Terzo ciclo

Anno liturgico A (2007-2008)

Tempo di Natale

 

Santa Famiglia

(30 dicembre 2007)

 

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Sir 3,2-6.12-14;  sal 127;  Col 3,12-21;  Mt 2,13-23

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"O Dio, nostro creatore e Padre, tu hai voluto che il tuo Figlio divenisse membro dell'umana famiglia": così prega la colletta della festa di oggi. È significativo che la Chiesa non celebri l'incarnazione del Figlio di Dio in generale, ma dentro una singola famiglia della famiglia umana. Per quanto misteriosa e singolare sia questa famiglia, è proprio a questa famiglia che tutte le altre famiglie possono guardare per comprendere e vivere il loro stesso mistero.

Si tratta del mistero che io definirei dell’obbedienza all’amore. Parlo di obbedienza prima che di amore perché l’amore costituisce l’esito di un’obbedienza confidente. Vale nei confronti di Dio, ma anche nei confronti degli uomini. È caratteristico che nella liturgia di oggi come nella liturgia del matrimonio al termine amore si accompagni il termine onore. Senza la percezione dell’onore dovuto al mistero che si vive, l’amore non riuscirà a sopravvivere perché divorerà invece di comunicare vita. Lo dice chiaro il libro del Siracide invitando a onorare il padre e la madre, a suggello del patto di solidarietà con l’umanità che rende la vita in questo mondo vivibile. Senza onore non si assicura più quella ‘vivibilità’ perché la vita sarà vissuta nella logica dell’arraffare, che mina alle radici le ragioni appunto della vivibilità.

Nell’esperienza cristiana l’onore è vissuto ‘in Cristo’. La lettera di Paolo ai Colossesi descrive la famiglia come il luogo di esercizio e di visione nella fede, in obbedienza all’unico mistero che tutti ci riguarda. Paolo parla di ‘sottomissione’ per la moglie, di ‘amore’ per il marito, di ‘obbedienza’ per i figli. Il senso lo si ricava dalle espressioni precedenti quando Paolo delinea la comunità dei credenti come eletti di Dio rivestiti dei sentimenti di Cristo, riconciliati, nella pace di un unico sentire, con la parola di Cristo che tutto regge e pervade. La ‘sottomissione’ della donna non ha nulla a che vedere con la soggezione all’uomo; si riferisce a quella visione del mistero che appartiene alla donna, che le colma il cuore e che estende continuamente i confini di quell’ ‘amore’ che è richiesto all’uomo, perché senza di lei l’uomo non saprebbe coglierne la profondità e la preziosità. La ‘obbedienza’ dei figli in quel contesto non è che l’appropriazione della tenerezza verso la propria umanità, terreno ideale per imparare a vedere la ‘promessa’ di vita che si apre davanti a loro. E così tutti restano immersi in quell’unico mistero di obbedienza che regge e orienta la loro vita, mistero di cui imparano, insieme, poco a poco, a dipanare i segreti nel concreto della loro vita. L'avvertimento di Paolo ai Colossesi "...rivestitevi, come eletti di Dio, santi e amati, di sentimenti di misericordia ... perdonandovi a vicenda ... e la pace di Cristo regni nei vostri cuori ..." allude appunto al mistero di obbedienza. L'obbedienza si fa trasparenza della tenerezza di Dio che non disdegna di consegnarsi agli uomini perché essi imparino a consegnarsi vicendevolmente e a Lui. E se l'obbedienza non porta a svelare la tenerezza vuol dire che non procede dall'adorazione, da una visione, ma solo da una volontà. E quando tutto procedesse dalla mia volontà, come posso accogliere e celebrare la salvezza che viene da Dio? Come essere segno e custode del 'segreto' di Dio?

Il vangelo presenta Giuseppe proprio come il custode del segreto di Dio, nella concretezza e nel dramma della vita quotidiana, custode della tenerezza di Dio per l'umanità, che per lui si concentrava nella sua famiglia, luogo di rivelazione di Dio nel mondo e la sua storia è storia di questa famiglia, storia per questa famiglia. La realizzazione di sé, come diremmo oggi, passa per l'assunzione di un compito di grazia che fa dell'obbedienza a Dio, nel cammino di fedeltà all'assolvimento di tutto ciò che un tal compito comporta nel concreto delle situazioni, la porta dell'amore. Porta che può essere intravista solo se gli occhi del cuore 'vedono' quanto basta per non tirarsi indietro.

La storia di una famiglia è la storia di come questo 'segreto' di Dio è accolto, custodito, vissuto. Abbiamo solo bisogno di 'rivestirci', di divenire cioè consapevoli del dono e compito di grazia che ci ha riguardati nell'intimo e ci ha resi , nella nostra piccolezza e nelle situazioni concrete, 'evangelici', cooperatori della gioia altrui, segni e strumenti di salvezza, come Giuseppe. Non però di quella salvezza operata da noi, come se il nostro amore bastasse a salvare noi o gli altri, ma di quella che viene da Dio la cui debolezza è più forte della forza degli uomini, debolezza la cui eco io sento nel qualificare Gesù 'il nazareno'.

In effetti, l’ultimo versetto del brano evangelico letto riporta: "... andò ad abitare in una città chiamata Nazaret, perché si adempisse ciò che era stato detto dai profeti: «Sarà chiamato Nazareno»". Non è chiaro a quali passi profetici l'evangelista si richiama, ma è chiara l'allusione al mistero che quell'aggettivo comporta. Tre sono almeno i significati di quell'aggettivo. Designa Gesù come proveniente da Nazaret, abitante a Nazaret con i suoi genitori ai quali, come riporta l'evangelista Luca, stava sottomesso. È un'affermazione della sua vita quotidiana, nascosta, in famiglia. Esprime la concretezza della sua umanità quanto alle radici, agli affetti, alla crescita. Gesù è uomo non solo perché è nato, ma perché è stato allevato, nutrito, curato, educato, amato,in una famiglia umana. Nazareno richiama poi 'nazir' (cfr. Gen 49,26; Gdc 13,5), il consacrato a Dio, il Santo di Dio. Esprime la natura del compito che è chiamato a compiere: salvare Israele, salvare l'umanità. E siccome il Salvatore è solo Dio, partecipare al compito di 'salvare' comporta la pienezza di santità di Dio stesso. Nazareno richiama anche un altro termine ebraico che vuol dire 'germoglio'. Girolamo spiega così l'etimologia del nome Nazaret: "Il luogo dove la terra ha germinato il Salvatore, dove è cresciuto il germoglio giusto, il fiore della radice di Jesse, si chiama Nazaret, che significa: santità, germoglio, fiore, ramoscello". E si allude alle profezie di Is 11,1 e Zac 6,12.

Se andiamo a vedere quando Gesù è chiamato 'nazareno' notiamo che lo chiamano così i demoni (Mc 1,24) i quali lo sanno 'Santo di Dio'; lo chiamano così anche gli angeli alla risurrezione (Mc 16,6); ma soprattutto l'aggettivo compare nei racconti della passione di Giovanni, all'arresto e soprattutto sull'iscrizione sopra la croce: Gesù Nazareno Re dei Giudei (Gv 18,5; 19,19). Tutte sottolineature della realtà della sua umanità: è proprio quell'uomo che è vissuto a Nazaret, la cui famiglia è di Nazaret, è proprio lui il Figlio di Dio, morto e risorto per la nostra salvezza, Lui proprio nel quale abita la pienezza della divinità.