Terzo
ciclo
Anno
liturgico A (2007-2008)
Tempo
Ordinario
14a Domenica
(6 luglio
2008)
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Zc
9,9-10; sal 144; Rm 8,9-13;
Mt 11,25-30
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Il passo del
vangelo che viene proclamato oggi è forse il momento più alto della
presentazione della figura di Gesù, almeno nella prima parte del vangelo di
Matteo. Gesù prorompe in un grido di esultanza davanti ai discepoli che tornano
dalla predicazione, come il passo parallelo di Luca 10,21-22 conferma: “Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e
della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli
intelligenti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così è piaciuto a
te”. È l’esultanza di fronte all’accondiscendenza di benevolenza del Padre
per gli uomini, che possono godere del suo amore senza averne alcun titolo.
L’uomo può godere del fatto che Dio si approssimi a lui in Gesù e tutto si
risolve in una questione di sguardo. L’uomo non deve conquistare Dio, ma
aprirsi alla sua rivelazione. Dio è già dalla sua parte. L’unica conquista è
quella di acquisire quell'atteggiamento del cuore che consente di ricevere la
rivelazione del suo amore. Questo caratterizza i ‘piccoli’, la cui qualità è
definita in rapporto ai ‘sapienti’ che si affannano invece a volere che Dio sia
come è stabilito che sia, come a cercare le condizioni possibili per una
presenza accettabile di Dio. I pensieri degli uomini non corrispondono ai pensieri
di Dio e chi preferisce quelli di Dio ai propri appartiene al numero dei
‘piccoli’. La condivisione da parte di Gesù del piacere di Dio, non allude
semplicemente al fatto che a Dio piace rivelarsi ai piccoli, ma alla condizione
essenziale perché Dio possa rivelarsi, come a dire: appena ci si fa piccoli,
nella misura in cui ci si fa piccoli, Dio si rivela a noi. Qui si cela il
segreto dell’obbedienza al Padre di Gesù, dell’obbedienza del discepolo al suo
Maestro, dell’obbedienza della fede. L’esultanza di Gesù come del credente
deriva da qui.
In effetti,
tutta la compiacenza del Padre sta nel Figlio, come tutta la conoscenza di Dio
sta nel Figlio. Alla fine del vangelo di Matteo, Gesù lo ribadisce chiaramente:
“Mi è stato dato ogni potere in cielo e
in terra” (Mt 28,18), cioè tutto il potere di far conoscere Dio in verità e
tutto il potere di compiere i desideri del cuore dell’uomo quanto alla sua
vocazione in umanità, in modo da far risplendere l’umano della compiacenza di
Dio. È per questo che Gesù invita tutti ad appressarsi a lui. Come se dicesse:
per quanto vogliate vivere secondo leggi sante, resterete schiacciati dalla
fatica se la vostra santità non parlerà dell’amore di compassione di Dio che in
me risplende e tutto investe. Del resto, è caratteristico che Gesù si
attribuisca i tratti di ‘mitezza e umiltà’ per convincere i cuori della sua
verità da parte di Dio.
Sono i tratti
della profezia di Zaccaria, proclamata come prima lettura, che viene riferita a
Gesù che entra trionfale a Gerusalemme: “Ecco,
a te viene il tuo re. Egli è giusto e vittorioso, umile, cavalca un asino, un
puledro figlio d’asina”. Il termine italiano ‘umile’ qui dovrebbe essere
reso con più precisione ‘mite’. È lo stesso termine che compare sia in Mt 5,5
(‘beati i miti…’) che in Mt 21,5 (entrata in Gerusalemme) come in Mt 11,29. È
il termine che fa pensare al ‘re della gloria’ dal legno della croce, porta di
accesso perché a noi arrivi lo splendore dell’amore di Dio e perché noi ci si
faccia capaci di portare quello splendore. L’unione tra mitezza e umiltà
costituisce la cifra divina dell’umanità perché al mite e all’umile sono
svelati i segreti di Dio, che sono i segreti di amore per gli uomini di cui il
Figlio è il Testimone per eccellenza. Come anche leggiamo nel libro del
Siracide secondo alcuni manoscritti: “… i
suoi segreti li rivela agli umili… poiché grande è la misericordia di Dio, agli
umili svela il suo segreto” (Sir 3,19-20).
Di questa
capacità parla la colletta che interpreta assai bene il movimento di
rivelazione che ci è dato gustare: “O Dio, che ti riveli ai piccoli e doni ai
miti l’eredità del tuo regno, rendici poveri, liberi ed esultanti, a imitazione
del Cristo tuo figlio, per portare con lui il giogo soave della croce e
annunziare agli uomini la gioia che viene da te”. La colletta riassume in tre
caratteristiche l'imitazione del Cristo: 'rendici poveri, liberi ed esultanti'.
Poveri di tutto ciò che ci allontana dalla rivelazione dell’amore del Padre,
liberi da tutto ciò che si oppone a quella rivelazione ed esultanti di tutto
ciò che la consente. Ma giustamente 'a imitazione del Cristo tuo Figlio'
perché, per quanto si sia desiderosi dei segreti di Dio, non si è disposti a
riconoscerli dove si trovano, ad accettarli per quello che sono, a goderli per
quello che comportano. Stare con il Signore Gesù è il modo migliore per
riconoscere le vie di Dio, accogliere i suoi segreti e non illudere il nostro
cuore. Per questo, per quanto strana suoni l'espressione, viene aggiunto 'per
portare con lui il giogo soave della croce'. Nulla di più contrastante tra
'soavità' e 'croce'. Ma quel 'con lui' cambia tutto. La storia è attraversata
dal grido di angoscia del Cristo: 'ho desiderato ardentemente mangiare questa
pasqua con voi', 'c'è un battesimo che devo ricevere e come sono angosciato
finché non sia compiuto', 'Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?'. Ma è
contemporaneamente percorsa dal suo grido di esultanza: 'Ti benedico, Padre
...', 'io ho vinto la morte'. Noi dobbiamo imparare a percepire la sua
esultanza, dobbiamo imparare a farla nostra, a ritrovarci in questa esultanza
che deriva da un’intimità che nulla può violare o sopprimere. Anzi, sarà a
partire da questa intimità, dentro quell’esultanza, che si svela il senso della
storia e delle cose. Si tratta però di un'esultanza sul 'giogo soave della
croce'. È un'esultanza del cuore, degli occhi, non della bocca. E quando gli
uomini coglieranno da noi l'eco di quell'esultanza, allora sapranno che la
gioia viene da Dio e la desidereranno anche loro. Anche loro torneranno piccoli
per non perdere la possibilità di godere della stessa gioia.