Terzo
ciclo
Anno
liturgico A (2007-2008)
Tempo
Ordinario
20a Domenica
(17 agosto
2008)
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Is
56,1-7; sal 66; Rm 11,13-15.29-32; Mt 15,21-28
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Il tema della
liturgia di oggi è l'ingresso dei pagani nell'alleanza del Signore: a tutti si
rivolge la salvezza operata dal Signore. Come l’annuncia il profeta Isaia: “...
il mio tempio si chiamerà casa di
preghiera per tutti i popoli”. Il capitolo 56 inizia la terza parte del
libro di Isaia. Siamo a Gerusalemme, pochi decenni dopo la tragedia
dell’esilio, in attesa che la promessa di liberazione si compia. La visione del
profeta non riguarda però semplicemente la liberazione dall’esilio, ma la
valenza profetica di quella liberazione: sarà estesa a tutti i popoli; tutti,
pagani ed eunuchi (categoria di persone che erano escluse dal culto in
Israele), tutti potranno godere della misericordia di Dio, tanto che il Dio di
Israele non sarà più indicato come il Dio che trasse Israele dall’Egitto, come
il Dio che liberò Israele dall’esilio, ma come il Dio che raduna il suo popolo
‘da tutte le nazioni’.
A dire il vero,
siamo abituati a considerare l’universalità della salvezza del Signore nella
sua dimensione storica: da una persona a tutto un popolo (Abramo e Israele), da
un popolo a tutti i popoli (Israele e le genti). Comporta però anche una
dimensione personale. Il che significa: se io ho accolto l’alleanza del
Signore, non tutto di me l’ha accolta; se io ho accolto la buona novella, non
tutto di me è stato evangelizzato e poco a poco l’insieme di me deve poter
godere dei beni di questa alleanza. Se le mie qualità e virtù mi riportano al
Signore, anche i miei difetti e peccati devono potermi riportare a Lui. Se un
pensiero buono mi svela qualcosa del mio Signore, mi introduce nella sua
intimità, anche un pensiero cattivo cela qualcosa da scoprire per il mio cuore
in rapporto al Signore, così un mio peccato, una mia debolezza. “Tutti i confini della terra” del salmo
66 alludono proprio alla totalità degli aspetti che ci compongono e ci
strutturano: tutti appartengono al Signore, tutti sono destinati a essere
riportati al Signore.
Il brano del
vangelo lo mostra splendidamente. I pagani sarebbero entrati nell’Alleanza non
con la predicazione o i miracoli, ma attraverso la morte redentrice di Gesù. L’ora
però non era ancora giunta e Gesù respinge sulle prime la richiesta della donna
cananea. Era ancora il tempo riservato alle pecore perdute della casa di
Israele. Ma allora perché Gesù cede all’insistenza della donna, come se lui
fosse costretto ad accelerare, ad anticipare la sua ora? Era già successo con
la richiesta del centurione (cfr. Mt 8) che Gesù aveva esaudito. Ma qui Gesù
sembra alzare il prezzo, sembra voler accentuare una distanza, una
inopportunità che tende a suonare ai nostri occhi, oltre che sgradevole, dura e
irrispettosa. Non è però stato così per la donna cananea che non recede, non si
fa intimidire, ha la risposta pronta, nella quale Gesù vede la fede del suo
cuore a cui non resiste. Addirittura, si potrebbe pensare che la fede della
cananea faccia presagire alla coscienza di Gesù l’orizzonte universale della
salvezza che solamente più tardi si farà evidente. La donna, da pagana, sa che
può contare sulla generosità di Dio, sebbene sia perfettamente cosciente di non
poter avanzare alcun titolo di pretesa. Non solo, ma sa che nel banchetto
messianico il pane sarà sovrabbondante, tanto che lei si può accontentare delle
briciole, sebbene Gesù alla fine le dà proprio il pane dei figli. Va notato che
nel racconto precedente della moltiplicazione dei pani per gli isareliti, gli
apostoli passano a raccogliere gli avanzi. Ma il racconto successivo dell’altra
moltiplicazione dei pani sarà per i pagani, anche se in terra di Israele.
La particolarità
dell'atteggiamento della cananea sta in quel grido ‘Signore figlio di Davide’ dove compare tutto lo stridore della
distanza tra lei, pagana e quel profeta, ebreo. Non minimizza la distanza, la
sottolinea, la rimarca e quando Gesù le rinfaccia che non si dà il pane ai
cagnolini (i pagani erano chiamati 'cani' dai giudei), non si lamenta e non si
ritrae sdegnata del paragone, sviluppa anzi il paragone a suo favore. Riconosce
che non ha diritto a quel pane, ma che per la sua sovrabbondanza alcune
briciole possono cadere anche per lei. Grande era la sua fiducia in quel
profeta e nello stesso tempo era priva di qualsiasi pretesa.
La fede della
cananea proveniva poi dall’urgenza del suo bisogno. Non vedeva altri rimedi,
troppo era l’amore per sua figlia e allora perché non rivolgersi a quel ‘profeta’
di cui sentiva dire cose meravigliose, sebbene non possedesse alcun titolo per
trovare soddisfazione?
L’aspetto
misterioso che va colto è il fatto che fiducia e indegnità vanno di pari passo,
mentre normalmente, nelle dinamiche interiori che possiamo osservare, tendiamo
a separarle. Invece l’una è custode dell’altra, l’una dice la sincerità dell’altra.
Davanti al Signore il nostro cuore è come la donna cananea. È vero, noi siamo
nella grazia, abbiamo già incontrato il Signore, ma tutto di noi non è ancora
nella luce del suo vangelo. Per molti aspetti siamo cananei, pagani. E possiamo
trovare accesso al Signore, Salvatore nostro, solo come la donna cananea, dove
la fiducia nella potenza di Gesù sta in stretta compagnia con la coscienza
della sua indegnità e l’urgenza del bisogno di guarigione e di vita. L’insincerità
del nostro cuore, quello che indebolisce la nostra fede e l’annacqua è la
pretesa di trovar soddisfazione comunque. È la debolezza dell’israelita ‘fariseo’
che crede di avere la vita perché Dio gliela deve. In questo modo non scoprirà
nulla ed il miracolo non avverrà. Ci si avvicina a Dio quando più si ha coscienza
di essere peccatori e meno scusanti si adducono ai nostri guai. Quando finiremo
di giustificarci accusando gli altri, gli eventi, il mondo, allora saremo
sinceri davanti a Dio e scopriremo che Dio non potrà resistere al nostro grido
perché indegnità e fiducia accelereranno la sua manifestazione di grazia al
nostro cuore.