testimoni santi che
illustreranno la potenza della promessa di Dio, che ce la faranno gustare e
desiderare: non verrà mai meno il popolo santo. Ma io accetterò di farne parte?
Il dramma
dell’uomo si può intravedere proprio nel rispondere a quella domanda. Nella
parabola si leggono tra le righe aspetti che suonano tragici. Il ragionamento
dei vignaioli alla vista del figlio mandato dal padrone ‘costui è l’erede; venite, uccidiamolo, e avremo noi l’eredità’ ne è
un esempio. Ma se proprio il Figlio è stato inviato per metterci in possesso
della nostra eredità (cfr. Gal 4,4-7), come possono questi illudersi di
ottenere diversamente quello che già era stato loro destinato? Spesso ci si
ritrova nella vita in tale posizione: volere a tutti i costi un certo
risultato, senza immaginare nemmeno che ci verrebbe dato in dono se solo lo
sapessimo accogliere dalle mani di Dio! I nostri desideri di gioia, di
felicità, di fraternità, non sono forse così spesso disattesi dai nostri
comportamenti? Il nostro guardare al Figlio
non è forse così spesso appiattito sulle pretese che avanziamo senza poter mai
aver sentore della bontà di quell’amore che in Lui ci viene donato? L’amore di
Dio non risponde al buon senso, non è contenuto nei limiti del giusto; è
proprio folle, folle come quel padrone che, dopo aver visti picchiati e
scacciati i suoi servi, non teme di mandare il suo unico figlio. Lui, almeno,
lui sì che non deluderà le sue attese, Lui sì resterà sempre testimone di
quell’amore folle proprio nel subire la morte e poter riscattare, con la sua
risurrezione che lo rende pietra angolare per tutti, la malvagità di quei
vignaioli, la nostra malvagità di uomini peccatori.