Terzo
ciclo
Anno
liturgico A (2007-2008)
Solennità
e feste
Esaltazione della
Santa Croce
(14 settembre
2008)
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Nm
21,4-9; Sal 77; Fil 2,6-11;
Gv 3,13-17
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L’origine di
questa festa va ricercata nell’antica adorazione della croce il venerdì santo,
descritta dalla pellegrina Egeria che visitò i luoghi santi nel IV secolo. È
come se la chiesa sentisse il bisogno di celebrare l’adorazione della croce in
toni gloriosi, cosa che non poteva fare nei riti della settimana santa.
L’oggetto della festa è proprio la croce, non il crocifisso. Il rito centrale
della liturgia bizantina è l’innalzamento della croce ai quattro punti
cardinali con la solenne benedizione del mondo, accompagnata da 500
invocazioni: Kyrie eleison. La
liturgia, soprattutto quella bizantina, acclama la croce ‘arma di pace, che ci ha dato la bellezza, davanti alla quale la
creazione gioisce e fa festa, per la quale è stata donata al mondo la
misericordia e noi siamo stati attratti a Dio mentre la morte è stata
inghiottita’. In particolare, un’immagine colpisce per la sua potenza: se
Adamo è stato ingannato a partire da un albero, anche satana è stato adescato
da un legno. Vale anche per il demonio la legge delle passioni umane: più la
passione è esercitata senza freni, più ci si allontana dall’obiettivo che si
voleva ottenere. Così il demonio si è trovato ingannato con le sue stesse
azioni: la morte inflitta a Gesù si è trasformata in vita per tutti, in
splendore di amore dove la morte non ha più alcun potere.
L’immagine
dell’esaltazione della croce comporta però una terribile ambiguità. Quando Gesù
parla della necessità per lui di essere innalzato, allude al supplizio della
croce. Come poter tenere insieme sofferenza e gloria? Perché l’innalzamento per
noi non è mai percepito nell’umiliazione? Perché la croce, celebrata gloriosa,
a noi fa paura?
Due particolari
delle letture di oggi possono illustrarci il mistero. A Nicodemo Gesù dice: “Nessuno è mai salito al cielo, se non colui
che è disceso dal cielo, il Figlio dell’uomo ... Dio infatti ha tanto amato il
mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada
perduto, ma abbia la vita eterna”. Domando: si può salire al cielo senza
scendere? L’immagine è quella dell’essere innalzato, ma la realtà è quella del
discendere. Forse, l’aspetto più maestoso della gloria di Gesù sta nel suo
chinarsi a lavare i piedi ai discepoli. Quel suo chinarsi allude al suo
scendere, al perdere ogni parvenza di grandezza per assumere la vera grandezza
dell’amore, che è il segreto di Dio e per se stesso e per noi uomini. Il
discendere allude all’abbassarsi nel servizio di tutti perché tutti abbiano la
vita e godano dello stesso segreto di Dio, il quale non accresce la sua
grandezza (Egli è l’Altissimo) se non abbassandosi. Quel movimento è la legge
della vita perché l’uomo è fatto a immagine di Dio. Occorre però partecipare al
segreto: è l’amore che dà vita.
Gesù può proprio
parlare di ‘innalzamento’ quando allude alla sua morte in croce perché non fa
che esprimere in termini visibili ciò che costituisce l’intimità del movimento
d’amore di tutta la Trinità. Nessuna delle tre Persone si possiede, ma si
riceve eternamente. Lo spazio dell’amore e per l’amore è proprio quella
dimensione di ‘spossesso’ che fa vivere dell’altro e per l’altro. Quello che il
Figlio rivela vivere nell’amore per gli uomini, Dio lo vive in se stesso. Così,
quando Paolo dice che Gesù “svuotò se
stesso assumendo una condizione di servo ... umiliò se stesso facendosi
obbediente fino a una morte di croce” non fa che rivelare in termini umani
ciò che avviene all’interno della stessa Trinità. Non per nulla il segno di
croce è abbinato alla proclamazione delle tre Persone della Trinità. È del
resto caratteristico che Gesù dica che, una volta innalzato, attirerà tutti a sé
(cfr. Gv 12,32). Ma è il Padre che attira a Gesù (cfr. Gv 6,44) e attira
proprio a guardare colui che è stato trafitto (cfr. Gv 19,37, eco della
profezia di Zc 12,10). Ed è opera dello Spirito Santo far ‘vedere’ (cfr. Gv
6,40) nel senso di far ‘riconoscere’, ‘contemplare nella fede’, che il trafitto
è il Salvatore, il testimone dello splendore dell’amore del Padre. Lo scopo
diretto della fede non può che essere quello di ‘godere la vita’, vita che
procede da un amore che niente e nessuno può rapirti.
A questo punto
ha senso parlare della gloria della croce di Cristo, come ripete l’antifona di
ingresso: “Di null’altro ci glorieremo se
non della croce di Gesù Cristo, nostro Signore”. Il che significa che non
potremo certo gloriarci della nostra giustizia, ma solo dell’esperienza
dell’amore perdonante di Dio che tende a inglobare tutti, senza riserve. E
quando l’anima accoglierà senza riserve l’intima logica di quella esperienza
nella fede, allora scoprirà lo splendore di un’umanità sulla misura di Dio. Il
segno che quell’esperienza sta radicandosi nell’anima lo si può intravedere
dalla misura di amabilità che il movimento dell’abbassarsi ottiene sul nostro
cuore. Allora si può scoprire la croce come colei che ci ha dato bellezza, come
ripete la liturgia.