Terzo ciclo

Anno liturgico A (2007-2008)

Tempo Ordinario

 

15a Domenica

(13 luglio 2008)

 

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Is 55,10-11;  sal 64;  Rm 8,18-23;  Mt 13,1-23

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A partire da oggi e per altre due domeniche verrà proclamato il cap. 13 di Matteo con le sette parabole del regno. La parabola di oggi, del seminatore o dei quattro terreni, è quella che fa da cornice di riferimento a tutte le altre. La parabola è ricchissima di suggestioni nella sua semplicità.

Il cap. 12 di Matteo finiva con la dichiarazione di Gesù: «“Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?”. Poi stendendo la mano verso i suoi discepoli disse: “Ecco mia madre ed ecco i miei fratelli; perché chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, questi è per me fratello, sorella e madre”». Il cap. 13 comincia con ‘quel giorno Gesù uscì di casa’ e il racconto della parabola ‘ecco, il seminatore uscì a seminare’. Gesù, Verbo del Padre, lascia il Padre e viene tra gli uomini, non solo seminando la sua parola nei cuori, ma seminando sé, sua Parola Vivente, nei cuori. C’è identità tra il seminatore e il seme, perché colui che semina e la cosa che viene seminata è la stessa realtà, Gesù stesso. Ognuno è chiamato a far nascere e far crescere Gesù dentro il proprio cuore. Questo è il significato profondo della parabola.

È rispetto a questo significato profondo che la parabola è narrata come da dentro un dramma. Perché a qualcuno è dato conoscere i misteri del Regno dei cieli (espressione che in Matteo allude direttamente ai segreti del regno che solo Gesù svela) e a qualcun altro no? Perché ai discepoli Gesù parla direttamente e alle folle invece solo in parabole? Cosa è in gioco?

Come ci viene illustrato dalla prima lettura di Isaia, la Parola produce sempre quello per cui è mandata. Ma – e questo è il dramma – se in chi l’accoglie, produce salvezza, in chi la rifiuta produce condanna (cfr. Gv 5,24), la condanna di non vedere compiuti i desideri del proprio cuore perché impenetrabile alla tenerezza della Parola. È il dramma della relazione mancata con il proprio Dio! Si può vedere e sentire Gesù, ma non entrare nel suo mistero e perciò il cuore non portare frutto.

Il brano profetico è preso dal cap. 55, che chiude la seconda parte del libro di Isaia con la promessa di un nuovo esodo. I versetti che precedono il nostro brano recitano: “L’empio abbandoni la sua via e l' uomo iniquo i suoi pensieri; ritorni al Signore che avrà misericordia di lui e al nostro Dio che largamente perdona. Perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie - oracolo del Signore. Quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le mie vie sovrastano le vostre vie, i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri” (Is 55,7-9). Quando leggiamo nel v. 11: “così sarà della parola uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata”, il significato è da mettere in relazione al ‘largamente perdona’. E il ‘largamente’ allude alla straordinaria prodigalità del seminatore che ‘spreca’ generosamente il suo seme (non si stanca mai di seminare, non teme di buttar via il seme, evidentemente perché sempre Dio ricerca la conversione del cuore dell’uomo)  su ogni tipo di terreno, ad illustrare l’estrema accondiscendenza di Dio che va in cerca dei suoi figli con i quali vuole condividere i segreti del suo regno. Dietro ogni Parola annunciata e ascoltata, sta sempre il desiderio di Dio di essere accolto e l’invito suo ad accoglierlo. Questa alleanza di Dio con l’umanità costituisce il quadro di riferimento, il contesto di senso della parabola del seminatore. In quel contesto prende significato sia la prodigalità del seminatore che la potenza di crescita del seme (che può produrre fino a 100 volte tanto), mostrando in questo il compimento dei desideri del cuore dell’uomo: “chiunque avrà lasciato case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi per il mio nome, riceverà cento volte tanto e avrà in eredità la vita eterna” (Mt 19,29).

Quanto ai vari tipi di terreno, il frutto è in rapporto all’accoglienza del seme, come a dire: tutto il lavorio del cuore, tutto lo sforzo ascetico e spirituale è per accogliere e far crescere in noi il Cristo, per diventare sua madre, suoi fratelli. Accogliere e far crescere significa allora ascoltare la parola di Dio, metterla in pratica, compiere la volontà del Padre.

I terreni, che possiamo intendere come le possibili condizioni di una conversione sempre più coinvolgente e radicale, sono: la strada, i sassi, le spine, la terra buona. Dobbiamo operare tre passaggi per arrivare a produrre qualche frutto. Dobbiamo prima lasciare l’essere come la strada. Il terreno della strada è calpestato, duro, impenetrabile. È la situazione di un cuore che dà il diritto d’accesso a qualsiasi cosa, a qualsiasi pensiero, con un andirivieni senza sosta e soprattutto senza senso. La terra va perciò lavorata per renderla soffice, penetrabile dal seme della Parola e ciò comporta l’imparare a orientare i nostri pensieri, a riconoscerli, a saperli distinguere e a lottare per non andar dietro ad ognuno che passa e subire vessazioni di ogni tipo.

Poi dobbiamo lasciare l’essere come i sassi, dove la terra è uno strato superficiale, che non permette al seme di mettere radice. Se la Parola non può aver radici, non ha ancora consistenza ed il cuore non può che restare incostante. È la situazione di un cuore che ha paura di soffrire a causa della Parola, che non ha fiducia nella promessa di Dio. Dio fa sempre paura, perché temiamo chieda cose che siano contro di noi e cedendo a questa paura non conosceremo mai l’amore e la vita!

Quando la terra è lavorata ed è profonda, fa nascere di tutto: cresce il seme, ma crescono anche facilmente le erbacce. La terra va dunque tenuta pulita, se no le erbacce, le spine, crescendo insieme al seme, ne soffocano il germoglio. È la situazione del cuore che fa resistenza al  distacco  da tutto ciò che momentaneamente ci alletta. Troppi beni finiscono per nascondere il vero Bene; troppe attese soffocano la vera attesa del cuore; le pretese impediscono al cuore di godere. Si deve lavorare per non compromettere il cuore in cose che ritardano o addirittura soffocano i suoi aneliti più genuini. È la battaglia della sobrietà: siamo sì liberi verso ogni cosa, ma non ogni cosa giova. Occorre imparare a discernere bene e scegliere ciò che è in funzione degli aneliti più veri.

La terra, così lavorata, diventa buona, capace di accompagnare la crescita del seme fino a maturazione, fino cioè a godere dei frutti sperati. La distinzione della terra buona in ragione della capacità di dar frutto per il 30, il 60 e il 100 per uno, allude alla diversità di coinvolgimento e di radicalità della risposta da parte del cuore alla Parola. La tradizione ebraica ha visto in questa distinzione la fedeltà di chi crede e uniforma la sua vita ai precetti del Signore, di chi lo fa spendendo tutti i propri beni per il regno di Dio, di chi lo fa fino al dono di se stesso, capace di morire pur di star fedele al suo Dio. Nella tradizione cristiana si sono visti i martiri, i vergini e gli altri credenti in generale. In sostanza, tutto dipende dal livello di profondità e di verità del cuore nell’aderire alla Parola; direi, tutto dipende da quanto si vuole investire della propria vita nella relazione con il Signore.