Terzo
ciclo
Anno
liturgico A (2007-2008)
Tempo
Ordinario
23a Domenica
(7 settembre
2008)
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Ez
33,7-9; Sal 94; Rm 13,8-10;
Mt 18,15-20
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Possiamo entrare
nella liturgia di oggi dall’affermazione di Paolo: “pienezza della Legge infatti è la carità”, ripresa
dell’affermazione precedente: “chi ama
l’altro ha adempiuto la Legge”. Dire ‘compimento’, ‘pienezza’, significa
alludere non alla punta di una virtù umana, costituita dall’osservanza della
legge, ma all’ispirazione divina, alla potenza divina che opera in noi
nell’obbedienza alla legge allargando i confini della nostra umanità sulla
misura divina che in Gesù diventa accessibile. Paolo dice appunto: ‘chi ama
l’altro’, dove altro sta per straniero e non semplicemente ‘chi ama il
prossimo’ per allargare l’impostazione della legge che esigeva l’amore del
prossimo entro l’appartenenza ad uno stesso popolo (“Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo
popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso”, Lev 19,18) e compierne
l’anelito di fondo che riguardava la condivisione dei sentimenti di Dio per
l’umanità (“Ora, Israele, che cosa ti
chiede il Signore tuo Dio, se non che tu tema il Signore tuo Dio, che tu
cammini per tutte le sue vie, che tu l' ami e serva il Signore tuo Dio con
tutto il cuore e con tutta l' anima...”, Dt 10,12).
Paolo parla di
carità come dell’unico debito da vivere verso gli uomini perché, assolto ogni
altro debito di lealtà, di onestà, di onore, sia a livello sociale che
personale, verso tutti, resta pur sempre nei loro confronti un debito che non
potrà mai essere assolto completamente, il debito appunto della carità. Ma quel
debito è percepito tale se la carità riguarda la condivisione del segreto di
Dio che vuole gli uomini suoi figli alla sua tavola. Finché qualcuno non gode
di quella tavola, finché qualcuno resta escluso, la carità non può darsi pace e
farà di tutto perché quel desiderio di Dio, accolto nel profondo del nostro
cuore, possa compiersi. È il mistero della riconciliazione, l’amore perdonante
e condiviso, in atto nella storia, vera energia di umanità rinnovata.
Il canto al
vangelo lo proclama solenne: “Dio ha
riconciliato a sé il mondo in Cristo, affidando a noi la parola della
riconciliazione” (cfr. 2Cor 5,19). Se Dio affida all’uomo il ministero
della riconciliazione, vuol dire che ritiene l’uomo suo compagno. Con la
rivelazione di Gesù, che svela, mentre compie, questo supremo desiderio di Dio,
possiamo scorgere all'opera nel mondo le segrete intenzioni di Dio nei
confronti delle sue creature. Noi tutti siamo appunto chiamati a concorrere
alla realizzazione di questa 'opera'. In questo senso dobbiamo imparare a
giudicare ogni cosa in base alla convergenza verso questo supremo scopo divino.
Imparare a diventare coscienti di questa realtà significa passare dal livello
psicologico a quello spirituale, diventare compagni di Dio. Per questo ci è
affidata la parola della riconciliazione. Non però la parola da dire, ma la
parola come fondamento dell’essere, come le ragioni che convincono il cuore
della realtà di quella pace ottenuta da Dio che, per sua stessa dinamica
interna, tende a coinvolgere tutti e tutto. È la parola come forza
d’attrazione, come potenza d’irradiazione, come rivelazione del segreto di quel
‘far grazia di sé’ di Dio a noi, di noi a tutti. È il mistero della carità
condiviso.
Il vangelo di
oggi presenta la chiesa come comunità di riconciliati, sempre in cerca di
riconciliazione, mai stanca di cercarla, di custodirla, di invocarla, per tutti
e per ognuno. Il potere di legare e di sciogliere allude al potere di impedire
o di accogliere nella comunità, date certe condizioni. Ma può essere inteso: se
tu leghi, sarai anche tu legato; se tu sciogli, anche tu sarai sciolto. Proprio
come preghiamo nel Padre Nostro: 'rimetti a noi i nostri debiti come noi li
rimettiamo ai nostri debitori'. Dio si muove nei nostri confronti secondo il potere
che ci ha accordato. Perdoniamo? Saremo perdonati. Non tratteniamo
un'ingiustizia? Anche Dio non la trattiene nei nostri confronti. Siamo generosi
con un fratello? Anche Dio lo sarà con noi. Da questo punto di vista, non è
importante preoccuparsi di fare bene, ma di non trattenere, di non legare il
male di nessuno.
Non solo, ma la
potenza della preghiera è vincolata essenzialmente alla realtà di un perdono
impetrato e condiviso, senza il quale essa perde totalmente di efficacia. “Dove sono due o tre riuniti nel mio nome”
non allude alla preghiera, ma al perdono scambievole, alla riconciliazione
accolta che testimonia proprio la presenza di Cristo non solo in noi, non solo
in mezzo a noi, ma nel mondo, perché l'evento della riconciliazione parla
direttamente al mondo della presenza di Dio. Così, anche l'espressione
precedente: “Se due di voi sulla terra si
metteranno d’accordo per chiedere qualunque cosa” non si riferisce in primo
luogo alla preghiera, ma alla riconciliazione, a quella pace fra fratelli, data
e accolta, che costituisce l'unica condizione di sincerità della preghiera e
quindi del suo esaudimento. In realtà, null'altro abbiamo da domandare che di
vivere 'perdonati', di vivere nella capacità di perdonarci, come segno di quell'amore
misterioso, potente, prepotente, che ci è venuto da Dio ed ha cambiato
radicalmente tutta la nostra vita. Solo a partire da qui la proclamazione
iniziale dell’antifona di ingresso risulterà vera per il nostro cuore: “Tu sei giusto, Signore, e sono retti i tuoi
giudizi: agisci con il tuo servo secondo il tuo amore” (Sal 118,137.124).
Diversamente, resteremo in balia delle nostre rivendicazioni e dei nostri
tormenti, di cui faremo pagare le spese ai nostri fratelli, rifiutando di
diventare compagni di Dio.