Terzo
ciclo
Anno
liturgico A (2007-2008)
Tempo
Ordinario
22a Domenica
(31 agosto
2008)
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Ger
20,7-9; Sal 62; Rm 12,1-2;
Mt 16,21-27
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Il brano di
vangelo di oggi, unito a quello della domenica precedente, costituisce un punto
nevralgico del racconto evangelico: rivela la direzione della vita. Gesù svela
il suo mistero e insieme quello dei discepoli. La rivelazione della ‘necessità’
della passione di Gesù, insieme al destino dei discepoli invitati a portare la
loro croce, avviene dopo la proclamazione della beatitudine a Pietro: “Beato sei tu, Simone, figlio di Giona,
perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli”,
eco dell’altra: “Ti benedico, o Padre,
Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai
sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché
così è piaciuto a te” (Mt 11,25-26). Ma Pietro, come i discepoli tutti, non
sa ancora cosa comporta la sua confessione di fede. Quando Gesù si rivela come
il Messia che dovrà molto soffrire indica la direzione nella quale si può
vivere la beatitudine. Ed è per questo che Gesù subito dopo parla ai discepoli
che lo vogliono seguire di ‘rinnegamento di sé’ e di ‘portare la croce’. Ma
cosa intende in pratica?
Guardiamo a
Pietro. È proclamato beato perché ‘piccolo’, cioè nella disposizione di
accogliere e non di suggerire; è chiamato ‘satana’ perché si fa grande: vuole
suggerire, vuole stare davanti, vuole condurre. E Gesù lo rimprovera: “Va’ dietro a me”, eco dell’invito di Dio
all’uomo in tutte le Scritture a seguirlo, ad ascoltarlo [Dio dice a Mosè: “Vedrai le mie spalle, ma il mio volto non lo
si può vedere” (Es 33,23)]. Prima è chiamato pietra di fondazione, poi
pietra di scandalo, perché non esiste altro fondamento se non Gesù (cfr. 1Cor
3,11; 1Pt 2).
Quando Gesù
spiega ai discepoli che lui ‘dovrà’ molto soffrire, che ‘è necessario’ che
soffra molto, non intende illustrare nessuna ragione misteriosa, ma più
semplicemente e più direttamente intende implicarli nella rivelazione
dell’amore di Dio per l’uomo, intende collocarli nella verità di un’esperienza
di amore che viene dall’alto. Per Gesù, che parla secondo la lingua delle
Scritture, si tratta di reinterpretare tutte le Scritture in modo globale, si
tratta di realizzarle nella loro tensione di rivelazione dell’amore salvatore
di Dio per l’uomo in ragione di quel sigillo ultimativo che lui costituisce
quanto all’azione di Dio nel mondo. Sarà sulla croce che l’amore di Dio per
l’uomo risplenderà in tutto il suo splendore, tanta è la solidarietà con Dio e
con l’uomo che Gesù vive e di cui tutti possiamo ricevere la grazia. Non per
nulla, il racconto continua con la scena della trasfigurazione con
l’apparizione accanto a Gesù di Mosè ed Elia, cioè della Legge e dei Profeti,
di cui lui costituisce il compimento. È da dentro questo ‘compimento’ che parla
ai discepoli e dice loro che se vogliono gustare la stessa esperienza di amore
solidale con Dio e con l’uomo dovranno rinnegare se stessi e prendere la croce.
Da parte nostra, la resistenza ad accogliere la portata rivelativa di quel ‘è
necessario’, detto da Gesù e aperto ad essere condiviso dai suoi discepoli,
indica tutta la distanza tra il sogno di un amore e la concretezza nel viverlo.
Il rinnegamento
di se stessi è la rinuncia ad avere qualcosa da difendere (da notare che il
verbo è il medesimo che userà l’evangelista quando riferirà del tradimento di
Pietro il quale ‘rinnega’ Gesù perché vuole difendere se stesso). Ma la difesa
porta sempre sulla nostra vita che temiamo venga oppressa o soppressa dagli
altri; porta sempre a un io che si arrocca nei suoi confini per paura, a un io
che non si fida della grandezza che gli è offerta da Dio. Il portare la croce,
con il vissuto emotivo di vergogna e disprezzo che l’immagine comporta, indica
la direzione che assume il rinnegamento, vale a dire: non ci si fa grandi
schiacciando gli altri o rendendo gli altri piccoli, ma tenendoli sempre così
grandi e degni di onore che posso essere calpestato per non venir meno a quel
rispetto. Forse, per la nostra sensibilità, l’immagine più adeguata di quanto
vogliono dire le parole di Gesù, è quella del Maestro che si cinge con
l’asciugamano e si china a lavare i piedi ai discepoli nell’ultima cena, segno
di un’umanità tutta ‘dono per’, di un mistero di solidarietà in umanità dai
confini divini (anche là Pietro rifiuta e acconsente solo con la promessa di
non essere escluso dalla gioia del suo Maestro). In effetti, solo così si
scopre la grandezza secondo Dio, che è la grandezza dell’amore, condivisione
dell’esperienza dell’amore di Gesù per noi.
L’anelito del
salmo lo esprime a meraviglia: ‘il tuo
amore vale più della vita’ e ‘a te si
stringe l’anima mia’. A questo alludono le parole di Gesù sul rinnegamento,
sul portare la croce. Non è la vita il valore supremo, tanto meno la mia vita,
ma l’amore di Qualcuno che attraversa la mia vita e rende la vita degna di
essere donata, condivisa, perché la vita possa risplendere in me e in tutti. È
quanto mai ‘realistica’ l’affermazione di Gesù: “Chi vuol salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria
vita per causa mia, la troverà”. La dinamica del perdere/trovare è
essenziale alla vita. La vita che si vuole difendere risulta vuota, fasulla,
mentre la vita vera, quella desiderabile e che la fa desiderabile, è soltanto
quella ‘donata’, cioè trovata. Dire ‘trovata’ significa alludere a quella gioia
della scoperta che rende capaci di lasciare tutto il resto, di vendere tutto,
come le parabole del tesoro nascosto in un campo e della perla preziosa
rivelano.
Se torniamo ora
alla reazione di Pietro, possiamo scorgervi la nostra stessa contraddizione.
Per esprimerla con le parole della liturgia di oggi: è vero che nel profondo
del cuore diciamo “tu sei il mio Dio, all’aurora
ti cerco, di te ha sete l’anima mia, a te anela la mia carne” (Sal 62) ma è
vero anche che, nel concreto delle situazioni e nel nostro animo, preferiamo i
nostri pensieri ai pensieri di Dio. Lo esperimenta anche il profeta Geremia in
tutta drammaticità: “Mi hai sedotto
Signore, e io mi sono lasciato sedurre”, ma davanti alla fatica di star
fedeli alla parola del Signore si dice in cuor suo “Non penserò più a lui, non parlerò più in suo nome”. A differenza
però del profeta Geremia il quale continua dicendo: “Ma nel mio cuore c’era come un fuoco ardente, chiuso nelle mie ossa; mi
sforzavo di contenerlo, ma non potevo”, noi fin troppo bene riusciamo a
'contenere' quel fuoco, lo mortifichiamo, lo spegniamo e non riusciamo a volte
nemmeno più a sentirne la presenza. Ed è per questo che non riusciamo a
liberarci dal bisogno di difenderci, impedendoci però di ‘godere’ la vita e
impedendolo a tutti.